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#motociclismo #news #insella.it
Sempre attenta ai gusti dei 16enni, SWM arricchisce la propria gamma di motard con questa SM 125 R Special. Guidabile con la patente A1 (oppure a 18 anni con la patente B da auto), sfrutta la stessa base tecnica della sorella SM 125 R, compreso il motore monocilindrico bialbero di 125 cmÂł con 15 CV dichiarati e omologato Euro5+. Aggiornata nel look con sovrastrutture piĂą filanti, un frontale tutto nuovo con un inedito gruppo ottico anteriore con luci full-LED, questa Special vanta una bellissima livrea rossa con grafiche dedicate e monta di serie lo scarico G.P.R
II propulsore è inserito in un telaio in tubi di acciaio con telaietto posteriore in alluminio, sostenuto da una forcella a steli rovesciati di 41 mm non regolabile e da un monoammortizzatore collegato al forcellone bibraccio tramite leveraggi. Entrambe le sospensioni offrono ben 250 mm di escursione. L'impianto frenante sfrutta un disco di 300 mm all'avantreno con profilo a margherita e pinza assiale; al posteriore troviamo invece un disco tradizionale di 220 mm. Entrambi sono sorvegliati da ABS, offerto di serie ma disattivabile. Di qualità la componentistica, dalla sella firmata "Selle Dalla Valle" fino ai paramani Acerbis che vengono offerti di serie. Sono di serie anche le protezioni per carter e collettore di scarico, gli specchi retrovisori richiudibili e la presa di ricarica USB montata accanto al display.
Il display è un tradizionale LCD di dimensioni compatte. In ato troviamo il contagiri, a sinistra il livello del carburante e i km parziali/totali. A destra la comoda presa di ricarica USB
La posizione di guida è da vera motard col busto eretto, le braccia larghe e il bacino che può avanzare sulla seduta che si estende fin sopra il serbatoio. Le pedane non sono eccessivamente alte e lo spazio a bordo non manca nemmeno per chi supera i 180 cm di statura, Il motore è molto progressivo nell'erogazione: tranquillo ai bassi, mostra una bella schiena ai medi e agli alti regimi, dove bisogna arrivare se si vuole guidare "allegri", facendo i conti con le vibrazioni su manubrio pedane.
Il terminale scarico G.P.R le dona un sound coinvolgente. Le sospensioni offrono un ottimo compromesso fra sostegno e capacità di copiare le imperfezioni, risultando efficaci anche sui pavé. Tra le curve è svelta nello scendere in piega e molto maneggevole. Potenti e ben modulabili i freni, in relazione alle prestazioni della moto.
Costruita con cura e con una ricca dotazione, la SM 125 R Special è un'ottima prima moto: ha un motore grintoso, ABS di serie e un prezzo corretto. Vediamo com'è fatta e come va
| Motore | monocilindrico 4 tempi |
| Cilindrata (cm3) | 125 |
| Raffreddamento | a liquido |
| Alimentazione | a iniezione |
| Cambio | a 6 rapporti |
| Potenza CV (kW)/giri | 15 (11)/n.d. |
| Freno anteriore | a disco di 300 mm |
| Freno posteriore | a disco di 220 mm |
| VelocitĂ massima (km/h) | n.d. |
| Altezza sella (cm) | 88,5 |
| Interasse (cm) | 146,5 |
| Lunghezza (cm) | 216 |
| Peso (kg, a secco) | 126 |
| Pneumatico anteriore | 110/70-17" |
| Pneumatico posteriore | 140/70-17" |
| CapacitĂ serbatoio (litri) | 7,5 |
| Riserva litri | n.d. |
Si tratta di una tecnica introdotta da Valentino a inizio millennio, oggi quasi tutti i piloti la utilizzano. Ricerca di stabilitĂ , necessitĂ di fare girare la moto e occupare spazio: sono tanti i motivi del leg dangle
La “gamba di fuori” in staccata è qualcosa che nei circuiti si vede ormai da un quarto di secolo, da quando Valentino Rossi l'ha introdotta – o reintrodotta?- nelle gare di MotoGP. Oggi è alquanto diffusa, sia perché ci sono più piloti alti e dalle lunghe leve, sia perché il livello di profondità delle staccate ha ormai raggiunto l'estremo, e gli stessi piloti si trovano a fare di tutto per recuperare la stabilità delle proprie moto, che spesso presentano la ruota anteriore bloccata e il posteriore sollevato. Ma andiamo per gradi e rivediamo la storia di questa particolare tecnica.
Gli osservatori di lunga memoria sostengono che già nei primi anni ’50 e ’60 c’erano piloti che in frenata tiravano fuori la gamba, si tratta in fondo di un gesto istintivo che il pilota attua con l'intento di recuperare stabilità , prima di qualsiasi altro tipo di ragionamento. Ma in tempi più recenti il leg dangle o Doctor dangle, come viene chiamato in inglese, porta appunto il marchio di fabbrica di Valentino Rossi.
Durante il duello con Gibernau a Jerez Valentino inaugurò la tecnica della gamba fuori
Diversi addetti ai lavori sostengono che questa tecnica sia stata utilizzata per la prima volta dal Dottore nel 2005 a Jerez, in occasione del famoso duello con Sete Gibernau, risoltosi appunto all'ultima curva del gran premio, con una staccata oltre ogni limite di immaginazione. Rivedendo in video si vede bene il piede sinistro che molla la pedana, in realtà per un tempo molto breve e con pochi vantaggi per Rossi. Negli anni però la tecnica è stata consolidata, riproposta e affinata sia da Valentino che dai suoi eredi. Oggi come oggi è diffusa tra i piloti, tanto di MotoGP che di Superbike: il campione del mondo in carica, Pecco Bagnaia, per esempio, ne fa largo impiego.
Lo abbiamo scritto sopra: la gamba fuori aiuta il pilota innanzitutto a recuperare una stabilità – vera o presunta- un senso di equilibrio rispetto alla deriva della moto verso l'esterno. à un gesto istintivo: ovviamente il piede non viene usato come appoggio, al massimo può strisciare leggermente, e poco ha a che vedere con la classica “zampata” che a volte si vede nella guida in fuoristrada e che viene eseguita a basse velocità , con il posteriore in perdita di aderenza.
Pecco Bagnaia è uno specialista della "gamba fuori"
Esercitare la corretta pressione sulle pedane aiuta a dare direzione alla moto; togliere il piede da quella più interna dovrebbe aiutare il posteriore a provocare uno slide verso l'esterno. Si tratta di un bell'aiuto per favorire l'ingresso in curva, soprattutto per queste MotoGP, che hanno una grande inerzia dovuta al peso e al carico aerodinamico importante. à insomma uno stratagemma che aiuta la moto a “girare”.
Avete mai provato a mettere una mano fuori dal finestrino della macchina mentre vi muovete ad alta velocitĂ ? Ovviamente si sente l'impatto dell'aria e se una mano non frena un'automobile, aumentando la superficie e riducendo la massa del veicolo, qualche piccolo effetto potrebbe esserci. Per cui la gamba fuori potrebbe in effetti rallentare di un poco la moto, anche se a quantificare i reali effetti si rimarrebbe probabilmente un poco delusi.
C'è poi l'aspetto legato alla competizione pura: dove c'è una gamba non c'è spazio per inserirsi con la moto, almeno teoricamente. Ma le competizioni oggi mostrano una certa scarsità di spirito cavalleresco: in MotoGP si vede tutta una serie di manovre poco corrette, come mollare i freni in staccata a centro curva durante un sorpasso e altre cose del genere. Per cui viene da pensare che il deterrente della gamba sia poco efficace e d'altronde vengono alla mente anche alcuni esempi a riguardo. Uno su tutti? L'anno scorso in Indonesia, durante la Superpole Race della Superbike, in un tentativo di sorpasso Sam Lowes ha centrato Loris Baz in staccata, con il francese che lo precedeva, ignaro dello tsunami che di lì a poco si sarebbe abbattuto su di lui. Lo scontro ha provocato la frattura di tibia e caviglia per il francese, oltre alla rottura di un legamento.
à difficile stabilire con certezza se e quanto una gamba fuori in staccata possa aiutare il pilota. Non tutte le frenate tra l'altro sono uguali, non sempre si frena a moto dritta e alcune decelerazioni sono molto meno importanti di altre. Bagnaia per esempio sembra esercitare questa opzione in determinate curve, e il campione del mondo è uno di quei piloti dalle “lunghe leve”, che più di altri sulla moto sembrano essere alla ricerca di movimento, spazio ed equilibrio. Difficile che il leg dangle venga utilizzato dai piloti più bassi, con qualche eccezione, come nel caso di Jorge Martin.
La grande diffusione di questa tecnica comunque non può essere depennata come un atteggiamento naif: nelle competizioni nulla viene lasciato al caso e a volte anche i dettagli che sembrano insignificanti possono dare un piccolo ma importante vantaggio.
Due versioni inedite ampliano la gamma KLX230: una per iniziare, l’altra per viaggiare leggeri. Ma in Europa, per ora, non arriveranno
Kawasaki arricchisce la gamma con due novità : la KLX230 Sherpa S e la KLX230 DF. Entrambe riprendono la base tecnica già collaudata, con il monocilindrico raffreddato ad aria da 233 cm³ (lo stesso della W 230) e ciclistica semplice ma solida. Il motore è stato scelto per offrire una buona coppia ai regimi medio-bassi, utile sia su asfalto che su sterrato leggero. Cambiano invece assetto, dotazioni e vocazione.
La Sherpa S è pensata per chi muove i primi passi nel fuoristrada o cerca una moto agile e bassa, da usare ogni giorno. Con una sella a soli 82,5 cm da terra – la più bassa della gamma – è una delle moto con la seduta più bassa della categoria. La dotazione è semplice ma completa: paramani rinforzati, protezioni sottoscocca, ABS disinseribile al posteriore, display LCD e connessione smartphone. Il peso si ferma a 135 kg in ordine di marcia. Il look, più sobrio rispetto agli altri modelli, la distingue a colpo d’occhio.
Dotazione semplice, ma funzionale
Per chi cerca una piccola crossoverina ma non vuole rinunciare a qualche uscita più lunga, la KLX230 DF è la scelta giusta. Rispetto alla Sherpa, adotta sospensioni con escursione maggiore (198 mm all’anteriore, 221 mm al posteriore), che alzano la sella a 84,5 cm e migliorano la luce a terra. Ha in più il paramotore e un portapacchi posteriore. Peso in ordine di marcia: 137 kg. Anche in questo caso ci sono display LCD, connettività e protezioni per mani e motore.
Comode, economiche e vanno dappertutto. O quasi, dato che in Europa non le vedremo mai...
Per ora (e probabilmente per sempre), Sherpa S e DF sono previste solo per i mercati nordamericano e asiatici. Negli USA hanno giĂ un prezzo: 5.699 dollari per la Sherpa, 5.799 per la DF. E per gli appassionati europei? Niente da fare, sembrerebbe. E dire che una piccola dual-sport semplice, economica e accessibile come la Sherpa farebbe comodo a molti. Proprio come la sorella maggiore KLR650, ancora venduta negli Stati Uniti, ma scomparsa da tempo dai listini europei. Fortunati loro....
Pioggia e temperature rigide inducono molti a mettere a riposo la moto, ecco qualche buon consiglio per faro nel migliore dei modi
Nessuno pensa all'eventualitĂ di forare una gomma, ma si tratta di un contrattempo piĂą frequente di quanto si possa immaginare. Ecco come risolverlo
Per evitare la scocciatura di una foratura meglio attrezzarsi adeguatamente per tempo portando con sé un kit di riparazione rapida o una bomboletta: in questo modo si eviterà che un inconveniente ordinario si trasformi in un problema piuttosto costoso e complicato da risolvere. Infatti riuscire a raggiungere da soli casa o l'officina è molto meglio che dover essere recuperati da un carro attrezzi, soprattutto se si è lontani da un centro abitato.
Ragionare su una possibile foratura significa partire da lontano, spesso dall'acquisto della moto stessa. Non tutti i cerchi difatti possono montare pneumatici tubeless, e la loro sostituzione non è una spesa indifferente. Una foratura si aggiusta tanto con pneumatici dotati di camera d'aria quanto con ruote che non la prevedono, anche se nel primo caso si hanno meno opzioni a disposizione.
à il “metodo classico” per chi monta pneumatici con camera d'aria.
In tal caso bisogna portarsi dietro: camera d’aria di ricambio, leve per smontare la gomma e pompa per gonfiare.
Chiunque abbia riparato una foratura alla bici sa come si usano le leve, ma nel caso della moto le forze in gioco sono decisamente diverse e bisogna avere una buona prestanza fisica per riuscire nell'operazione, perché lo pneumatico di una moto offre molta più resistenza. Improvvisarsi meccanici invece può essere solo fonte di frustrazione, o peggio si rischia di danneggiare il cerchio. Inoltre fa differenza che ci sia da smontare la ruota anteriore (più semplice) o posteriore (piuttosto complicato per via della trasmissione). Infine camera d'aria di riserva e pompa per gonfiare hanno un discreto ingombro.

Soluzione decisamente più facile è la bomboletta gonfia e ripara per pneumatici moto, che si può utilizzare per pneumatici con camera d'aria o tubeless. Il flacone generalmente ha una capacità di 300 ml: contiene gas e schiuma sigillante a base di lattice. Dal foro di uscita che sta alla sommità della bomboletta parte un tubo in gomma flessibile che termina con una rotella da avvitare sulla valvola della ruota. Il funzionamento è molto semplice: dopo aver avvitato l'adattatore alla valvola, è sufficiente premere il pulsante posizionato sopra la bomboletta affinché la miscela di gas e schiuma venga iniettata dentro lo pneumatico. Se il foro è stato causato da un oggetto appuntito di dimensioni non troppo grandi, la schiuma va a sigillare il foro, mentre il gas gonfia la gomma.

Non sempre però le cose vanno bene. Il foro non deve essere troppo grande: non oltre i 5 millimetri di diametro. Con buchi di maggiori dimensioni o veri e propri tagli, gas e liquido non faranno altro che fuoriuscire come l'aria che riempiva la camera d'aria o lo pneumatico. Se per esempio avete tagliato la gomma sul fianco – cosa che può succedere nell'urto con una pietra in fuoristrada - è inutile fare tentativi di riparazione. Così come se lo pneumatico tubeless ha stallonato: quando la pressione di gonfiaggio è insufficiente, infatti, il tallone della gomma può scorrere e scivolare nel canale provocando l’improvviso afflosciamento dello pneumatico: è il cosiddetto stallonamento. La necessaria aderenza al cerchio non può essere ripristinata senza il compressore. In questi casi non resta che chiamare il carro attrezzi.
Nel momento in cui si riparte, bisogna evitare di “centrifugare” la schiuma e perciò bisogna procedere a un’andatura contenuta. La giusta velocità permetterà di distribuire il prodotto all’interno della gomma sull'area circostante il foro.
Come evidenziato sopra, la bomboletta può essere utilizzata indifferentemente su pneumatici con camera d’aria e tubeless, ma è un rimedio temporaneo. La camera d’aria andrà infatti sostituita, mentre in caso di ruota tubeless, se ancora in buone condizioni, andrà necessariamente riparata con un metodo più stabile e duraturo, e bisognerà comunque rimuovere la schiuma.
Esiste una seconda soluzione, valida in questo caso esclusivamente per moto con ruote tubeless. Si tratta del kit di riparazione con il cosiddetto â€verme’. Ă piĂą complesso da utilizzare rispetto alla bomboletta, ma tendenzialmente la riparazione dura di piĂą e si può agire anche su buchi piĂą grandi. Il costo è maggiore rispetto alla bomboletta: 30 euro circa contro 10 euro, ma lo si può utilizzare piĂą volte.
Parte del kit sono solitamente: una serie di vermicelli in gomma vulcanizzante, uno o due punteruoli per allargare il foro e inserire il vermicello, un tubetto di mastice, una bomboletta per il gonfiaggio finale.

Attorno e il piĂą possibile dentro al foro va applicato il mastice, il buco va invece preventivamente allargato con uno dei punteruoli. Ovviamente va ingrandito quel tanto che basta per infilare un vermicello. Per infilare il vermicello nel foro bisogna incastrarlo nella estremitĂ del punteruolo, come in una sorta di amo, e poi procedere a â€infilzare’ lo pneumatico. Quando si estrae il punteruolo, il vermicello dovrebbe rimanere incastrato nel foro e tapparlo.


Alla fine, bisogna tagliare l’estremità di vermicello in eccesso che fuoriesce dal battistrada. Ultima fase è il gonfiaggio: non si otterrà una pressione ottimale, ma di solito sufficiente per arrivare dal gommista più vicino in sicurezza.

Come spiegato sopra, una riparazione di emergenza non deve essere scambiata per una soluzione definitiva: dimenticatevi perciò le belle pieghe e velocità standard, procedete con calma e risolvete il problema definitivamente quanto prima.
Le assicurazioni RC prevedono sempre la possibilità di includere il soccorso con carro attrezzi. Una copertura senza dubbio utile, controllate se tra i casi di intervento è prevista anche la foratura, se c’è il problema della gomma a terra diventa decisamente meno fastidioso.
Il Decreto che introduce il contrassegno identificativo per i monopattini elettrici (la targa) è arrivato, ma la strada ancora lunga: la piattaforma per fare richiesta non esiste e, prima, servirà un ulteriore decreto
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha pubblicato il Decreto che introduce il contrassegno identificativo per i monopattini elettrici. Diffuso il 13 novembre, il testo stabilisce che i proprietari dei veicoli “a propulsione prevalentemente elettrica” dovranno richiedere un adesivo identificativo plastificato e non rimovibile realizzato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Una targa vera e propria. Il provvedimento definisce anche le modalità di produzione, emissione e vendita del contrassegno, il cui costo sarà poi riversato nel bilancio dello Stato per coprire le spese di fabbricazione.
Una volta disponibile (perché, come vedremo, prima bisogna fare richiesta, e l’apposita piattaforma è ancora ben lontana dall’esistere), il contrassegno potrà essere ritirato presso gli uffici della Motorizzazione Civile oppure negli studi di consulenza automobilistica (in quest’ultimo caso è verosimile prevedere un costo di servizio aggiuntivo).
Sarà personale e non trasferibile: in caso di vendita del monopattino, l’adesivo - essendo inamovibile - dovrà essere distrutto.
Capitolo costi: il Decreto del 6 ottobre chiarisce il prezzo ufficiale: 8,66 euro per ogni contrassegno, di cui 5,03 per i costi di produzione, 1,11 di di IVA al 22% e 2,52 di maggiorazione). Secondo Assosharing, però, il costo reale potrebbe essere più alto. Il vicepresidente Andrea Giaretta segnala che, considerando bollo e altre voci, la spesa effettiva per gli utenti dei servizi di sharing arriverebbe tra 20 e 35 euro. Una misura giudicata onerosa, soprattutto perché, fa notare Giaretta “la targa è un obbligo in più, i mezzi del sharing sono già assicurati e tracciati tramite GPS. Più che altro i tempi per noi sono stretti. Avevamo chiesto di avere più tempo, non ci è stato concesso”.
Il meccanismo però è tutt’altro che operativo. Prima che i cittadini possano inoltrare la richiesta servirà l’attivazione di una piattaforma telematica dedicata, che ancora non esiste. Inoltre, per metterla a regime sarà necessario un ulteriore decreto, da emanare entro 90 giorni. Solo dopo la pubblicazione di questo secondo atto inizierà il “conto alla rovescia” con l’obbligo vero e proprio che dovrebbe scattare 60 giorni più tardi. Un iter lunghissimo, cominciato già con la discussione sul nuovo Codice della Strada del 2023 e la cui fine ancora non si intravede.
Se ne parlava da un po’: Monopattini elettrici, Salvini: casco e targa obbligatori
Se le cromature sono malmesse bisogna intervenire con una robusta lucidata, ma occorre sapere come operare, quali prodotti e quali tecniche usare. Allora ecco tutti i trucchi per far splendere il vostro lavoro
Per pulire le cromature ed eliminare l’eventuale ossido venutosi a formare vi abbiamo dato i nostri consigli ma può darsi che non siano sufficienti a riportarle all’antico splendore. Per ottenere il massimo risultato conviene sottoporle a un trattamento di lucidatura e lisciatura che potete fare voi stessi.
Prima di tutto bisogna lisciare tutta la superficie con uno straccio pulito e asciutto in microfibra, esercitando una leggera pressione ed effettuando movimenti circolari; usando lo straccio con movimenti in orizzontale e in verticale facilmente resterebbero dei segni visibili, che un’azione circolare invece nasconde.
Ă importante effettuare movimenti rotatori per eliminare l'opacitĂ
Così facendo si tolgono tutte le tracce di acqua, polvere e sporco. Per un trattamento più approfondito si può anche usare una lucidatrice elettrica (i modelli per il fai da te constano circa 50 euro) dotata di un tampone specifico per le cromature, asciutto e pulito.
Un lucidatrice per hobbistica costa circa 50 euro
Una volta che le superfici sono nette cominciano le operazioni per farle brillare. Per ottenere questo risultato è necessario applicarvi sopra uno strato di olio per bambini, cioè olio minerale di tipo farmaceutico (per esempio il Johnson’s baby Olio) che è anche in grado di far brillare le superfici, le rende più omogenee all’occhio e ne esalta la lucentezza. Bisogna depositare qualche goccia d’olio, una ogni 5 cm, e distribuirla strofinando la zona con un panno asciutto e pulito, sempre eseguendo movimenti circolari ed esercitando una leggera pressione. Fatto questo, ripassate tutto quanto con un altro straccio pulito per eliminare l’olio in eccesso e a questo punto le cromature dovrebbero brillare come uno specchio. In alternativa è possibile impiegare una di quelle cere che si usano per la carrozzeria dell’auto, cera di carnauba oppure lucidanti specifici per vetture. Costerà un po’ di più ma anche in questo caso il risultato eccellente è garantito.
Il fenomeno dei cinquantini è scoppiato negli anni '60 e '70: tantissime le case, italiane soprattutto, hanno fatto sognare schiere di giovani motociclisti. Vi portiamo indietro nel tempo con sei memorabili modelli dell'era d'oro
Oggi l'entusiasmo per i cinquantini si è spento, ma una volta, negli anni '60 e '70 e anche 80 era alle stelle. Chi vi scrive non può ricordaselo, non ero ancora nato e non ero neanche nei pensieri dei miei genitori (sono classe 1993), ma ricordo bene i racconti di mio papà che tanto sognava il mitico Caballero Regolarità . Lui poi iniziò con un Fantic Super Rocket, il mio cinquantino invece è arrivato nel 2007, una moderna Yamaha TZR 50. I modelli di una volta mi hanno sempre affascinato, ecco perché, quando Giorgio Nada Editore ci ha fatto trovare in redazione il nuovo libro "Cinquantini... due ruote in libertà " di Alberto Pasi e Vittorio Crippa, mi sono illuminato: ho selezionato sei modelli d'annata che hanno fatto sognare e continuano a far sognare tanti motociclisti.

Tra i modelli da sogno della casa di Gallarate, come non citare il modello da regolarità Navaho. Presentato nel 1971, questo cinquantino si presentava con un'estetica innovativa. Linee filanti, serbatoio in fibra di vetro basso, lungo e stretto, sella piatta. La ciclistica meritava la lode, sia per il comportamento della forcella (prodotta direttamente da Aspes) sia per il robusto telaio. Il motore con raffreddamento ad aria era della Minarelli, il mitico P4-P6 con cilindro in ghisa in grado di erogare 5,5 CV circa. Negli anni a seguire il Navaho si evolve, ma continua a sorprendere per il suo design personale: la serie purtroppo finisce nel 1980, quando il costruttore è prossimo alla chiusura.

Presentato nel 1969, questo modello da fuoristrada della casa di Barzago è tra i più ricordati e amati di sempre. Il Caballero Regolarità P4, a quattro marce, arriva nel 1973: elegantissimo con le sue forme armoniche e filanti, esaltate dal serbatoio tondeggiante da 8,4 litri color rosso e dalla posizione di guida comoda. Sui terreni più accidentati mostrava i suoi limiti, ma era proprio nell'uso quotidiano che dava il suo meglio. Il motore monocilindrico a due tempi era supportato da un carburatore Dell'Orto SHA 14-12, ma con l'SHB 19-19 la potenza massima raggiungeva i 6 CV.

Entriamo nel mondo dei tuboni con il mitico Fifty che, non a caso, è il modello più importante nella storia di Malaguti. La prima generazione è del '74, vicina per stile e prestazioni ai concorrenti, ma due anni dopo arriva la prima versione innovativa, la HF. Pensate che l'allestimento Special montava addirittura il freno anteriore a disco, c'erano i parafanghi in plastica, ammortizzatori inclinati e sella in microfibra. Il Fifty si aggiorna costantemente e dalla sua nascita al 1980 ne furono costruiti ben 14.000. Negli anni a seguire questo tubone continua ad affascinare: arriva il monoammortizzatore, il raffreddamento a liquido e l'aspirazione lamellare. Il mezzo perfetto per l'elaborazione e il successo è garantito: in totale, fino al 1997, sono nati 250.000 esemplari.

In quegli anni il pallino dei giovani erano le moto da regolarità ma, delle sportive dell'epoca, la Testa Rossa è passata alla storia per essere uno dei cinquantini più veloci e ammirati. Il costruttore italiano era legato alle gare di velocità nel Mondiale e a quelle in salita: tra i giovani, infatti, questo modello era un po' come una Ferrari a due ruote. Telaio a doppia culla chiusa in tubi con triangolatura centrale, rinforzi sotto al cannotto di sterzo, motore F. Morini 4M con alcune parti prodotte direttamente da Malanca. Memorabile la testa verniciata color rosso. L'assetto era sportivo e scomodo, caratteristiche che però gli permisero di essere velocissimo: con i suoi 56 kg di peso riusciva a raggiungere i 90 km/h, numeri che permisero al Testa Rossa di essere uno degli "stesini" più gettonati di sempre, una volta come oggi.

Costava poco, era molto personale, andava forte ed era robusto. Il primo Dingo Cross arriva nel 1964 con telaio in lamiera stampata e motore con cilindro a canna cromata, una vera finezza per quegli anni. Nel '65 arriva già una versione aggiornata, che punta comunque su grande robustezza ed un prezzo invitante. Un ulteriore restyling è stato presentato nel '69: il cinquantino di Mandello aveva un inedito serbatoio tondeggiante, sella più corta, cassetta porta oggetti, parafanghi più filanti e tachimetro di serie. C'era anche un nuovo gruppo termico per il motore e la forcella aveva gli steli completamente a vista (scompare il soffietto in gomma). Il giallo era il colore più ambito ma c'erano anche il rosso e il verde.

Anche Moto Morini è stata della partita con una ricca famiglia di ciclomotori, di cui ricordiamo lo Scrambler, detto anche "il Corsarino da fuoristrada". Il modello nasce nel 1966, telaio e motore (rigorosamente a 4 tempi) sono gli stessi della versione stradale: cambiano però il serbatoio, più squadrato, parafanghi e marmitta alti, è montata una sella corta, la cassetta porta oggetti e non mancano protezioni varie. Nel 1971 questo cinquantino diventa Super Scrambler: confermate le caratteristiche da fuoristrada leggero, abbinate alla forcella Marzocchi da 28 mm e dal parafango anteriore basso.
Informazioni e immagini: "Cinquantini... due ruote in libertĂ " di Alberto Pasi e Vittorio Crippa

La GTL è stata un incubo per Ducati, afflitta da infiniti problemi meccanici fu soprannominata negli uffici della casa bolognese "demonio" e "frantoio". Vediamo perché
Affidato all’ing. Tumidei, il progetto della GTL, bicilindrica proposta nelle cilindrate di 350 e 500 cm3, vede la luce durante la primavera del 1975. L’idea era quella di realizzare un bicilindrico parallelo adatto a sostituire la gamma delle monocilindriche monoalbero. Un propulsore, nella teoria, economico, bello da vedere, forte contro la concorrenza e, non meno importante, economico. Non andò esattamente così…
Negli anni in cui IVA, costo della benzina e inflazione galoppante rendevano dura la vita di molti motociclisti, in Ducati apparve chiara la necessità di realizzare nuovi motori capaci di “tenere il passo coi tempi” (o meglio, con la concorrenza giapponese). Le monocilindriche monoalbero nate sul finire degli anni 50 ormai avevano chiuso il loro ciclo, a metà degli anni Settanta si scelse quindi di affiancare alle grosse cilindrate ad L nuovi bicilindrici paralleli di media cubatura. Un azzardo considerando che, se si esclude il parallelo 500 disegnato da Tagliolini ancora nel ’65 (poi accantonato per favorire lo sviluppo del 750 a L), quel genere di motori risultava appannaggio degli inglesi. Una strada che, seppur rivelatasi sbagliata, portò Taglioni qualche anno dopo alla progettazione del ben più fortunato Pantah. Ma andiamo con ordine…
La 350 venne messa in vendita a 1.304.800 lire, mentre la sorellona da 500 cm3 a 1.450.000. Care se paragonate alla concorrenza italiana (una su tutte la 3 e mezzo di Moto Morini) e carissime se confrontate alle rivali nipponiche, superiori anche da punto di vista delle finiture e della qualità costruttiva generale. Intendiamoci: le GTL apparvero fin da subito buone sotto il profilo dinamico, prestazioni ciclistiche in primis, ma certamente non all’altezza, come d’altro canto erano la maggior parte delle italiane, per ciò che riguarda materiali e cura dei dettagli. Problemi che, come vedremo, rovinarono di fatto la bontà della progettazione stessa. In che senso? I sigillanti - scadenti - usati per chiudere i carter si scioglievano, creando dighe e depositi che interrompevano il flusso di olio alla testa e non solo.

Se si escludono i carburatori più piccoli ed il singolo disco anteriore della sorellina minore, le due versioni, da 350 e da 500, erano fondamentalmente la copia l’una dell’altra. Cosa che, inevitabilmente, portava ad un surdimensionamento generale, specie degli organi meccanici e della ciclistica, a discapito, s’intende, di leggerezza e manovrabilità . Vediamole nel dettaglio.
Motore, alimentazione, cambio e frizione: bicilindrico affiancato fronte marcia quattro tempi con raffreddamento ad aria. Distribuzione monoalbero a camme in testa comandato da una catena centrale. Due carburatori Dell’Orto PHF da 30mm (da 28 sulla 350), cambio a 5 marce e frizione a dischi multipli in bagno d’olio con comando a cavo. La potenza era di 45 CV a 8.000 giri sulla 500 e di 33 CV a 8.500 sulla 350 cm3, per una velocità massima, rispettivamente, di circa 175 e 160 km/h.
Ciclistica: forcella teleidraulica Paioli e forcellone oscillante ed ammortizzatori Marzocchi regolabili su 5 posizioni di molla. Freni Brembo, due dischi all’anteriore da 260 mm (singolo sulla 350) e a tamburo centrale da 160mm al posteriore.
Misure: La sorellona raggiungeva, a secco, i 181 kg, mentre la minore si fermava a 178. Comunque troppi.
Come accennato, le GTL si dimostrarono alla prova dei fatti un vero disastro. I Problemi erano tanti e, purtroppo, le soluzioni arrivarono tardi quando ormai la moto si era fatta una fama terribile. Anche all'interno di Ducati, dove la chiamavano "demonio" per i continui guai che tirava fuori o frantoio per la capacitĂ di distruggere i suoi organi meccanici.
Oltre al prezzo, sicuramente elevato rispetto alla concorrenza, le due sorelle soffrivano di vari e numerosi “disturbi”. Lo spiega molto bene Silvio Manicardi, all’epoca Responsabile dei reparti di montaggio: “fare l’elenco dei problemi che capitarono - dice - richiederebbe un articolo a se stante, ma i principali furono la rottura di diverse parti, vibrazioni e, soprattutto, un grosso problema alla circolazione dell’olio”. Garantire la tenuta dell’olio tra testa e cilindro parve fin da subito impossibile a causa del passaggio - proprio al centro dei cilindri - della catena di distribuzione. Fu interposta una guarnizione, ma con scarsissimi risultati. Discorso analogo per quanto riguarda i carter motore, che tendevano a muoversi con il caldo e il freddo, spostando gli assi degli alberi. Problema che si rifletteva sulle sedi per l’alloggiamento dei contralberi che creavano evidenti porosità e, ancora, ingenti perdite d’olio. Male anche il pignone catena, che, per usare le parole di Manicardi - “aveva il brutto vezzo di rompersi in due metà ”. Poi c’erano i cappellotti di biella collegati con bulloni da 6 mm che però si rompevano (successivamente ci provarono con bulloni da 8) e, ancora, l’impossibilità di garantire nel tempo una corretta fasatura dell’accensione (probabilmente per la precoce usura delle spazzole). Insomma, un disastro.

Nessun accanimento, sia chiaro, ma oltre ai problemi meccanici, le due GTL, è evidente, mostravano parecchie magagne anche dal punto di vista prettamente estetico. Innanzitutto, va detto che se l’obiettivo era quello di realizzare un motore più bello del bicilindrico a “L”, certo non venne centrato: al contrario, i notevoli ingombri dei carter e la conformazione poco elegante dovuta alla protuberanza anteriore necessaria ad accogliere il motorino di avviamento valsero al propulsore il poco lusinghiero nomignolo di “Gobbo”. Ed è già un bel punto a sfavore. Secondariamente, ma non meno importante, il design generale che, seppur firmato dall’altissimo Giorgio Giugiaro, non brillava certo né per originalità né tanto meno per finezza ed eleganza. Altro punto a sfavore. L’accoglienza del pubblico, che ancora non conosceva i problemi tecnici di cui sopra, fu pertanto piuttosto “tiepida”…
Fino ad ora abbiamo parlato delle GTL in generale ma, volendo essere più precisi, è bene adesso distinguere tra le differenti versioni prodotte negli anni. A partire dal 1976, entrambe le GTL vennero infatti affiancate dalle versioni SD, cioè Sport Desmo. Sinonimo, almeno nel nome, di sportività , l’SD, “vestita” da Leopoldo Tartarini con risultati forse migliori di quelli ottenuti da Giugiaro, vantava un telaio a doppia culla aperta al posto del più tradizionale monotrave e, cosa più importante, una nuova testata desmodromica capace di accrescere la potenza di circa 5 CV. Se da una parte la Sport Desmo fu in grado di vantare prestazioni di tutto rispetto - pur con qualche inevitabile “perdita” ai bassi regimi (capita quando si “spreme” potenza rispetto alla unità d’origine di pari cilindrata) - dall’altra continuò a pagare pegno per ciò che riguardava la qualità dei componenti e la cura costruttiva, identica a quella della GTL. Niente da dire, anzi, solo complimenti dal punto di vista della ciclistica, ulteriormente migliorata sia in stabilità che in agilità . Una vera sportiva insomma, con tiro in alto, sospensioni rigide ed un carattere decisamente scorbutico, manchevole però di tutte quelle “attenzioni” che il cliente si sarebbe aspettato da un prodotto “elitario” come le desmo bolognesi volevano apparire (i dischi dei frani arrugginivano in una settimana e, per fare un altro esempio in aggiunta a quelli sopra, l’obsoleto ed impreciso quadro strumenti firmato Veglia non era certo un granchè). Stesso discorso per la sorellina 350 DS, migliorata rispetto alla GTL, meglio “agghindata” e più piacevole nella linea, ma ancora assai carente per ciò che riguardava qualità costruttiva, cura dei dettagli e affidabilità . Difficile, insomma, tener botta alla concorrenza di Honda che, negli stessi anni, proponeva la CB500 Four ad un prezzo addirittura inferiore di 40.000 lire (1.842.000 contro il 1.885.000 richiesto da Ducati).
Linee classiche, semicarene e forme tondeggianti nascondono ciclistiche e motori di derivazione sportiva: sono le Café Racer di grossa cilindrata. Ecco quattro modelli (più uno) da tenere in considerazione
Circa una decina di anni fa le café racer sono tornate alla ribalta popolando i listini di alcune di Case europee e giapponesi. Si tratta di modelli che stilisticamente si rifanno alle sportive inglesi degli anni ’50 e ’60, amalgamando lo stile classico a tecnica moderna. Oggi prendiamo in considerazione le “maxi”: quattro modelli (più uno non propriamente del genere, ma dall’animo neoretrò) con motori vicini o addirittura superiori al litro e potenze che orbitano attorno al centinaio di CV. Vediamo come sono fatte, come vanno e quali sono le quotazioni dell’usato.
Tra le migliori espressioni stilistiche del genere troviamo la BMW R Ninet Racer, modello derivato dalla stradale R Nine T alla quale sono stati montati una mezza carena con cupolino tondo, semi-manubri in alluminio e pedane arretrate in alluminio fucinato.
Come le sorelle, monta il classico bicilindrico boxer da 1.170 cm³ raffreddato ad aria/olio, caratterizzato da un’erogazione piena e corposa ai regimi medio-bassi, dando il meglio tra i 3.000 e i 7.000 giri. La Casa dichiara 110 CV a 7.750 giri e ben 116 Nm di coppia massima a soli 6.000 giri. Anche la ciclistica è condivisa, con il telaio modulare composto da tre elementi: anteriore, posteriore e telaietto del passeggero smontabile (che consente di modificare l’aspetto della moto montando una sella mono o biposto optional).
Sotto le forme retrò la Racer è una moto moderna ed offre ABS, controllo di trazione e, come optional, anche le manopole riscaldabili. L’interasse è piuttosto elevato: 149,3 cm, e nella guida si avverte nelle manovre e nei tornanti. Inoltre, la posizione di guida “estrema” della Racer mette un po’ a disagio: si sta letteralmente sdraiati sul serbatoio, con i polsi piegati sui semi-manubri e i piedi a cercare le pedane molto arretrate. Per inserirla in curva rapidamente bisogna usare il peso del corpo, proprio come si faceva con le moto di una volta: una guida “fisica” che richiede impegno al pilota, ma che allo stesso tempo è divertente e regala emozioni forti ormai dimenticate.
Uscita dai listini nel 2020, oggi si trova come usato a prezzi interessanti. Per modelli degli anni 2016-2019 le quotazioni sono di circa 10-12.000 euro.
Presentata nel 2017, la Ducati Scrambler Café Racer è un modello che deriva dalla piattaforma tecnica della classica Scrambler Icon, ma si differenzia, oltre che per la componentistica (cupolino tondeggiante, fianchetti intercambiabili del serbatoio, portatarga basso, sella con copricodino, parafango anteriore corto), anche per alcune quote ciclistiche. L’interasse, infatti, è più corto di 1 cm e l’avancorsa di quasi 2 cm per via della ruota anteriore da 17 pollici e non da 19.
La triangolazione è sportiva ma non estrema come su alcune concorrenti: i semi-manubri sono abbastanza ampi e poco inclinati, la sella è spaziosa e le pedane non sono eccessivamente arretrate. Questo la rende facile da guidare fra le curve, dove si dimostra anche piuttosto efficace grazie a una ciclistica a punto.
Il motore, il noto Desmodue di 803 cm³ da 75 CV raffreddato ad aria e olio, offre una bella spinta ai bassi e ai medi, con un allungo corposo fino agli 8.000 giri accompagnato da vibrazioni avvertibili sul manubrio. L’impianto frenante offre potenza e modulabilità , mentre le sospensioni garantiscono un discreto comfort anche sui fondi sconnessi, senza compromettere eccessivamente il rigore direzionale della moto quando si guida forte.
Le quotazioni dell'usato per un modello del 2017-2019 spaziano dai 6.000 ai 9.500 euro, a seconda dei km.
Tra le proposte più intriganti ed esteticamente appaganti del genere troviamo la Kawasaki Z900RS Café. Si tratta di un modello che sfrutta l’ottima base tecnica della nuda Z900, con telaio a traliccio in acciaio e motore quattro cilindri in linea di 948 cm³ che, su questo modello, raggiunge una potenza massima di 111 CV a 8.500 giri. Le sovrastrutture si caratterizzano per il grosso cupolino tondo con faro circolare a LED, serbatoio a goccia e una grossa sella in un unico pezzo.
La posizione di guida è anche in questo caso sportiva ma non eccessivamente scomoda: la sella è spaziosa, le pedane non sono troppo alte e il carico sui polsi non è eccessivo. Tra gli assi nella manica della Café c’è l’ottimo carattere del suo motore. Ricchissimo di coppia, il quattro-in-linea è fluido e regolare sin da regimi bassissimi, mostrando una bella schiena ai medi e un allungo corposo agli alti.
La ciclistica offre maneggevolezza nello stretto, risultando efficace anche sul veloce, a patto di agire sull’idraulica per ottenere un maggior sostegno dalle sospensioni. Bene anche l’impianto frenante, modulabile e con sufficiente grinta per sopportare una guida spedita.
In gamma fino al 2021, le quotazioni dell'usato per la kawasazi Z900RS Cafè sono di circa 8.000 euro.
Un po’ fuori dal coro per stile e forme, la Suzuki Katana è un’ode alla Katana degli anni ’80, modello della Casa di Hamamatsu divenuto celebre per le sue forme del tutto in antitesi con quelle delle moto de suo periodo. La Katana di oggi nasce dall’estro creativo del celebre designer italiano Rodolfo Frascoli, che nel 2017 presentò a Eicma una riedizione del modello originale. Un concept che piacque al pubblico ma anche ai vertici Suzuki, e così nel 2019 venne presentata in veste ufficiale. Ora come allora, l'elemento distintivo della Katana è il frontale dalle linee taglienti che si fonde col serbatoio, a formare una sorta di semicarena.
La base tecnica della Katana è quella della maxinaked GSX-S1000, con motore quattro cilindri di 999 cm³ e 150 CV di derivazione GSX-R1000 K5, racchiuso all’interno di un telaio a doppia trave in alluminio. Tra le cinque è l’unica ad avere una posizione di guida da nuda stradale: in sella, infatti, si sta con il busto eretto e la sella è spaziosa. Il motore è molto fluido ai bassi regimi, ha un’ottima erogazione ma non risulta particolarmente esplosivo. Tuttavia, è sufficiente raggiungere i medi regimi per far sì che il quattro cilindri mostri tutta la sua furia, con un allungo parecchio corposo fino alla zona rossa.
La ciclistica è ben assettata: la Katana è precisa in curva e molto stabile anche sul veloce grazie a sospensioni dall’assetto sostenuto, ma comunque in grado di copiare efficacemente le sollecitazioni. Bene anche la frenata: i comandi sono progressivi ma potenti se azionati con decisione.
La Katana è tutt’ora presente nei listini Suzuki, ad un prezzo di 14.390 euro f.c. Un esemplare usato del 2017-2020 si trova a circa 7-8.500 euro.
La Triumph Thruxton R è un modello chiaramente ispirato all’estetica delle sue antenate café racer parcheggiate fuori dall’Ace Café di Londra negli anni ’60, ma la ciclistica, la meccanica e l’elettronica sono moderne.
Il motore è un bicilindrico fronte marcia di 1.200 cm³ e 96 CV di potenza massima, con tre mappature (Road, Rain e Sport) e controllo di trazione di serie. La posizione di guida è sportiva, perfetta tra le curve: i semi-manubri sono bassi e le pedane arretrate, ma il comfort è comunque accettabile e sopportabile anche nell’uso cittadino, non però sulle lunghe distanze.
La vera libidine è scatenarla nel misto selezionando la mappa Sport: tutti i CV del bicilindrico si svegliano, con il motore che gira fluido e brillante; ci si trova a viaggiare veloci ma senza stress, grazie alla ciclistica svelta ed equilibrata. La maneggevolezza è ottima, così come la precisione, grazie alla taratura sostenuta delle sospensioni.
Della Truxton R si trovano esemplari usati del 2015-2019 tra i 9.000 e i 12.000 euro.