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#motociclismo #news #insella.it
Ecco qualche indicazione per evitare situazioni a rischio se si alza troppo il gomito
La guida in stato di ebrezza è un reato punibile anche con l’arresto. Le sanzioni variano in base al tasso alcolemico riscontrato nel guidatore che a sua volta dipende dalla quantità di alcol assunto prima di mettersi alla guida. Questo parametro può variare non solo in base al numero di bicchieri assunti, ma alla corporatura, all’età , al sesso, alla quantità di cibo ingerito insieme all’alcol e ad altri parametri. Premesso che è impossibile calcolare con precisione la quantità esatta di alcol che possiamo ingerire senza superare i limiti legali, proviamo a dare qualche indicazione utile quantomeno a evitare situazioni a rischio infrazione.
Come accennato, il tasso alcolemico è un parametro volto ad indicare la concentrazione di alcol (etanolo) nel sangue. L’unità di misura utilizzata per esprimere questo valore è g/l, cioè la quantità di grammi di alcol presenti in ogni litro di sangue.

Si distinguono quattro possibili scenari in base ai quali viene comminata la sanzione.  

- Tasso alcolemico fino a 0,5 grammi (solo per neopatentati e conducenti professionali)
- Tasso alcolemico superiore a 0,5 g/l ma non superiore a 0,8 g/l
- Tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l ma non superiore a 1,5 g/l
- Tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l
Per una stima delle quantità di alcol che determinano il superamento del tasso alcolemico legale per la guida in stato di ebrezza possiamo fare qualche esempio basandoci sulle tabelle ufficiali utilizzate dall’istituto Superiore di Sanità .
1) Una birra: un uomo di 70 Kg che beve una lattina di birra da 33cl a stomaco vuoto avrà un tasso alcolemico stimato di circa 0,28 a stomaco vuoto e di 0,16 a stomaco pieno.

2) Un calice di vino da 12 cl per un uomo di 70 kg, corrisponde ad un tasso alcolemico di circa 0,25 a stomaco vuoto e di 0,15 a stomaco pieno.

3) Un bicchierino di superalcolico da 4 cl si rifletterà invece in un tasso alcolemico di 0,29 a stomaco vuoto o 0,17 a stomaco pieno.

Se si bevono più bicchieri basta sommare i valori indicati. Ad esempio: un uomo che pesa 70kg che ha assunto a stomaco vuoto 1 birra doppio malto da 10° ed 1 superalcolico di media gradazione (45°) avrà un’alcolemia attesa di 0,55+0,29 = 0,84 grammi/litro, quindi sopra la seconda soglia di 0,8 g/l che comporta un reato penale.
1) Una birra: una donna di 55 Kg che beve una lattina di birra da 33 cl a stomaco vuoto avrà un tasso alcolemico stimato di circa 0,46 e di 0,26 a stomaco pieno.

2) Un calice di vino: per una donna di 55Kg, un bicchiere di vino da 12 cl corrisponde ad un tasso alcolemico di circa 0,42 a stomaco vuoto e di 0,24 a stomaco pieno.

3) Un superalcolico: 4 cl di superalcolico per una donna da 55kg si rifletterà invece in un tasso alcolemico di 0,47 a stomaco vuoto e 0,29 a stomaco pieno.

Anche per le donne, se si bevono più bicchieri basta sommare i valori indicati. Ad esempio: una donna che pesa 55kg che ha assunto a stomaco vuoto 1 birra doppio malto da 10° ed 1 superalcolico di media gradazione (45°) avrà un’alcolemia attesa di 0,92+0,47 = 1,39 grammi/litro, quindi molto sopra la seconda soglia di 0,8 g/l che comporta un reato penale.
È necessario specificare che a parità di quantità di alcol consumato, individui differenti possono registrare variazioni anche notevoli nei livelli di alcolemia in funzione del sesso, dell’età , della massa corporea (magrezza o obesità ), della assunzione o meno di cibo (se a stomaco pieno o a digiuno), della presenza di malattie o condizioni psico-fisiche individuali o genetiche, nonché della assunzione di farmaci anche di uso comune. Pertanto è impossibile calcolare con precisione la quantità esatta di alcol da assumere senza superare il limite legale di alcolemia dello 0,5 grammi/litro.
L’alcol assorbito dall’intestino passa nel sangue e dal sangue al fegato, che ha il compito di distruggerlo tramite un enzima chiamato alcol-deidrogenasi. Soltanto quando il fegato ha assolto del tutto a questa funzione la concentrazione dell’alcol nel sangue (cioè il tasso alcolemico) risulta azzerata.
Quanto tempo serve per smaltire l’alcol? O meglio, dopo quanto tempo è possibile mettersi alla guida senza rischiare?  i solito basta aspettare 2-3 ore per riportare entro la soglia di 0,5 g/l l’alcolemia di un bicchiere di bevanda alcolica o, se non si è digiuni, anche 1-2 ore. Nonostante il tasso alcolemico “cali†col passare del tempo, non esiste però risposta precisa. Una buona idea sarebbe di dotarsi di un etilometro portatile che per quanto impreciso può fornire un’indicazione di massima del proprio stato.
Anche il processo di smaltimento dell’alcol non è uguale in tutte le persone, ma varia in funzione del sesso, dell’età , dell’etnia e delle caratteristiche personali. In generale, la medicina ci insegna che tale processo non è completamente efficiente prima dei 21 anni di età ed è inefficiente sino ai 16 anni, e che dopo i 65 anni si perde gradualmente la capacità di smaltire l’alcol e che nelle done questa capacità è sempre la metà , a tutte le età , rispetto ai maschi. 


Secondo l’Istituto Superiore di Sanità , esiste un legame diretto tra livelli crescenti di alcolemia e rischio relativo di causare o essere coinvolti in un incidente grave o mortale. Le alterazioni delle capacità alla guida sono infatti direttamente influenzate dalla quantità di alcol consumata e si manifestano con l’assunzione di tutti i tipi di bevande alcoliche, senza distinzione. Gli effetti variano da caso a caso (nonché ovviamente dalla quantità di alcol assunta) ma, in generale, si parla di riflessi rallentati, scarsa capacità di coordinarsi, eccitazione e stato mentale confuso. Dopo aver bevuto, il tempo di frenata raddoppia, si riduce il campo visivo, in particolare quello laterale e si ha una percezione distorta delle distanze e della velocità .
A EICMA abbiamo visto tante nuove naked. Fra novità assolute e profondi aggiornamenti ecco le moto più belle che vedremo e proveremo nell’anno che sta per iniziare
Il 2026 è ormai alle porte e tanti modelli presentati ad EICMA arriveranno sul mercato proprio nei primi mesi del nuovo anno. Tra le protagoniste la Benelli TNT 550, una naked di media cilindrata dal design grintoso e dall’equipaggiamento tecnologico moderno. La nuova Ducati Monster segna un passo importante per il marchio di Borgo Panigale, che abbandona il bicilindrico ad L in favore del nuovo V2 di 890 cm³, più leggero e performante, oltre a una ciclistica rivista. Non meno attesa è la MV Agusta Brutale 950, primo vero aggiornamento dopo anni di piccoli restyling per la nuda di Schiranna: motore di maggior cubatura e ciclistica rinnovata. La Triumph Trident 800 eredita il fascino neoretrò della sorella 660, adottando però una ciclistica dedicata e il tre cilindri inglese di 798 cm³ che ha fatto il suo debutto lo scorso anno sulla Tiger Sport 800. Infine, la 703R di Zontes si presenta sul mercato anch’essa con un motore a tre cilindri di 700 cm³, racchiuso in un raffinato telaio in alluminio. Di pregio anche la componentistica, con sospensioni Marzocchi regolabili e impianto frenante Brembo. Il tutto, per un prezzo che sarà sicuramente molto competitivo. Scopriamo ora nel dettaglio, una ad una, le 5 naked più interessanti del 2026
La Casa del Leoncino rafforza la propria presenza nel segmento delle medie cilindrate con la nuda Tornado Naked Twin 550; ribattezzata TNT. Si presenta con un design aggressivo e una dotazione tecnica di livello, a partire dal suo motore bicilindrico parallelo di 554 cm³, omologato Euro 5+ e in grado di erogare 56 CV di potenza massima a 8.250 giri; la stessa unità della TRK 602 e della Tornado 550. È prevista poi una versione da 48 CV dedicata ai possessori di patente A2. Il telaio è a traliccio in acciaio, sostenuto da una forcella a steli rovesciati di 41 mm di diametro completamente regolabile e da un mono posteriore regolabile nel precarico e nell’estensione, collegato direttamente al forcellone. La frenata è affidata a due dischi anteriori di 320 mm con pinze radiali Brembo a quattro pistoncini e a un disco posteriore di 260 mm, tutti assistiti da ABS. Per tutte le caratteristiche tecniche vi rimandiamo però al nostro articolo di presentazione.
Si tratta di uno dei modelli storici della Casa italiana, che per il 2026 è stato completamente riprogettato conservando e reinterpretando in chiave moderna gli elementi stilistici che ne hanno fatto la fortuna. Tema chiave del progetto è stato ottenere una maggiore leggerezza e compattezza rispetto al modello precedente: la nuova Monster pesa infatti 175 kg a secco, quattro in meno rispetto alla versione precedente. Non solo è dimagrita, ma è anche più snella grazie al nuovo motore. Si tratta del bicilindrico a V di 90° di 890 cm³, unità che ha fatto il suo debutto nel 2025 anno su Panigale e Strettfighter; ed ora è arrivata su tutta la gamma media di Ducati: Hypermotard, DesertX e Monster. Dotato di fasatura variabile (IVT) e raffreddamento a liquido, questo motore è in grado di erogare una potenza massima di 111 CV a 9.000 giri, con un picco di coppia di 91,1 Nm raggiunto al regime di 7.250 giri. Il propulsore svolge anche funzione strutturale nella ciclistica: il telaio è una monoscocca abbinata a un forcellone bibraccio e un telaietto posteriore in tecnopolimero e traliccio. A sostenere il tutto troviamo una forcella Showa con steli rovesciati di 43 mm di diametro mentre al posteriore c'è un monoammortizzatore regolabile nel precarico. Per tutte le caratteristiche tecniche vi rimandiamo al nostro articolo di presentazione.
A EICMA 2025, la famiglia delle MV Agusta si è rafforzata grazie all’arrivo della nuova Brutale 950 Serie Oro. L’estetica è inconfondibile, con linee sinuose e un codino che ricorda quello della Brutale 1000, mentre le forme del serbatoio e del frontale sono un'evoluzione di tutti i modelli del passato. È stata rivista la posizione di guida, con un manubrio più avanzato e “apertoâ€, per offrire maggior controllo. Ma la vera novità è racchiusa nel telaio: arriva infatti il nuovo tre cilindri di 931 cm³ che, rispetto ai propulsori MV di passata generazione, ha un circuito di raffreddamento ottimizzato, valvole più grandi e una camera di combustione rivista. È accreditato di 148 CV a 11.200 giri, con una coppia di 107 Nm a 8.400 giri. L’alimentazione avviene tramite un corpo farfallato di 50 mm a gestione elettronica, mentre il cambio è estraibile.
5 le mappe motore disponibili, con la possibilità di personalizzare l'intervento dell'ABS Cornering, del Traction Control, del Front Lift Control, della risposta dell'acceleratore e del freno motore. Il telaio lo conosciamo tutti ed è l’unità “mista†a traliccio in acciaio con piastre in alluminio, ma per l’occasione ha ricevuto nuove geometrie e lavora con un forcellone più lungo. L'impianto frenante è Brembo, con dischi di 320 mm all’avantreno e pinze radiali Hypure, mentre le sospensioni sono Öhlins completamente regolabili. Per tutte le caratteristiche, ecco il nostro articolo di presentazione.
Triumph ha annunciato pochi giorni prima di EICMA l’arrivo della Trident 800 (qui l’articolo di presentazione), sorella maggiore della 660 dalla quale eredita la chiave stilistica, sempre frutto delle sapienti mani del designer italiano Rodolfo Frascoli. Tecnicamente adotta una versione rivista del tre cilindri in linea di 798 cm³ con componenti interne forgiate e contralbero di bilanciamento per ridurre le vibrazioni. In questa configurazione offre una potenza massima di 115 CV a 10.750 giri, mentre la coppia raggiunge un picco di 85 Nm a 8.500 giri. Il cambio a sei rapporti è elettronico bidirezionale. Ci sono tre mappe di erogazione selezionabili attraverso il TFT di 3,5â€, mentre ABS e traction control con funzione cornering sono di serie. All’anteriore troviamo una forcella Showa con steli rovesciati di 41 mm di diametro regolabile in compressione ed estensione, mentre al posteriore lavora un monoammortizzatore Showa regolabile in precarico ed estensione. L’impianto frenante vede all’avantreno due dischi di 310 mm di diametro sui quali agiscono pinze radiali a quattro pistoncini. Al retrotreno è presente un disco singolo con pinza flottante. Il peso in ordine di marcia è di 198 kg.
Di naked cinesi di cilindrata medio-alta se ne erano viste poche, ma Zontes ad EICMA 2025 ha presentato lei, la 703 R, una nuda che ha tutte le carte in regola per fare molto bene in questo segmento. Nasce sulla base tecnica della sorella sportiva RR, con telaio e forcellone in alluminio pressofuso e motore portante. Questo è il tre cilindri di 699 cm³ capace di 95 CV di potenza massima, con corpi farfallati ride by wire, ABS cornering e traction control. Le sospensioni sono firmate Marzocchi e completamente regolabili, mentre qui davanti abbiamo un doppio disco con pinze Nissin radiali. Il peso è di 174 kg a secco, mentre la sella dista soli 82 cm da terra.
La piccola monocilindrica inglese è proposta a buon prezzo, mette subito a proprio agio il pilota ma è anche capace di prestazioni brillanti
Benvenuti nel mondo Triumph! È di qui che si entra, dalla Speed 400, naked di carattere che è nata come porta d’accesso alla produzione di Hinckley: prezzo a portata di tutte le tasche, dimensioni a misura di chi non è un super specialista e prestazioni brillanti, per una monocilindrica di 398 cm³ che eroga una quarantina di cavalli. Quanti ne bastano comunque per divertirsi, ma senza arrivare a spaventare nessuno.
Lo potete vedere voi stessi dai dati che abbiamo rilevato con la nostra strumentazione satellitare:
È una potenza che permette di guidarla con la patente A2.Il temperamento è brillante, ha un buon tiro in basso e spinge ai medi.
La Speed è compatta quel che basta per essere sempre ben gestibile
Anche i dati di velocità , accelerazione e ripresa sono ottimi per la sua categoria.
I consumi sono contenuti considerati dimensioni e cilindrata
Il serbatoio da 13 litri consente un’autonomia di 319,8 chilometri a 120 km/h e viaggiando a tutto gas se ne percorro 172,9.
Il tutto in una confezione che dà soddisfazione perché la piccola Speed 400 è davvero bella, richiama l’anima delle versioni di maggiore cilindrata ed ha un livello di finiture adeguato. Linee tondeggianti, look vintage e qualche dettaglio capace di accendere il sospetto che non sia così tranquilla come vorrebbe apparire:
La nostra strumentazione satellitare ha confermato che il monocilindrico della Speed è brillante
Le misure, come si diceva, sono accessibili:
La dotazione è adeguata al livello della moto:
La linea è classica i dettagli be curati
È una moto che mantiene nei fatti quello che promette a colpo d’occhio. Posizione di guida azzeccata e moderna, con il manubrio alto, largo e vicino al busto che garantisce un buon controllo, la sella a un’altezza più che ragionevole e le gambe che non risultano costrette anche per chi le ha piuttosto lunghe. Peccato che la distanza dal manubrio delle leve di frizione e cambio non sia regolabile, e che quando si poggiano i piedi a terra le pedane siano proprio in corrispondenza della gamba. Piccole cose comunque per una moto che dà soddisfazione. Anzi, è anche più brillante di quello che ci si potrebbe aspettare visto che il limitatore ha la soglia a 9500 giri/minuto, che per un monocilindrico di queste cubatura sono abbastanza. Qualche vibrazione in effetti c’è quando lo si fa girare in alto ma restano a livelli tollerabili, mentre il carattere è piuttosto divertente: un discreto tiro in basso e un bell’allungo, che come abbiamo visto vanno a braccetto con consumi più che ragionevoli. Bene la frizione modulabile e dolce, leggermente duro il cambio in scalata.
La guida è quella che si chiede a una moto facile ma non banale: buone doti di maneggevolezza e un comportamento lineare sia nello stretto che nei cambi di direzione che avvengono con rapidità , mentre nelle curve più veloci resta precisa e rassicurante. All’altezza della situazione anche freni e sospensioni, con il risultato di una moto con cui è piacevole andare a spasso sulle strade tortuose come in città . Per 5495 € cosa chiedere di più?
All’inizio degli anni Settanta, Yamaha immaginò una maxi due tempi capace di riscrivere le regole del mercato americano. Il quattro cilindri in linea della GL 750 avrebbe “sbaragliato†la concorrenza di Honda e Kawasaki, ma le sempre più severe leggi anti inquinamento USA bloccarono questo sogno
Doveva essere l’arma definitiva di Yamaha, un modello destinato a conquistare il mercato americano - e mondiale - dei primi anni Settanta. Una quattro cilindri in linea a due tempi, raffreddata a liquido e dotata di iniezione meccanica: in poche potevano vantare soluzioni così avanzate e la GL 750 sembrava pronta a rivoluzionare le maxi stradali dell’epoca. Invece, vittima - come altre (tra cui la Kawasaki Square Four 750 - delle nuove norme antinquinamento americane, il progetto fu abbandonato ancor prima di entrare effettivamente in produzione. Cominciata con la presentazione al Salone di Tokyo del 1971, la storia della GL 750 s’interruppe subito dopo, relegando all’oblio quella che, se fosse nata, sarebbe stata una delle moto più eccezionali di tutti i tempi…
All’inizio degli anni Settanta, il mercato statunitense era il più importante al mondo. Honda, Kawasaki, Suzuki e Triumph dominavano le strade con le loro maxi stradali, mentre Yamaha, pur avendo costruito una solida reputazione con i due tempi di piccola cilindrata, restava indietro. Il Tokyo Motor Show del 1968 segnò l’inizio di un cambiamento epocale: Honda sorprese tutti con la CB750 e Kawasaki con la H1 500. Yamaha, invece, scelse ancora una volta di puntare su soluzioni di ispirazione britannica con la bicilindrica quattro tempi XS1 650. Un buon prodotto, ma non abbastanza per sfidare le rivali. Presentata un anno più tardi, la Suzuki GT 750, tricilindrica due tempi raffreddata liquido mostrò la strada da seguire. Così ispirata, la succursale USA di Yamaha rivolse precise richieste ai tecnici di Iwata: serviva una maxi originale, potente, capace di correre anche a Daytona e di conquistare i motociclisti americani. L’idea era chiara: nessun clone delle inglesi, ma una moto che potesse competere con Honda CB750, Suzuki GT 750 e Kawasaki H2. Nascono così due progetti paralleli: uno stradale, l’altro da corsa, entrambi con motore quattro cilindri in linea raffreddato a liquido e cilindrata massima di 750 cm3 secondo le regole AMA della Formula 750.
Il progetto stradale, codice interno YZ 401, nasce combinando due bicilindri YR5 350. I basamenti vengono saldati mantenendo separate le camere di manovella, mentre i cilindri sono raffreddati ad acqua con sistema closed deck, caratterizzato da passaggi rettilinei e da un anello cavo alla base che mette in comunicazione le camere. La prima versione sviluppa 694 cm3 (alesaggio/corsa 64x54 mm), mentre una seconda versione maggiore raggiunge 743 cm3 (alesaggio/corsa 65x56 mm).
Il motore da corsa invece, sviluppato in parallelo con codice YZ648, diventerà la TZ 750 A da Formula 750. Anch’esso è un quattro cilindri in linea raffreddato a liquido, con manovellismo a 180°, sequenza degli scoppi 1-4-2-3 e contralbero antivibrazioni per guidare correttamente il pignone della trasmissione finale. La versione da corsa utilizza un cambio a sei rapporti, mentre la stradale mantiene il classico cambio a cinque, con ingranaggi sempre in presa e frizione multidisco in bagno d’olio. Tra le soluzioni più innovative della GL 750 ci sono l’ammissione lamellare, ripresa dalle competizioni, e l’iniezione meccanica, sviluppata internamente da Yamaha.
Come accennato, il motore era un quattro cilindri in linea frontemarcia, due tempi, raffreddato a liquido con pompa meccanica e alesaggio per corsa 65x56 mm per una cilindrata di 743 cm3. Dotata di accensione elettronica, aveva una frizione multidisco in bagno d’olio con comando meccanico a 5 marce con ingranaggi sempre in presa ad innesti frontali. Con un peso di 205 kg a pieno carico, la GL 750 risulta più leggera rispetto alle concorrenti, ma la potenza dichiarata di circa 70 CV a 7.000 giri è già superiore a Honda CB750 (67 CV a 8.000 giri) e Suzuki GT 750 (65 CV a 6.500 giri), pur restando leggermente inferiore alla Kawasaki H2 750, che colo suo tre cilindri due tempi a raffreddamento ad aria, raggiungeva i 74 CV a 7.800 giri.
A livello ciclistico, la GL 750 era praticamente identica alla futura TX 750: telaio doppia culla chiusa in tubi d’acciaio, forcella telescopica da 35 mm non regolabile, ammortizzatori posteriori con precarico molla regolabile. L’impianto frenante è potente: anteriori due dischi da 298 mm con pinze a singolo pistoncino, posteriore un tamburo a camma da 200 mm.
Dal punto di vista stilistico, la GL 750 era una moto avanti anni luce rispetto alla concorrenza dell’epoca. Le prime immagini del 1971 mostrano una maquette in scala 1:1, realizzata in argilla e legno, sulla quale Yamaha monta ruote, freni e sospensioni della XS1 650. Sulle fiancate compare la sigla GL 800, indicazione di pura fantasia, utile solo a rafforzare l’idea di una maxi senza compromessi. La versione definitiva presentata al Tokyo Motor Show del 1971 adotta una linea compatta e muscolosa, equilibrata nelle proporzioni nonostante l’architettura del quattro cilindri in linea. Serbatoio, fianchetti e strumentazione riprendono quelli della futura TX 750, ma l’insieme appare più moderno e aggressivo, complice anche la presenza del termometro dell’acqua in plancia, dettaglio allora rarissimo su una moto stradale.
Quando la GL 750 inizia a girare, tra banco prova e strada, è chiaro a tutti di avere tra le mani qualcosa di profondamente diverso da qualsiasi altra maxi dell’epoca. Il quattro cilindri in linea è un concentrato di soluzioni avanzate, ma proprio questa complessità mette subito in luce i suoi punti critici. I primi prototipi vengono testati inizialmente con alimentazione a carburatori, mentre l’iniezione meccanica - di fatto uno degli elementi più ambiziosi del progetto - fatica a dare i risultati sperati. I collaudatori riferiscono di un’erogazione irregolare e “a singhiozzo†e dell’impossibilità di mantenere una pressione costante all’interno delle camere al variare del regime di rotazione. A complicare ulteriormente il quadro intervengono le brusche aperture e chiusure dell’acceleratore, che mettono in crisi la seconda pompa del sistema di iniezione, che fatica a dosare correttamente il flusso di carburante verso gli iniettori, con ripercussioni non solo sulla regolarità di funzionamento, ma anche sull’affidabilità complessiva dell’impianto. Difetti che, per quanto gravi (anche se risolvibili) non furono loro a ostacolare (o meglio, a impedire) la commercializzazione della GL.
Sulla carta, c’erano tutti i numeri necessari a raggiungere l’obbiettivo e battere la concorrenza. Nella pratica però il tempismo si rivelò sbagliato. Nel 1972 entra in vigore la prima stretta sulle emissioni, sfociata nel Clean Air Act, con l’obbligo dal 1975 di marmitta catalitica anche per i motori a due tempi. Uno scoglio insormontabile: mai il motore della GL 750 avrebbe rispettato le nuove norme senza interventi drastici. Con amarezza e delusione, la filiale americana della Yamaha segnala il pericolo e la Casa di Iwata decide di abbandonare il progetto stradale, concentrandosi solo sulle maxi quattro tempi. La versione da corsa, omologata con 200 esemplari, prosegue il suo percorso, dando vita alla TZ 750 A e ai successi nella Formula 750.
Nonostante l’abbandono, i collaudi dei prototipi continuano fino al 1972: alcune GL 750 con carburatori vengono avvistate sulla pista di Fukuroi, mentre il prototipo esposto a Tokyo trova un’ultima apparizione al Salone di Parigi per volontà dell’importatore francese Jean Claude Olivier. Nel 1973 nuove maquette testimoniano un lavoro continuativo, collegato alla futura TZ 750 A. Vane speranze: alla fine tutte le GL 750 rimaste (cioè i due prototipi prodotti) vengono accantonate negli stabilimenti di Iwata insieme al materiale del reparto Ricerca e Sviluppo. Ma c’è dell’altro: come se la sorte della promettente GL non si fosse già dimostrata sufficientemente triste, quando alla fine degli anni Novanta nacque il Communication Plaza di Iwata, la 750 non trovò nemmeno posto nel museo. Povera GL, esclusa dal mercato e pure dalla storia…
Conosciuta semplicemente come “Panoramica†o “La Pano†e divenuta una tratta tra le più famose grazie all’omaggio tributato in più occasioni da Valentino Rossi. Che disse “Qui sono diventato pilotaâ€
Ne avevamo già parlato, solo pochi anni fa, riprendendo le parole di Valentino Rossi, uno che questa strada la conosce bene. Molto bene. Si tratta della Strada Panoramica di Monte San Bartolo (o Adriatica), collegamento costiero che unisce Gabicce a Pesaro, nelle Marche, attraversando per l’appunto il Parco Naturale regionale del Monte San Bartolo. Una tratta breve, una trentina di chilometri scarsi se non si prevedono deviazioni particolari. Allo stesso tempo un luogo incantato, a sé stante rispetto all’affollata e vecanziera riviera di Romagna, con scorci che ricordano cartoline di campagna e riflessi su un mare fondo, di un azzurro brillante; ma anche borghi immersi in un verde insospettabile e quieto. A differenza di quanto si possa sospettare, però, altezza e pendenza del tracciato (4,7%) sono davvero “morbideâ€, basti pensare che il Monte in sé misura appena 230 metri s.l.m. La tratta ideale per godersi un panorama unico e una guida rilassata; approfittando anche dei vari punti panoramici, delle aree di ristoro presenti e della possibilità di sgranchirsi le gambe con la visita agli abitati caratteristici.
Partendo da Gabicce Mare, è necessario imboccare la Strada Provinciale 44 e salire verso Gabicce Monte/Vigna del Mare. Raggiunto in breve tempo Casteldimezzo, è possibile pianificare una prima sosta, oppure allungare di poco il tragitto per fermarsi poi (imprescindibilmente, ci sentiamo di consigliare) nel borgo di Fiorenzuola di Focara, arroccata tra il mare e un incantevole entroterra. Dal paese di Fiorenzuola mancano solamente 16 Km per arrivare a Pesaro, di strada ben manutenuta, ricca di curve scorrevoli e tornanti aperti con buona visibilità . La savana dei motociclisti locali. Non mancano poi i punti panoramici dove fermarsi per ammirare nuove vedute sull’Adriatico. Giunti finalmente a Pesaro, per restare in tema “due ruoteâ€, è inevitabile considerare una puntatina al Museo Benelli.

Teoricamente, l’itinerario sarebbe dunque concluso. Consigliamo però, una volta a Pesaro, di optare per una via di ritorno alternativa: attraverso la Strada Statale 16, in pochi chilometri si raggiunge Gradara, altro magnifico borgo (già premiato Borgo dei Borghi nel 2018) carico di suggestioni dantesche. Da Gradara, saranno appena 5 i chilometri che vi separano da Gabicce Mare.
È una stradale rétro bella da vedere e costruita con cura, ha un buon motore adatto alla guida con patente A2 ed è facile da guidare. Bene i freni, invitanti le quotazioni
Piace parecchio il motore: il bicilindrico Benelli è regolare nell’erogazione e ha una buona spinta ai medi regimi. La posizione di guida naturale permette di prendere confidenza in fretta con la Leoncino 500 che dà il meglio sui percorsi misti dove si rivela agile, efficace e divertente. Notevole in particolare la precisione in curva, anche quando il fondo stradale non è perfetto e ci si aspetterebbe di sentire il posteriore rimbalzare. Nel traffico la Leoncino rappresenta una valida (ed economica) alternativa agli scooteroni, grazie all’elasticità del motore che riprende senza strappi già da 2.000 giri e al cambio ben rapportato. Molto buono anche il comportamento dei freni potenti e dotati di un ABS bene a punto.
Ad andature autostradali il motore trasmette qualche vibrazione di troppo, in particolare sulle pedane (meno sulla sella e sul manubrio). La frizione è duretta da azionare e nell’uso in città alla lunga affatica un po’ la mano. Nelle manovre da fermo il peso si fa sentire e l'angolo di sterzo limitato non aiuta.

Se da nuova la Leoncino ha un prezzo invitante, va da sé che, sull'usato, gli affari siano all'ordine del giorno. Infatti si trova praticamente al prezzo di uno scooterino 150 e a queste quotazioni è di certo un buon affare. La rivendibilità resta comunque buona e i concessionari la ritirano volentieri in permuta.
Entrando in galleria, la pupilla si dilata per catturare più luce. Un riflesso automatico che si compie in pochi istanti. In moto però, specialmente se a velocità sostenuta, anche un solo secondo può fare la differenza…
Luce, buio e poi ancora luce: l’ingresso in galleria è uno di quei momenti in cui la visibilità (profondità d campo compresa) cambia in un attimo. Si passa dalla luce piena del sole a una zona d’ombra, il più delle volte illuminata da fievoli luci. L’apparato visivo umano è progettato per adattarsi alle nuove condizioni, ma serve tempo e, quando si viaggia, specialmente se a velocità sostenute, un solo secondo può fare la differenza. Quando entriamo in galleria, la pupilla è costretta ad aprirsi di colpo per cercare più luce possibile: una reazione automatica, rapida, ma immediata: per alcuni istanti la visione peggiora, il contrasto cala e la percezione delle distanze diventa meno precisa.
Nel passaggio luce-buio l’occhio perde temporaneamente “qualità â€:
In moto questo effetto è amplificato poichè si è più esposti, sia hanno meno riferimenti visivi laterali e, se qualcuno frena davanti, il margine di errore diventa minimo.
Il primo è non prepararsi all’ingresso. Molti entrano in galleria alla stessa velocità con cui stavano guidando all’aperto, confidando nel fatto che “tanto ci si vedeâ€. In realtà è proprio il contrario: i problemi arrivano nei primi metri. Il secondo errore è guidare troppo vicino al veicolo che ci precede. Quando la visione si accorcia, anche lo spazio di reazione si riduce. E in galleria, dove tutti tendono a rallentare, questo può tradursi in frenate brusche e rischiose. Infine, c’è la questione dello stress visivo: continui cambi di luce affaticano l’occhio e, alla lunga, anche la concentrazione. Non è un dettaglio, soprattutto nei trasferimenti lunghi o nei percorsi di montagna dove i tunnel abbondano.
Era velocissima, ma frenava poco. Scorbutica e nervosa, non stava in strada nemmeno a schiaffi. Arrivata sul finire del ’71, la Kawasaki IV 750 metteva paura e, per montarci in sella, serviva pelo…
Presentata al mondo nel 1971, la Kawasaki Mach IV 750 (o più semplicemente H2) fece il suo debutto come naturale evoluzione della celebre Mach III 500, la sportivissima due tempi che già aveva conquistato gli Stati Uniti sul finire degli anni Sessanta. L’H2 nacque con lo stesso spirito: una moto pensata per il mercato degli States, dove le strade sono lunghe e libere e i (pochi) semafori “trampolini†per partenze brucianti. Va detto: rispetto alla 500, la Mach IV era più trattabile. Il motore iniziava a spingere già dai 3.000 giri, rendendo la guida meno brusca e più gestibile, ma la potenza era tanta e il carattere impetuoso dei tre cilindri a due tempi difficile da tenere a bada. Specialmente con quella ciclistica. I primi esemplari arrivarono in Italia alla fine del ’71, importati da Marino Abbo di Genova. Fu grazie a lui che, con una certa paura, in molti oggi ricordano il brivido che si provava girando la manopola del gas…
Motore: tre cilindri frontemarcia 2T da 74 CV a 6.800 giri; cilindrata di 748 cm3 (alesaggio 71 mm e corsa di 63 mm); 3 carburatori Mikuni VM da 30 mm. Trasmissione primaria a ingranaggi a denti dritti, secondaria a catena. Frizione multidisco in bagno d’olio. Cambio a 5 rapporti. Il tutto per una velocità massima dichiarata di 220 km/h. Un’impresa raggiungerli, visto che già dai 150 l’H2 si dimostrava assai difficile da tenere in strada…
Ciclistica: telaio a doppia culla in acciaio, forcella telescopica con steli da 36 mm all’anteriore e forcellone oscillante con ammortizzatori regolabili su 3 posizioni al posteriore: freni: 1 disco da 296 mm davanti e tamburo dietro. Peso: 192 kg (più i 17 litri di serbatoio).
La Kawasaki 750 offriva emozioni intense. Certo non era concepita per un uso quotidiano. In città soffriva il traffico e durante le gite fuoriporta era consigliabile portare una scorta di candele per affrontare i problemi d’accensione, praticamente inevitabili. Era scomoda e scorbutica. Una moto che che non stava in strada manco a schiaffi. Come in (quasi) tutte le nipponiche, la nota stonata era nella ciclistica: un difetto amplificato, nel caso della H2, dall’esuberanza del motore. Il forcellone posteriore non era abbastanza rigido, gli ammortizzatori scarsi e l’avantreno richiedeva interventi mirati sulla geometria dello sterzo. Anche l’impianto frenante - pur dotato di disco anteriore da 296 mm - era meno efficace rispetto a quello della 500, costringendo i più ad aggiungerne un secondo. Molti, infatti, tentarono di correggere (o almeno limitare) le sopracitate carenze ciclistiche con interventi mirati, più o meno utili.
La Kawasaki Mach IV 750 nacque con un motore due tempi a tre cilindri ed architettura a manovellismo 120° pensato per ridurre le vibrazioni longitudinali, anche se quelle trasversali restavano percepibili. La cilindrata da 748 cm3 e la spinta vigorosa a partire dai 3.000 giri rendevano la moto spettacolare nelle accelerazioni, con un carattere nervoso che richiedeva attenzione da parte del pilota. Montarci in sella - racconta chi l’ha fatto - metteva un certo timore. La frizione era robusta, ma il cambio delicato - almeno nelle prime serie - e poteva presentare problemi al rasamento. Inoltre, i carburatori Mikuni che l’alimentavano soffrivano le vibrazioni, che influivano sul livello del carburante nei galleggianti.
Come detto, la ciclistica rappresentava la parte più critica della Mach IV. Il forcellone posteriore, sorretto da boccole in nylon e ammortizzatori di base, tendeva a flessioni in rettilineo, mentre l’avantreno, con forcella telescopica, che pur si rivelò insufficiente, dove essere ottimizzato rialzando gli steli di 15-18 mm o accorciando i puntoni inferiori delle molle al fine di migliorare l’inserimento in curva e la precisione nella guida.
La produzione della 750 si articolò in quattro serie principali, ciascuna con caratteristiche e dettagli distintivi.
Ogni serie tentava di correggere i limiti della precedente, ma solo un intervento radicale sulla ciclistica avrebbe reso la Mach IV davvero stabile. Un progetto che Kawasaki non poté affrontare, impegnata nello sviluppo della Z1 e del futuristico Project 0280, quattro cilindri raffreddata ad acqua destinata a rinverdire i fasti dei tre cilindri.
Il successo della Z1 (altra leggenda di Akashi che nel frattempo era arrivata nei listini Kawasaki), la crisi petrolifera del 1973 e le nuove norme antinquinamento americane iniziarono a erodere la popolarità della Mach IV. Nonostante la sua potenza e il carattere unico, le vendite calarono e la produzione cessò definitivamente nel 1975. Solo in Italia, tra il 1971 e il 1974, ne furono vendute più di 3.000 esemplari.
In Italia conosciamo molto bene l'Aprilia RS 250 e la Suzuki RGV 250 Gamma, ma non sono le uniche ultime 250 a 2 tempi. Dal Giappone ricordiamo anche le sportive di Yamaha, Kawasaki e Honda, ma sono rarità solo per pochi
Negli anni '90 le moto a miscela hanno raggiunto il loro apice in termini di prestazioni: le neonate sportive 600 4 cilindri (ve le raccontiamo con nostalgia qui) iniziavano ad incuriosire i giovani smanettoni, ma solo le 250 a 2 tempi riuscivano a farti provare le emozioni di una moto da Gran Premio. Il mercato italiano era dominato da due modelli ancora oggi iconici e ricercatissimi, l'Aprilia RS 250 e la Suzuki RGV 250 Gamma, ma pochi fortunati sono riusciti ad importare dal Giappone anche le avversarie di Yamaha, Kawasaki e Honda: ve le presentiamo tutte!

La prima serie della RS 250 con livrea replica Reggiani (foto di Iconic Motorbike Auction)
La "duemmezzo" della casa di Noale è ancora oggi oggetto del desiderio di tanti appassionati. La prima generazione venne presentata al Salone di Colonia del 1994: una vera e propria race replica della 250 GP con cui correva Max Biaggi nel motomondiale. La carenatura era avvolgente e le colorazioni ispirate alle moto da gara la rendevano ancora più affascinante. Il marchio di fabbrica di questa sportiva, però, era il doppio silenziatore sul lato di destra che dava voce al bicilindrico a V raffreddato a liquido da 249 cm3, alesaggio x corsa di 50 x 50,6 mm. Storia curiosa: il blocco, in realtà , non è Aprilia. La casa di Noale provò a svilupparne uno derivato da quello della 250 GP ma, visti i costi elevati, la difficoltà di sviluppo e l'imminente uscita di scena della Suzuki RGV 250 Gamma, decise di stringere un accordo con il marchio di Hamamatsu. Il V2 ad ammissione lamellare, quindi, era giapponese ma costruito con specifiche del costruttore italiano.

Le forme della seconda serie sono cambiate notevolmente: la si riconosce per il codino "a goccia" (foto di Iconic Motorbike Auction)
Grazie ai due carburatori Mikuni da 34 mm la potenza massima arrivava a 70 CV a 11.900 giri/min. Di qualità anche la ciclistica, che faceva affidamento su un telaio a doppia trave in alluminio, forcellone a banana, forcella WP a steli rovesciati da 40 mm e impianto frenante Brembo. La seconda (e ultima) generazione entra in scena nel 1998: la base tecnica è stata quasi completamente confermata se non per la forcella, qui una Marzocchi da 41 mm, per il mono regolabile ora nell’interasse e per la dimensione della gomma anteriore, 120/60-17" prima era 110/70-17". Inoltre, a causa delle normative antiquinamento la 250 di Aprilia perse un cavallo di potenza massima.

La RGV 250 Gamma è una piccola moto da GP, soprattutto nello stile (foto di Iconic Motorbike Auction)
La sigla RG fa parte della storia di Suzuki già dagli anni '70, quando la casa di Hamamatsu si difendeva a gomiti alti nelle principali categorie del Motomondiale. Per iniziare a sentir parlare di RGV, però, bisogna aspettare il 1988, quando venne presentata la 250 Gamma mossa per la prima volta da un motore bicilindrico a V. La moto era molto legata al "suo decennio", infatti il cerchio posteriore aveva la classica misura da 18". La RGV 250 Gamma più evoluta, invece, è arrivata nel '91: un mini moto da gran premio con telaio in alluminio, forcella a steli rovesciati, doppio silenziatore, forcellone a banana, ruote entrambe da 17" e carenatura da vera sportiva. Il motore a V di 90° nasceva con una potenza di 45 CV, cresciuta fino a 62 CV a 11.000 giri/min sulla versione di cui vi stiamo parlando: i carburatori, infatti, passarono da 32 a 34 mm e venne introdotta una nuova valvola di scarico SAPC.

La TZR 250 "di nuova generazione": in Italia ce ne sono pochissime (foto di Iconic Motorbike Auction)
La 250 a 2 tempi di Iwata è stata tra le meno diffuse in assoluto, in particolare la versione denominata 3XV. Questa serie è stata presentata nel 1991 e, a differenza delle sue antenate abbandonò il motore bicilindrico parallelo per far spazio ad un più moderno V2. La TZR 250 si ispirava tantissimo alle 500 GP, in particolare nell'estetica caratterizzata da forme squadrate e voluminose per permettere al pilota di chiudersi facilmente in carena. Azzeccata anche la scelta di mettere un silenziatore per lato. La potenza massima si fermava a 45 CV, scelta strategica di Yamaha per renderla più sfruttabile su strada. La ciclistica però era di riferimento perché il telaio Deltabox in alluminio era compattissimo (l'interesse era il più corto della categoria) e davanti spiccava una forcella a steli rovesciati da 39 mm regolabile.

La Kawasaki KR-1 è tra le meno note, ma anche lei è stata venduta in Europa (foto di Classic Motorcycle Mechanics)
Anche la verdona a 2 tempi è una vera rarità perché la produzione di tutti i modelli (dal 1988 al 1992) è stata inferiore alle 10.000 unità in tutto il mondo. La KR-1 era caratterizzata da una linea molto bilanciata e da prestazioni eccellenti: il telaio in alluminio abbracciava un motore bicilindrico con alesaggio x corsa di 56 mm x 50.6 mm e, grazie ai due carburatori Keihin PWK 28, la potenza arrivava a 52 CV a 10.500 giri/min. Nel 1991, la casa di Akashi presenta le versioni S e R, con quest'ultima valorizzata da due Keihin PWK 35 che garantivano un'incremento di 3 CV, un telaio più rigido e gomme più grandi. Peccato la KR-1 non si sia mai troppo evoluta, infatti anche gli ultimi modelli prodotti montavano dettagli "old style" come la forcella a steli tradizionali.

La NSR 250 R è stata profondamente aggiornata da Honda: la MC21 è tra le più rivoluzionarie (foto di Iconic Motorbike Auction)
In questa lista di leggendarie 250 2 tempi non poteva mancare la NSR 250 R che, ufficialmente, non arrivò mai in Italia. Uno dei modelli più prelibati, soprattutto in termini di contenuti tecnici, è l'MC21 del 1990: rispetto al predecessore, i tecnici giapponesi hanno rivisto profondamente il progetto per renderlo più competitivo e sofisticato. Il motore bicilindrico a V conferma le misure 54 x 54,5 mm di alesaggio x corsa e introduce sensori come il GPS (che in questo caso sta per Gear Postion Sensor, per la lettura della marcia inserita). Sulla NSR 250 R debutta anche la centralina PGM-III in grado di analizzare la guida e attuare strategie ancora più sofisticate. Il risultato è una potenza massima di 45 CV a 9.500 giri/min. Di prim'ordine anche la ciclistica, a partire dal telaio perimetrale in alluminio rivisto nelle sezioni e dal forcellone bibraccio a banana (diventato monobraccio con la generazione successiva), che ha permesso una notevole riduzione dell'interasse.
Ad EICMA la Casa inglese ha esposto le rinnovate Bonneville Bobber, T100, T120 e la nuova Trident 800, ma queste sono solo alcune delle novità : nel 2026 arriveranno anche le Street Triple 765 RX e Moto 2, la Tiger Sport 800 Tour e altre versioni speciali
Accanto al lancio di nuovi modelli, per il 2026 Triumph rinfresca la propria gamma con aggiornamenti alla famiglia delle Bonneville, rinnovate nell’elettronica con un pacchetto più ricco e raffinato e nella dotazione, con lo scopo di migliorare il comfort di guida. Protagoniste di questa evoluzione sono la Scrambler 900 e la Bonneville Speedmaster, affiancate da aggiornamenti mirati anche per T100, T120, T120 Black e Scrambler 1200 XE. Fa il suo debutto la Trident 800, secondo modello ad equipaggiare il tre cilindri in linea di 798 cm³, mantenendo fede allo stile modern classic della sorella 660. Infine, arrivano le raffinatissime Street Triple 765 RX e Moto 2 Edition, la Tiger Sport 800 si presenta con un nuovo allestimento pensato per viaggiare e le Tiger 900 e 1200 in versione Alpine e Desert sono più complete e raffinate che mai. Vediamo ora nel dettaglio tutte le novità che popoleranno la famiglia Triumph nel 2026.
Tutta la gamma Bonneville 2026 guadagna di serie ABS e Traction Control con funzione cornering, gestiti da una piattaforma inerziale con logiche riviste e aggiornate. Arrivano poi il cruise control di serie, una presa USB-C e illuminazione full-LED con DRL. Attenzione anche allo stile: le T100, T120 e T120 Black sfoggiano nuove verniciature rifinite a mano e una grafica circolare sui pannelli laterali con logo Bonneville in argento o oro.
La Scrambler 900, oltre agli aggiornamenti appena descritti per il 2026, vede un telaio rivisto nelle geometrie, nuove sospensioni Showa e impianto frenante con pinze radiali all'avantreno. Arrivano anche nuovi cerchi in alluminio con l’obiettivo di ridurre le masse non sospese e aumentare la maneggevolezza della moto.
La più classica della Bonneville ha un nuovo serbatoio da 14 litri che aumenta l’autonomia, oltre a una linea ridisegnata. Troviamo poi una sella più ampia e un nuovo manubrio che rende la posizione di guida più rilassata. Il cruise control è ora di serie e i cerchi in alluminio alleggeriscono ulteriormente la ciclistica, migliorando la maneggevolezza. Per la prima volta sarà possibile depotenziarla per la patente A2.
Mantiene la stessa base tecnica e ciclistica la Bonneville Bobber m.y. 2026, ma riceve – oltre ai suddetti aggiornamenti elettronici – un nuovo serbatoio che ne esalta il profilo muscoloso, con un nuovo tappo, pannelli laterali e cover ridisegnati. Nuovo anche il faro a LED circolare, mentre la sella è più larga e può essere regolata sia in altezza (standard 69 cm da terra), sia in avanti o indietro. Infine, arrivano due inedite colorazioni: Interstellar Blue e Sapphire Black, che vanno ad affiancare le Satin Mineral Grey, Satin Sapphire Black e Jet Black. Il prezzo è di 16.695 euro f.c. Ve ne parliamo approfonditamente qui.
Il secondo modello ad equipaggiare il tre cilindri inglese di 798 cm³ è la Trident 800, una classica stradale che riprende le linee della sorella minore 660, sempre frutto delle sapienti mani del designer italiano Rodolfo Frascoli. Nello specifico, il propulsore in questa configurazione impiega tre corpi farfallati ed è stato rivisto lato aspirazione per ottimizzare la risposta ai medi e alti regimi. I suoi valori sono di 115 CV e 85 Nm, ed è abbinato a un cambio elettronico bidirezionale. Ad abbracciare il propulsore un telaio in acciaio di nuova concezione, sostenuto da sospensioni Showa.
All’anteriore troviamo una forcella con steli rovesciati di 41 mm di diametro regolabile in compressione ed estensione, mentre al posteriore lavora un monoammortizzatore regolabile in precarico ed estensione. L’impianto frenante vede all’avantreno due dischi di 310 mm di diametro, mentre al retrotreno è presente un disco singolo. Il peso in ordine di marcia è di 198 kg. Non mancano ABS e controllo di trazione con funzione cornering, tre modalità di guida, cruise control e luci full-LED. Ma per tutte le caratteristiche vi rimandiamo al nostro articolo di presentazione.
Pochi giorni dopo EICMA, la Casa inglese ha presentato delle versioni speciali Alpine e Desert dei modelli adventure Tiger 900 e Tiger 1200. Si tratta di allestimenti pensati per mettere in risalto le specifiche vocazioni dei modelli, con la versione Alpine orientata al turismo e la Desert focalizzata sul fuoristrada. Cambiano le colorazioni, con livree dedicate per ognuno dei modelli, mentre per le 900 sia Desert sia Alpine arriva di serie un terminale di scarico firmato AkrapoviÄ. Le Tiger 1200 invece offrono di serie selle riscaldate per pilota e passeggero, oltre al sensore dell’angolo cieco visibile sugli specchi retrovisori e il Lane Change Assist, che segnala il possibile salto di corsia involontario. Tutti i modelli Tiger 1200 mantengono l'Active Preload Reduction, che può abbassare la moto fino a 20 mm in fase di arresto. Tutte le differenze e le foto di ogni modello le trovate qui.
La nuova Triumph Tiger Sport 800 Tour offre un pacchetto "chiavi in mano" a chi ama macinare km. Sono infatti di serie in questo allestimento le valigie laterali rigide in tinta con la carrozzeria, il top box capace di ospitare due caschi e completo di schienalino imbottito per il passeggero e la piastra portapacchi in alluminio. Ci sono poi selle comfort per pilota e passeggero, le manopole riscaldate, i paramani, il cavalletto centrale e il sistema TPMS per il monitoraggio della pressione degli pneumatici. La versione Tour si riconosce per due livree dedicate che giocano con dettagli dorati: la Matt Cobalt Blue (blu opaco) e la più vivace Carnival Red. Il peso, con tutto questo equipaggiamento montato (bagagli compresi), sale a 232 kg in ordine di marcia. Il prezzo è di 14.195 euro, con arrivo nelle concessionarie previsto per marzo 2026.
Sulla base tecnica della Street Triple RS Triumph ha presentato le versioni RX e Moto 2 Edition, entrambe rivolte alla guida sportiva in pista. Cambiano però diverse componenti: per quanto riguarda l’ergonomia arrivano semimanubri clip-on, mentre a livello ciclistico troviamo all'avantreno una raffinata forcella a steli rovesciati Öhlins NIX30, regolabile in compressione, estensione e precarico, con un'escursione di 115 mm. Al posteriore lavora un monoammortizzatore Öhlins STX40 con serbatoio separato, anch'esso totalmente regolabile.
Confermati il telaio a doppia trave in alluminio e il motore tre cilindri in linea di 765 cm³, lo stesso propulsore che equipaggia le moto del campionato mondiale Moto2, di cui Triumph è fornitore unico dal 2019. In questa configurazione stradale eroga una potenza massima di 130 CV a 12.000 giri e una coppia di 80 Nm a 9.500 giri. Ci sono piattaforma inerziale, ABS e controllo di trazione cornering, oltre a diverse modalità di guida.
Triumph Street Triple 765 Moto 2 Edition
La Street Triple 765 RX sarà disponibile dai primi mesi del 2026 al prezzo di 14.395 euro, mentre la più esclusiva Moto 2 Edition (con tantissime componenti dedicate) sarà prodotta in una serie limitata di soli 1.000 esemplari. Il prezzo? 16.195 euro. Qui l’articolo completo con tutte le caratteristiche tecniche e le gallery.