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#motociclismo #news #insella.it
Il nove volte campione del mondo ha gareggiato a RedBud tra i pro, con una Ducati Desmo 450MX quasi di serie, arrivando nono nella prima gara della Moto1
Il Red Bud National, a Buchanan, Michigan, è il sesto di undici appuntamenti del motocross pro USA e ha segnato il debutto della nuova Ducati Desmo450 MX, portata in gara da Tony Cairoli nella giornata di sabato. Il nove volte campione del mondo ha affrontato l'appuntamento con una moto sostanzialmente stock, eccezion fatta per le sospensioni, ma si è subito ben distinto, conquistando una nona posizione finale di classe di tutto rispetto, mettendosi in luce fin dalle fasi iniziali della gara. Peccato solo per la seconda gara, nella quale si è dovuto ritirare per un problema elettrico alla sua moto.
La gara presentava diversi spunti di interesse, compreso il ritorno in gara del campione in carica Chase Sexton, che si era infortunato nel round di apertura della stagione. Cairoli partiva con un decimo tempo nel combinato delle qualifiche, su ben 80 iscritti.
Allo start della Moto1, Hunter Lawrence è scattato bene, con R.J. Hampshire e Jorge Prado alle sue spalle. Nelle fasi iniziali la tabella #222 di Tony Cairoli si è fatta vedere nelle prime posizioni, per poi retrocedere intorno al decimo posto. Jett Lawrence ha poi passato il fratello ed è andato a vincere per una doppietta di famiglia, con Hampshire a completare il podio. Quinto Sexton, nono Cairoli, arrivato ad appena 3 secondi da Jorge Prado.
40 anni quasi compiuti e non sentirli, o forse sentendoli anche ma senza darlo troppo a vedere: Cairoli ha offerto una gran prova, soprattutto se si considera che la sua moto era sostanzialmente di serie. La Desmo 450MX ha goduto “solo” dell'intervento sulle sospensioni di Ziggy, specialista di Factory Connection: un intervento nemmeno troppo invasivo, visto che l'obiettivo di Ducati è arrivare a mettere a disposizione sul mercato un kit che permetta a ogni pilota di fare un upgrade alla monocilindrica di Borgo Panigale, con costi accettabili e una buona competitività .
Qualche problema di gioventù la moto ancora lo presente, come si è visto nella seconda gara, ma la soddisfazione di essere di nuovo "nella mischia" trapela dalle parole di Tony. “Abbiamo ancora molto lavoro da fare, ma è eccezionale gareggiare qua a questo livello” ha affermato il pilota di Patti. Prossimo appuntamento a Spring Creek, il 12 luglio.
La nuova moto Graystone 707 monta sospensioni pneumatiche e frizione elettronica simile alla E-Clutch di Honda. Dovrebbe arrivare amche sul mercato
L’uso della frizione è una delle prime difficoltà chi è alle prime armi, ma anche per gli esperti "giocare" con la frizione può essere fastidioso soprattutto in città .
éer questo motivo, molte Case moto stanno sviluppando soluzioni che rendano la vita più facile a chi proprio non ne vuole sapere di entrare in confidenza con questo sistema manuale. Una delle innovazioni più recenti è la frizione elettronica che permette di cambiare marcia senza dover azionare manualmente la frizione, lasciando comunque la possibilità di farlo per chi invece non ama questo genere di automatismi, e trova il rilascio della frizione un automatismo irrinunciabile, paragonabile al respiro. Tra i primi ad adottare questa tecnologia c’è Honda con il sistema brevettato E-Clutch, già disponibile su alcuni modelli come la CB650R e la CBR650R. Ora anche Benda, marchio cinese in grossa espansione, segue questo trend dotando la nuova cruiser Graystone 707 di una frizione a comando elettronico.
Presentata in anteprima al salone motociclistico di Pechino, la Graystone 707 monta un motore bicilindrico a V da 692 cm3 e introduce un sistema di frizione automatica molto simile a quello di Honda. Le immagini pubblicate mostrano un attuatore elettromeccanico montato nel lato del carter frizione. Secondo quanto si può osservare, il sistema utilizza due piccoli motori elettrici per controllare l’innesto e il disinnesto della frizione attraverso un gruppo di ingranaggi. La moto mantiene comunque la leva della frizione tradizionale e un impianto idraulico con serbatoio sul manubrio sinistro, a differenza della frizione a cavo usata da Honda. Questo indica che il pilota potrà scegliere se usare la frizione in modo manuale oppure affidarsi al sistema automatico.
Ecco il sistema di frizione elettronica
Oltre alla frizione elettronica, la Graystone 707 introduce un’altra novità : le sospensioni posteriori pneumatiche. Si tratta di un’innovazione inedita per una cruiser con doppio ammortizzatore. Ogni ammortizzatore è dotato di un serbatoio d’aria, e il sistema è pensato per adattarsi automaticamente alle condizioni di guida, rendendo la risposta più stabile e una guida più confortevole. Secondo l’azienda, il tutto è gestito da una piattaforma inerziale a sei assi, che lavora in coordinamento con frizione e sospensioni. La dotazione tecnologica include anche il cruise control, comandato da un interruttore sul manubrio sinistro. Lo stesso comando permette anche di scegliere tra le modalità di utilizzo della frizione automatica.
Il nome “Graystone 707” potrebbe non essere definitivo: il logo sulla moto sembra infatti riportare la parola “Rock”, lasciando intendere che “Rock 707” fosse l’intenzione originale, poi tradotta letteralmente. Non è ancora stata annunciata una data precisa per il lancio, ma Benda ha già avviato l’espansione sui mercati internazionali. La Graystone 707 potrebbe quindi arrivare entro il 2025.
Dalla Dream D-Type di Honda alla B8 125 di Kawasaki, passando per la Power Free di Suzuki e la YA-1 “libellula rossa” di Yamaha, ecco le prime moto delle quattro sorelle nipponiche, pietre angolari su cui s’è basata l’intera industria motociclistica del Giappone
Intese oggi come le “4 sorelle nipponiche”, Suzuki, Kawasaki, Honda e Yamaha nacquero in realtà in contesti e da radici tra loro assai differenti. Suzuki iniziò per esempio come fabbrica di telai a inizio Novecento, per dedicarsi alle due ruote solo nel 1952. Yamaha nacque invece nel 1955 come “spin-off” della Yamaha Corporation, industria specializzata nella produzione di strumenti musicali (da qui il logo a tre diapason), mentre Honda, fondata nel 1948 da Soichiro Honda, entrò nel mercato delle due ruote con la Dream D-Type del 1949. Infine Kawasaki Heavy Industries che, maturata esperienza nel settore navale e ferroviario, progettò la sua prima moto (la mitica B8 125) solo nel 1962. In un caso o nell’altro, nati come detto da esperienze tra loro completamente diverse, i primi modelli usciti dalle fabbriche nipponiche furono la pietra angolare su cui i singoli marchi basarono i successi e le gloriose tradizioni sportive di cui possono oggi andare tanto fieri.
Presentata nell’agosto del 1949, la Dream D-Type fu la prima vera moto di Honda. Fino ad allora la Casa nipponica aveva infatti aveva sperimentato vari motori ausiliari per biciclette, ma la D-Type segnò l’esordio come costruttore a tutti gli effetti. Era dotata di un motore monocilindrico 2 tempi da 98 cm3 (con valvole rotative) capace di circa 3 CV a 5.000 rpm ed abbinato a un cambio a due marce con frizione semiautomatica. L’uso di un telaio a canale di lamiera pressata e di sospensioni telescopiche anteriori la rese già allora una moto moderna ma, nonostante l’innovativa frizione semiautomatica (simile a quella del futuro Super Cub), a causa di un mercato che andava orientandosi verso motori più moderni e silenziosi, la D-Type venne un paio d’anni più tardi sostituita dalla E-Type, primo modello con motore 4 tempi OHV da 146 cm3 e 5,5 CV. In ogni caso, la Dream D resta leggendaria come prima creazione motociclistica di Honda. L’inizio di una saga che avrebbe portato il marchio al vertice mondiale.
Lanciata nel 1952, la Power Free fu la prima moto prodotta da Suzuki,. In realtà era poco più di una bicicletta motorizzata: un piccolo monocilindrico 2 tempi da 36 cm3 che erogava circa 1 CV a 4.000 rpm, fissato al telaio di una bicicletta standard. Ciò che la distingueva era l’originalità della trazione, con ben tre modalità di marcia: pedalata assistita, con motore in funzione per alleggerire la pedalata, pedalata normale, cioè senza l’ausilio del motore e solo motore, con marcia “automatica”, senza pedalare. Grazie a questa versatilità (e a incentivi statali ai veicoli senza patente), la Power Free riscosse subito un enorme successo aprendo la strada al modello seguente, cioè la Diamond Free del 1953, evoluzione da 55 cm3 che ottenne vittorie in numerose gare in salita (la più celebre fu quella ottenuta nella scalata del Monte Fuji).
Prodotta dal 1955 al 1958, la YA-1 fu la primissima motocicletta della Yamaha Motor Co.. Soprannominata Akatombo (libellula rossa) per la sua livrea rosso-rame su telaio nero, sfoggiava un monocilindrico 2 tempi da 123 cm3 raffreddato ad aria con cambio a 4 rapporti. Forcella telescopica e una innovativa sospensione posteriore a pistone. Malgrado il prezzo elevato (era venduta a 138.000 yen, una cifra proibitiva per molti), la YA-1 colpì per le prestazioni: già alla terza edizione della gara in salita sul Monte Fuji del 1955 conquistò la vittoria assoluta, subito seguito da un tris di vittorie nella categoria leggera all’Asama Highlands Race dello stesso anno. Si trattò di un impatto sportivo immediato per Yamaha, che con la YA-1 dimostrò la bontà del proprio progetto tecnologico fin dal debutto. La “libellula rossa” resta oggi un’icona per i collezionisti e l’inizio della rinomata famiglia di Yamaha a 2 tempi.
La Kawasaki B8 125 fu la prima moto interamente progettata e realizzata da Kawasaki Heavy Industries. Introdotta nel 1962, montava un monocilindrico 2 tempi da 125 cm3 da circa 11 CV a 8.000 rpm, abbinato a un cambio a 4 marce. Un modello che si caratterizzava per la solidità costruttiva e un design semplice ed affidabile. La B8 si impose rapidamente tra i pendolari giapponesi degli anni ’60 grazie al suo prezzo contenuto e alla robustezza (fu non per nulla usata anche come base per la prima moto da cross di Kawasaki, cioè la B8M “Red-Tank”).
Un kit plug-and-play sviluppato da CNCPT Moto in collaborazione con Powerbrick trasforma la Pan America in una naked aggressiva e raffinata
La Harley-Davidson Pan America ha convinto gli appassionati per le doti dinamiche quasi da stradale. Oggi, grazie al kit sviluppato da CNCPT Moto in collaborazione con Powerbrick, la crossover di Milwaukee abbandona temporaneamente le velleità da viaggiatrice pura per vestire i panni di una streetfighter estrema. La base di partenza sono due modelli: la Pan America 1250 Special (nera) e la più recente Pan America 1250 ST (argento), quella per intenderci con ruota anteriore da 17” (qui il nostro primo contatto). Entrambe le moto sono state alleggerite e personalizzate per ottenere un look essenziale e una posizione di guida più aggressiva.
Il lavoro di alleggerimento ha coinvolto il frontale, adesso talmente essenziale da... non esserci praticamente piĂą
Le due Pan America sono state equipaggiate con cerchi in fibra di carbonio Rotobox da 17”, abbinati a pneumatici Pirelli Diablo Rosso II. La versione argento adotta un monoammortizzatore posteriore TFX sviluppato nei Paesi Bassi, mentre la Special mantiene la sospensione originale con tecnologia di altezza adattiva. Il frontale è stato rivoluzionato grazie al kit CNCPT Moto: restano solo la parte inferiore e il display TFT originale, ora montato più in basso. Nuovi supporti in acciaio inox, riser anodizzati e manubrio LSL completano l’allestimento. La Special ha eliminato le barre paramotore ma ha mantenuto le protezioni radiatore, dotate di indicatori a LED integrati.
Molto bello il codone tronco che rende la Pan america ancora piĂą streetfighter
La parte più interessante è il nuovo codone, ricavato dal pieno in alluminio. Si tratta di un elemento plug-and-play che può essere installato abbastanza facilmente. Il kit include portatarga, luce posteriore originale Harley-Davidson, indicatori LED con connettori dedicati, vassoio per l’elettronica e tubazioni idrauliche Venhill Racing per riposizionare la pompa ABS. Entrambe le moto montano scarichi artigianali a doppio terminale realizzati da Nius Moto e collettori in acciaio inox. Completano il pacchetto i tubi freno Venhill, manicotti in silicone Samco e filtri DNA. Con oltre 165 CV dichiarati e un peso ridotto di circa 45 kg, questo kit trasforma la Pan America in una naked fuori dagli schemi, pronta a stupire anche lontano dalle piste sterrate.
Dopo la guerra, in Italia, accanto ai mezzi “popolari” come Vespa e Lambretta, spuntano regine a due ruote ben più ambiziose: le “cinquecento”. Tra tutte, due nomi dividono i cuori degli appassionati: Gilera Saturno Sport e Moto Guzzi Falcone
Nel primo Dopoguerra, in piena fase di ricostruzione nazionale, emergeva l’esigenza di un mezzo per l’uso quotidiano, affidabile e accessibile: non a caso nascevano Vespa e Lambretta, destinate a rivoluzionare la mobilità . Nel cuore di molti, però, covava il desiderio di qualcosa di più come le “cinquecento”, massima espressione motociclistica dell’epoca: regine della strada, capaci di superare la maggior parte delle automobili e ambite da tutti gli appassionati. In quegli anni, “cinquecento” significava Moto Guzzi Falcone e Gilera Saturno Sport: due moto sostanzialmente simili nelle prestazioni, ma profondamente diverse nell’aspetto, nella tecnica e nella filosofia — esattamente com’erano tra loro Vespa e Lambretta. Naturale, quindi, lo “schieramento” in due distinte “fazioni”. E voi, da che parte state?
La Saturno 500 nasce nel 1946. Quattro le versioni disponibili: turismo, sport (quella su cui ci concentriamo noi), competizione e corsa. La differenza tra la turismo e la sport è la testata, in alluminio sulla prima e in ghisa sulla seconda. Si aggiunsero poi altre varianti, come la Cross e la Regolarità , nonché quelle destinate al rinato esercito italiano. La Saturno Sport - proposta ad un prezzo di circa 540.000 lire - non er, una moto per tutti: montava un monocilindrico verticale da 499 cm3 capace di 24 CV di potenza a 5 500 giri/min grazie a un carburatore maggiorato e collettori di scarico a doppia uscita. Il telaio monoculla aperto esaltava la meccanica a vista, mentre la forcella telescopica Marzocchi e gli ammortizzatori posteriori idraulici ne sottolineano - come se il prezzo già da solo non bastasse - l’esclusività . Con un peso a vuoto di 170 kg e una velocità massima di circa 145 km/h, incarnava l’anima sportiva e tecnica di Gilera.
Monocilindrico verticale OHV da 499 cm3 (alesaggio 84 × 90 mm), con rapporti di compressione portati dai 6,5:1 della versione base a 7,2:1 e 24 CV di potenza a 5.500 giri/min (contro i 22 CV della “normale”) grazie a un carburatore più grande e a collettori di scarico modificati con doppia uscita laterale- Il cambio era a quattro rapporti in blocco motore “ermetico”, (cosa che migliorava sensibilmente la lubrificazione riducendo al contempo la manutenzione).
Al telaio monoculla aperta in tubi d’acciaio venivano abbinate sospensioni anteriori telescopiche Marzocchi e due ammortizzatori posteriori idraulici a stelo unico (invece di quelli a molle laterali della base) per un comportamento più reattivo in curva. I freni erano entrambi a tamburo.
Bellissimo il serbatoio a goccia dalla bombatura accentuata, cofano motore sagomato con scanalature di rinforzo e doppio collettore di scarico cromato. Ciliegina sulla torta i parafanghi con finitura “a pistoncino” e i cerchi verniciati in tinta con il telaio.
La Saturno richiedeva controlli frequenti della fasatura valvole e una manutenzione del carburatore maggiorato; il circuito interno restava pratico, ma i collettori doppi richiedevano anch’essi attenzione, specialmente alle saldature.
Mostrata in occasione del Salone di Ginevra nel 1950, la Falcone rappresenta l’ultima evoluzione della monocilindrica orizzontale di Mandello del Lario. Il suo 498,4 cm3 erogava 23 CV a 4 500 giri/min, con un cambio a quattro marce e una trasmissione primaria a catena. Il telaio a doppia culla chiusa in tubi d’acciaio, la forcella telescopica anteriore e il caratteristico volano esterno a vista conferiscono un equilibrio perfetto tra eleganza “meccanica” e robustezza. Non per nulla, divenne la “pantera” della Polizia Stradale. Raggiungeva i 140 km/h per un peso a vuoto di 175 kg. Il prezzo iniziale era di 482.000 lire (per la Falcone Turismo), salito a 700.000 lire per la versione Sport, arrivata nel 1953 e differentesotto numerosi aspetti meccanici, dalla testata alla valvola di scarico, passando per biella, pistone, albero a camme e carburatore.
Erede del di quello nato nel 1921 con la “Normale”, il monocilindrico orizzontale OHV da 498,4 cm3 (alesaggio 88 × 82 mm) della Falcone sviluppava 23 CV a 4 500 giri/min, con un cambio a quattro marce con comando a pedale e accensione a magnete Magneti Marelli.
Telaio a doppia culla chiusa in tubi d’acciaio abbinato a forcella telescopica anteriore rovesciata e forcellone oscillante posteriore con molla sotto il motore e doppio ammortizzatore a compasso.
Inconfondibili il volano esterno rosso a vista ed il serbatoio cromato con fascia verniciata rossa. In abbinamento c’erano i parafanghi bombati e cofano dalle superfici arrotondate, espressione di un design ispirato alle turbine aeronautiche, mondo da cui fondamentalmente nasceva la stessa Guzzi.
Circuito di lubrificazione a carter umido — pochi punti di ingrassaggio — percorrenze fino a 50 000 km senza interventi drastici; unica attenzione fissa: controllo del gioco della trasmissione primaria.
La Falcone e la Saturno raccontano due visioni della moto italiana del Dopoguerra: la prima in nome della solidità e dell’eleganza “meccanica”, la seconda all’insegna dell’audacia tecnica e dello spirito racing che impazzava in quegli anni. Impossibile decretare una vincitrice. Tuttalpiù, potremmo dire che chi cercava una fedele compagna di viaggio dalla facile manutenzione avrebbe preferito la Falcone, mentre chi bramava il brivido di guida, l’assetto più sportivo e la meccanica “comlessa” avrebbe forse optato per la Saturno. Ovvio comunque che la scelta rimanesse (e rimane tutt’ora) una questione di feeling e di gusti…
Per la casa cinese è la prima sportiva, ed è spinta dal nuovo motore tre cilindri che promette prestazioni brillanti
Per Zontes la 703 RR che arriva dai concessionari proprio in questi giorni è un passo importante: la sportiva cinese è la prima spinta dal motore tre cilindri di 699 cm³ costruito internamente e promette prestazioni brillanti: da 0 a 100 km/h in 3”, velocità massima 257 km/h. ”Un concentrato di adrenalina, dalla strada alla pista“ promette il costruttore. Non è esasperata ma di sicuro è una gran bella moto, caratterizzata da linee taglienti e da una silhouette aggressiva ed intrigante, un cupolino grintosamente puntato in basso e il codino sparato in auto che sembrano una dichiarazione di guerra. Luci a LED naturalmente, quelle anteriori ridotte a due sottili feritoie ai lati della parte superiore della carena.
Il cuore è un tre cilindri raffreddato a liquido con distribuzione doppio albero a camme in testa e misure di alesaggio e corsa 70 x 60,6 mm, per il quale vengono dichiarate una potenza di 70 kW (95 CV) a 11.500 giri/minuto e una coppia di 74,4 Nm a 8500 giri/minuto. Sono previste due modalità di guida, Eco e Sport, c’è la frizione anti saltellamento e il cambio a sei marce è dotato di quickshifter monodirezionale, cioè solo per aumentare il rapporto.
Il motore 3 cilindri è tutto made in Zontes, nessuna "scopiazzatura"
Il telaio a doppia trave impiega il motore come elemento stressato ed è in alluminio pressofuso, così come il forcellone a due bracci. Sospensioni e freni sono all’insegna del Tricolore: forcella e ammortizzatore Marzocchi, completamente regolabili, l’impianto frenante Brembo è costituito da due dischi di 300 mm à con pinze a quattro pistoncini all’anteriore e uno di 240 mm à al posteriore, controllati da ABS a doppio canale.
Il telaio in alluminio utilizza il motore come parte stressata della ciclistica
Pesa 196 kg in ordine di marcia la Zontes 703 RR, compresi i 16 litri di benzina contenuti nel serbatoio. ha un interasse di 1450 mm ed è lunga 2065 mm, larga 745 mm e alta 145 mm; la sella è a 820 mm da terra.
à una moto che nasce all’insegna della semplicità , con soluzioni tradizionali, ma è dotata del controllo di trazione e non mancano cose come il sistema l'accensione con telecomando keyless che sblocca la moto e il tappo del serbatoio da 1,5 metri di distanza e la blocca quando ci si allontana di più. Il cruscotto è costituito da uno schermo TFT LCD IPS a colori con quattro interfacce grafiche e luminosità adattiva, può venire collegato Bluetooth e tra le varie funzioni ha anche il controllo della pressione pneumatici.
Anche il prezzo è davvero interessante: 8.990 euro franco consessionario.
Con un emendamento al decreto Infrastrutture arriva l’ennesimo rincaro: dal 1° agosto aumentano i pedaggi per tutti, moto comprese. Dal Ministro però arriva una nota ufficiale in cui si chiede di ritirare il decreto, che per il momento resta sul tavolo…
Dal 1° agosto scatterà un nuovo aumento dei pedaggi autostradali. La novità è contenuta in un emendamento al decreto Infrastrutture, appena depositato alla Camera e destinato a entrare in vigore subito dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, prevista entro fine luglio. La misura prevede un contributo aggiuntivo a carico delle concessionarie, pari a 0,001 euro al chilometro, che si applicherà a tutte le classi di veicoli. In pratica, ogni 1.000 km percorsi si pagherà 1 euro in più. Una cifra apparentemente contenuta, ma che diventa significativa per chi viaggia spesso o si mette in strada per le vacanze estive. A stimare l’impatto complessivo è la Ragioneria generale dello Stato, che parla di 37 milioni di euro in più a carico degli automobilisti nel 2025.
Ovviamente, non si tratta di un intervento una tantum: la norma stabilisce che questo nuovo importo verrĂ aggiornato ogni due anni, in base agli indici ISTAT di inflazione, con apposito decreto del Ministero delle Infrastrutture. Un rincaro, quindi, destinato a crescere nel tempo.
Secondo la relazione che accompagna l’emendamento, il nuovo gettito servirà a coprire il “fabbisogno incrementale necessario ad Anas”, legato alla recente ridefinizione della rete in gestione e all’aumento dei costi dell’illuminazione pubblica.
Manca però qualsiasi riferimento diretto alla manutenzione delle autostrade o a investimenti per la sicurezza stradale: le finalità restano generiche e, come al solito, poco trasparenti.
Le reazioni politiche non si sono fatte attendere. Dura l’opposizione, che attacca il governo per aver introdotto un rincaro proprio mentre milioni di italiani si preparano a partire. Ma anche all’interno della stessa maggioranza non sono mancate le tensioni, tanto che, nel giro di poche ore, è arrivata una nota del Ministero delle Infrastrutture che chiede di ritirare l’emendamento firmato dai relatori di tutte le forze di maggioranza. Una retromarcia che porta la firma dello stesso Matteo Salvini, in un momento in cui le polemiche rischiavano di travolgere l’intero decreto. Staremo a vedere, ma una cosa è certa: al di là delle polemiche, delle correzioni di rotta e dei “giochi di palazzo”, resta un fatto semplice: alla fine, quando si tratta di pagare, ad essere chiamati sono sono sempre gli stessi…
Ducati XDiavel V4 e Triumph Rocket 3 Storm, due modi differenti (e riusciti) di esprimere il concetto di “power cruiser”. Incredibilmente sportiva una, esagerata e con un picco di coppia da trattore l'altra. Vediamo le loro caratteristiche
In un panorama motociclistico sempre più rivolto alla standardizzazione delle piattaforme tecniche, con l’obiettivo di renderle versatili nell’utilizzo e il più vantaggiose possibili nel rapporto costo di produzione/prezzo finale per l’utente, la Triumph Rocket 3 Storm e la Ducati Diavel V4 infrangono le suddette logiche razionali proponendo due differenti ma altrettanto originali e riusciti modi di rappresentazione del concetto di "power cruiser". Entrambe condividono l’idea di esagerazione tecnica ed estetica, ma interpretano la categoria in modi radicalmente diversi. Non si tratta di una sfida diretta tra modelli simili, bensì di un confronto tra filosofie.
Triumph, con il suo poderoso tre cilindri da 2.458 cc – attualmente il più grande motore equipaggiato su una moto di serie – infrange ogni logica razionale su quanto detto poco fa, sviluppando questo incredibile propulsore appositamente per la Rocket 3. Si tratta di un’ode al gigantismo meccanico, con ogni cilindro che - da solo- ha una cubatura superiore a molti motori completi di medie cilindrate. Un primato che sancisce alla Casa di Hinckley il merito di diversificare il mercato moto con prodotti unici ed incredibili come questo propulsore, in grado di erogare valori da urlo: 180 CV e ben 221 Nm di coppia, molta della quale già a regimi bassissimi.
La ciclistica è stata sviluppata ad hoc per questo modello, con telaio in alluminio e motore portante, mentre nel forcellone è annegata la trasmissione a cardano. 2.365 mm la lunghezza complessiva della moto, con un interasse di 1.677 mm per garantire la corretta stabilità e un peso di 320 kg in ordine di marcia. Seppur più agile e maneggevole di quel che le sue dimensioni facciano intuire, nella guida sportiva il limite emerge dalle pedane che strisciano rapidamente a terra e dagli pneumatici di sezione importante: 150 davanti e 240 dietro. Tuttavia, la presenza del traction control e dell’ABS sensibili all’angolo di piega e di un impianto frenante con pinze radiali Stylema all’avantreno rendono la Rocket sempre sicura anche se si porta al limite.
L’erogazione del motore è semplicemente uno spettacolo: Prima, seconda, terza... il tre cilindri inglese spinge come un dannato. Nei rapporti più alti il motore non manca certo di verve, e può contare su un’erogazione sempre molto lineare fin da giri bassissimi. Per fare un esempio, in sesta marcia a poco più di 1.500 giri/min si può riprendere il gas in mano senza avvertire alcun sussulto.
Dal punto di vista del comfort, l’inglese si comporta da vera cruiser: posizione di guida rilassata, sella ampia con supporto lombare, sospensioni Showa regolabili orientate più al confort che alla sportività . Tra la dotazione di serie il display regolabile nell'inclinazione, la connessione allo smartphone, sella e manopole riscaldabili. Le finiture sono curatissime in ogni dettaglio, con soluzioni particolari come le pedane passeggero a scomparsa e il sistema di trasmissione a cardano che contribuisce a rendere unico il carattere di questa moto. Prezzo: 26.490 euro f.c.
All’apparenza può sembrare una cruiser, ma la XDiavel V4 si inserisce in una categoria a sé. Spinta dal motore V4 Granturismo di 1.158 cc condiviso con la globetrotter Multistrada V4, eroga 168 CV di potenza massima e 126 Nm di coppia, con una risposta pronta e regolare ai bassi, che si fa rabbiosa oltre i 6.000 giri. Il carattere sportivo del motore è però tenuto a bada da una ciclistica che ne asseconda questa indole, con sospensioni pluriregolabili che limitano al minimo i trasferimenti di carico senza incidere eccessivamente sul confort di guida laddove l’asfalto non è perfetto. Anche lei utilizza un telaio in alluminio, più precisamente un monoscocca, abbinato ad un forcellone monobraccio con trasmissione finale a catena.
Con un peso di 229 kg in ordine di marcia senza il pieno e un’impostazione di guida piuttosto confortevole, la XDiavel è sorprendentemente agile. Il pneumatico anteriore da 120, abbinato al posteriore da 240, permette ingressi in curva rapidi e precisi, con una più che buona manovrabilità anche nello stretto. Il cambio elettronico bidirezionale funziona egregiamente e permette di sfruttare a fondo tutta la potenza dell’ottimo V4, con cambiate che avvengono anche senza chiudere il gas.
Completissima l’elettronica, dove troviamo quattro Riding Mode, tre Power Mode, Traction Control e ABS entrambi con funzione cornering, Wheelie Control, Power Launch, cambio elettronico bidirezionale e il cruise control. Di serie la connessione allo smartphone per la navigazione, mentre sella e manopole riscaldabili sono optional. Frena forte anche lei, grazie ad una coppia di pinze radiali Brembo Stylema che agiscono su dischi di 330 mm di diametro. Prezzo: 28.990 euro f.c.
Presentata nel 1975, fu accolta come la sportiva che avrebbe rivoluzionato il segmento delle “mezzo litro”. Invece arrivò in ritardo, era troppo cara, pesante e difficile da guidare: certamente una moto raffinata anche se arrivata nel momento sbagliato...
Nel panorama motociclistico italiano degli anni Settanta, la Laverda 500 era destinata a rappresentare un punto di svolta. Annunciata con entusiasmo e aspettative altissime, venne presentata ufficialmente al Salone di Milano del 1975. Ma, come alle volte accade, tra le promesse e la realtà si inseriscono tempi lunghi, problemi tecnici e un mercato che già allora correva veloce. Per metterla su strada si dovette attendere fino al 1977: due anni di ritardo, tanti bastoni tra le ruote e un destino che, almeno nella teoria, sembrava più fortunato di quanto invece si dimostrò essere nella pratica. Ecco la sua storia…
Un articolo dell’epoca apparso su Motociclismo nell’agosto del 1975 la descriveva così: “Una bicilindrica bialbero a quattro valvole con accensione elettronica, avviamento elettrico, cambio a sei marce, tre freni a disco e ruote in lega leggera.” La Laverda sfoggiava una linea affilata, dimensioni compatte e una dotazione tecnica da moto di categoria superiore. A detta della Casa, alcuni prototipi avevano già superato i 100.000 km di test su strada. Purtroppo però, i tanti problemi tecnici riscontrati in fase di sviluppo ed i ritardi nell’allestimento della linea di produzione fecero slittare di diversi mesi il debutto commerciale e, ciò che nel 1975 appariva rivoluzionario, solo due anni dopo rischiava già di sembrare datato.
Eppure, una volta messa in moto, la Laverda 500 si faceva rispettare. Aveva una linea pulita, sportiva ed elegante insieme, e una qualità costruttiva che si notava al primo sguardo. Le finiture non erano perfette, ma più che sufficienti per restituire l’impressione di una moto solida, ben costruita. Sotto la sella c’era un motore raffinato, con soluzioni tecniche riservate fino ad allora a moto di cilindrata superiore: due alberi a camme in testa, quattro valvole per cilindro, accensione elettronica e addirittura sei marce. Anche i freni erano all’avanguardia: tre dischi che garantivano un’ottima frenata, ben supportata dalle sospensioni Marzocchi, precise e rigide quanto basta per una guida sportiva. La tenuta di strada era eccellente, ma la posizione in sella – con manubrio alto e pedane avanzate – mal si conciliava con la guida aggressiva.
Durante la prova pubblicata da Motociclismo nel 1977, la 500 dimostrò un ottimo spunto, una buona velocità e una stabilità granitica. Il motore, pur non potentissimo (circa 42 CV a 8.000 giri, mai ufficialmente dichiarati), spingeva bene, tanto da raggiungere e superare rapidamente il limitatore anche in posizione eretta, complice una rapportatura del cambio particolarmente corta. Il problema principale erano le vibrazioni, molto avvertibili attorno ai 6.000 giri, e una certa pigrizia ai bassi regimi. Difetti che vennero affrontati -ed in parte risolti - un anno dopo, con l’introduzione di un contralbero di bilanciamento azionato da un pignone sull’albero motore. Altro contro era il peso: 195 kg a secco, decisamente tanti per una 500. Anche se ben distribuito, lasciava addosso la sensazione di avere tra le gambe una moto “grossa”, quasi da turismo più che da sportiva.
Anche sul piano della manutenzione, la Laverda 500 non era una moto per tutti. Regolare il gioco valvole, ad esempio, richiedeva smontaggi complessi: via il serbatoio, catena di distribuzione, alberi a camme e infine le punterie a bicchiere. Un lavoro lungo e costoso che, spesso, veniva trascurato. Il risultato? Cedimenti meccanici e reputazione rovinata.
La Laverda 500 era spinta da un bicilindrico parallelo fronte marcia di 497 cm3, quattro tempi, raffreddato ad aria, con distribuzione bialbero e quattro valvole per cilindro. L’alimentazione era affidata a due carburatori e l’accensione era elettronica. Il motore erogava una potenza stimata di circa 42 CV a 8.000 giri/min, con una curva di erogazione che prediligeva i medi e alti regimi. La trasmissione era a catena, la frizione a comando meccanico, mentre il cambio era a sei rapporti dalla spaziatura ravvicinata. Dal 1978 fu introdotto un contralbero di bilanciamento collegato all’albero motore per ridurre le vibrazioni.
Il telaio della 500 era un doppia culla in acciaio, rigido e ben dimensionato, pensato per garantire precisione e solidità anche alle alte velocità . Le sospensioni erano fornite dalla Marzocchi: all’anteriore una forcella telescopica, al posteriore un doppio ammortizzatore regolabile su forcellone oscillante. Il reparto frenante prevedeva tre dischi, due all’anteriore e uno al posteriore. Le ruote erano in lega leggera a cinque razze, con pneumatici da 18 pollici. Il peso a secco era pari a 195 kg.
Dal punto di vista estetico, la Laverda 500 sfoggiava una linea filante e compatta, con serbatoio affusolato, codino corto e sella monoposto rialzata, in pieno stile anni Settanta. Il cupolino era ridotto all’essenziale e il manubrio alto, impostazione che spesso veniva modificata in aftermarket per migliorare la posizione di guida. Le verniciature erano semplici ma eleganti, con tonalità brillanti come l’arancione tipico della Casa. Completavano il quadro il cruscotto con doppio strumento analogico (contagiri e tachimetro) e piccoli indicatori di servizio sul ponte centrale.
In una prova comparativa pubblicata da Motociclismo, la Laverda 500 fu messa a confronto con modelli dell’epoca come Benelli, Ducati, Honda, Suzuki e Yamaha. Più cara della CB Four (e seconda solo alla Benelli 500 LS), riusciva comunque a distinguersi per il miglior tempo sui 400 metri grazie al cambio corto e al peso contenuto. Sul fronte velocità massima, però, si fermava a 170,2 km/h, superando solo la Honda CB Twin (162,4 km/h) e l’enduro Yamaha XT (144,4 km/h). Il consumo, infine, risultava il peggiore della categoria.
Nel tentativo di aggirare i limiti imposti dalla legge italiana – che vietava ai diciottenni di guidare moto oltre i 350 cm3 – e di contrastare l’effetto della nuova IVA al 35%, a Breganze decisero di realizzare una versione ridotta: la Laverda 350. Derivata direttamente dalla sorella maggiore, con alesaggio ridotto da 72 a 60 mm, adottava un contralbero di bilanciamento, valvole più piccole e un’erogazione più dolce. Le prestazioni erano allineate alla categoria, con una velocità massima di 154,8 km/h, ma il prezzo – ben 2.277.000 lire – rimaneva fuori mercato, soprattutto se confrontato con Ducati, Morini o Guzzi.
Nel 1978, la Laverda 500 diede vita a un Campionato monomarca promosso dalla Federazione Motociclistica Italiana, riservato a piloti giovani e senza piazzamenti di rilievo precedenti che prevedeva sei gare su circuiti prestigiosi come Misano, Imola, Pesaro e Mugello. La base era la 500 di serie, a cui venne dedicato un modello speciale chiamato Formula Laverda, preparato per le corse con poche modifiche estetiche e meccaniche. La moto, più leggera e potenziata, dimostrò subito un grande potenziale, regalando prestazioni da cilindrate superiori, con circa 60 CV e punte vicine ai 200 km/h. La Formula si distingueva dalla versione stradale anche per l’adozione di una monoscocca in vetroresina, che alleggeriva la moto da 175 a 158 kg, e per il manubrio a due pezzi e le pedane arretrate, che favorivano una guida sportiva. Gli scarichi erano più liberi e privi di compensatori, mentre i carburatori, elasticamente montati, permettevano una regolazione flessibile del getto massimo. Dal punto di vista meccanico, il motore venne aggiornato con pistoni più leggeri, alberi a camme dal profilo più spinto, e soprattutto l’introduzione di un albero controrotante per ridurre le vibrazioni.
Nel 1979, al Salone di Milano, venne presentata la Laverda 500 Montjuich, versione ancora piĂą sportiva della Formula, con semi carena e sella monoposto, pensata per le gare di durata come la 24 Ore di Barcellona, vinta proprio con la Montjuich.
Oggi la Laverda 500 è ricordata come una moto audace, raffinata, ma vittima di scelte sbagliate e tempi sbagliati. Troppo cara, troppo avanti, troppo difficile da guidare e mantenere. Eppure, per chi la conobbe davvero, rimane una delle sportive italiane più affascinanti e sottovalutate del suo tempo. Un’outsider nata per competere con le grandi, ma rimasta, suo malgrado, una splendida incompiuta.
Vecchio stile ma chiaro il cruscotto della Speed Triple
Gli scarichi alti scaldano e "profumano" la schiena di pilota e passeggero