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Le novità 2026 della Casa giapponese sono parecchie. Dalle Ténéré Word Raid e YZF-R7 agli scooter Nmax 155 con variatore YECVT e TMax in edizione speciale per i suoi 25 anni. Scopriamole nel dettaglio una ad una
La Casa giapponese per il 2026 non presenta novità eclatanti, ma aggiorna e migliora alcuni dei modelli di punta della propria gamma. La versione più estrema della adventure di successo Ténéré si rinnova nella ciclistica e guadagna gli aggiornamenti elettronici introdotti quest’anno, mentre la sportiva media YZF-R7 si rifà nel look ma soprattutto nella sostanza, con un'elettronica da riferimento e una ciclistica più matura. Per il 2026 Yamaha pensa anche ai giovanissimi: reintroduce nella propria gamma l’endurina WR 125, rinnovata da cima a fondo, e propone lo scooter N-Max con motore di 155 cm³ e un’innovativa trasmissione a variatore a controllo elettronico. Il pacchetto di novità si conclude con uno sguardo alla storia del brand: la roadster XSR900GP si veste con i colori del Campione Kenny Roberts, la R7 viene proposta anche in livrea bianco/rosso, i colori iconici delle sportive di Iwata, e il re dei maxiscooter Tmax celebra i suoi 25 anni con un allestimento sviluppato ad hoc.
La massima espressione della famiglia Ténéré introduce una serie di aggiornamenti tecnici mirati a migliorare la guidabilità , il comfort e la sicurezza. Il motore CP2 di 689 cm³ sfrutta nuovi condotti di aspirazione e corpi farfallati ride-by-wire, che hanno permesso di introdurre due mappe di erogazione. Arriva anche l’IMU a 6 assi ed ora controllo di trazione, Slide Control System e ABS hanno funzione cornering. Lato ciclistico l’impianto frenante sfrutta pinze Brembo e nuovi tubi freno in treccia, mentre le sospensioni fanno un upgrade grazie a unità KYB completamente regolabili. L’escursione ruota cresce fino a 230 mm all’anteriore e 220 mm al posteriore, e l’altezza da terra sale a 255 mm. Tutte le caratteristiche tecniche le trovate nel nostro articolo di presentazione.
Yamaha riporta a listino la piccola WR 125, una dual sport pensata per essere a suo agio sia su asfalto sia in fuoristrada. Completamente rinnovata, è spinta da un motore monocilindrico a quattro tempi con una potenza massima di 15 CV (ok patente A1 o B) con fasatura variabile delle camme lato aspirazione e 11 Nm di coppia massima. Il telaio è a doppia culla in acciaio, sostenuto da sospensioni a lunga escursione, con forcella KYB a steli tradizionali di 41 mm di diametro e mono posteriore con leveraggio Monocross (qui vi spieghiamo che cos’è e a cosa serve). I cerchi sono a raggi di 21 e 18 pollici, con pneumatici semitassellati, mentre l’impianto frenante è dotato di ABS. Il design è moderno, con linee tese, cupolino compatto e doppi fari a LED. Tutte le caratteristiche potete leggerle qui.
Non si tratta di un piccolo restyling ma di un vero e proprio aggiornamento; difatti la sportiva media R7 cambia sotto numerosi aspetti. L’estetica si fa più moderna e affilata, le carene sono più snelle e insieme al frontale hanno un’aerodinamica ottimizzata per ridurre la resistenza all’aria. Il gruppo ottico vede un nuovo proiettore centrale, mentre gli indicatori di direzione sono integrati negli specchi retrovisori. Il motore CP2 di 689 cm³ e 73,4 CV beneficia ora di corpi farfallati ride-by-wire e di cinque mappe di erogazione.
Debutta poi la piattaforma inerziale IMU a 6 assi, derivata da quella della R1, che consente il funzionamento coordinato dei sistemi di assistenza come controllo di trazione (TCS), controllo dello slittamento (SCS), controllo dell’impennata (LIF), Brake Control (BC) e gestione del freno motore (EBM). Il cambio elettronico è stato affinato, mentre lato ciclistico ci sono novità sostanziali: il telaio in acciaio presenta una rigidità torsionale e flessionale migliorata, mentre il forcellone è stato riprogettato ed è nuova la piastra di sterzo. Qui trovate il nostro articolo dedicato.
La XSR900 GP si tinge di giallo per onorare le YZR500 degli anni d’oro della classe regina e uno dei suoi piloti di punta: Kenny Roberts. Viene confermato il pacchetto tecnico già visto sul modello attuale, con motore tre cilindri di 890 cm³ e 119 CV, abbracciato da un telaio Deltabox in alluminio, con sospensioni regolabili ed elettronica derivata dalle sportive di casa. Il design, volutamente rétro, integra una carenatura frontale in stile anni 80, senza rinunciare a funzionalità e contenuti attuali.
Torna sul mercato lo scooter Nmax con motore di 155 cm³ e 15 CV di potenza massima, dotato di trasmissione YECVT. Non solo un semplice variatore, bensì un vero e proprio cambio a marce sequenziali. Il motore resta collegato al retrotreno tramite variatore e cinghia dentata, ma la novità è un motore elettrico che agisce sul variatore. È dotato di due mappature (Sport e Town) e offre la possibilità , se desiderato, di trasformarsi in un cambio sequenziale creando dei rapporti fissi che possono essere selezionati dai comandi al manubrio. Qui vi spieghiamo meglio il funzionamento di questa tecnologia.
Per il resto, lo scooter mantiene le dimensioni dell’ottavo di litro, con altezza della sella di soli 77 cm, ruote da 13 pollici e un peso dichiarato di 135 kg in ordine di marcia. I gruppi ottici sono full-LED e il display LCD di 4 pollici può essere connesso allo smartphone.
Modello che ha di fatto inaugurato il segmento dei maxiscooter sportivi, lo Yamaha Tmax raggiunge il primo quarto di secolo e, per celebrare la storia longeva di questo iconico modello, la Casa di Iwata ha introdotto una versione celebrativa che sarà disponibile esclusivamente per l'anno 2026.
La base tecnica resta invariata, ma il TMax 25th Anniversary si distingue per una personalizzazione estetica che richiama le prime serie del Tmax, a partire dalla livrea. Il colore dominante è il Dark Gray Metallic opaco, abbinato ai pannelli laterali in Light Gray Metallic opaco. Arrivano poi tante componenti dedicate come la sella rossa con logo dell'anniversario e finitura speciale, il paramotore anodizzato e i cerchi in nero opaco.
Daniel Sanders (KTM) rimane il favorito, ma Honda schiera uno squadrone capace di puntare al bersaglio grosso. L'Italia schiera i propri "magnifici sette", che sperano di ritagliarsi un momento di gloria
Con oggi siamo entrati nell'ultimo mese che ci separa dalla Dakar 2026, la 48esima nella storia del più importante rally del pianeta, la settima in Arabia Saudita. Tutto è pronto, con i mezzi in viaggio verso il Medio Oriente: dal 3 gennaio, con il prologo di Yanbu, si apriranno le danze.
La conoscenza profonda del territorio in passato non ha evitato ai partecipanti di vivere esperienze difficili in termini di logistica e scelta del percorso, talvolta funestato da un maltempo difficilmente prevedibile. Con l'obiettivo di rendere meno massacrante la gara e contenere i costi, quest'anno le tappe a margherita saranno ben quattro e tanto la partenza quanto l'arrivo andranno in scena a Yanbu, sulle coste del Mar Rosso.
Un anello di 8.000 chilometri, di cui 4.900 a cronometro, farà da teatro a quella che lo stesso Casterà ha definito “una delle edizioni più complete e bilanciate di sempreâ€. 325 veicoli si schiereranno al via il 3 gennaio prossimo e torneranno alla partenza il 17, dopo avere attraversato l’intero Paese, con l'eccezione quest'anno dell'Empty Quarter. 118 saranno le moto e 207 le vetture, suddivise nelle varie categorie FIA (72 Ultimate, 37 Challenger, 43 SSV, 8 Stock e 47 camion). A questi si aggiungono 97 veicoli iscritti nella Dakar Classic - 74 auto e 23 camion- pronti a rivivere la leggenda con un tracciato record di 7.348 chilometri.
Come accennato sopra, il percorso 2026 non si addentrerà nello sconfinato deserto dell’Empty Quarter, teatro di tanti colpi di scena nelle precedenti edizioni. La sabbia però non mancherà . “Quest’anno abbiamo voluto ottimizzare l’esperienza acquisita, senza stravolgere la corsa - ha spiegato il direttoe David Casterà . Non mancheranno le sfide. Tra le novità , le due tappe marathon, un ritorno alla corsa delle origini quando i piloti, affrontavano le insidie del deserto senza i team di assistenza come li intendiamo oggi. Non solo, i percorsi separati tra auto e moto che complicano tantissimo il lavoro di stesura dei road book, renderanno la gara delle auto ancora più interessante e il rally in generale più sicuroâ€.
Tra le moto, KTM ha nella Dakar il suo rifugio, un luogo sportivo dove le angosce economiche sembrano arrivare quasi completamente smorzate. L’australiano Daniel Sanders parte da favorito: dopo avere conquistato lo scorso gennaio la sua prima Dakar, si è aggiudicato anche il titolo di campione del mondo rally-raid, per quel che può valere. Insieme a lui Luciano Benavides ed Edgar Canet, che l'anno scorso ha mostrato a tutti il proprio talento.
Honda però ha tutte le carte per tornare protagonista, con una formazione a quattro punte di alto rango. Toscha Schareina ha vinto il rally del Marocco, Ricky Brabec non ha perso velocità e Adrien Van Beveren ha dalla sua parte l'esperienza, così come Skyler Howes. Non si può poi più sottovalutare Hero Motorsports con Ross Branch, secondo nel 2024, Ignacio Cornejo e il giovane talento Tobias Ebster. Tra le squadre ufficiali iscritte non mancherà Sherco.
La Dakar vedrà anche il ritorno di Mr Dakar, Stephane Peterhansel, sul nuovissimo Land Rover Defender, al debutto nella categoria. “Non sarà facile, dobbiamo restare modesti, ma partiamo con il desiderio di fare il miglior risultato possibileâ€.
Non mancheranno i nostri piloti, sempre pronti a dare battaglia e a tentare di ritagliarsi un posto al sole. Paolo Lucci sarà al via con RSMoto, Tommaso Montanari con Solarys Racing, Cesare Zacchetti ancora una volta sarà il portacolori numero uno di Kove Italia, affiancato dalla giovane promessa Andrea Gava. Tiziano Internò parteciperà con un progetto del tutto particolare: correrà nella Malle Moto, rinunciando addirittura alle casse con il materiale di ricambio per portare con sé tutto il necessario. Tra gli altri italiani in gara anche Manuel Lucchese e Mattia Riva. A tutti loro va un grande in bocca al lupo, perché la Dakar rimane sempre la sfida più estrema da affrontare.
Le moto vintage di media cilindrata sono leggere, facili da guidare e capaci di prestazioni brillanti. Ecco cinque modelli di qualitÃ
Fascino vagamente retrò ma contenuti tecnici moderni: è questa la ricetta di successo delle modern classic. Oggi analizziamo le medie “entry levelâ€, cinque modelli di moto con cilindrate comprese fra i 600 e gli 800 cm3, potenze comprese fra i 60 e i 95 CV e tutte depotenziabili per la patente A2. Moto adatte anche a chi ha poca esperienza, grazie a pesi e dimensioni mai eccessivi, e con prezzi attorno ai 9.000 euro.
Fra le cinque è l’unica ad avere un motore a quattro cilindri in linea, una potenza superiore agli 80 CV e una triangolazione più vicina a una nuda sportiva. Tuttavia, pur fuori dal coro, la CB650R interpreta il concetto di modern classic in modo originale e, diremmo, ben riuscito. Chiave del design è il faro anteriore di forma tonda, che richiama lo stile Neo Sport Café visto per la prima volta con la CB1000R, con linee muscolose e sovrastrutture ridotte all’osso, con l’obiettivo di esaltare il motore. Il quattro-in-linea di 649 cc offre 95 CV di potenza massima a 12.000 giri/min. ed è abbinato all’innovativo cambio con frizione elettronica E-Clutch. Lato ciclistica troviamo un telaio in acciaio con struttura a diamante, forcella Showa SFF-BP a steli rovesciati di 41 mm e monoammortizzatore regolabile nel precarico su 10 posizioni. L’impianto frenante sfoggia all’avantreno due dischi flottanti di 310 mm di diametro con pinze radiali Nissin a quattro pistoncini, al retrotreno un disco di 240 mm. I cerchi sono entrambi da 17†mentre interasse, altezza sella e peso in ordine di marcia valgono rispettivamente 1.450 mm, 810 mm e 207 kg.
Il motore offre un’erogazione fluida e lineare lungo tutto l’arco del contagiri, riprendendo senza sussulti anche a regimi molto bassi, con una spinta consistente ai medi regimi. Nel misto stretto eccelle per precisione e reattività , svelta nei cambi di direzione mostra una buona precisione dell’avantreno, al netto di una forcella non particolarmente sostenuta per la guida sportiva. Efficace la frenata, garantisce decelerazioni in spazi ridotti con un comando non eccessivamente aggressivo.
Prezzo: 8.790 euro - 9.190 euro la versione con E-Clutch
La Z650RS è la più classica fra le cinque protagoniste per quanto riguarda le linee, ma ad esse unisce la moderna piattaforma tecnica della cugina nuda Z650: motore bicilindrico parallelo di 649 cc e telaio a traliccio in acciaio. La potenza dichiarata è di 68 CV a 8.000 giri/min, con un picco di coppia di 64 Nm a 7.700 giri/min. All’avantreno troviamo una forcella a steli tradizionali di 41 mm di diametro e una coppia di dischi semiflottanti di 300 mm di diametro; al retrotreno il forcellone bibraccio attiva un monoammortizzatore regolabile nel precarico, mentre c’è un disco singolo di 220 mm.
La posizione di guida è naturale e permette a chiunque di prendere confidenza in fretta con la moto, grazie anche al suo peso di soli 175 kg in ordine di marcia. Il bicilindrico è poi estremamente fluido, la risposta del gas è dolce e sfodera una bella dose di coppia proprio dove serve: tra i 4.500 e gli 8.000 giri, con una “schiena†perfetta per strade medio-veloci, dove emerge anche l’ottima ciclistica della Z650RS, sincera ed efficace, che non ama però comandi troppo bruschi, dato l’assetto più votato a filtrare le sconnessioni della strada che alla guida sportiva. Bene la frenata, sufficientemente potente e dai comandi modulabili.
Prezzo: in promozione a 7.190 euro.
La Seiemmezzo riprende le linee della Morini 3 e 1/2 degli anni '70, reinterpretandone però lo stile in chiave moderna. Faro tondo con luci full-LED, serbatoio tondeggiante, sella piatta con logo in rilievo, fianchetti con impresso il logo. Sotto al vestito ritroviamo il propulsore bicilindrico parallelo frontemarcia di 649 cc equipaggiato sulla crossover X-Cape, accreditato di 60 CV di potenza massima a 8.250 giri/min. Abbinate al telaio a traliccio in acciaio troviamo forcella con steli rovesciati di 41 mm e monoammortizzatore, entrambi firmati Kayaba e regolabili nell’idraulica e nel precarico. La frenata all’avantreno vede un doppio disco da 298 mm e pinze Brembo, che offrono però poco mordente per la guida sportiva. In sella lo spazio non manca, e grazie alla seduta collocata a 81 cm toccare terra non è un problema.
Piace l’erogazione del motore, con una risposta molto pronta ai bassi e una buona progressione ai medi. L’allungo invece non è il suo forte. La Seiemmezzo è divertente da guidare fra le curve, offre un setting piuttosto sostenuto e il cerchio da 18†offre una buona stabilità in percorrenza, pur perdendo qualcosa in termini di reattività nei cambi di direzione e in ingresso curva. Rapido e abbastanza preciso negli innesti il cambio, comandato da una frizione morbida da azionare e con uno stacco progressivo.
Prezzo: 6.090 euro f.c.

La Trident 660, grazie al suo tre cilindri in linea, si pone a metà strada fra la quadricilindrica Honda e le bicilindriche Kawasaki, Morini e Yamaha. Propulsore che deriva, seppur con numerose e opportune modifiche, da quello della cugina nuda Street Triple S e che si apprezza per la sua elasticità ai bassi, per l’ottima progressione ai medi e per il buon carattere agli alti. La cilindrata è di 660 cc e raggiunge la potenza massima di 81 CV a 10.250 giri/min., con un picco di coppia di 64 Nm a 6.250 giri/min. Due le mappe motore. Il telaio è un’unità perimetrale in acciaio, e vede abbinate una forcella Showa Big Piston a steli rovesciati di 41 mm; al retrotreno, il forcellone in acciaio attiva un monoammortizzatore regolabile nel precarico. Due dischi di 320 mm e un disco singolo di 255 mm compongono l’impianto frenante, di serie l’ABS cornering.
La posizione di guida della Trident 660 è vagamente d’attacco: il busto è caricato sul manubrio largo e le pedane sono leggermente arretrate. Una triangolazione che però non penalizza eccessivamente il comfort, mentre l’abitabilità è buona anche per chi si aggira attorno ai 180 cm di statura. Il cambio è preciso e rapido negli innesti, e il comando della frizione non affatica nemmeno nell’utilizzo intensivo in città . Fra le curve diverte anche quando si alza il ritmo: è facile da guidare, ben bilanciata e prevedibile in ogni situazione. Le sospensioni offrono però un setting abbastanza sostenuto, più orientato alla guida sportiva che all’utilizzo quotidiano in città . A soffrire di più è il mono posteriore, che fatica a filtrare le sollecitazioni quando si transita su buche o pavé. I freni non sono particolarmente aggressivi, ma più che adatti a frenare la Trident in spazi ragionevoli, anche quando si guida di buon passo.
Prezzo: 8.395 euro f.c.
Yamaha è stata tra le prime case a vedere nella personalizzazione delle moto di serie una reale tendenza del mercato. Tra i modelli più apprezzati c’è la XSR700, caratterizzata da uno stile retrò ma, così come le concorrenti sopracitate, dotata di una meccanica moderna. Cuore pulsante è l’apprezzato bicilindrico frontemarcia di 689 cc, la stessa unità equipaggiata sulla naked MT-07, sulla crossover Tracer 7 e sulla adventure Ténéré 700. Un propulsore accreditato di 73,4 CV a 8.750 giri/min., fluido e vigoroso ai bassi e medi regimi. Agli alti perde un po’ di verve, ma è inutile tirarlo fino al collo: meglio sfruttarlo ai medi, dove mostra una bella schiena. A livello ciclistico troviamo un telaio a diamante in acciaio, al quale sono abbinate una forcella a steli tradizionali e un monoammortizzatore regolabile nel precarico. All’avantreno troviamo una coppia di dischi di 298 mm di diametro, sui quali lavorano pinze assiali a due pistoncini. 188 i kg in ordine di marcia.

In sella si sta comodi grazie al manubrio largo e rialzato (solo chi supera il metro e 85 ha le gambe un po’ troppo piegate), mentre la corretta distribuzione dei pesi rende l’avantreno leggero e reattivo. Nessun grosso problema per chi è corto di gamba: la sella si trova a 83,5 cm da terra, non bassissima, ma la snellezza aiuta a poggiare entrambi i piedi. Si apprezza l’assetto morbido delle sospensioni, in grado di filtrare bene le sollecitazioni trasmesse dai fondi irregolari, senza però essere cedevole. I freni, in particolare all’anteriore, sono modulabili anche se poco grintosi: per fermarsi in poco spazio bisogna “strizzarliâ€.
Prezzo: 8.499 euro f.c.
Avete tanti, ma tanti soldi da spendere? Ecco un viaggio nell'estremo del lusso su due ruote, abbiamo selezionato i dieci modelli più esclusivi e costosi oggi disponibili sul mercato
Nel panorama motociclistico globale, il segmento delle moto ultra-costose continua a esercitare un fascino particolare, sebbene si rivolga solo a una ristretta cerchia di potenziali compratori, e cioè collezionisti facoltosi e appassionati disposti a investire cifre a sei zeri per modelli unici, spesso prodotti in serie limitate.
Visto che sognare non costa nulla eccovi la classifica delle dieci moto più care attualmente acquistabili, ordinate per prezzo crescente. Si tratta esclusivamente di modelli nuovi, regolarmente commercializzati e non di esemplari da collezione, da gara o personalizzati su commissione. Buona lettura.
Basata sul modello Road Glide, la CVO ST è la versione più ricca e performante proposta dalla casa americana per il 2025. Dotata di un bicilindrico da 1.977 cm³ e 126 CV, si distingue per componentistica racing, freni e sospensioni migliorati, ruote alleggerite e dettagli estetici esclusivi. Ogni anno Harley-Davidson propone nuove versioni CVO, sempre in edizione limitata e con dotazioni particolarmente curate.
La superbike di punta della rinata Norton adotta un motore V4 da 1.199 cm³ con 185 CV, abbinato a una componentistica di pregio come sospensioni Öhlins, cruscotto TFT e una videocamera posteriore. L'estetica ricalca le linee classiche della tradizione britannica, mentre la ciclistica è stata completamente riprogettata rispetto al progetto originario, con l'obiettivo di offrire un prodotto più affidabile e raffinato.
Ancora disponibile in edizione limitata, la H2R rappresenta l'apice tecnologico di Kawasaki: un quattro cilindri sovralimentato da 998 cm³ capace di erogare 310 CV, non omologato per la circolazione su strada. Una moto da pista estrema, interamente carenata in fibra di carbonio, dotata di una ciclistica sviluppata per resistere a velocità superiori ai 300 km/h.
Nata dalla collaborazione tra Ducati e Bentley, questa edizione limitata della Diavel V4 è caratterizzata da una livrea esclusiva, materiali pregiati e finiture ispirate al marchio automobilistico di lusso. Prodotta in 500 esemplari numerati, è stata riservata al mercato britannico e si distingue anche per il colore verde metallizzato ispirato ai modelli Bentley Continental. Le prime consegne sono state effettuate già nel 2024.
Realizzata in Francia (il marchio ora viene prodotto nei pressi di Tolosa), la SS100 sfodera lo storico marchio britannico Brough che produceva moto esclusive negli anni '30 (tra i fans più famosi della casa anche Lawrence d'Arabia). Il V-twin da 997 cm³ eroga 100 CV, ma il suo valore risiede nella costruzione artigianale e nei dettagli estetici che richiamano l'epoca d'oro del motociclismo britannico. Ogni esemplare viene assemblato su richiesta, con ampie possibilità di personalizzazione.
Unisce il telaio a sterzo centrale tipico delle Tesi con il motore sovralimentato della Kawasaki H2. Il quattro cilindri da 998 cm³ sviluppa 242 CV. Si distingue per il design futuristico e la produzione estremamente limitata. Le finiture comprendono componenti in fibra di carbonio e lavorazioni CNC che ne evidenziano la cura artigianale.
Versione da collezione della Panigale V4 S, dedicata ai colori della nazionale italiana. Con 216 CV e una dotazione tecnica da moto da corsa, è limitata a 163 esemplari, ognuno firmato da Francesco Bagnaia. Rispetto al modello standard, presenta impianto frenante racing, componentistica più leggera e una colorazione esclusiva.
Frutto della collaborazione con Brough Superior, questa moto sfoggia un design ispirato alle auto Aston Martin e un motore turbo da 997 cm³ e 180 CV. La produzione è estremamente ridotta e destinata all'uso in pista. I dettagli, come la verniciatura "Photon Lime" e le linee aerodinamiche, ne fanno un oggetto da esposizione oltre che da guida.
Marchio fondato da Keanu Reeves, Arch propone con la 1S un cruiser performante spinto da un V-twin da 2.032 cm³ e 140 CV. La moto è costruita su misura con componentistica premium e telaio misto acciaio/alluminio. Ogni esemplare richiede mesi di lavorazione e viene rifinito secondo le specifiche del cliente.
La moto più costosa della classifica vanta un motore V-twin da 1.966 cm³ con 125 CV, telaio in alluminio ricavato dal pieno e una costruzione totalmente artigianale. Ogni esemplare è realizzato su ordinazione, con un acconto non rimborsabile di oltre 90.000 euro. Con una velocità massima dichiarata superiore ai 250 km/h, la Wraith rappresenta un unicum nel panorama motociclistico mondiale.
Le vecchie naked di media cilindrata sono grintose, adatte anche all'utilizzo quotidiano e ora hanno quotazioni basse. Ecco quali sono le migliori
Fino a una decina di anni fa, le naked giapponesi avevano cilindrate tra i 600 e i 750 cm3 e raffinati motori 4 cilindri presi dalle raffinate sorelle carenate. Sono state un gran successo e sul mercato dell'usato si trovano facilmente e con quotazioni davvero irresistibili. Ecco i modelli migliori su cui puntare.
Nel 2007 la Hornet cambia completamente volto, tanto da far prima a menzionare ciò che resta invariato rispetto al model year precedente: forcella e nome. Per il resto, la CB600F Hornet è stata completamente rivista, a partire dal motore. Resta un quattro in linea, ma è molto più compatto del precedente, è lo stesso della CBR600RR di quell’anno ma è stato adattato ad un utilizzo stradale grazie ad interventi sui condotti di aspirazione, sulla distribuzione e sulle componenti dell’alimentazione, che impiega nuovi iniettori e nuovi corpi farfallati. Il risultato è una potenza massima di 102 CV a 12.000 giri/min., con un picco di coppia di 63,5 Nm a 10.500 giri/min. Un motore lineare ai bassi, esplosivo agli alti e sorprendente per la buona risposta anche ai medi regimi, cosa rara per un 600 quattro cilindri di origine sportiva...
Il telaio in alluminio della “nuova†Hornet 600 mantiene l’architettura a diamante della precedente e lavora con un forcellone bibraccio, anch’esso in alluminio, irrigidito ed allungato. Restando al retrotreno, la funzione ammortizzante è affidata ad un mono Showa regolabile nel precarico, mentre all’avantreno la forcella a steli rovesciati di 41 mm non offre possibilità di regolazioni. Buona la frenata (soprattutto se si tratta della versione con ABS), ma il comando posteriore è un po’ spugnoso. Modelli usati del 2007-2008 con km ragionevoli si possono trovare da circa 3.000 euro.
La Kawasaki Z 750 è stata la prima naked “maggiorata†ad arrivare sul mercato in quegli anni. Invertiva la rotta alla moda dei motori 600 grazie al suo propulsore di 750 cc, anch’esso però con architettura a quattro cilindri in linea. Un vantaggio quello della maggior cubatura che emerge non tanto nella potenza massima (106 CV a 10.750 giri/min) quanto nell’erogazione, più forte e piena anche ai medi, con un picco di coppia di 78 Nm raggiunto al regime di 8.300giri/min. Attorno al motore c’è una ciclistica semplice ma comunque efficace: telaio monotrave tubolare e forcellone bibraccio in acciaio, che aziona un monoammortizzatore pluriregolabile. All’avantreno la forcella ha steli rovesciati di 41mm ed è regolabile nel precarico e in estensione. La Kawasaki in curva è veloce e precisa, ha una posizione di guida d’attacco ma non scomoda, si sta vicini al manubrio, leggermente caricati in avanti. L’impianto frenante è “classicoâ€: doppio disco da 300 mm con pinze a doppio pistoncino e dischi con profilo a margherita, funziona bene ed è ben dosabile. Tra l’usato, si trovano validi esemplari dal 2008 al 2010 con prezzi compresi fra i 3.000 e i 3.500 euro.
Anche Suzuki propone la sua naked media sulla base di un motore a quattro cilindri in linea di 600 cc. Facile da usare in città e divertente per godersi una “sparata†fra le curve, la GSR 600 è stata tra le nude più diffuse del suo segmento. Telaio in alluminio, forcella a steli tradizionali di 43 mm all’avantreno e monoammortizzatore azionato da un forcellone bibraccio in acciaio. 183 kg il peso in ordine di marcia. Tante le qualità di questa moto, prima tra tutte il motore quattro cilindri in linea da 599 cc in grado di raggiungere 98 cv di potenza massima a 12.000 giri/min., con un picco di coppia di 65 Nm a 9.600 giri/min. Anche per questo modello si trovano tanti esemplari in vendita sotto i 3.000 euro.
Ultima fra le Jap -ma non certo per importanza- Yamaha, che con la FZ6 si inserisce nel segmento delle naked di media cilindrata dei primi anni duemila. Si tratta di una nuda muscolosa, che nella versione S2 montava una specifica messa a punto dello straordinario propulsore derivato dall’R6: un quattro cilindri in linea di 600 cc capace di erogare 98 CV a 12.000 giri/min e raggiungere i 63 Nm di coppia a 10.000 giri/min. Un motore fluido lungo tutto l’arco di erogazione, ma che dà il meglio di sé solo agli alti, difatti per farlo rendere al meglio occorre tenerlo sopra i 6.500 giri. Sotto tale regime la potenza arriva in maniera fluida, ben controllabile ma con poca foga. La posizione di guida è comoda, le sospensioni assicurano un buon comfort e le finiture sono ben curate. Molto buona la frenata, i due dischi davanti sono potenti e ben dosabili, quello dietro rallenta senza arrivare a bloccare facilmente la ruota data l’assenza dell’ ABS. La FZ6 è rapida nell’impostare le curve, rispondendo altrettanto velocemente ai comandi del pilota. I prezzi di un buon usato oscillano tra i 2.800 e i 3.500 euro.
Tra le nude medie più versatili troviamo la Triumph Street Triple 675, forte del suo propulsore a tre cilindri in linea in grado di erogare una potenza massima di 106 CV a 11.800 giri/min. e raggiungere i 68 Nm di coppia a 9.750 giri/min. Un motore in grado di spingere bene già dai 4.000 giri/min, senza perdere nulla in allungo, tanto da ricordare un quattro cilindri in linea proprio per la grinta che sa mostrare nella parte alta del contagiri. Per quanto riguarda la ciclistica la Speed offre telaio a doppia trave in alluminio abbinato ad un forcellone monobraccio in acciaio, mentre al comparto sospensioni troviamo una forcella a steli rovesciati di 41 mm e un monoammortizzatore regolabile nel precarico, entrambi firmati Kayaba, dal setting non particolarmente sostenuto, quindi non propriamente adatto alla guida sportiva.
Se si è degli smanettoni, meglio ripiegare sulla versione R, che vanta sospensioni pluriregolabili. Svelta nello scendere in piega e nei cambi di direzione, da usare nel misto la Street è un vero spasso, e grazie ad una posizione di guida non estremizzata risulta confortevole anche in ambito cittadino. Convincono i freni, potenti e ben modulabili, ancor migliori nella versione R dotata di pinze anteriori ad attacco radiale. Leggermente più cara delle altre, si trovano esemplari usati del 2007-2009 a 3.000-4.000 euro.
Il Tmax è da anni il re dei maxiscooter e i modelli più vecchi hanno prezzi ormai per tutte le tasche. Puntate sulla terza serie: è da comprare a occhi chiusi
Yamaha nel 2008 fece debuttare sul mercato la terza versione del Tmax e fu una rivoluzione rispetto alle precedenti.
La ruota anteriore passava a 15 pollici, il motore era Euro 3 e l'impianto frenante era a doppio disco da 267 mm, con ABS optional.
La novità maggiore però era l'ottimo telaio in alluminio (utilizzato tuttora) che permetteva di perdere qualche chilo e rendeva la ciclistica praticamente perfetta. Il tutto sottolineato da una linea completamente rivista che è tuttora piacevole.
Le generazioni passate di Tmax sono costruite con cura, le finiture sono realizzate per durare, le plastiche e le verniciature sono di qualità . Brillanti le prestazioni: il TMax 3° serie accelera forte e arriva quasi a 160 km/h. La tenuta di strada è adeguata, grazie anche al buon telaio e al motore in mezzo alla pedana (invece che vicino alla ruota posteriore come sugli altri scooter): una soluzione che permette di ripartire al meglio il peso. Non è un fuscello (219 kg rilevati) ma in movimento è agile e svelto nell’impostare le curve. Buono anche lo sterzo: in mezzo al traffico si manovra sempre bene.
La frenata è molto buona, ma se trovate un (raro) esemplare con ABS non lasciatevelo scappare!
Cruscotto a lancette con un piccolo display lcd, come andava di moda un tempo....
I costi di gestione sono alti: i tagliandi costano e i consumi sono in linea con le prestazioni, soprattutto sulle versioni a carburatori. Piccolo il vano sottosella. Indispensabile un buon antifurto: il TMax è ricercato dai ladri.
â— Distribuzione
Qualche tenditore di catena ha dato dei problemi.
â— Trasmissione
La cinghia va cambiata ogni 20.000 km e il tagliando è piuttosto salato: mettete in conto circa 400 euro.
â— Raffreddamento
Il radiatore è montato sotto la pedana, in posizione esposta agli urti, soprattutto contro i bordi dei marciapiedi.
Il sottosella non è molto grande, ci sta comunque un casco integrale o 5 bottiglia da 1,5 litri...
Anno - Euro
2011 (E3) - 5.700
2010 (E3) - 5.000
2009 (E3) - 4.500
2008 (E3) - 3.800
È la più longeva tra i modelli Vespa e l’ultima prodotta rispettando le caratteristiche ideate dal progettista Corradino d’Ascanio
A qualcuno sfugge ancora una lacrimuccia nel sentir parlare della Vespa PX, il più longevo tra i modelli dello scooter più famoso del mondo, e l’ultimo prodotto con le caratteristiche originali dell’idea di Corradino d’Ascanio: scocca in lamiera di acciaio, ruote piccole e sospensione anteriore a biellette ci sono anche sulle Vespa moderne ma quella aveva ancora il motore a due tempi, il cambio manuale con il comando a manopola e pure la ruota di scorta.
Quasi quarant’anni di onorato servizio, perché venne presentata al Salone di Milano il 10 ottobre 1977 e la produzione andò avanti fino al 2017, con due interruzioni negli anni dal 1988 al 1994 e dal 2007 al 2010. Ha portato a spasso almeno tre generazioni lasciando un segno nella memoria e nel cuore di nonni, padri e figli, più volte aggiornata ma sostanzialmente sempre uguale a se stessa.
Ma lo sapete che fu realizzata anche una Vespa da guerra? Qui la sua storia.
Il suo arrivo fu un cambiamento forte perché a quei tempi imperavano le versioni 50 Special e Primavera 125 con il telaio “piccolo†mentre la PX riportava alle dimensioni generose delle serie precedenti e segnava un cambiamento forte anche nello styling: il parafango anteriore squadrato, la mascherina sporgente davanti allo scudo (in futuro sarebbe stata chiamata “cravattaâ€) e due voluminosi coperchi laterali asportabili; il motore era nascosto da quello di destra, sotto quello di sinistra ritornava la ruota di scorta.
Restava la soluzione della scocca in lamiera di acciaio da 1,5 mm che fungeva sia da telaio che da carrozzeria ma le sospensioni erano un’accelerazione rispetto al passato: all’anteriore l’irrinunciabile sistema a biellette oscillanti ma con uno schema diverso e soprattutto un migliore assorbimento dei colpi, al posteriore il motore basculante con un ammortizzatore ma l’escursione saliva dai 70 mm del passato a 91 mm. Il Vespone beccheggiava un po’ ma era molto più comodo, l'ampia carrozzeria insieme alla distribuzione "tutto dietro" della masse tipicamente Vespa, portava ad un alleggerimento dell'avantreno e per questo fu necessario anche un passaggio alla galleria del vento di Pninifarina per ridurre il problema. Classico l'impianto freni: a tamburo sia davanti che dietro, il posteriore comandato da un pedale che usciva dalla scocca.
Il motore era monocilindrico a due tempi raffreddato ad aria forzata da una ventola, la distribuzione era controllata da una apertura sulla spalla dell’albero motore e la lubrificazione era a miscela, nella percentuale del 2%. Più avanti sarebbe arrivato il miscelatore automatico, così come l’avviamento elettrico; per il momento c’era solo il lungo pedale del kick starter sul lato destro.
Il motore era un monocilindrico 2 tempi come da tradizione Vespa
Venne lanciata in due versioni: la P125X con accensione a volano magnete e puntine, e la P 200 E dotata di accensione elettronica Ducati (Ducati Elettronica, ormai non più collegata a Ducati Meccanica); quest’ultima sarebbe stata estesa alle altre cilindrate solo nel 1981. Qualche mese più tardi, nel 1978, venne presentata anche la P 150 X.
La P 125 X prima versione aveva un prezzo di 808.630 lire, che oggi sarebbero 417,6 euro ma con un potere di acquisto molto diverso.
Qui invece la storia del Piaggio Ciao.
La sua apparizione fece colpo anche perché al Salone di Milano venne esposta nello stand una versione gigante alta più di 3 metri e pesante più di 700 kg sulla quale sorridevano alcune ragazze in tuta da meccanico; oggi la potete vedere al Museo Piaggio di Pontedera. Ottenne subito un mucchio di consensi e un notevole successo commerciale che nell’arco di tutta la carriera l’ha portata a superare i 3.000.000 di esemplari venduti in tutto il mondo, sebbene il numero preciso non sia mai stato ufficializzato. La PX faceva furore e scatenava la fantasia: Piaggio France ne iscrisse quattro alla Parigi-Dakar – che per la verità non era così dura come sarebbe poi diventata – e quelle di Bernard Tcherniavsky e Marc Simonot riuscirono ad arrivare in fondo.
Debutto "alla grande" per la Vespa PX al salone di Milano del 1977
Nel 1981 venne lanciata anche la PX 80 E spinta da un motore di 79,77 cm³, realizzata esclusivamente per l’esportazione, ma è una versione che non ha lasciato il segno; ben di più la serie Arcobaleno nata nel gennaio 1982: la PX rimase uguale a se stessa ma dietro il marchio del piccolo arcobaleno si celavano diversi interventi meccanici ed estetici: sellone di diverso disegno e più imbottito, pedana centrale più ampia e con la copertura non più in gomma ma in plastica grigio/nera, strumentazione di diverso disegno e con l’indicatore del livello carburante quando prima ci si doveva affidare al rubinetto della riserva; e ancora bordature dello scudo in plastica invece che in alluminio, il paraschizzi posteriore di nuovo disegno, il cassetto del controscudo più grande, nuovo faro posteriore e nuova griglia copriclacson, il freno anteriore era a camma flottante autocentrante ed era stata modificata la sospensione anteriore. Nel 1983 la disponibilità della batteria servizi (come optional) e nel 1984, udite udite, addirittura l’avviamento elettrico per la nuova versione Elestart.
La PX Arcobaleno fu una bella evoluzione
Fu necessario aspettare un solo anno ancora per vedere quella che probabilmente è stata la più spettacolare delle PX, e anche la più cattiva: la 125 T5 Pole Position aveva il cilindro a cinque travasi in alluminio cromato anziché in ghisa, addirittura erano diverse le misure di alesaggio e corsa (55 x 52 mm invece di 52 × 57 mm), l’alettatura era maggiorata, c’erano il carburatore da 24 mm Ø, la marmitta ad espansione, i freni potenziati e arrivava a 12 CV contro i 7,75 della versione standard, velocità massima 105 km/h invece di 97. Cattiva anche da vedere: faro rettangolare, cupolino, posteriore a “coda troncaâ€, spoiler anteriore e strumentazione dotata di contagiri digitale. Il nome era dovuto a un trofeo assegnato dalla Piaggio all’autore della pole position nei Gran Premi di Formula 1, che consisteva proprio in una Vespa. Nelson Piquet ne conquistò nove e firmò una linea di accessori per lo scooter di Pontedera.
Il campione di F1 Nelson Piquet a sinistra in sella a una PX a destra su una delle nove T5 Pole Position che vinse conquistando la partenza al palo dei GP.
Tre anni dopo, nel 1988, la PX venne tolta dai listini italiani per lasciare spazio alla Piaggio Cosa ma fu un buco nell’acqua: al pubblico la nuova arrivata non piacque e nel 1994 la PX, che aveva continuato ad essere commercializzata all’estero, ritornò anche sul mercato nazionale, ora con avviamento elettrico e miscelatore di serie ma con la stessa linea di sempre. Venne mantenuta anche per la serie Classic dell’anno successivo, che però si distingueva per la vistosa colorazione gialla con la sella color senape.
La Cosa doveva sostituire la Vespa, ma fu bocciata dal mercato che chiese a gran voce il ritorno della PX
Diciamo la verità , fra i tanti pregi del “Vespone†non veniva annoverata l’efficacia del freno anteriore e così nel 1998 il vecchio tamburo di 125 mm Ø venne abbandonato per passare a un più efficace disco di 200 mm Ø, mentre il tamburo posteriore passò da 125 a 150 mm Ø; era il modello M09, che venne seguito l’anno successivo dal modello M18 con catalizzatore a due vie per adeguarsi alle normative antinquinamento. La versione di 200 cm³ però non riusciva a restare entro i limiti e uscì di produzione.
Nel 1998 il tamburo anteriore fu sostituito da un freno a disco, qui sopra la versione PX Touring del 2015
Sempre aggiornata ma sempre uguale a se stessa, la PX varcò le soglie del nuovo millennio con un modello prodotto in serie limitata di 2000 pezzi chiamato PX Time 2000, caratterizzato dalla particolare livrea colore azzurro argento con stella azzurro, bauletto in cuoio con logo Piaggio e gli specchietti cromati. Nel 2001 un nuovo piccolo restyling che toccò fanali, strumentazione, frecce e sella, e vide sullo scudo il ritorno del marchio Piaggio a “scudetto†che non veniva più impiegato dal 1967.
Dopo tanti anni e con la concorrenza dei più moderni scooter con trasmissione automatica i numeri delle vendite si erano sensibilmente ridotti, così nel 2007 arrivò la Vespa P 125 X Ultima Serie. Il messaggio era chiaro ma tra il dire e il fare c’è di mezzo… il produttore indiano LML…
La casa indiana sbarcò sul nostro mercato con una PX chiamata Star (qui la nostra prova) e motore due tempi, successivamente rimpiazzato da un 4 tempi e addirittura un’unità con cambio automatico. I dati di vendita furono convincenti e costrinsero Piaggio la Casa di Pontedera tornò sui suoi passi reintroducendo nel 2011 la gloriosa PX (qui la nostra prova). Nel frattempo iniziò anche una lunga disputa legale tra i due produttori.
Da ricordare l'impresa di Marcello DiBrogni e Andrea Revel Nutini, due coraggiosi che nel 2011 in sella ad altrettante PX150 dell’edizione dedicata al 150º Anniversario dell’unità d’Italia preparate da loro stessi parteciparono al Rally dei Faraoni nonostante la difficoltà di guidare un tranquillo scooter in mezzo alle dune di sabbia; arrivarono in fondo e, non contenti, replicarono due anni dopo alla TransAnatolia. L’ultima medaglia al petto di uno scooter che pur non essendo nato per le avventure, di avventure ne ha vissute tante.
La PX al Rally dei Faraoni 2011
Nel 2017 lo stop definitivo: i costi per adeguarsi alla normativa Euro 4 non sarebbero stati giustificati dai numeri di vendita sempre più ridotti. In quello stesso anno chiuse anche la LML per bancarotta. Va detto che circolò anche la voce secondo cui Piaggio stava pensando a una rinascita della PX dotata di un motore 4 tempi, ma non se ne fece nulla. Era la fine di una carriera irripetibile.
Alla fine degli anni ’50, Ducati presentò al mondo la Elite 200, motoleggera in stile gran fondo pensata per chi cercava stile e prestazioni. Il design raffinato, le generose cromature e i tanti dettagli curati ben si sposavano col nome scelto da Borgo Panigale. Peccato solo che le prestazioni non fossero all’altezza
Alla fine del 1959, Ducati decise di arricchire la propria gamma con la Elite 200, una motoleggera pensata per coniugare sportività ed eleganza. Il “contesto storico†in cui fu presentata è importante: sono gli anni in cui le 175 italiane dominano ancora il mercato, con le gare di gran fondo che ancora catturano l’immaginazione degli appassionatila. È qui che la Elite (il nome non fu scelto a caso) si distingueva dalla concorrenza: il suo design era più “raffinatoâ€, con forme eleganti e tondeggianti, per non parlare delle cromature e del bellissimo serbatoio rosso ciliegia metallizzato. La cilindrata inoltre era maggiore, come a promettere maggior potenza e prestazioni ben superiori. Un modello insomma che incarnava lo spirito di un tempo in cui la moto non era più soltanto un mezzo di trasporto, ma anche e forse sopratutto un oggetto di divertimento e status. Tuttavia, come vedremo, questo fascino non si tradusse in vendite eccezionali. A differenza di molte 175 dell’epoca, la Elite 200 non brillava infatti sul piano delle prestazioni reali: i depliant dichiaravano 140 km/h, mentre sul libretto erano riportati 135 km/h con scarico libero, ma diverse 175 con distribuzione ad aste e bilancieri riuscivano a raggiungere velocità ben superiori. Fu un flop? Forse non del tutto ma, certo, le cose andarono diversamente da quanto sperato in Ducati…

Negli anni ’50, Ducati non aveva ancora consolidato una reputazione di affidabilità e durata: i motori tendevano a diventare rumorosi dopo pochi mesi, probabilmente a causa di cuscinetti sottodimensionati. Inoltre, i meccanici dell’epoca, spesso “generalistiâ€, non erano abituati al sofisticato monoalbero Taglioni, raffinato ma complesso da gestire. La Elite 200 non sfuggiva a questi limiti, che ne attenuavano in parte il fascino. Tuttavia, motore e cambio restavano di buon livello: coppia generosa, erogazione regolare, cambio e frizione tra i migliori disponibili all’epoca. La ciclistica era eccellente: stabile, maneggevole e dotata di freni a tamburo, l’Elite assicurava una guida piacevole e sicura. Come accennato, il motore monocilindrico da 200 cm3, con coppie coniche, era raffinato e delicato, croce e delizia per gli appassionati Ducati. La potenza era di 18 CV a 7.500 giri, sufficiente a spingerla fino a 140 km/h, con un peso a secco di 106 kg.
La Ducati Elite 200 incarnava il meglio delle moto leggere italiane. Era bella e, almeno su questo, non c’erano dubbi. Il design originale e curato rimase non per nulla difficile da eguagliare negli anni successivi. Il serbatoio, derivato dalla 175 Sport, aveva forme anatomiche e un’identità immediatamente riconoscibile, con ganci per fissare mappe, plaid o borse, come nelle gran fondo dell’epoca. Cromature abbondanti, doppio scarico laterale destro e dettagli in alluminio lucidato la distinguevano dalle concorrenti. I semimanubri avevano leve dritte, con quello di destra dotato di manettino per l’arricchitore; la strumentazione comprendeva solo tachimetro e contachilometri. Il faro Aprilia, verniciato in tinta con serbatoio e parafanghi, era generoso nelle dimensioni, mentre il telaio giallo ocra evidenziava la bellezza insita del progetto. Anche la sella, con il rialzo posteriore per il passeggero, era decisamente originale. Sicuramente, che la vedeva passare si voltava a per guardarla.
Come tutte le sportive dell’epoca, la posizione in sella era imposta da un manubrio basso in due pezzi e da pedane avanzate. Se questo favoriva il comfort del passeggero, obbligava il pilota a una postura poco naturale per il controllo ottimale della moto. Nonostante ciò, compattezza, peso contenuto, ciclistica di qualità e motore ben erogante rendevano la Elite 200 docile e sicura. Cambio e frizione si apprezzavano soprattutto sui percorsi tortuosi, mentre sui rettilinei la conformazione del serbatoio permetteva una posizione aerodinamica simile a quella dei piloti delle gare di gran fondo. Inoltre, altra particlarità era data dal frenasterzo regolabile, che fungeva da ammortizzatore di sterzo ante litteram, utile su percorsi sconnessi. Per lei, l’ideale era un percorso misto e un’andatura moderata.
Alimentazione: serbatoio 17 litri, riserva 0,8 l; carburatore Dell’Orto UB 24 BS, diffusore 24 mm, getti 98/50, spillo 2ª tacca, presa d’aria tipo 3100, vite aria aperta 1,5 giri.
Cambio: 4 marce, comando pedale a bilanciere lato destro; rapporti interni 1ª 2,75, 2ª 1,65, 3ª 1,18, 4ª 0,97:1.
Frizione: multidisco in bagno d’olio.
Trasmissione: primaria a ingranaggi elicoidali lato sinistro 2,500:1; finale a catena lato destro 2,812:1.
Telaio: monoculla aperta in tubi di acciaio trafilato.
Sospensioni: anteriore teleidraulica Marzocchi/Ducati; posteriore forcellone oscillante con due ammortizzatori teleidraulici Marzocchi, molla regolabile su tre valori.
Ruote: cerchi in acciaio cromato 18"x2"1/4; pneumatici anteriore 2,75–18 rigato, posteriore 3,00–18 scolpito; pressioni 2/2,25 bar.
Freni: tamburo centrale, diametro 180 mm anteriore (con presa d’aria per raffreddamento), 160 mm posteriore.
Impianto elettrico: alternatore 6V–40W a volano, batteria 6V–13,5 Ah; faro a tre luci bilux 6V–25/25W, posizione 6V–3W, posteriore 6V–3/15W; avvisatore acustico con pulsante sul manubrio.
Dimensioni e peso: lunghezza 1.990 mm; larghezza manubrio 580 mm; altezza massima 965 mm; altezza sella 800 mm; altezza minima da terra 130 mm; interasse 1.320 mm; peso a vuoto 111 kg.
Prestazioni dichiarate: velocità massima 135 km/h (senza silenziatore e con pilota abbassato); pendenza massima superabile 27%; consumo 1 litro/29 km; autonomia circa 490 km.
Nonostante la meccanica delicata, il rapporto tra prezzo di listino, 248.000 lire, e qualità percepita era alto. La Elite 200 restò in produzione praticamente invariata per oltre sette anni, resistendo a un periodo complesso per il mercato motociclistico italiano. Determinante fu però il successo all’estero, in particolare negli Stati Uniti, dove la moto trovava maggiore diffusione. Per i clienti d’oltreoceano fu presentata anche la versione Supersport, con camma più spinta e carburatore Dell’Orto SS 27, riservata per le gare locali delle derivate di serie. La produzione proseguì fino al 1966, quando la Elite 200 fu sostituita dalla Diana (portata fino a 250 cm3) e successivamente dalla versione supersportiva Mach 1.
Complici i quasi sessant’anni trascorsi dalla fine della produzione, in vendita di Ducati Elite non se ne trovano molte. Tuttavia, i prezzi non sono proibitivi: fermo restando che molto di pende dallo stato della moto, dai km percorsi e, sopratutto, da livello e dalla qualità dell’eventuale restauro, una fascia di prezzo cui si può sperare di accedere è compresa tra i 6 e i 10mila euro. Chiaro, in questi casi servono buone doti di contrattazione…
A proposito di belle Ducati: Ducati Scrambler, storia di un successo di 50 anni fa
Nell'ultimo anno di motomondiale, la moto di Schiranna disputò la migliore stagione di sempre con John Kocinski. Bellissima e innovativa, ha ispirato le migliori supersportive italiane del nuovo millennio
Ci sono moto da gran premio che non hanno ottenuto moltissimi successi, eppure si sono fatte spazio indissolubilmente nel cuore degli appassionati. Una di queste è sicuramente la Cagiva C594, il prototipo più competitivo di sempre tra tutte le moto di Schiranna che hanno corso nel mondiale. La Rossa che ha infiammato i cuori degli appassionati negli anni '90 è stata l'unica moto che è riuscita a inserirsi nel monopolio giapponese della classe 500, orgoglio italiano e simbolo di coraggio imprenditoriale e innovazione tecnica.

La prima vittoria per Cagiva nel motomondiale arriva nel 1992, grazie all'indimenticabile successo di Eddie Lawson in Ungheria. Quella affermazione in realtà è propiziata dalla folle scelta di montare le gomme slick quando la pista è ancora bagnata e dal talento dello statunitense. La C592 in realtà non è così competitiva, limitata nelle prestazioni dagli ammortizzatori Showa e dalle gomme Dunlop. L'anno successivo, grazie al pacchetto Öhlins-Michelin la situazione migliora e la nuova aerodinamica, accoppiata alla presa d'aria sul cupolino, aiuta a ridurre il coefficiente e a portare più aria al motore. La potenza aumenta di una decina di cavalli e l'arrivo di John Kocinski nel finale di stagione è determinante per conquistare un altro successo (a Laguna Seca), con la versione della C593 dotata di forcellone in carbonio. Il 1994 sembra l'anno buono per crescere ulteriormente e la squadra guidata dall'ingegnere Riccardo Rosa effettivamente riesce a mettere insieme tutti gli elementi in un pacchetto altamente competitivo.
Il motore per la nuova stagione è sostanzialmente lo stesso: un V4 con angolo di 80°, cilindrata di 498cc, alesaggio per corsa di 56,0x50,6. La distribuzione è lamellare, l'alimentazione affidata a carburatori Mikuni da 39mm di diametro, a valvola piatta. La potenza all'albero viene stimata in 185 cavalli, valori tra i più elevati per l'epoca. Il tutto viene gestito dall'elettronica di Magneti-Marelli.
Il telaio è unico nel suo genere: un doppio trave perimetrale con struttura mista carbonio-alluminio. La rigidezza del carbonio nella parte superiore permette al propulsore di non rimanere semplicemente appeso, ma di diventare un elemento che contribuisce a incidere sulla flessibilità della struttura e sulla risposta della moto alle sollecitazioni.
La C594 gode di studi raffinati di aerodinamica, ma allo stesso tempo migliora anche grazie a soluzioni nate un po' per caso. Un aneddoto raccontato dall'ingegner Rosa, rivela che la soluzione del separatore sulla presa d'aria del cupolino arriva grazie a un contrattempo. “Una volta ci trovavamo in galleria e mi volò via un foglio di carta, che finì sul radiatore della moto; la bilancia si abbassò repentinamente e lì capimmo quanto fosse deleterio il buco nel radiatore. Analizzammo a fondo il condotto di aspirazione e sulla C594 a quel punto comparve il ‘dentino’ in mezzo alla bocca della carena che serviva a dividere i due flussi d’aria senza che tornassero indietroâ€.

Curiosamente, la stagione migliore di Cagiva nel motomondiale è anche l'ultima. D'altronde i Castiglioni non vogliono sponsor sulla propria moto, rossa e bellissima, ma i soldi spesi sono molti e il ritorno dalle vendite non è sufficiente a evitare un altro tipo di rosso...in bilancio.
L'inizio di campionato comunque è promettente, in uno scenario di incertezza generale sulla griglia di partenza. Senza Wayne Rainey, con Kevin Schwantz campione acciaccato e un Mick Doohan tutto da verificare nell'accoppiata con una Honda orfana di Rothmans, gli spazi per fare bene sembrano aprirsi. E John Kocinski in effetti parte benissimo, con la vittoria in Australia e il secondo posto della Malesia, entrambi arrivati dopo due pole position. Ma si sa, la costanza non è la migliore qualità in dote al talento cristallino di Little Rock, che prosegue la sua stagione tra alti e bassi, chiudendo comunque al terzo posto, con ben sette podi.
Il marchio dell'elefante si ritira dalle competizioni a fine 1994, ma la C594 tornerà in vita, almeno nei sogni. A dieci anni di distanza, infatti, a EICMA viene annunciata la volontà di mettere in commercio una mini serie di repliche della moto di John Kocinski. L'idea è di produrre 25 esemplari al costo di 125mila euro l'uno, ma l'idea non si concretizzerà mai.
Dall'avventura del motomondiale però nasceranno altre realtà , quelle sì, che faranno sognare generazioni di motociclisti. Per esempio, dopo il 1992 la Cagiva Mito viene realizzata in una versione speciale Lawson replica. Ma soprattutto, dalla C594 nasce nel 1996 la Cagiva F4, un prototipo di supersportiva basata su motore quattro tempi e quattro cilindri in linea di derivazione Ferrari, con cilindrata di 750cc, valvole radiali e cambio estraibile.
Due anni dopo, la matita di Massimo Tamburini partorirà infine la MV Agusta F4, figlia, seppure molto alla lontana, di quel sogno mai entrato in produzione. Insomma, a volte bastano anche poche vittorie per mettere letteralmente “in moto†idee e soluzioni geniali.
Il sistema americano si propone di superare i problemi “storici†del 2 tempi, per mezzo di un sistema di valvole a controllo elettronico e doppia sovralimentazione
Nessuno ha dubbi sul fatto che il motore a due tempi sia superiore al quattro tempi, sul piano delle prestazioni assolute: ha una fase attiva a ogni giro dell’albero motore, mentre l’altro ce l’ha soltanto ogni due. Ci sono però problemi di altro genere, generati dal fatto che una parte della carica fresca fuoriesce dalla luce di scarico durante il lavaggio, cioè quando la miscela aria/carburante viene spinta dalla camera di manovella a quella di scoppio attraverso i travasi e manda fuori i gas incombusti. Questo genera una fuoriuscita nell’ambiente esterno di una quota della miscela aria/benzina e di conseguenza un notevole inquinamento, peggiorato dal fatto che per lubrificare cilindro e albero motore al carburante viene mescolato olio in percentuale più o meno ricca, il quale a sua volta finisce nell'atmosfera.
La casa automobilistica americana GM ha brevettato un sistema che si propone di superare questo problema, per mezzo di un sistema di valvole a controllo elettronico progettato per sigillare la camera di combustione tra gli scambi di gas. Un’idea con molti precedenti ma sviluppata in maniera originale da GM: un manicotto si muove coassialmente al cilindro, in simultanea con il pistone, in modo da chiudere le luci di aspirazione e scarico dopo la fase di lavaggio. Contrariamente a quanto avveniva nei dispositivi antichi, comandati dall’albero motore, qui il movimento viene dato da un attuatore elettromeccanico, in pratica un motore elettrico. Non essendoci precompressione nel basamento, viene impiegato un compressore elettrico che crea una contropressione nel cilindro, e poco prima del punto morto superiore il carburante viene iniettato direttamente nella camera di combustione, per venire acceso da una normale candela.
I vantaggi stanno nel fatto che al momento del lavaggio non c’è carburante nel cilindro e quindi nemmeno olio, per cui lo scarico è pulito; il difetto è che, siccome gas di scarico e aria compressa di aspirazione si mescolano durante la fase di lavaggio, la quantità di aria disponibile per la combustione non è mai la stessa e dunque potrebbe essere necessario usare dei sensori per garantire una miscela stechiometrica.
Il motore GM però va oltre e abbina un compressore volumetrico e un turbocompressore: a bassi regimi il primo viene azionato da un motore elettrico, spingendosi oltre lo stesso compressore volumetrico divento un turbocompressore perché nello scarico c’è una girante attuata dal gas in uscita.
Dunque ci sono diversi punti interessanti, ma resta il problema di lubrificare le canne dei cilindri, perché se venisse usato olio, una parte di esso inevitabilmente riuscirebbe a filtrare nella camera di combustione.
In ogni caso è bene osservare che GM è un costruttore automobilistico e semmai questo motore diventasse realtà , verrebbe impiegato su un’automobile. C’è già il disegno di un motore a pistoni contrapposti con due alberi motore, e destinato non a spingere il veicolo ma a comandare un generatore di elettricità per caricare una batteria di trazione, estendendo così l’autonomia di un veicolo a propulsione elettrica.