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#news #antidiplomatico
Nel suo ultimo articolo per RT, lo storico Tarik Cyril Amar definisce il genocidio di Gaza come un evento "speciale" per due ragioni fondamentali. Prima di tutto, è il primo sterminio di massa della storia consumato sotto gli occhi del mondo, trasmesso in diretta eppure tollerato. In secondo luogo, sottolinea, "sta demolendo ogni pretesa di un ordine giuridico e morale internazionale, rivelando l’ipocrisia delle istituzioni globali". Nonostante la Convenzione sul Genocidio del 1948 imponga agli Stati di "prevenire e punire" simili crimini, quasi nessuno – fatta eccezione per lo Yemen – ha mosso un dito per fermare Israele. Anzi, l’Occidente, anziché limitarsi all’inerzia, ha scelto la complicità attiva, sostenendo Tel Aviv con armi, copertura politica e una retorica spietata che trasforma l’omicidio di migliaia di bambini in "legittima difesa".
Ma la perversione non si ferma qui. Quella che Amar descrive come la "vera essenza dell’Occidente" – l’ipocrisia mascherata da valori – raggiunge vette grottesche nella manipolazione del linguaggio umanitario. Aiuti alimentari trasformati in trappole mortali, come nel caso della "Gaza Humanitarian Foundation", che attira civili affamati in zone dove vengono massacrati. Campi di concentramento spacciati per "città umanitarie", come quello pianificato tra le macerie di Rafah, dove i sopravvissuti verranno ammassati prima di essere espulsi o uccisi. Persino l’ONU, attraverso figure come Philippe Lazzarini dell’UNRWA, ammette che si tratta della continuazione della Nakba, ma senza cogliere appieno che Gaza è da tempo, come scriveva il sociologo israeliano Baruch Kimmerling, "il più grande campo di concentramento del mondo".
E dietro a tutto questo c’è l’Occidente, non solo come spettatore, "ma come regista occulto". Le radici risalgono al colonialismo britannico, che insegnò ai sionisti come reprimere i palestinesi, ma oggi il sostegno è più sfacciato che mai prosegue Amar: dalle fondazioni come quella di Tony Blair alle multinazionali della consulenza, fino alla Casa Bianca di Trump, che sogna una Gaza "senza palestinesi". Il genocidio non è solo una strage, ma è un esperimento per ribaltare ogni principio etico, dove i carnefici vengono dipinti come vittime e chi resiste viene trattato come un terrorista. Se non verrà fermato, conclude lo storico, il mondo rischia di scivolare in un’era in cui i crimini dei nazisti non saranno più un monito, ma un modello.
Pechino ha accolto una delegazione composta dai ministri degli Esteri e dai rappresentanti delle istituzioni permanenti dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), riuniti nella capitale cinese per partecipare alla riunione del Consiglio dei ministri degli Esteri degli Stati membri. Alla presenza del presidente cinese Xi Jinping - che al contrario di quanto ventilato da alcuni fake media italiani è ancora saldo al suo posto e non è scomparso - l'incontro ha rappresentato un'importante occasione per ribadire l'impegno collettivo nell'approfondire la cooperazione regionale e nel rafforzare il ruolo dell’organizzazione sul palcoscenico internazionale.
Giunta al suo ventiquattresimo anno dalla fondazione, l'SCO si è affermata come un'organizzazione matura e dinamica, capace di dimostrare una forte vitalità grazie all'adesione ai principi dello "Shanghai Spirit". Questo spirito, basato su fiducia reciproca, beneficio congiunto, uguaglianza, consultazione, rispetto per la diversità delle civiltà e sviluppo comune, continua a costituire il pilastro fondamentale della collaborazione tra i paesi membri. Il presidente cinese ha sottolineato come Pechino abbia sempre posto particolare attenzione all’organizzazione nell’ambito della sua politica regionale, impegnandosi quotidianamente per renderla più solida e operativa. L'obiettivo rimane quello di garantire sicurezza e stabilità nell'area, promuovere lo sviluppo economico e costruire una comunità con un destino condiviso sempre più stretta tra gli Stati aderenti.
Dal luglio scorso, quando la Cina ha assunto la presidenza di turno della SCO, sono stati organizzati numerosi eventi e iniziative mirate a rafforzare la cooperazione multilaterale. Secondo quanto dichiarato da Xi, tutti i partner hanno lavorato con impegno per costruire insieme una casa migliore per l’intera organizzazione. In vista del prossimo vertice SCO che si terrà quest’anno a Tianjin, il presidente cinese ha espresso la speranza di incontrare i leader degli altri paesi membri per discutere le prospettive future del gruppo.
In un contesto internazionale segnato da instabilità e trasformazioni rapide, Xi ha invitato la SCO a mantenere la concentrazione, a mostrare determinazione e a operare con efficienza per svolgere un ruolo più attivo nello stabilizzare la scena globale e fornire energia positiva al mondo intero. La strada da percorrere richiede una maggiore unità e una visione comune fondata su valori condivisi. Il presidente ha chiamato l’organizzazione a porre la fiducia e il reciproco vantaggio alla base della collaborazione, l’uguaglianza e il dialogo come metodo di lavoro, il rispetto per le diverse civiltà come mezzo per favorire armonia e inclusione, e lo sviluppo comune come via verso la prosperità condivisa.
Tra le priorità emerse durante l’incontro figurano anche il rafforzamento dei meccanismi per affrontare le minacce alla sicurezza, l’allineamento strategico tra i piani nazionali di crescita e iniziative come la Belt and Road Initiative, nonché il miglioramento degli scambi culturali e delle relazioni tra i popoli. Xi ha inoltre esortato i membri dell’organizzazione a opporsi fermamente all’egemonia, alla politica del potere e alle pratiche intimidatorie, promuovendo un sistema internazionale multipolare più equo e bilanciato. Ha ricordato l’importanza di un approccio basato su ampie consultazioni, contributi congiunti e benefici condivisi per spingere avanti una globalizzazione economica più inclusiva e vantaggiosa per tutti.
L’obiettivo ambizioso che la SCO si trova davanti è quello di guidare il Sud globale verso la costruzione di un sistema di governance mondiale più giusto ed equo, capace di generare forza collettiva per il perseguimento di una comunità umana con un destino comune.
Wang Yi, presidente del Consiglio dei ministri degli Esteri della SCO, ha illustrato i progressi registrati sotto la guida della Cina negli ultimi mesi, oltre a dare conto dei preparativi per il summit di Tianjin. A nome delle delegazioni straniere, il ministro russo degli Esteri Sergey Lavrov ha elogiato l’impegno cinese nel promuovere nuovi risultati per l’organizzazione, evidenziando come lo "Shanghai Spirit" abbia saputo dimostrare la sua rilevanza rispetto agli interessi condivisi dei membri. Lavrov ha inoltre espresso il sostegno dei partner alla leadership cinese, ribadendo la volontà comune di garantire il successo del prossimo incontro a Tianjin e di proseguire lungo la strada del multilateralismo per un ordine internazionale più giusto e solidale.
Nelle guerre tariffarie non ci sono vincitori, e la pressione unilaterale con sanzioni non risolverà le divergenze o i conflitti. È quanto ha affermato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, rispondendo alle recenti minacce del presidente statunitense Donald Trump di imporre dazi del 100% sui Paesi che continuano a commerciare con la Russia se non si raggiungeranno progressi verso la pace in Ucraina.
Durante una conferenza stampa, Lin ha sottolineato che misure come quelle prospettate da Washington non contribuiranno a porre fine al conflitto tra il regime di Kiev e Mosca. L’unica via percorribile, secondo Pechino, rimane il dialogo e la negoziazione. "La Cina si oppone fermamente a qualsiasi sanzione unilaterale illegale e alla giurisdizione extraterritoriale", ha dichiarato, aggiungendo che "la coercizione e la pressione" non sono la soluzione.
Il portavoce ha espresso la speranza che tutte le parti coinvolte lavorino per creare un ambiente "propizio" a una risoluzione politica della crisi ucraina, intensificando gli sforzi per promuovere la pace e il confronto diplomatico.
Le dichiarazioni di Lin Jian arrivano dopo l’ultimatum lanciato da Trump, che lunedì ha annunciato l’intenzione di applicare dazi "ancora più severi" – fino al 100% – sugli Stati che mantengono relazioni commerciali con la Russia se, entro 50 giorni, non verrà raggiunto un accordo di pace. "Siamo molto, molto insoddisfatti del loro comportamento [dei russi]. E applicheremo tariffe molto pesanti se non ci sarà un accordo entro 50 giorni. Dazi del 100%, che chiameremmo 'secondari'", ha dichiarato l'inquilino della Casa Bianca.
Una presa di posizione che Mosca ha liquidato con sarcasmo. Dmitri Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo ed ex presidente, ha definito l’annuncio di Trump un "ultimatum teatrale", sottolineando l’indifferenza del Cremlino. "Il mondo ha tremato, aspettandosi conseguenze. L’Europa bellicosa si è sentita delusa. Alla Russia non è importato nulla", ha scritto su Telegram, ridimensionando l’impatto della mossa statunitense.
Intanto, la Cina ribadisce la sua posizione: senza negoziati, la crisi ucraina non troverà una via d’uscita. E le guerre commerciali, avverte Pechino, lasciano solo danni.
Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 15:11:00 GMTNell'ottobre del 1981, Augusto Pinochet pronunciò una frase che riassumeva il suo potere assoluto: «In Cile non si muove una foglia se non sono io a muoverla». Vent'anni dopo, un'inchiesta del quotidiano britannico The Guardian (2000) rivelò che quel controllo totale includeva un lucroso e clandestino affare: il traffico di cocaina verso Europa e Stati Uniti.
Secondo l’indagine, tra il 1986 e il 1987 dal Cile partirono almeno 12 tonnellate di droga, con un valore stimato in «diversi miliardi di sterline», trasportate su aerei militari che consegnavano armi anche a Iraq e Iran. L'operazione era gestita dai servizi segreti cileni —prima la DINA, poi la CNI—, che usavano le ambasciate di Madrid e Stoccolma come centri di distribuzione.
L'ombra di Pinochet e il riciclaggio
The Guardian fu chiaro: «Pinochet, il cui potere fu assoluto tra il golpe del 1973 e la sua uscita nel 1990, fu coinvolto nel traffico di droga». I profitti, secondo il giornale, arricchirono alti funzionari del regime e finanziarono le operazioni repressive della DINA e del SIN.
Ma il sistema non si fermava lì. I figli del dittatore, Marco Antonio e Augusto Pinochet Hiriart, risultarono legati a Focus Chile, un'azienda controllata da narcotrafficanti colombiani e dal canadese Firmino Tavares, condannato in Spagna per riciclaggio di 20 milioni di dollari. Documenti ottenuti da CIPER Chile (2023) mostrano che Marco Antonio ricevette un prestito dalla società, mentre Augusto viaggiò in Libia con fondi dell'azienda per incontrare il noto trafficante d'armi Adnan Khashoggi.
La DEA, i voli militari e l'etere dell'Esercito
Un rapporto segreto della DEA (2004), incluso nel Caso Riggs, confermò che Pinochet autorizzò nel 1975 un carico di cocaina diretto negli USA. Inoltre, il Complesso Chimico di Talagante —controllato dall'Esercito— vendette migliaia di litri di etere, essenziale per la lavorazione della cocaina, a narcos boliviani negli anni '80.
Frankell Baramdyka, un ex-marine estradato dal Cile nel 1993, dichiarò di aver lavorato con la CNI e un figlio di Pinochet per spedire droga su voli carichi di armi. «La cocaina veniva scaricata alle Canarie o ad Haiti», raccontò al giornale El Periodista. Baramdyka rivelò anche che esponenti della dittatura lo contattarono per riciclare circa 1,5 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico.
Connessioni internazionali e denaro sporco
La rete coinvolgeva personaggi come il trafficante d'armi siriano Monzer Al Kassar —parente di Edgardo Bathich, altro implicato— e la famiglia Ochoa Galvis, indagata dalla DEA. Firmino Tavares spostò 5,7 milioni di dollari dai conti della Banca O'Higgins verso la Spagna, denaro che l'Audiencia Provincial di Maiorca (2001) definì «proveniente dal narcotraffico».
Nonostante le prove schiaccianti, persino l'ex-capo della DINA Manuel Contreras ammise nel 1998 che «i figli di Pinochet erano nel narcotraffico», i casi vennero archiviati. Il giudice Sergio Muñoz verificò le vendite di etere, ma non ci furono condanne. «Le informazioni erano storiche e non verificate», ammise la DEA.
Oggi, documenti desecretati e nuove inchieste riaprono ferite che il potere politico e giudiziario cileno non ha mai sanato. Un'eco di quel passato riemerge nel 2025 con i casi dei «narcomilitari» all'interno delle Forze Armate, ricordando che, a decenni di distanza, le ombre della dittatura sono ancora presenti.
Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 14:51:00 GMT
di Fabrizio Verde
La domanda sorge spontanea: ma questo è davvero un alleato? A guardare le recenti mosse dell’amministrazione Trump – non solo nel contesto del conflitto ucraino, ma anche nell’ambito delle relazioni commerciali ed energetiche con l’Europa – viene da chiedersi se la parola “alleato” utilizzata dalla politica e dai media mainstream abbia un senso. O se, invece, non debba essere sostituita da un termine più preciso: vassallo, o meglio, semi-colonia. Così è possibile inquadrare con maggiore precisione la condizione di subalternità nei confronti degli Stati Uniti in cui si trova l’Italia e l’intera Europa. E non di certo da quando alla Casa Bianca è tornato Donald Trump.
Armi a spese europee
Il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti forniranno missili all’Ucraina – tra cui i tanto richiesti sistemi Patriot – ma con una precisazione: “Non pagheremo noi. Saranno gli europei a farlo”. Ecco dunque che Washington con una sola mossa mossa ottiene due obiettivi: alimentare ancora il conflitto in Ucraina e allo stesso tempo realizzando profitti a scapito dei già spolpati “alleati” europei.
Trump non ha neppure nascosto che il pacchetto militare varato con l’Europa ammonta a “migliaia di miliardi di dollari”, con l’obiettivo di rifornire l’esercito ucraino di equipaggiamenti sempre più sofisticati. Equipaggiamenti che, però, finiscono per arricchire le industrie belliche statunitensi, mentre i contribuenti europei fanno cassa per il Pentagono.
E intanto, mentre il regime neonazista di Kiev riceve nuovi missili, Mosca li può distruggere facilmente già prima che entrino in servizio, avanza sul campo, consolidando posizioni e guadagnando terreno. Il conflitto, lungi dal risolversi, si protrae, con un bilancio umano ed economico insostenibile. Ma per l’Occidente, evidentemente, è una guerra da prolungare il più possibile, da combattere sino all’ultimo ucraino.
Dazi alla Ue: Italia penalizzata al 30%
Ma c’è di più. Nello stesso momento in cui impone ai Paesi europei di finanziare le sue scelte geopolitiche – bel lieti di farlo - Trump annuncia nuovi dazi verso i cosiddetti “alleati” europei, con l’Italia che si ritrova colpita al 30%. Si tratta di misure punitive che potrebbero costare al nostro Paese circa 12 miliardi di euro e provocare un calo dello 0,5% del Pil, con effetti devastanti su settori strategici come l’agroalimentare, il vino, il made in Italy artigianale. Secondo Svimez, si rischia di perdere 150mila posti di lavoro a tempo pieno.
Un attacco diretto, mirato, che mette in ginocchio l’economia reale italiana, senza che Bruxelles riesca a opporre alcuna resistenza significativa. E mentre Trump minaccia ulteriori aumenti tariffari – fino al 100% entro i prossimi 50 giorni – l’immagine che emerge è quella di un rapporto squilibrato, dove Washington detta legge e l’Europa subisce, come un vassallo di fronte al proprio signore feudale.
Questo scenario non può essere compreso appieno se non si fa i conti con la natura strutturale del modello economico globale in cui siamo immersi: il neoliberismo. Dietro l’apparente neutralità dei mercati e degli accordi commerciali, si cela in realtà una precisa ideologia: quella che ha svuotato gli Stati della loro capacità di intervenire nell’economia, consegnando il destino delle comunità locali alle dinamiche speculative del grande capitale transnazionale.
Nel contesto neoliberista, lo Stato non è più un garante del bene comune né un regista del progresso sociale; diventa piuttosto un esecutore passivo delle regole dettate da istituzioni sovranazionali e potenze esterne. I dazi statunitensi non sono solo un atto commerciale, ma un sintomo di questo assetto: uno strumento di pressione che colpisce indiscriminatamente i lavoratori, le imprese e i consumatori, mentre i grandi centri finanziari restano intoccabili.
Il punto fondamentale è che, in un modello economico centrato sull’interesse generale, il commercio internazionale non verrebbe mai utilizzato come arma punitiva a discapito delle classi popolari. Il libero scambio assoluto, tanto celebrato nei dogmi neoliberisti, finisce inevitabilmente per favorire chi detiene il potere: multinazionali, banche e governi imperialisti. Chi produce, chi lavora, chi crea valore reale – artigiani, agricoltori, operai – viene invece sacrificato sull’altare di una competitività che non premia nessuno, se non chi specula.
La crisi che viviamo non è solo economica: è anche una crisi di senso. Non possiamo continuare a trattare i dazi come eventi occasionali, quando in realtà sono il frutto di un disegno sistemico. Il neoliberismo ci ha insegnato a non difendere quello che produciamo, a non valorizzare quanto è locale, a non investire su ciò che è pubblico. E ora paghiamo il prezzo di questa resa.
L’energia: dalla Russia al costoso gas USA
Fino a pochi anni fa, la Russia era vista come una fonte affidabile e conveniente di energia. Il gas russo, infatti, era mediamente il 50% più economico rispetto al Gnl statunitense. Lo ha confermato il Ceo di OMV (gruppo petrolifero e del gas austriaco), Rainer Seele, così come il vice primo-ministro russo Novak, secondo cui il Gnl statunitense è fino al 40% più costoso rispetto al gas russo. Oggi, invece, l’Europa si trova ad acquistare energia dagli Stati Uniti a prezzi esorbitanti, alimentando una dipendenza energetica molto critica e particalarmente sconveniente. Ma nessuno in ambito mainstream ha obiezioni da avanzare come avvenuto per la “dipendenza” dal gas russo.
L’Europa, che ha deciso unilateralmente di boicottare il gas russo dopo l’inizio della guerra in Ucraina, si è ritrovata a comprare il Gnl Usa a prezzi elevatissimi, facendo lievitare bollette domestiche e costi industriali. In Germania i fallimenti di aziende per gli alti costi energetici sono ormai all’ordine del gorno. Eppure, nessuno sembra rendersi conto che proprio quel “nemico” che si vuole ostinatamente isolare e a cui si vule muovere guerra, ossia la Russia, sarebbe ben felice di tornare a fornire energia a prezzi accessibili. Ma la volontà politica di ripristinare un rapporto pragmatico appare assente, soffocata dalle pressioni atlantiste e da una fanatica ideologia anti-russa.
La confessione di Borrell: l’Occidente ha prosperato sulla pelle di Cina e Russia
Ad evidenziare questa situazione paradossale è stata l’analisi dell’ex capo della diplomazia Ue, Josep Borrell. Il diplomatico spagnolo - in un discorso tenuto nel 2022 - ha ammesso che la prosperità occidentale post-Guerra Fredda si è fondata sull’estrazione di ricchezza da Cina e Russia: manodopera a basso costo, mercati immensi e materie prime a prezzi contenuti. Senza quelle condizioni, oggi mutate, l’intero sistema capitalistico transatlantico si trova in crisi profonda.
Borrell riconosceva che l’Europa ha perso la sua fonte principale di energia economica (la Russia), che ora cerca di sostituire con forniture statunitensi molto costose. E aggiungeva, in modo quasi profetico, che il futuro avrebbe riservato un aumento dei costi, una ridotta competitività e una recessione globale trainata dai tassi crescenti della Fed. Eppure, nonostante queste consapevolezze, l’Europa continua a piegarsi agli interessi statunitensi, come se non ci fosse alternativa.
Tutto ciò porta inevitabilmente a una riflessione: l’Europa – e in primis l’Italia – è ancora uno spazio di autonomia decisionale? Oppure siamo entrati nella fase di una vera e propria semi-colonia USA, dove ogni scelta importante viene pilotata da Washington, sotto mentite spoglie di alleanza?
L’attuale assetto istituzionale europeo sembra negare qualsiasi forma di autodeterminazione. Non solo in materia di difesa e sicurezza, ma anche in ambito commerciale, tecnologico, energetico. La stessa UE appare sempre più come un veicolo attraverso cui gli interessi statunitensi si realizzano, spesso a discapito dei cittadini europei.
L’Italia, in particolare, sembra destinata a subire un destino già scritto: pagare per armi che non risolvono il conflitto, accettare dazi che strangolano il made in Italy, comprare energia a caro prezzo, mentre la Russia – il presunto nemico – aspetta pazientemente il momento in cui qualcuno vorrà tornare a parlare in termini razionali.
Un passato di collaborazione: i rapporti Italia-Russia tra pragmatismo e interesse reciproco
Non si può comprendere appieno l’attuale scenario senza ricordare che i rapporti tra Italia e Russia – e prima ancora con l’Unione Sovietica – sono stati storicamente improntati a una forte dose di pragmatismo e collaborazione, soprattutto nel settore energetico, commerciale e culturale. Fin dagli anni ’60, l’Italia fu uno dei principali partner commerciali dell’URSS in Europa occidentale. L’Eni, fondata da Enrico Mattei, strinse accordi pionieristici per l’importazione di gas naturale sovietico ben prima che il resto dell’Europa guardasse a est con interesse.
Per l’intero periodo della Guerra Fredda – grazie anche alla presenza in Italia del più grande Partito Comunista occidentale - l’Italia mantenne una posizione equilibrata tra NATO e blocco sovietico, riuscendo a tessere relazioni diplomatiche solide pur restando un membro dell’Alleanza Atlantica. Il nostro Paese fu tra i primi a investire nell’industria russa post-sovietica negli anni ‘90, e Mosca, dal canto suo, trovò a Roma un interlocutore affidabile e meno ideologico rispetto ad altre capitali europee.
Questo rapporto, costruito su interessi economici concreti e una visione realista della politica internazionale, è stato progressivamente danneggiato negli ultimi anni da un’ondata di russofobia ideologica fomentata in primo luogo dagli Stati Uniti e via via internalizzata anche dalle élite europee. La guerra in Ucraina, ma soprattutto le pressioni atlanticiste e l’adesione acritica alle sanzioni, hanno spinto l’Italia verso una rottura non solo economica ma anche culturale con la Russia, una nazione con cui ci legano secoli di storia comune (per quanto riguarda Napoli già dal Regno delle Due Sicilie), scambi commerciali strategici, radici culturali e religiose che non possono essere ignorate.
L’immagine della Russia come “nemico” è stata costruita artificialmente, al fine di giustificare una ridefinizione delle alleanze a favore degli interessi statunitensi. Eppure, i dati parlano chiaro: la Russia era un partner affidabile, economicamente vantaggioso e reciprocamente rispettoso. Oggi, invece, ci ritroviamo isolati, impoveriti e sempre più dipendenti da una potenza straniera che impone dazi, condiziona armamenti e detta regole senza mai pagare di persona.
Il recupero di un rapporto sereno e pragmatico con la Russia non è solo auspicabile: è necessario. Perché l’interesse nazionale italiano non può essere sacrificato sull’altare di un fanatismo geopolitico che non ci appartiene e che sta conducendo il Paese verso il baratro.
Serve una visione diversa
Quella che emerge da questi mesi convulsi è una realtà scomoda: l’alleanza con gli Stati Uniti non è più tale (se mai lo è stata), ma un rapporto gerarchico, asimmetrico, che impoverisce chi lo subisce e arricchisce chi lo gestisce. In questo scenario, l’Europa appare smarrita, priva di una propria strategia indipendente; l’Italia, ancora di più, sembra incapace di uscire da un ruolo subordinato.
Serve una svolta radicale: una politica estera autonoma, un dialogo diretto con la Russia e con la Cina, una difesa delle filiere produttive italiane, un recupero di sovranità monetaria, fiscale e culturale. Serve, in altre parole, un ritorno alla Costituzione repubblicana, a quella politica pragmatica che ha caratterizzato la cosiddetta Prima Republbica che ha consentito all’Italia di essere un ponte tra Est e Ovest nontante fosse inquadrata nel blocco occidentale.
Perché se non si cambia rotta, lo schianto è assicurato. Ma l’Italia e l’Europa sembrano aver scelto, contro ogni ragionavole buon senso, di schierarsi dalla parte sbagliata della storia.
Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 14:21:00 GMT
L'agenzia di stampa statale siriana ha riferito che attacchi aerei israeliani hanno colpito Suwayda, sud della Siria
Israele, che negli ultimi mesi ha attaccato la Siria con il pretesto di proteggere i drusi, la scorsa settimana ha dichiarato di aver colpito diversi carri armati diretti a Suwayda, dove gli scontri tra tribù beduine e combattenti locali hanno ucciso più di 30 persone e ne hanno ferite 100.
Netanyahu e il ministro della Difesa israeliano Israel Katz hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale hanno confermato che "le forze e le armi del regime" sono state prese di mira a Suwayda "nell'ambito delle attività del regime contro i drusi".
In un'altra dichiarazione, l'esercito israeliano ha precisato che gli attacchi sono avvenuti in seguito all'identificazione di convogli, tra i quali veicoli trasporto truppe e carri armati delle forze governative siriane, in movimento verso Suwayda lunedì.
Diversi analisti e osservatori ritengono che Israele continui ad attaccare la Siria per consolidare il proprio controllo oltre le alture del Golan, già occupate, con il pretesto di proteggere i drusi.
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Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 10:30:00 GMT
"L'acqua viene utilizzata come arma di guerra per sterminare la popolazione e privarla dei suoi diritti più elementari", l'ufficio stampa di Gaza ribadisce il nuovo crimine di Israele sul suo account Telegram, precisando che è 112 il numero delle vittime nei "massacri" perpetrati mentre si faceva la fila per bere acqua.
"L'ultimo di questi massacri è avvenuto nei pressi del campo di Al-Nuseirat, dove l'occupazione ha lasciato dodici martiri, tra cui otto bambini”, si legge, accusando le truppe israeliane di "aver deliberatamente distrutto 720 pozzi", il che "lascia più di 1,25 milioni di persone senza accesso all'acqua potabile".
L’ufficio governativo di Gaza ha lamentato che Israele ha limitato l'ingresso di carburante a Gaza, necessario per il funzionamento di pozzi, impianti di trattamento dei rifiuti e "altri settori vitali", il che "ha causato la quasi totale paralisi delle reti idriche e igienico-sanitarie, alimentando la diffusione di epidemie, soprattutto tra i bambini".
Si ribadisce che la Striscia è teatro di "un crimine di privazione dell'acqua, nel silenzio internazionale più assoluto e con la partecipazione diretta e indiretta dei paesi europei e occidentali".
Da Gaza ricordano, inoltre, che "questa politica razzista costituisce un crimine ai sensi delle Convenzioni di Ginevra e una grave violazione del diritto internazionale umanitario, di cui le autorità di occupazione israeliane hanno la piena responsabilità".
In fine, è stato lanciato un appello: "Invitiamo la comunità internazionale... ad adottare misure urgenti per porre fine immediatamente alla guerra dell'acqua, garantire ai civili un accesso illimitato all'acqua e fare pressione sull'occupazione affinché consenta l'ingresso del carburante e delle attrezzature necessarie per far funzionare i pozzi e i centri di trattamento dei rifiuti".
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Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 07:30:00 GMT
Damasco ha annunciato lunedì che le sue milizie sono entrate nel governatorato meridionale di Suwayda, dove nelle ultime ore si sono verificati violenti scontri tra tribù filogovernative e fazioni armate druse, che hanno causato l'uccisione di decine di persone.
Update | Dozens of people have been reported killed and wounded so far in the ongoing clashes in the city of Suwayda and its countryside.
— The Cradle (@TheCradleMedia) July 14, 2025
According to local factions, the clashes are currently concentrated in the western countryside of Suwayda, near he eastern countryside of… https://t.co/gkh1SMYhnN
Il Ministero della Difesa siriano ha comunicato di aver "seguito con profonda tristezza e preoccupazione i sanguinosi sviluppi verificatisi nel governatorato di Suwayda negli ultimi due giorni, che hanno causato oltre 30 morti e quasi 100 feriti in diversi quartieri e città".
Da parte sua il Ministero della Difesa ha giustificato le uccisioni di questi giorni con un “vuoto istituzionale” che ha “accompagnato lo scoppio di questi scontri” e “ha contribuito al peggioramento del clima di caos in materia di sicurezza e ad aumentare la sofferenza della popolazione”.
Ha aggiunto che l'esercito ha schierato le sue forze nelle aree colpite dalle violenze, garantendo un "passaggio sicuro" ai civili e "risolvendo rapidamente e con decisione gli scontri".
Lo sceicco del movimento unitario druso, Hamoud al-Hanawi, ha rivolto un “appello speciale” al presidente siriano Ahmad al-Sharaa e ai leader tribali, esortandoli a “sedare i conflitti” e “porre fine alla crisi interna”.
Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR), il numero delle vittime ha raggiunto quota 37. Ventisette di loro sono drusi e dieci beduini. Tra le vittime ci sono anche due bambini.
Gli scontri sono attualmente concentrati nella campagna occidentale di Suwayda, vicino alla campagna orientale di Deraa, e hanno raggiunto le periferie dei villaggi del governatorato.
Gi scontri sono scoppiati dopo che i combattenti beduini hanno istituito un posto di blocco sull'autostrada Damasco-Suwayda il 13 luglio, dove hanno rapinato e picchiato brutalmente un giovane druso, innescando una serie di rappresaglie con rapimenti, attacchi e chiusure stradali.
Da allora gli scontri si sono estesi a Suwayda – da Al-Maqous e Labeen ad Al-Mazraa e Al-Soura al-Kabira – costringendo allo sfollamento di massa, in particolare dal villaggio di Al-Tayra.
Anche i combattenti beduini e altre fazioni estremiste di Deraa hanno mobilitato rinforzi nella periferia di Suwayda.
Le riprese video di domenica mostrano un anziano druso in custodia di combattenti estremisti, uno dei quali indossava una toppa visibile dell'ISIS.
#Breaking: Many members of the so-called General Security Forces of the new #Syrian jihadist regime—currently conducting ethnic cleansing in #Suwaida, southern #Syria—are seen wearing #ISIS / #AlQaeda insignia. One is pictured here carrying a captured elderly Druze civilian. pic.twitter.com/IEhlEJJBV2
— Babak Taghvaee - The Crisis Watch (@BabakTaghvaee1) July 14, 2025
Mentre Damasco ha ribadito il suo impegno per allentare le tensioni, ci sono state segnalazioni secondo cui le forze di sicurezza generale della Siria stanno prendendo parte agli scontri contro i drusi insieme ai combattenti e alle milizie beduine.
Tra i drusi, coloro che sono impegnati nella lotta contro le milizie tribali filogovernativi sono affiliati al Consiglio militare di Suwayda, formato a febbraio di quest'anno da sottufficiali, soldati e membri armati della comunità locale.
Non è la prima volta che scoppiano scontri tra fazioni druse, molte delle quali esercitano ancora il controllo sulle aree, e miliziani estremisti affiliati allo Stato siriano.
All'inizio di quest'anno sono scoppiati scontri tra le forze di sicurezza e i combattenti drusi in seguito alla diffusione di un messaggio vocale inventato che insultava il profeta Maometto e che era stato falsamente attribuito a un religioso druso.
Decine di persone furono uccise. All'epoca, la leadership religiosa drusa accusò il governo di aver commesso massacri contro la comunità.
Le rinnovate tensioni si verificano mentre le forze di occupazione israeliane continuano a consolidare la loro presa sulla Siria meridionale.
Israele ha affermato di voler sostenere la minoranza drusa e impedirne la persecuzione da parte di Damasco, che ultimamente è impegnata in trattative dirette con Tel Aviv.
Durante il precedente ciclo di scontri con i drusi, a fine aprile, gli attacchi israeliani avevano preso di mira i combattenti legati a Damasco.
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GAZA HA BISOGNO DI TUTTI NOI: PROPRIO IN QUESTO MOMENTO
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Acquistando "Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza" (IL LIBRO CON LA L MAIUSCOLA SUL GENOCIDIO IN CORSO) sosterrete i prossimi progetti di "Gazzella Onlus" per la popolazione allo stremo.
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Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 07:00:00 GMT
Genocidio non è solo disintegrare un luogo e i suoi abitanti con le bombe, ma anche cancellarne anche ogni traccia di un popolo, distruggere ogni minima possibilità di rinascita. Israele lo sa bene e per proseguire con la sua prassi genocidaria sta colpendo anche i luoghi dell’istruzione, come le università.
Dai rettori delle università della Striscia di Gaza parte un appello, un grido di Dignità, di Resistenza, non solo di dolore, una denuncia dal forte impatto che mette in evidenza quello che è definito un vero e proprio “scolasticidio” a partire dall’istruzione superiore, per cancellare anche la speranza.
Segue la lettera pubblicata su Al Jazeera.
Noi, presidenti delle tre università senza scopo di lucro di Gaza (Università Al-Aqsa, Università Al-Azhar di Gaza e Università islamica di Gaza), che insieme rappresentiamo la stragrande maggioranza degli studenti e dei docenti di Gaza, rilasciamo questa dichiarazione unitaria alla comunità accademica internazionale in un momento di devastazione senza precedenti dell'istruzione superiore a Gaza.
La guerra genocida in corso in Israele ha portato allo scolasticidio, un tentativo sistematico e deliberato di eliminare le nostre università, le loro infrastrutture, i docenti e gli studenti. Questa distruzione non è collaterale; fa parte di uno sforzo mirato per sradicare le fondamenta dell'istruzione superiore a Gaza, fondamenta che da tempo rappresentano pilastri di resilienza, speranza e libertà intellettuale in condizioni di occupazione e assedio. Mentre le istituzioni accademiche in tutta la Palestina subiscono attacchi da decenni, ciò a cui stiamo assistendo oggi è un'escalation: un passaggio da ripetuti atti di distruzione a un tentativo di annientamento totale.
Eppure, restiamo risoluti. Per oltre un anno ci siamo mobilitati e abbiamo preso provvedimenti per resistere a questo assalto e garantire la sopravvivenza delle nostre università.
Nonostante la distruzione fisica di campus, laboratori, biblioteche e altre strutture, e l'assassinio di studenti e colleghi, le nostre università continuano a esistere. Siamo più di semplici edifici: siamo comunità accademiche, composte da studenti, docenti e personale, ancora vive e determinate a portare avanti la nostra missione.
Come affermato nella Dichiarazione unificata di emergenza degli accademici e degli amministratori palestinesi, pubblicata il 29 maggio 2024, "Le forze di occupazione israeliane hanno demolito i nostri edifici, ma le nostre università continuano a vivere".
Per oltre un anno, il nostro corpo docente, il nostro personale e i nostri studenti hanno perseverato nella nostra missione principale – l'insegnamento – in condizioni incredibilmente dure. I bombardamenti costanti, la fame, le restrizioni all'accesso a internet, l'elettricità instabile e gli orrori in corso del genocidio non hanno spezzato la nostra volontà. Siamo ancora qui, continuiamo a insegnare e continuiamo a impegnarci per il futuro dell'istruzione a Gaza.
Invitiamo urgentemente i nostri colleghi in tutto il mondo a impegnarsi per:
Facciamo appello alla comunità accademica internazionale, ai nostri colleghi, alle istituzioni e agli amici:
L'anno scorso abbiamo formalmente istituito il Comitato di Emergenza delle Università di Gaza, che rappresenta i nostri tre istituti e i college affiliati, che complessivamente accolgono tra l'80 e l'85% degli studenti delle università di Gaza. Il comitato esiste per contrastare la cancellazione delle nostre università e offrire una voce unificata alla comunità accademica di Gaza. Da allora ha istituito sottocomitati specializzati in materia, che fungono da canali di supporto affidabili e coordinati.
Invitiamo le comunità accademiche di tutto il mondo a coordinarsi per rispondere a questo appello. Il tempo della solidarietà simbolica è finito. Ora chiediamo una collaborazione concreta, strutturata e duratura.
Collaborate con noi per garantire che le università di Gaza continuino a vivere e a essere una parte fondamentale del nostro futuro collettivo.
GAZA HA BISOGNO DI TUTTI NOI: PROPRIO IN QUESTO MOMENTO
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Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 06:30:00 GMT
di Federico Giusti e Emiliano Gentili
La riforma degli istituti tecnici e professionali[1] ha visto nell’anno scolastico appena concluso il suo primo banco di prova. L’istituzione del nuovo percorso professionale 4+2 o 4+3 (istruzione tecnica e professionale ridotta a 4 anni + ITS Academy) non ha incontrato il favore degli studenti: a fronte di ben 147 ITS (le università italiane sono 97, di cui 67 pubbliche) vi sono state soltanto poche migliaia di iscritti[2].
Fra i primi a commentare questa situazione è proprio Confindustria, che per bocca di Andrea Gavosto e Marco Gioannini (entrambi della Fondazione Agnelli) lancia l’allarme: vi sono «consistenti tassi di abbandono» e «una didattica dell’orientamento» insufficiente, specie nella secondaria di I grado. Il motivo sarebbe che «senza un robusto sbocco terziario, tutta la filiera professionale in Italia rimane un percorso marginale rispetto a quello liceale, un vicolo cieco che finisce inevitabilmente con l’attrarre gli studenti più deboli, spesso provenienti da famiglie svantaggiate e poco interessati a proseguire gli studi dopo la maturità». Di conseguenza, «quelli più dotati fra coloro che hanno un interesse per mestieri pratici» finiscono per «scegliere i licei: si è creato così un circolo vizioso che rende l’istruzione tecnica e professionale un’opzione spesso di serie B»[3].
Una lettura poco convincente, che attribuisce la distribuzione di classe degli studenti al mismatch tra le competenze richieste dalle aziende e quelle che i ragazzi sviluppano nei loro percorsi scolastici e universitari di apprendimento. La filiera tecnico-professionale, in realtà, non può garantire l’accesso a lavori “di qualità” (un certo grado di specializzazione e salari più elevati) perché la formazione erogata è finalizzata allo sbocco in lavori operai, per quanto specializzati: gli ITS possono rilasciare fino al quinto o al sesto livello EQF[4], su otto totali, a seconda che si scelga il 4+2 oppure il 4+3; anche gli insegnanti sono dei tecnici, dotati del quinto o del sesto livello EQF[5]. Inoltre, nonostante il tasso di assunzione post-ITS Academy si aggiri attorno all’80%[6] bisogna ricordare che si tratta prevalentemente di lavori in apprendistato, mentre in altri paesi europei è senza dubbio facilitato l’accesso a mansioni e ruoli lavorativi di livello maggiore. Anche il Sole 24 Ore ha parlato esplicitamente di «raccordare l’apprendistato con il sistema della formazione professionale e con istruzione tecnica e università per concepirlo in continuità, in un’ottica di filiera formativa-lavorativa»[7].
Alla base vi è la difficoltà, da parte delle ITS, a garantire uno sbocco lavorativo nel terziario. Una difficoltà la cui causa «va cercata in uno scarso e poco organico collegamento, da un lato, con gli istituti tecnici e professionali della scuola secondaria di II grado e, dall’altro, con le università e i corsi di laurea professionalizzanti»[8], ossia in una insufficiente professionalizzazione dell’istruzione tecnico-professionale e delle università. Piuttosto strano, considerato che i soggetti fondatori delle ITS Academy devono obbligatoriamente includere «almeno un istituto di scuola secondaria di secondo grado», «un’università», «una o più imprese, gruppi, consorzi e reti di imprese del settore produttivo che utilizzano in modo prevalente le tecnologie che caratterizzano l'ITS Academy» e «una struttura formativa accreditata dalla regione»[9].
Il problema, allora, sarebbe forse da ricercare nelle difficoltà del ceto imprenditoriale a garantire posti di lavoro di livello: la competizione internazionale impone alle aziende italiane di abbattere il costo del lavoro per guadagnare competitività sui mercati internazionali e l’utilizzo massivo di strumenti contrattuali precari, quale appunto l’apprendistato per i giovani, ne è una testimonianza.
In conclusione non possiamo non citare un ultimo aspetto: un altro progetto ambizioso si nasconde dietro alle parole confindustriali, ossia il pieno riconoscimento delle imprese nel mondo educativo. Queste saranno chiamate – come spesso già avviene – a collaborare all’individuazione dei percorsi formativi e dei programmi didattici… Infine, per quanto l’idea non venga sufficientemente esplicitata, una riflessione finale va indubbiamente a quel variegato mondo – e business – della formazione professionale, il cui scopo forse è quello di sostituirsi, almeno in parte, alle scuole pubbliche.
[1] L. 121/2024.
[2] INDIRE – ITS Academy. Monitoraggio Nazionale 2024 https://www.indire.it/wp-content/uploads/2024/03/Rapporto-Monitoraggio-nazionale-ITS_Academy-2024.pdf.
[3] A. Gavosto e M. Gioannini, La scuola in Italia: criticità e priorità di intervento, «SISTEMA ITALIA 2025», p. 166.
[4] https://europass.europa.eu/it/description-eight-eqf-levels.
[5] L. 99/2022, art. 5.
[6] A. Gavosto e M. Gioannini, op. cit., p. 165. Si parla delle assunzioni avvenute entro il primo anno di ricerca di lavoro.
[7] G. Pogliotti e C. Tucci, Apprendistato, quattro riforme in 30 anni ma assunzioni al palo, «il Sole 24 Ore», 4 Febbraio 2024.
[8] A. Gavosto e M. Gioannini, op. cit., p. 166.
[9] L. 99/2022, art. 4, c. 2.
Data articolo: Tue, 15 Jul 2025 06:00:00 GMT