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Difesa e Intelligence
“Justice Mission 2025”: il messaggio strategico di Pechino agli USA e ai loro alleati


di Fabrizio Verde

L’avvio delle esercitazioni “Justice Mission 2025” da parte del Comando del Teatro Orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione non è un episodio isolato né una semplice risposta legata alle ultime mosse statunitensi su Taiwan. È, piuttosto, l’ennesima manifestazione di una trasformazione profonda e strutturale della postura strategica cinese, che intreccia la questione taiwanese con l’ascesa della Cina come potenza militare globale e con una concezione sempre più forte della propria sovranità.

Dal punto di vista di Pechino, Taiwan non rappresenta un dossier tra i tanti, ma il nodo simbolico e politico più sensibile dell’intero processo di rinascita nazionale. La leadership cinese considera la separazione dell’isola come una diretta eredità della guerra civile e dell’interferenza esterna nel secondo dopoguerra, non come una scelta autodeterminata legittimata dal diritto internazionale. In questa cornice, ogni atto che rafforzi il profilo politico-militare di Taipei, in particolare attraverso forniture di armamenti statunitensi, viene giustamente denunciato come un attacco diretto all’integrità territoriale e alla sicurezza nazionale della Repubblica Popolare Cinese.

Le manovre militari avviate attorno all’isola si inseriscono esattamente in questa logica. La loro estensione geografica, che abbraccia lo Stretto di Taiwan e le aree circostanti su tutti i quadranti, e la partecipazione congiunta di forze terrestri, navali, aeree e missilistiche indicano un livello di pianificazione che va ben oltre la dimostrazione di forza. L’obiettivo è simulare un ambiente operativo completo, in cui il controllo dello spazio marittimo e aereo, il blocco delle infrastrutture portuali e la neutralizzazione di obiettivi mobili diventano elementi di un’unica architettura di pressione. Dal punto di vista cinese, si tratta di mostrare che qualsiasi ipotesi di resistenza armata o di intervento esterno sarebbe affrontata con una capacità di risposta rapida, integrata e multilivello.

La Cina evidenzia il carattere “legittimo e necessario” di queste esercitazioni, presentandole come una misura difensiva volta a scoraggiare il separatismo e l’ingerenza straniera. È una posizione che riflette una visione del diritto internazionale centrata sulla sovranità statale e sull’inviolabilità territoriale, principi che Pechino considera sistematicamente erosi dall’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti. In questo senso, Taiwan diventa anche il terreno su cui la Cina contesta l’idea occidentale di intervento “a tutela della democrazia”, contrapponendovi una lettura westfaliana delle relazioni internazionali.

Sul piano operativo, “Justice Mission 2025” evidenzia un’evoluzione significativa della dottrina militare cinese. Le simulazioni di attacchi di precisione contro obiettivi terrestri mobili, condotte con l’impiego coordinato di caccia, bombardieri, droni e missili a lungo raggio, rispondono a una chiara esigenza: neutralizzare rapidamente le capacità offensive di Taiwan, incluse quelle acquisite dall’estero, prima che possano essere efficacemente impiegate. La dimensione della cosiddetta “decapitation strike”, evocata da analisti militari cinesi, segnala inoltre la volontà di colpire non solo le strutture materiali, ma anche i centri simbolici e decisionali del fronte secessionista, riducendo al minimo i tempi di escalation.

A completare il quadro interviene l’azione della Guardia Costiera cinese, impegnata in pattugliamenti e operazioni di applicazione della legge (law enforcement) attorno all’isola. Anche qui il messaggio è duplice. Da un lato, Pechino intende normalizzare la propria presenza nelle acque che considera giuridicamente proprie, spostando la linea di demarcazione tra attività militare e applicazione del diritto interno. Dall’altro, l’uso di una comunicazione fortemente simbolica, come l’illustrazione del “nodo cinese” che circonda Taiwan, serve a rafforzare l’idea di una riunificazione non solo politica, ma anche storica e culturale, presentata come inevitabile e persino naturale.

Questi sviluppi regionali si inseriscono in un contesto internazionale molto più ampio, che riguarda l’ascesa della Cina come attore militare globale. La recente diffusione di immagini televisive relative a simulazioni di guerra del PLA in teatri lontani, come il Golfo del Messico, i Caraibi o il Mare di Ochotsk, rappresenta una rottura significativa con la tradizionale riservatezza cinese. Mostrare mappe operative che includono aree considerate parte della sfera strategica statunitense equivale a un messaggio politico preciso: la Cina non si limita più a difendere i propri confini immediati, ma pianifica scenari di conflitto su scala planetaria.

Questa evoluzione è il risultato di decenni di investimenti nella modernizzazione delle forze armate, nell’integrazione dei domini operativo-territoriali e nello sviluppo di sistemi di simulazione avanzati, basati su intelligenza artificiale e modelli in tempo reale. L’obiettivo dichiarato è addestrare comandanti e unità a gestire conflitti complessi senza dover ricorrere al combattimento reale, ma l’effetto politico di queste rivelazioni è altrettanto importante: segnalare che la Cina si percepisce, e vuole essere percepita, come una potenza militare pari agli Stati Uniti, capace di pensare e agire su più teatri simultaneamente.

In questa prospettiva, Taiwan resta il fulcro di una competizione strategica che va ben oltre l’isola stessa. Per Pechino, il controllo di Taiwan non è solo una questione di sovranità incompiuta, ma un passaggio cruciale per rompere il contenimento strategico nel Pacifico occidentale e consolidare il proprio status di grande potenza. Le esercitazioni “Justice Mission 2025” delineano con sempre maggiore chiarezza il perimetro di uno scontro possibile, in cui la Cina intende arrivare preparata, forte di una superiorità regionale e di una crescente proiezione globale nel campo della difesa.

 

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 16:48:00 GMT
Cultura e Resistenza
Emanuele Severino, sottosuolo filosofico, tecnica e guerra


di Diego Angelo Bertozzi

Non solo un gigante della filosofia, ma anche un acuto osservatore della realtà politica nazionale e internazionale: Emanuele Severino (1929-2020) è stato in grado di declinare il suo originale, e non certo semplice, pensiero filosofico in un linguaggio giornalistico chiaro, coerente e comprensibile. Il libro di Paolo Barbieri Emanuele Severino giornalista (Morcelliana, 2025) riprende e ripercorre con puntualità e rigore, tenendo insieme apparato filosofico e analisi della realtà politica, sociale e culturale, l'imponente e originale attività giornalistica del filosofo bresciano. Forse oggi un impegno poco conosciuto, o forse tenuto debitamente ai margini perché certamente non sostenibile e "digeribile" in un contesto di analisi politica e culturale alimentata da sterili contrapposizioni politiche e ideologiche ormai sterili, come quella, giusto per fare un esempio, tra occidente democratico e oriente autoritario; tuttavia ci troviamo di fronte - anche se ancorate in gran parte al periodo della guerra fredda, con il duumvirato Usa-Urss, e al crollo del socialismo reale - a un corpus critico che merita l'emersione nel pubblico dibattita dal sottosuolo nel quale è relegato quasi fosse uno specchio in grado di rivelare, senza nascondimenti, la menzogna delle nostre verità e di rivelare la trappola del nichilismo che inesorabilmente ci avvinghia.

Fin dal suo primo articolo sul quotidiano Bresciaoggi (1 giugno 1974), dedicato alle motivazioni interne e internazionali della strage di Piazza della Loggia a Brescia, Severino ha sempre guardato alle tragedie, e in generale all'attualità, del nostro Paese attraverso il filtro dei rapporti internazionali, caratterizzati in gran parte dal "duumvirato Stati Uniti-Unione Sovietica, vale a dire dal duopolio della potenza tecnica di distruzione planetaria, e successivamente dal crollo dell'Urss e dell'affacciarsi del terrorismo di matrice islamica. Barbieri riesce bene nel proposito di tenere insieme e rendere comprensibile la trama di un pensiero filosofico complesso, tutt'altro che agevole da affrontare, ma perfettamente in grado di analizzare il presente traendo fonte da quello greco (a partire da Parmenide) e che intravede nel dominio planetario dell'Apparato tecnico-scientifico l'ineludibile sbocco di una storia millenaria della riflessione occidentale; di un sottosuolo filosofico del quale non abbiamo piena coscienza: quel nichilismo ("estrema follia") che assimila ogni ente, ogni cosa, al nulla, rendendoli disponibili alla distruzione e al totale annientamento. Qui trova radice la guerra quale "levatrice e becchino delle civiltà" perché le cose come intese durante larghissima parte della storia dell'occidente risultano disponibili "all'essere e al niente" e proprio per questa situazione di oscillazione ontologica tra i due poli (essere e nulla) di ogni cosa "sorge la volontà di dominarla e di produrla e di distruggerla". Così intese, le cose sono oggetto della volontà di potenza e rendono possibile ogni azione e ogni forma estrema di dominio.

Soffermiamoci - visti anche la natura e gli interessi della nostra testata - sul sesto capitolo del libro di Barbieri perché ha un'importanza cruciale nel delineare le riflessioni del filosofo bresciano ed esprimerne la piena attualità di fronte allo sviluppo sempre più accelerato dell'Apparato tecnico-scientifico. Ci immergiamo in quel sottofondo filosofico che ha reso possibile la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche, vale a dire di ogni tradizione, religione, ideologia, valore (anche estetico) che hanno preteso  - e in parte ancora pretendono - di porre dei limiti, una cornice prestabilita (come le possenti colonne di un tempio) al divenire delle cose, per trovare riparo dall'angoscia della morte e dell'annientamento. La fede/follia nel divenire altro delle cose è ciò su cui si regge la prassi della tecnica e del suo continuo sviluppo: utilizzata come mezzo dalle varie forze/forme della tradizione che si pretendono come immutabili (l'autore esamina nello specifico capitalismo, marxismo e cristianesimo) e che sono fra di loro in competizione per prevalere, la tecnica, una volta ingaggiata nella battaglia non può tollerare alcun limite, morale o politico che sia, pena il suo deperimento e conseguente sconfitta dell'immutabile che serve. Per evitare questo, il dio, l'ordine capitalistico e la costruzione della società socialista decadono perché, per prevalere, non possono porre alcun limite allo sviluppo della tecnica tanto da retrocedere via via alla condizione di mezzi di questa. L'esempio riportato da Severino è quello del socialismo sovietico, crollato proprio perché impalcatura politica e valoriale troppo pesante. Il rapporto tra servo e padrone di hegeliana memoria si ribalta lungo un tragitto già tracciato, scolpito nelle stanze antiche in cui dimora la tradizione filosofica occidentale. La guerra di oggi - pensiamo a quella in Ucraina tra Russia e Nato - diventa così, pur nella sua quotidiana drammaticità, un fronte secondario (una forma in via di estinzione) del conflitto generale ingaggiato dall'apparato tecnico scientifico contro ogni forma di tradizione; lo sviluppo di nuove armi, l'uso dell'intelligenza artificiale ne alimentano forza e pretese.



Barbieri, in ultimo, rende omaggio nel modo migliore a Severino; lo fa a detrimento di tutti coloro che danno per morta la filosofia, perché sconfitta dalla volontà di potenza delle varie scienze specialistiche. Invece proprio a questa bistrattata "ancilla" si deve ricorrere per comprendere che quest'ultime poggiano la loro vittoria da un originario sottosuolo filosofico. Non solo: la figura di Severino, efficacemente illustrata nel libro, è esempio cristallino della capacità del pensiero filosofico rigoroso di confrontarsi con tutte le contraddizioni che attraversano la nostra società; di farsi radicale confronto con il fondamento del nostro vivere quotidiano.

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 16:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Un Crosetto è per sempre


di Marco Trionfale*

Fino a qualche giorno fa, per mia negligenza, non avevo nessuna idea su che persona fosse Guido Crosetto. Sentivo dire in giro fosse uno dei migliori della variopinta compagnia Meloni. Così quando ho saputo di una sua intervista concessa a Marco Travaglio, dunque non al solito clone VespaMentana, l’ho guardata per cercare di capire.
E qualcosa ho capito, almeno credo.

Ho notato che Crosetto ha puntualizzato, due volte, di essere una persona razionale; che è un po’ come affermare: “Sono un essere umano”. Sarà che è abituato a trattare con persone non razionali? Che in passato qualcuno lo ha accusato di non esserlo? Bah, mi sono detto, capirò più avanti.

A un certo punto dell’intervista Crosetto, ministro della Difesa, si lascia andare a questo spericolato parallelismo: “Non è che gli Usa stiano abbandonando l’Europa, è che, come un buon padre di famiglia, stanno dicendo al figlio ormai grande: ti ho mantenuto fino ad ora, ti ho protetto, adesso cammina con le tue gambe”.

Una visione del mondo allegra e spensierata. Mi ha fatto ripensare ai tempi in cui Silvio, il fu capocomico della compagnia, raccomandava di trattare gli elettori come alunni di quarta elementare, “E non fatta nel primo banco”, aggiungeva per consolidare la sua fama di mattacchione.

Quando il giornalista gli ha fatto notare che non è esattamente la stessa cosa, che gli Usa hanno avuto il loro tornaconto dal loro ruolo di protettori, l’uomo razionale ha risposto: “Si va be’, ma sempre meglio che stare sotto l’ombrello dell’Urss o della Cina!”.

Che è un po’ come sostenere A, e quando ti vien fatto notare che A è falso, tu rispondi: “Sempre meglio di B”. Un non sense. E mentre Travaglio pensava a come riallacciare i fili della logica, il buon Crosetto, ridendo, era già passato ad altro.

Questo non sense mi ricordava qualcosa. Ci ho pensato un po’ su, e mi è venuto in mente.

Ricordate la scena del treno con Totò e l’onorevole Cosimo Trombetta? Questi prova a instaurare un dialogo con il compagno di scompartimento, il quale gli mette costantemente le mani addosso, finché l’onorevole non sbotta: “Ma insomma, la pianti di toccarmi!”. E l’altro: “Si va be’, io tocco; ma perché lei fa il ritocco?”
E approfittando dello sbigottimento dell’onorevole, Totò cambia rapidamente discorso e prosegue con altre facezie. Dal punto di vista scenico è lui quello che ha vinto. 
Ma possibile che un ministro della difesa della Repubblica Italiana usi il trucchetto del ritocco come Totò?

Parrebbe di sì. In un’altra occasione Crosetto se ne esce con la strabiliante dichiarazione che la Nato non ha mai aggredito nessuno. Il giornalista aggrappandosi disperatamente alla realtà, gli fa notare che ha aggredito Serbia, Iraq e Libia. Ne segue questo brevissimo botta e risposta:
-  La Nato è intervenuta sulla base di risoluzioni -
– Contro le risoluzioni! – 
- Sulla base di risol… vabbè comunque l’hanno fatto perché non c’era il ministro della difesa Crosetto. -  
Applausi e risate.
Evvai di ritocco!

In un’ennesima occasione per dimostrare che la Nato non si è mai espansa verso est, ha asserito con forza che la Svezia ci ha messo due anni e mezzo per essere ammessa. E quindi? Un altro non sense.

Ma allora, mi sono chiesto non volendo dubitare delle affermazioni di un ministro sulla propria razionalità, non sarà che anche l’uso del ritocco e dei non sense sia per lui un esercizio di razionalità?

In quale caso dichiarazioni senza senso possono essere ritenute razionali? Be’, ad esempio quando si vuole convincere qualcuno.

È quello che fa Totò nella scena in cui vende la fontana di Trevi: racconta un sacco di cose non proprio verissime al fine di convincere il malcapitato a comprare.
Ma cosa mai potrebbe volerci vendere Guido Crosetto?

Sì, lo so, viene spontaneo rispondere armi. Eppure non può essere.

Perché durante l’intervista ha affermato, lasciando capire che da ministro ha accesso a informazioni che noi comuni mortali non abbiamo, che la Russia per conquistare l’1,5% del territorio ucraino ha perso, negli ultimi tre anni, un milione e centomila uomini. 

E attualmente ha un esercito di un milione e mezzo di uomini.

La direste mai una cosa così, se voleste convincere qualcuno a comprare armi per difendersi dalla Russia? Non è razionale.

Io, che sono leggermente autistico, ho fatto i conti: mantenendo le proporzioni, per conquistare l’Italia, la Russia perderebbe 33 milioni di uomini; per la sola Lombardia 3 milioni di uomini. Certo se si accontentasse della Romagna (ai russi Rimini è sempre piaciuta) ne perderebbe soltanto 800.000. Pordenone, se uno si accontenta, viene via con meno di 5000 uomini.

Ma se volesse conquistare l’intera Unione Europea perderebbe 470 milioni di uomini. Milione più, milione meno.

Quindi dalle parole del nostro ministro della difesa si deduce che la Russia non è un pericolo serio, non ha nessuna interesse ad attaccarci e non ha senso perseguire chissà quale aumento delle spese militari per difendersi da una minaccia così remota.

E quindi, di nuovo, cosa vuole venderci Crosetto?

Non riuscivo a capire.

Poi mi sono concentrato sul pronome maledetto: io.

Ripercorrendo l’intervista ho contato una miriade di io: io ho detto, io ho convinto, io ho sempre sostenuto, io non avrei mai fatto…e lì mi è preso lo sconforto.
Ecco allora, meschinamente, a cosa servivano il ritocco, i non sense, le battutine: a dare una bella immagine di sé, ad apparire vincente in un dibattito, contando sulla semplicità di un pubblico per il quale, quando si assiste a uno spettacolo, alla fin fine, quel che conta è divertirsi.

In conclusione quindi, quel che temo d’aver capito è che, in questo mondo di perenni adolescenti afflitti da narcisismo patologico, solo questo voleva venderci il ministro: un Crosetto. 

P.S. Marco Trionfale, dopo acceso dibattito interiore, diffida se stesso per i secoli venturi dall’accostare in alcun modo il nome di Totò a quello di Guido Crosetto.

*Marco Trionfale, ovvero Mirta Contessi, Franco Costantini e Leonardo Fedriga, hanno appena pubblicato per le edizioni de l’AntiDiplomatico due romanzi comunisti: “Albeggerà al tramonto” e il suo seguito “Il tempo del secondo sole”. Sono le storie un po’ sgangherate dell’impegno sociale di un gruppo di anziani, che decidono sia giunto il momento di ribellarsi al potere costituito, sempre più impudente e corrotto, riscoprendo la voglia di lottare per la propria e la nostra libertà. Merco Trionfale scrive del tempo maledettamente reale, e nello stesso tempo surreale e travolgente in cui viviamo, con echi della fantasia di Stefano Benni, del sarcasmo atroce di Daniel Pennac, del realismo magico di Tullio Avoledo, con le note sgangherate dei Leningrad Cowboys e qualche personaggio che assomiglia fin troppo ai leader in “Libera Baku Ora”.

 

ALBEGGERA’ AL TRAMONTO

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:53:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Appello urgente al presidente ucraino per il rispetto delle norme UE sui diritti umani e la libertĂ  religiosa nel caso del Metropolita Arseny


di Eliseo Bertolasi

Come riferito dall’ufficio stampa dell’Unione dei giornalisti ortodossi, il tribunale distrettuale di Chechelovsky di Dnipro, in Ucraina, ha prorogato fino al 3 febbraio 2026 la custodia cautelare del metropolita Arseniy (Yakovenko), abate della Lavra di Svyatogorsk della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica. Di fatto, il provvedimento prolunga il “Calvario” giudiziario del religioso, ancora in cella e senza accesso alle necessarie cure salvavita. Inquietanti anche le immagini che ritraggono il metropolita condotto in tribunale ammanettato come un pericoloso criminale scortato da quattro agenti di sicurezza.

I dettagli della vicenda sono stati da poco riportati anche da l’AntiDiplomatico.

Il clamore di questo particolare caso giudiziario, ormai uscito dai confini dell’Ucraina, ha destato l’attenzione dell’Associazione Libera-mente Umani (ALU), organizzazione apartitica e senza scopo di lucro con sede a Lugano, Svizzera, impegnata nella tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che si è prontamente attivata rivolgendo un appello urgente al presidente ucraino Zelensky: 

Portiamo alla Sua attenzione il caso del Metropolita Arseny (Igor Fedorovich Yakovenko), abate del Monastero della Santa Dormizione di Svyatogorsk della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica, detenuto dal aprile 2024 in un centro di detenzione preventiva a Dnipro. Il Metropolita è accusato di collaborazionismo e divulgazione di informazioni sulle forze armate ucraine, basate principalmente su un sermone del settembre 2023 in cui ha menzionato posti di blocco che impedivano l’accesso al monastero durante i combattimenti. Egli ha negato le imputazioni e ha scelto di rimanere nel monastero per assistere monaci e rifugiati, nonostante i rischi. Il 29 ottobre 2025, un tribunale ha concesso gli arresti domiciliari per un intervento chirurgico cardiaco urgente, riconoscendo l’incompatibilità delle condizioni detentive con la sua salute. Tuttavia, è stato immediatamente di nuovo arrestato dal Servizio di Sicurezza Ucraino (SBU) con nuove accuse (giustificazione dell’aggressione russa e rivelazione di posizioni militari). L’ultima udienza del 6 dicembre 2025 presso il Tribunale Distrettuale di Chechelovsky a Dnipro ha esteso la detenzione preventiva fino al 3 febbraio 2026, nonostante le gravi condizioni di salute (crisi ipertensive in aula, necessità di cure immediate) e le richieste di misure alternative avanzate dalla difesa e da nove deputati ucraini. Queste circostanze sollevano seri interrogativi sul rispetto dei diritti umani, inclusa la libertà religiosa e di coscienza, garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articoli 1,2, 3,5,6, 9 e 10), a cui l’Ucraina aderisce come membro del Consiglio d’Europa. Inoltre, come Paese candidato all’UE, l’Ucraina è tenuta a conformarsi ai criteri di Copenaghen, che richiedono il rispetto della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, inclusa la protezione delle minoranze religiose e l’accesso a un processo equo. Il Metropolita Arseny, un uomo anziano con problemi cardiaci gravi, rappresenta un simbolo della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica. Il suo caso ha suscitato preoccupazione internazionale, inclusi appelli da parte di gerarchie della Chiesa Ortodossa, deputati ucraini, attivisti per i diritti umani e recenti manifestazioni negli Stati Uniti (16 dicembre 2025) che chiedono la sua liberazione immediata e la revoca di leggi percepite come repressive nei confronti della Chiesa canonica. L’Associazione ALU Le chiede rispettosamente di intervenire affinché: Sia garantito al Metropolita Arseny l’accesso immediato alle cure mediche necessarie, inclusa l’operazione cardiaca urgente;
Sia rivisto il suo caso in conformità con gli standard internazionali di giustizia equa e imparziale;
Sia rispettata la libertà religiosa e di espressione, evitando misure che possano essere percepite come discriminatorie nei confronti della Chiesa Ortodossa Ucraina.
Crediamo fermamente che azioni in questa direzione rafforzerebbero l’impegno dell’Ucraina verso i valori europei e contribuirebbero a una risoluzione pacifica delle tensioni interne. Siamo disponibili a fornire ulteriori informazioni o a dialogare su questo tema. La ringraziamo per l’attenzione e confidiamo in una Sua risposta positiva. Cordiali saluti, Avv. Francesco Scifo

L’avvocato Scifo contattato telefonicamente ha confermato che il ricorso è già stato registrato dall’Ufficio del Presidente. 

In passato l’avvocato Scifo con il team di ALU si era già occupato con successo di due casi delicati, sempre nel contesto ucraino: 

- la liberazione-scambio del prigioniero di guerra russo Denis Reznikov detenuto e torturato nelle carceri ucraine (14 agosto 2025);

- il trasferimento agli arresti domiciliari dell’avvocata attivista ucraina Elena Berezhnaja rilasciata dalle carceri di Kiev dopo oltre 3 anni di reclusione (27 giugno 2025).

Ora si auspica che anche il metropolita Arseny possa essere quanto prima rilasciato per accedere alle cure salvavita di cui necessita e per tornare tra i tanti fedeli che lo aspettano e lo sostengono con la preghiera.

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https://alu-associazioneliberamenteumani.com/2025/12/22/appello-urgente-al-presidente-della-repubblica-ucraina-per-il-rispetto-delle-norme-ue-sui-diritti-umani-e-la-liberta-religiosa-nel-caso-del-metropolita-arseny-igor-yakovenko/

 

https://www.kommersant.ru/doc/8269156

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:24:00 GMT
L'Intervista
“La giustizia è il karma della storia: la mia parola non si arrende al fascismo”. Intervista esclusiva a Tarek William Saab, Procuratore generale del Venezuela


di Geraldina Colotti 

 

Brandisce versi e tatuaggi, gli occhi neri come dardi, e s'infiamma parlando di giustizia e di poesia. In Tarek William Saab (nato a El Tigre nel 1962) sembra convivere la tensione morale di un Saint-Just - l'angelo della Rivoluzione francese che non ammetteva macchie sull'ideale di virtù - e la ricerca spirituale dei personaggi di Hermann Hesse. Con 45 anni di vita letteraria alle spalle, Saab è una voce unica nel panorama lirico castigliano, capace di abitare il limite tra la carne e lo spirito.

Avvocato specializzato in Diritti umani e attuale Procuratore generale della repubblica, ha costruito un percorso intellettuale che conta 17 libri pubblicati — tra cui Los Ríos de la Ira (1987), Cielo a Media Asta (2000) e il recente Un Tren Viaja al Cielo de la Medianoche (2025) — per un totale di 36 edizioni internazionali in paesi come Russia, Cina, Egitto e Italia.

La sua opera, definita da Hugo Chávez come "vibrante, profonda e patriota" e da Juan Liscano come un "riscatto della teologia rivoluzionaria", si è fatta cronaca viva in Los Niños del Infortunio (2006), scritto in Pakistan e con l'ammirazione di Fidel Castro. Pluripremiato a livello internazionale, Saab redime il ruolo della "parola insurgente", trasformando la sua militanza, di ascendenza araba, in una dottrina di salvezza che fonde etica e lirica nel cuore della tempesta venezuelana.

Ma Saab è, prima di tutto, un figlio della "Patria Grande". La sua voce si inserisce in quel solco profondo tracciato da José Martí, dove la parola è al servizio della libertà, e da Roque Dalton, che della poesia fece un’arma di guerriglia contro l'ingiustizia. C’è in lui l’eco della "poetica del fango e della gloria" di un Víctor Valera Mora, quel sentire venezuelano che sa essere viscerale e al tempo stesso colto, ribelle e profondamente radicato nel paesaggio.

Per Saab, la "giustizia poetica" non è una metafora, ma una prassi. Se Saint-Just scriveva che "non si può regnare innocentemente", Saab risponde con una legalità che è anche riparazione etica, un "karma" che trasforma la sentenza in un atto di difesa della sovranità contro l’assedio imperiale. In questo incontro, commento ai suoi quarant'anni di opera poetica culminati in Soñando el Largo Viaje, il Procuratore Generale si sveste della toga per mostrare la carne viva di chi ha attraversato il fascismo del 2002 e la resilienza di chi vede nella cultura l’ultima linea di difesa contro la barbarie.

Questa immagine di lei come un "giacobino bolivariano" che recita Martí e Roque Dalton affascina anche l’Europa. Lei brandisce versi e s'infiamma per la giustizia. In questo presente di aggressione multiforme, come convivono in Tarek William Saab il rigore del Procuratore e la libertà del poeta?

Credo che la coerenza sia l'unico ponte possibile tra la legge e l'anima. Come per Martí, per me il dovere è un altare su cui si sacrifica tutto, ma è la poesia a dare il respiro necessario per non soccombere alla durezza del conflitto. La mia voce poetica è nutrita dalla stessa sete di giustizia che muoveva Roque Dalton: l'idea che la poesia debba essere come il pane, per tutti e tutte. Nella mia antologia Soñando el Largo Viaje noterà che il tono si è fatto più decantato, ma la passione è la stessa di quando leggevo i classici o quando scrivevo tra le montagne dell'Himalaya. Come diceva il nostro "Chino" Valera Mora, noi siamo fatti di questa materia: una ribellione che non accetta compromessi, ma che cerca sempre il lirismo per poter durare oltre il tempo della battaglia.

Veniamo alla battaglia politica. Lei ha denunciato con forza il ritorno di un’estrema destra "neofascista" dopo le elezioni del luglio 2024. Quali casi emblematici hanno segnato l'azione del Ministero Pubblico in questo senso?

Quella che affrontiamo oggi è una fazione transnazionale che usa l'odio e la tecnologia come armi. Il Ministero Pubblico è stato l'argine contro i piani dei settori più estremisti. Abbiamo perseguito crimini d'odio atroci durante le cosiddette "guarimbas cibernetiche". Un caso decisivo è stato lo smantellamento dell'operazione Brazalete Blanco, un piano per l'omicidio del presidente e assalto alle caserme. Abbiamo anche ottenuto sentenze storiche contro il sabotaggio elettrico. Per noi la giustizia non è vendetta, ma l'unica garanzia affinché il fascismo non diventi la norma.

Eppure Washington continua a parlare di "persecuzione politica" mentre stringe il cappio delle sanzioni. Qual è la sua risposta a questo assedio multiforme?

È un'ipocrisia totale. L'aggressione degli Stati uniti è una violazione massiccia dei diritti umani. Le loro "sanzioni" sono misure coercitive unilaterali volte a provocare morte. Il Ministero Pubblico documenta questo impatto devastante ogni giorno; per noi sono crimini di lesa umanità. L'aggressione si manifesta anche nel furto di beni come CITGO o del nostro oro a Londra. Di fronte a questo, la nostra risposta è la "Giustizia Sovrana": non permetteremo che una potenza straniera utilizzi la fame come arma di ricatto politico.

Stiamo chiudendo questo 2025 sotto una delle fasi più aggressive della cosiddetta "guerra ibrida". L'amministrazione statunitense è arrivata a utilizzare metodi di pirateria internazionale per tentare di appropriarsi del petrolio venezuelano e ha promosso il terrorismo con la scusa della lotta al narcotraffico nei Caraibi. Come analizza lei questo assedio che mira al controllo delle risorse e del territorio del Venezuela?

Siamo di fronte a una delle fasi più terribili della guerra ibrida. L'amministrazione Trump non ha risparmiato sforzi nel promuovere il terrorismo internazionale per uccidere innocenti nel Mar Caraibico, usando la falsa scusa della lotta al narcotraffico. È un'infamia: il Venezuela non è un paese produttore né trafficante. Il 95% della droga che arriva negli Stati Uniti proviene dalla costa del Pacifico, da paesi come la Colombia o il Perù, a migliaia di chilometri dalle nostre coste. Noi siamo solo un paese di transito marginale, meno del 5%, e la nostra lotta è implacabile con sequestri record. In realtà, usano la paura e il terrorismo, violando tutte le dichiarazioni dell'ONU, per rovesciare il governo legittimo del presidente Nicolás Maduro. È pirateria del XXI secolo per rubare il nostro petrolio, ma il mondo, con la Russia, la Cina e il Consiglio di Sicurezza, sta già reagendo contro questa politica senza precedenti. Il Venezuela è oggi l'avanguardia mondiale e il presidente Maduro si consolida come un leader globale che ispira i popoli nella loro lotta per la liberazione.

Questa sua fermezza nasce anche dal 2002, quando vide il fascismo in faccia. Cosa le ha lasciato quel sequestro nell'Helicoide?

Il 12 aprile 2002 fui a un passo dall'essere assassinato. Nonostante l'immunità parlamentare, mi tirarono fuori di casa con la forza e mi colpirono con i fucili fino a farmi svenire. Mi accusarono falsamente di trafficare armi, quando in realtà erano solo scatole dei miei libri. Fui tenuto nei sotterranei della DISIP senza cibo per due giorni. Una volta libero, paradossalmente, dovetti pagare dieci arepas ai miei stessi sequestratori che avevano fame! Ma tornai subito a Miraflores per accogliere Chávez. Vederlo tornare fu la conferma del "karma positivo": la lealtà vince sempre.

In questa lotta, lei cita spesso la sua anima buddista e la filosofia di Hermann Hesse. Come la aiutano a governare il Ministero?

Mi sono adattato a questa filosofia perché tutto ciò che accade ha a che fare con il Dharma e il Samsara. Il poeta ha un'anima empatica; se non fossi stato così fin da bambino, non potrei essere il rivoluzionario che sono. La mia militanza non è fredda, è organica. Contro la "guerra cognitiva" che cerca di alienare i giovani, noi opponiamo la cultura e la disciplina. Come quando Fidel mi mandò in Pakistan nel dicembre del 2005: scrissi Los Niños del Infortunio dettandolo in otto notti. È la parola che si fa azione, la lealtà alla storia che ci permette di camminare a testa alta.

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:11:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Trump incontra Zelensky: gli ucraini possono congratularsi


di Viktoriya Nikiforova - Ria Novosti

Prima di recarsi a Mar-a-Lago, il leader del regime di Kiev era così stressato da aver subito, a quanto pare, una crisi ipertensiva. La situazione per lui era davvero critica: mentre era in volo verso gli Stati Uniti, l’esercito russo liberava Dimitrov e Gulyapole, interrompeva la corrente elettrica in quasi tutta Kiev e veniva eseguita una perquisizione al parlamento ucraino: gli americani stanno ancora cercando di scoprire dove siano finiti i loro soldi.

Nemmeno l’accoglienza riservata a Zelensky in Florida ha migliorato il suo umore. Nessuno lo ha accolto all’aeroporto. È arrivato alla tenuta di Trump come un semplice supplicante. Il presidente degli Stati Uniti, stringendogli la mano sulla soglia di casa, non gli ha praticamente dato la possibilità di dire nulla ai giornalisti e lo ha portato dentro come uno scolaretto disubbidiente.

Bisognava vedere la faccia di Zelenskyy quando Trump ha raccontato della sua conversazione con il presidente Putin e ha spiegato gli attacchi a Kiev come risposta ai continui attacchi delle Forze Armate ucraine contro la Russia. Ma l’etmano (leader) ucraino non ha nemmeno osato obiettare.

In breve, Trump aveva già preparato la sua controparte secondo tutte le regole del negoziato. Bistrattando Zelensky, stava contemporaneamente inviando un chiaro segnale all’Europa: non vogliamo più sponsorizzare il vostro protetto. Siete responsabili della morte di decine di migliaia di persone e non volete porre fine al conflitto. Putin, invece, sì, - questo lo unisce a Trump.

Nonostante ciò, durante i negoziati il presidente degli Stati Uniti non è riuscito a fare pressione su Zelensky. Il capo del regime di Kiev ha continuato ad aggrapparsi alle “garanzie di sicurezza”, che per lui significano la presenza di contingenti militari stranieri in Ucraina e la promessa degli Stati Uniti di proteggere l’Ucraina. 
Questa richiesta è inaccettabile sia per Mosca (che lo ha affermato ripetutamente) sia per Washington: l’attuale amministrazione americana sta facendo tutto il possibile per evitare uno scontro diretto con la Russia, rendendosi conto delle conseguenze apocalittiche.

Zelensky si rifiuta anche di ritirare le truppe dal Donbass, mugugnando che tali questioni dovrebbero venir decise tramite referendum e che, affinché ciò accada, è necessario un cessate il fuoco. Tuttavia, quando i giornalisti glielo hanno chiesto, ha risposto che gli ucraini residenti in Europa avrebbero potuto votare, ma non ha detto nulla riguardo agli ucraini residenti in Russia. Ma senza il voto degli ucraini russi, il referendum si trasformerebbe in una truffa. Allo stesso tempo, Trump ha pienamente sostenuto la posizione di Mosca sull’insensatezza di un cessate il fuoco.

Trump ha rispettosamente sottolineato il serio impegno del presidente russo per il raggiungimento della pace e la generosità con cui è disposto a contribuire alla ricostruzione dell’Ucraina. Durante la conferenza stampa, sembrava che Trump stesse negoziando direttamente con Putin piuttosto che con Zelensky: ha discusso del possibile avvio della centrale nucleare di Zaporozhe, ha sognato di riprendere gli scambi commerciali con la Russia, ha parlato della creazione di team negoziali che lavori con i colleghi russi e ha riconosciuto che l’Ucraina continuerà a perdere territorio se non sarà d’accordo con la pace.

Zelensky, cupo, è stato costretto ad ascoltare tutto questo, facendo nervosamente spallucce e voltando le spalle al conduttore di Mar-a-Lago. Ha dovuto anche ascoltare l’amara verità: Trump ha giustamente osservato che il popolo ucraino sogna la fine del conflitto.

Ma questa volta, quei sogni non sono destinati a realizzarsi. Zelensky avrebbe potuto portare la pace agli ucraini, invece ha scelto la guerra, ignorando tutte le idee dei negoziatori americani. “Cosa succede se non si raggiunge ancora un accordo?” ha chiesto un giornalista a Trump. “Uccideranno, moriranno - ha aggrottato la fronte il presidente americano -. È quello che succederà”.

Ciò nonostante, Trump rimane ottimista e ritiene che Russia e Ucraina non siano mai state così vicine a un accordo come lo sono oggi. A suo avviso, l’accordo è “pronto al 95%”, sebbene il processo sia molto difficile.

Tuttavia spetta agli ucraini calcolare le percentuali. La Russia otterrà ciò che vuole, in un modo o nell’altro. Ancora prima della sua telefonata con Trump, il presidente Putin aveva dichiarato che se Kiev non volesse cedere i suoi territori pacificamente, li avrebbe ottenuti militarmente.

È triste pensare che ieri, Zelensky – se avesse accettato le generose offerte di Trump - avrebbe potuto salvare i suoi cittadini dalla morte. Ma per lui, loro sono solo un fondo di scambio, schiavi le cui vite vengono barattate per ville, diamanti e altre sciocchezze del genere. È un peccato che molti ucraini non lo capiscano, altrimenti avrebbero potuto sbarazzarsi da tempo di questo “piccolo Tsakhes” (protagonista di una fiaba di Hoffman ndr.) che sta distruggendo il loro Paese.

(Traduzione di Eliseo Bertolasi)

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:02:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Somaliland, la Cina avverte Israele: no ai separatismi nel Corno d’Africa

La decisione di Israele di riconoscere formalmente il Somaliland ha innescato una dura reazione diplomatica, in particolare da parte della Cina, e ha riacceso le tensioni geopolitiche nel Corno d’Africa. Pechino ha condannato apertamente la mossa, definendola un atto pericoloso che rischia di destabilizzare ulteriormente una regione già fragile.

Il Ministero degli Esteri cinese ha ribadito che il Somaliland è una “parte inseparabile” della Somalia e ha messo in guardia qualsiasi Paese dal sostenere o incoraggiare forze separatiste per interessi egoistici. Il portavoce Lin Jian ha affermato che la Cina sostiene con fermezza la sovranità, l’unità e l’integrità territoriale della Somalia, opponendosi a qualsiasi tentativo di smembramento del suo territorio. Pechino ha inoltre esortato le autorità del Somaliland a cessare immediatamente le attività separatiste e le collaborazioni con attori esterni, sottolineando che la questione è un affare interno somalo che deve essere risolto dal popolo somalo nel rispetto della propria Costituzione.

Alle critiche cinesi si è unita l’Eritrea, che ha definito il riconoscimento israeliano un “stratagemma” preparato da tempo per destabilizzare la regione e alimentare crisi su scala globale. Asmara ha invitato esplicitamente la Cina a utilizzare il proprio peso in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per impedire una legittimazione internazionale del Somaliland, richiamando una presunta analogia con la questione di Taiwan e il principio di integrità territoriale.

Il Somaliland si è autoproclamato indipendente nel 1991, ma fino ad oggi nessuno Stato lo aveva riconosciuto ufficialmente. Israele è il primo a farlo, collocando la scelta nel solco degli Accordi di Abramo del 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra lo Stato ebraico e diversi Paesi arabi e musulmani. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele intende ampliare rapidamente i rapporti con il Somaliland in settori chiave come agricoltura, sanità, tecnologia ed economia.

La mossa israeliana, tuttavia, ha suscitato una condanna diffusa. La Somalia e numerosi Paesi vicini hanno denunciato una violazione del diritto internazionale, mentre organizzazioni regionali e internazionali - dall’Unione Africana alla Lega Araba, dal Consiglio di Cooperazione del Golfo all’Organizzazione della Cooperazione Islamica - hanno espresso preoccupazione per una minaccia diretta all’integrità territoriale somala.

Sul piano strategico, il Somaliland occupa una posizione cruciale nei pressi dello stretto di Bab al-Mandab, passaggio vitale tra Africa e Yemen e snodo fondamentale per il commercio globale. Proprio qui si concentrano importanti interessi cinesi: Pechino considera lo stretto una vera e propria “vena giugulare” della Via della Seta Marittima e mira a garantirne la sicurezza. Non a caso, la Cina ha aperto la sua prima base militare all’estero nel vicino Gibuti, anche per prevenire l’emergere di un polo di sicurezza rivale nel Somaliland.

L’opposizione cinese al riconoscimento del Somaliland si è ulteriormente irrigidita negli ultimi anni, soprattutto dopo il rafforzamento dei legami diplomatici ed economici tra la regione secessionista e Taiwan, sanciti dall’apertura reciproca di uffici di rappresentanza a Hargeisa e Taipei nel 2020. Per Pechino, che considera Taiwan parte integrante del proprio territorio e non ha mai escluso l’uso della forza per la riunificazione, qualsiasi parallelo è politicamente inaccettabile.

Secondo David Shinn, professore alla George Washington University, la Cina vede il Somaliland come strettamente collegato alla questione taiwanese e farà tutto il possibile per scoraggiare ulteriori riconoscimenti internazionali, sostenendo con decisione l’integrità territoriale della Somalia.

Sul fronte statunitense, il presidente Donald Trump ha escluso per ora che Washington segua l’esempio israeliano, pur dichiarando di voler studiare la questione. Il Dipartimento di Stato ha ribadito che gli Stati Uniti continuano a riconoscere l’integrità territoriale della Somalia. Shinn ritiene che gli Usa manterranno questa posizione almeno nel breve periodo, anche per evitare complicazioni nel sostegno alla campagna militare del governo somalo contro gruppi jihadisti come al-Shabaab e lo Stato Islamico.

Resta però un’incognita di peso: un eventuale riconoscimento statunitense del Somaliland potrebbe aprire la strada ad altri Paesi, modificando radicalmente gli equilibri diplomatici nella regione. Per ora, la scelta israeliana appare isolata, ma ha già dimostrato quanto il dossier Somaliland sia intrecciato a dinamiche globali che vanno ben oltre il Corno d’Africa.

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 14:35:00 GMT
OP-ED
Andrea Zhok - Caso Hannoun. E gli aiuti militari al terrorismo di Israele?

 

di Andrea Zhok*

 

A quanto pare alcune associazioni italiane hanno raccolto nel corso di 20 anni fino a 7 milioni di euro per sostenere Hamas.

Orsù indigniamoci tutti in coro.

Non si fa!

Non si fa perché Hamas è un gruppo armato che ha commesso atti terroristici. 

Nel frattempo, solo dal 7 ottobre 2023 ad oggi gli Stati Uniti hanno trasferito 21 miliardi di dollari in aiuti militari ad Israele, che li ha usati per bombardare 7 paesi, aggredirli unilateralmente, commettere omicidi mirati di militari e civili, uccidere al minimo 65.000 palestinesi (di cui 18.400 bambini).

Questo naturalmente non è terrorismo, è legittima difesa. Se un bambino ti guarda storto una sventagliata di Uzi è il minimo.

In sostanza, se ho capito bene, 7 milioni in 20 anni per un gruppo armato a sostegno dei palestinesi è uno scandalo immorale, mentre  21 miliardi di armi in 2 anni per uno stato che ha ripetutamente agito in forme terroristiche è un lodevole dettaglio.

Non bisogna armare Hamas, i palestinesi devono solo porgere l'altra guancia - quando hanno la fortuna di averne ancora una - mentre i soldi si potevano raccogliere legittimamente solo per l'acquisto dei sacchi per le salme.


E' davvero scandaloso che questa gente non si lasci ammazzare e imbustare in silenzio.


......
...... 

Ma voi, sepolcri imbiancati del giornalismo e della politica, riuscite ancora a vergognarvi, o dovete pagare qualcuno per farlo al vostro posto?

 

*Post Facebook del 28 dicembre 2025

Data articolo: Sun, 28 Dec 2025 20:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Maduro: "L'Erode moderno non sconfiggerĂ  il Venezuela"

In un messaggio diffuso domenica 28 dicembre, in occasione della commemorazione della Giornata dei Santi Innocenti, il Presidente venezuelano Nicolás Maduro ha tracciato un parallelo tra il racconto biblico e l’attuale momento storico del Paese sudamericano segnato da sazioni e assedio militare statunitense. La data ricorda la strage ordinata dal re Erode contro i bambini di Betlemme, nel tentativo di eliminare il neonato Gesù, visto come una minaccia al suo potere.

Attraverso i propri canali social, il leader bolivariano ha lanciato un messaggio di fermezza e ottimismo, affermando che, così come Erode fallì di fronte a Gesù, oggi le forze imperialiste non prevarranno contro la nazione sudamericana: "Così come Erode fallì di fronte a nostro Signore Gesù Cristo, oggi non prevarrà neppure contro la nazione sudamericana", le sue parole. Maduro ha inoltre sottolineato come la resistenza del popolo venezuelano sia sorretta da una speranza incrollabile in un futuro migliore. 

Sulla stessa linea, la diplomazia venezuelana ha ampliato la riflessione allo scenario internazionale. Il ministro degli Esteri Yván Gil ha espresso profonda preoccupazione per la ripetizione di antiche tragedie in territorio palestinese, paragonando la situazione dei bambini nella Striscia di Gaza al massacro degli innocenti di Betlemme.

Il Ministro degli Esteri ha denunciato una politica di sterminio condotta da attori che, protetti da poteri imperiali in declino, agirebbero con la stessa crudeltà dell'Erode biblico. Gil ha definito quanto accade a Gaza un tentativo mortale che colpisce migliaia di innocenti, lanciando un appello globale per la tutela dei diritti fondamentali dell’infanzia.

Il diplomatico ha aggiunto che il Venezuela si unisce alla richiesta internazionale di un mondo in cui i minori possano crescere lontani da guerre, abusi e violenza, sottolineando l’urgenza di garantire alle nuove generazioni una vita piena e serena, dove prosperità e felicità sostituiscano il dolore dei conflitti.

In ultima analisi, il Governo bolivariano ha riaffermato il proprio impegno per la pace e la giustizia sociale, insistendo sul fatto che il vero significato di questa commemorazione risieda nella difesa attiva dei più vulnerabili. Caracas ha così commemorato la giornata del 28 dicembre ribadendo la speranza in un nuovo ordine mondiale capace di preservare la vita dei bambini in ogni angolo del pianeta.

Data articolo: Sun, 28 Dec 2025 19:28:00 GMT
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USA: Trump ha avuto chiamata "produttiva" con Putin prima di incontrare Zelensky

Il presidente statunitense Donald Trump ha avuto una "buona e molto produttiva" conversazione telefonica con il suo omologo russo Vladimir Putin, poche ore prima di incontrare, alla presenza della stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, il leader ucraino Vladimir Zelensky. La chiamata, confermata dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, è avvenuta su iniziativa di Washington e ha gettato le basi per l'imminente confronto con Kiev.

Secondo il resoconto dell’assistente presidenziale russo Yuri Ushakov, Trump avrebbe sottolineato "la necessità di terminare la guerra quanto prima", evocando al tempo stesso "le impressionanti prospettive di cooperazione economica" che si aprirebbero dopo un accordo di pace. L’inquilino della Casa Bianca si sarebbe detto nuovamente convinto dell'impegno di Mosca per una soluzione politico-diplomatica, intendendo strutturare il successivo colloquio con Zelensky alla luce di questo scambio.

Dal Cremlino arriva però un netto monito al regime di Kiev. Ushakov ha affermato che per porre fine alle ostilità in modo definitivo è necessaria, da parte ucraina, "una decisione politica coraggiosa e responsabile" riguardante il Donbass, da adottarsi "senza indugio" considerando la situazione sul fronte. Sia Putin che Trump condividerebbero, in generale, la valutazione che l'opzione sostenuta da Kiev e da alcuni europei per un cessate il fuoco temporaneo - giustificato con la preparazione di un referendum o altri pretesti - non farebbe che prolungare il conflitto.

Lo scambio tra Washington e Mosca avviene su uno sfondo negoziale complesso. Nella settimana precedente, Stati Uniti e Ucraina hanno scambiato bozze sul piano di pace, ma la proposta in venti punti che Zelensky porterebbe con sé negli USA è stata definita dal Ministero degli Esteri russo "radicalmente distante" dalla versione discussa dalle due potenze. Già venerdì Trump aveva lasciato intendere uno scarso entusiasmo, affermando che Zelensky "non avrà nulla" senza la sua approvazione personale. Fonti di Politico riferiscono di un presidente USA tiepido e senza fretta di appoggiare l'iniziativa ucraina, che include l'istituzione di una zona smilitarizzata e garanzie di sicurezza da parte statunitense.

Mentre si attende l'esito del faccia a faccia di Mar-a-Lago, il dialogo russo-statunitense dimostra di essere, come ha commentato l'inviato speciale della presidenza russa Kirill Dmitriev, "il più importante" e quello che continua. Tutto sembra ora dipendere dalla capacità di Trump di mediare tra le posizioni, e dalla risposta di uno Zelensky che spalleggiato dai guerrafondai eruopei sembra essere più propenso a continuare le ostilità fino all'ultimo ucraino.

Data articolo: Sun, 28 Dec 2025 19:01:00 GMT