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#news #antidiplomatico
di Angela Fais
“Ripetete una bugia mille volte e diventerà una verità” diceva qualcuno.
Con questa massima si può spiegare la grande fortuna della definizione di “nativi digitali”. Completamente campata in aria e priva di qualsiasi fondamento scientifico, coniata dallo scrittore statunitense M. Prensky nel 2001 sostiene che l’uso abituale delle tecnologie informatiche avrebbe reso più saggio l’homo sapiens consentendone l’evoluzione in ‘homo sapiens digital’. Essendo purtroppo particolarmente permeabili a tutto ciò che viene dagli USA, in Italia alcuni studiosi, più probabilmente ballisti di professione, hanno rilanciato la bestialità per giustificare il ricorso alle tecnologie digitali nella scuola tramite un marketing molto aggressivo cui abbiamo permesso di trarre enormi profitti, senza che gli studenti ne abbiano mai ricavato alcun reale vantaggio. Si possiede infatti sufficiente documentazione scientifica a dimostrare che i media digitali provochino un peggioramento nella formazione degli alunni. L’apprendimento richiede un lavoro mentale profondo oggi sostituito dalla superficialità del digitale. Si pensi a quanto il lavoro alla lavagna tradizionale col gessetto in mano e sul quaderno differisca da quello svolto con la LIM e sul tablet che può avvalersi anche della tecnica del copia-incolla. La disfatta della Dad e i danni provocati a intere generazioni sono sotto gli occhi di tutti, eppure in Italia si continua a insistere a testa bassa con la digitalizzazione dell’istruzione. E’ inoltre acclarato che i media digitali siano causa di stress, insonnia, depressione e dipendenza. Eppure di recente il Min. Valditara ha dichiarato che per inserire l’informatica stanno modificando i programmi scolastici della scuola primaria “grazie all’avvio di una sperimentazione che ci vede tra i primi paesi al mondo ad applicare l’intelligenza artificiale alla didattica”.
Oggi con l’intelligenza artificiale ci troviamo certamente davanti a una svolta epocale. Sicuramente grazie ad essa sono possibili funzioni e calcoli che l’uomo impiegherebbe moltissimo tempo a svolgere. Non si mettono in dubbio i grossi vantaggi per le aziende (spesso speculari agli svantaggi per i lavoratori), ma qui si sollevano grandi perplessità sull’opportunità di introdurla anche nelle scuole a stravolgere la didattica e atrofizzare le menti.
Si apprende che il 75% degli studenti italiani se ne avvale per scrivere i temi e soprattutto per fare i compiti. Siamo antiquati se domandiamo che ne è dell’apprendimento? Interessante che sul sito Invalsi si diano istruzioni su come fare i temi e i compiti con la IA, ma a patto che lo studente verifichi le informazioni fornite, unico sforzo richiestogli. Un tempo l’insegnante correggeva il compito assegnato ed eseguito unicamente dallo studente e le correzioni erano occasione di chiarimento e di ulteriori apprendimenti. Oggi questo sembra venga meno ma non interessa né a quelli dell’ Invalsi né al Ministro né a nessun altro.
Fare i conti con l’intelligenza artificiale significa riconoscerla come dispositivo strategico che si inscrive in una relazione di potere e manipola i rapporti di forza orientandoli in una precisa direzione al fine di condizionare il sapere. Una volta considerato il dispositivo come un insieme di strategie e di rapporti di forza che condizionano il sapere e ne sono condizionati, riconosciamo facilmente anche la natura storica e non assoluta del sapere e della verità e da qui altrettanto facilmente comprendiamo che l’uso della IA è in primo luogo orientato da un punto di vista ideologico e politico.
Da una ricerca condotta dalla Università della Carolina del Sud emerge infatti che i risultati dei sistemi di IA generativa sono “più strettamente allineati ai valori e alle visioni del mondo delle nazioni ricche di lingua inglese. Questo pregiudizio intrinseco limita naturalmente la diversità delle idee che questi sistemi possono generare”. Questo non sembra molto inclusivo.
Lo si tenga ben presente: l’IA non pensa ma calcola. Per calcolare si serve degli algoritmi consentendo ai sistemi di convergere verso un punto intermedio prevedibile, per cui essa non esplora di certo “possibilità non convenzionali ai margini” . “Ciò che inizia come una comoda scorciatoia - leggiamo nella succitata ricerca - rischia di trasformarsi in un circolo vizioso di originalità decrescente, non perché questi strumenti producano contenuti oggettivamente scadenti, ma perché riducono silenziosamente la portata della creatività umana stessa”, basandosi sulla mediocrità algoritmica che contrassegnerà gli elaborati prodotti. I compiti non subiranno correzioni ma saranno segnati da una irrimediabile mediocrità.
Se consideriamo l’IA un dispositivo è interessante ricordare l’esperienza che Foucault fece quando portò avanti il Gruppo di Informazione sulle Prigioni (GIP), un collettivo per denunciare le condizioni di vita nelle carceri francesi e dare voce ai detenuti. Rimase sbalordito dal fatto che i detenuti facessero nell’esperienza del Gip delle enormi conquiste. Infatti non erano solo schiacciati e oggettivati dal potere della istituzione penitenziaria ma questo dispositivo consentiva loro anche di produrre un rapporto di soggettivazione, non tanto perchè ottenevano dalla istituzione penitenziaria le cose richieste (saponette, tv a colori, più ore di colloqui con le famiglie) ma perché divenivano soggetti di sé stessi, della loro vita. Adesso però si profila una situazione differente.
Giorgio Agamben ampliando la classe dei dispositivi foucaultiani vi include il linguaggio, forse il primo dispositivo e la filosofia, la letteratura ma anche “i telefoni e qualunque cosa abbia la capacità di catturare, orientare, controllare le condotte, le opinioni, i discorsi degli esseri viventi”. E noi adesso possiamo senz’altro aggiungervi anche l’intelligenza artificiale, ma con una sostanziale differenza. Mentre i precedenti dispositivi suscitavano e consentivano effetti di soggettivazione, i dispositivi con cui abbiamo a che fare in questa fase del capitalismo non fanno altrettanto. Se ad esempio tramite il dispositivo della scrittura si consentiva la nascita di un autore letterario e di un capolavoro, adesso lo smartphone o l’IA innescano processi di desoggettivazione perché assorbono il soggetto, quasi lo divorano dando luogo a un corpo sociale inerme e docile; essi non prevedono la ricomposizione di un nuovo soggetto se non in forma larvata e spettrale, virtuale. Si comprende dunque quanto inutile sia sostenere che la questione si riduca al loro semplice “buon uso”. I paladini dell’ ‘uso corretto’ ignorano la natura desoggettivante dei dispositivi essendo essi stessi irrimediabilmente catturati da qualcosa la cui portata è devastante e pervasiva. Ma più i dispositivi si fanno pervasivi più è urgente la necessità di restituire alla comunità e a noi stessi tutto quello che questi ci stanno portando via. A fronte delle attuali evidenze risulta insensato premere ancora l’acceleratore sulle tecnologie digitali ed è lecito chiedersi se non si voglia scientemente portare al tracollo l’istruzione pubblica insieme ai suoi sventurati utenti.
L'ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee ha riferito che l'ufficio dell'ambasciata statunitense a Tel Aviv è stato danneggiato da attacchi missilistici iraniani nei pressi della struttura.
Il diplomatico ha aggiunto che sia l'ambasciata che il consolato "rimarranno ufficialmente chiusi " oggi. "Sono stati segnalati alcuni danni minori a causa delle esplosioni di missili iraniani vicino alla sede dell'ambasciata a Tel Aviv, ma non si sono verificati feriti tra il personale statunitense", ha dichiarato Huckabee.
Domenica sera, l'Iran ha lanciato una nuova ondata di missili contro Israele, colpendo una centrale elettrica ad Haifa, mentre altri missili hanno colpito Tel Aviv. In risposta, le Forze di Difesa Israeliane hanno affermato di aver attaccato il quartier generale della Forza Quds a Teheran.
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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 10:30:00 GMT
di Pasquale Liguori*
È sempre più difficile parlare della Palestina senza scivolare in uno dei due registri dominanti del discorso occidentale: da un lato l’umanitarismo, che commuove ma non destabilizza; dall’altro il realismo strategico, che calcola ma non immagina. In entrambi i casi, la resistenza palestinese viene svuotata: ridotta a patologia emotiva, oppure esclusa dai parametri della razionalità politica. Quando non è commiserata, è criminalizzata. E sempre più spesso, questa criminalizzazione assume i tratti familiari dell’islamofobia: la resistenza è rappresentata come terrorismo, la sopravvivenza come minaccia, il pensiero come potenziale radicalizzazione.
Eppure, mentre in Europa si moltiplicano le manifestazioni “per Gaza”, spesso segnate da un risveglio delle coscienze tardivo, condizionato, quando non addirittura autoassolutorio, resta una lezione che nessuna indignazione intermittente può offuscare: la resistenza palestinese esiste da prima, resiste oggi e continuerà — non come reazione disperata, ma come proposta di mondo. È una resistenza che pensa, crea, disegna futuri. Non chiede legittimazioni dall’alto, ma interpella ogni coscienza politica che non si rassegni all’ordine imperiale.
Abboud Hamayel, intellettuale e teorico palestinese noto anche come Omar Abdaljawad, parla da dentro questa resistenza. La sua voce non si presta a pacificazioni morali né a estetizzazioni del lutto. Con la sua elaborazione teorica, la Palestina torna a essere ciò che da decenni si tenta di neutralizzare: un nodo centrale dell’immaginazione politica globale.
L’intervista che segue nasce da una consapevolezza amara ma necessaria: troppe delle narrazioni contemporanee oscillano tra la pietà e la paura, tra l'empatia selettiva e l’autocensura. Ma la Palestina non è un’eccezione tragica da gestire con sobrietà istituzionale: è un terreno di conflitto, sì, ma anche di pensiero radicale. È il luogo in cui la parola “liberazione” conserva ancora un significato non metaforico.
Hamayel smaschera l’inconscio coloniale che struttura il linguaggio internazionale e rivendica la necessità di una resistenza epistemologica che rompa con le grammatiche dominanti. Non parla della Palestina, ma dalla Palestina. E così facendo, ci ricorda che resistere non significa solo combattere, ma anche pensare. Pensare altrimenti. Pensare contro. Pensare oltre.
Quella che segue non è un’intervista ossequiosa. È un confronto vivo, tagliente, sulla possibilità di riscrivere il tempo, la soggettività e il futuro, partendo da un punto che l’Occidente continua a voler sotterrare: la lucidità strategica di un popolo che ha imparato a trasformare la catastrofe in orizzonte.
Nella rappresentazione mediatica egemone della Palestina in Occidente, i palestinesi sono spesso ridotti alla figura dell'eterna vittima ideale. Anche nei media apparentemente sensibili alle istanze palestinesi, questa rappresentazione serve a suscitare una compassione superficiale e sentimentale che offre poco sostegno reale a chi vive sotto assedio, in prigione o in esilio. Quando i palestinesi resistono, vengono perlopiù bollati come terroristi. Gli stessi media riducono il diritto - e il dovere - di combattere l'oppressione, l'apartheid e il furto di terra a una vaga astrazione. Ciò è stato evidente nella condanna generalizzata del 7 ottobre, che non ha tenuto conto del contesto storico e geopolitico. Un simile impianto narrativo pretende il diritto di concedere o negare soggettività a un popolo che resiste da quasi un secolo. Quali sono le origini di questa narrazione della Palestina e in che modo può contribuire - direttamente o indirettamente - al genocidio in corso del popolo palestinese? Il discorso occidentale mainstream continua a intrappolare la Palestina tra i poli dei “diritti umani” e del “terrorismo”. È possibile interrompere questa dicotomia che sterilizza la realtà coloniale del conflitto?
Una volta rispondevo a questa domanda nel modo più diretto possibile: che agli oppressi - ai palestinesi, in questo caso - è concesso di gridare, di dare un nome alle loro ferite, di diventare riconoscibili all’interno dei copioni prefabbricati dei “diritti umani”, l’ultima piega caritatevole della modernità liberale. Ma ciò che viene loro sistematicamente negato - tanto dai nemici quanto, e forse ancor più, dai presunti simpatizzanti - è il diritto di comprendere la propria resistenza. Non solo di provarla, non solo di sopravviverle, ma di pensarla.
Agisce qui una struttura profonda, che insiste affinché il palestinese resti sempre il sofferente, il testimone, l’esibito. Anche chi afferma di solidarizzare con noi, spesso lo fa a patto che restiamo sospesi in quel ruolo: portatori di dolore, non produttori di pensiero. La resistenza, quando viene riconosciuta, viene posta in quarantena, rappresentata come reazione cieca, come impulso irrazionale, come qualcosa di indegno di una dignità concettuale.
Ma qualcosa è cambiato. Gli ultimi due anni di massacro ininterrotto, di morte non più accolta dal silenzio ma da una nuova e furiosa evidenza, hanno cominciato a incrinare questo impianto concettuale. Non credo più che il rifiuto di riconoscere ai palestinesi la capacità di teorizzare la propria resistenza riguardi solo la Palestina. Riguarda, più pericolosamente, il mondo intero. Ciò che si teme non è la nostra liberazione, di per sé, ma che la resistenza possa tornare a essere pensabile. Che possa circolare. Che possa mettere radici in altri luoghi dell’abbandono. Che il palestinese, non più muto emblema della sofferenza, possa diventare la figura attraverso la quale la questione dell'emancipazione rientri nell'immaginario politico.
Non stiamo assistendo a una semplice relazione coloniale tra Israele e Palestina, ma all'applicazione di una struttura le cui operazioni superano i confini geografici o giuridici del cosiddetto spazio del conflitto, luoghi come Gaza o la Cisgiordania. Esiste una simpatia condizionata che circola ampiamente, spesso mascherata dal linguaggio della preoccupazione umanitaria. Ma questa simpatia serve proprio a salvare il sionismo dalle sue stesse contraddizioni. Offre un alibi morale salvaguardando la permanenza di Israele non solo come Stato, ma come forma: un cardine nell'architettura dell'ordine globale.
Questo ordine esige che il Mediterraneo orientale - storicamente culla dei sogni antimperialisti - resti fratturato, amministrato, violentemente incompiuto. In questa configurazione, il sionismo non è un’anomalia storica, ma uno strumento necessario. La sua continuità è essenziale per una triade geopolitica che governa la regione sin dalla spartizione coloniale: la circolazione del petrolio, la logica dell’accumulazione capitalistica e lo smembramento strategico di ogni possibilità politica araba. In questo senso, Israele non è solo protetto, è strutturalmente indispensabile. Resistere a Israele, dunque, non è solo opporsi al colonialismo d’insediamento. È trafiggere una grammatica imperiale più ampia - una grammatica che dipende dallo smembramento del futuro arabo, dalla perpetua decomposizione della sovranità politica e dalla traduzione di ogni atto di resistenza in terrore, di ogni rivolta in patologia.
È per questo che la resistenza palestinese, quando osa parlare a proprio nome e non attraverso il ventriloquio della legalità o della pietà, diventa intollerabile. Non è la violenza a terrorizzare - è la lucidità. Il rifiuto di farsi disciplinare nel ruolo della vittima. L’insistenza sul significato, sulla strategia, sull’immaginazione politica come qualcosa di diverso dal lutto.
Ma soprattutto - ciò che la rende pericolosa, ciò che anima i febbrili tentativi di soffocarla - è il carisma dell'idea stessa. Muqawama non come reazione, ma come proposizione. Come forza contagiosa. Come una grammatica capace di attraversare confini e lingue, di essere adottata in terre lontane dalla Palestina, ovunque la gente si confronti con l'architettura della vita gestita e della morte lenta.
È questo potenziale - la portabilità della resistenza - che deve essere sepolto sotto le macerie, che deve essere ridotto a criminalità o follia, che deve essere gestito attraverso rituali della condanna e dell’eccezione. Perché una volta che la resistenza diventa pensabile, enunciabile, nominabile nei suoi propri termini, cessa di essere circoscritta. Cessa di essere contenibile. Diventa mantello. Diventa questione.
La resistenza palestinese non dovrebbe essere compresa solo attraverso la lente dell'efficacia militare o dei risultati immediati, ma come una forma di rottura con l'ordine coloniale - simbolicamente e temporalmente. Secondo lei, in che modo la resistenza interrompe il tempo lineare e progressivo imposto dal colonialismo? Possiamo interpretare la lotta palestinese come una forma di insurrezione che produce nuove temporalità politiche?
In effetti, quando svincoliamo la resistenza palestinese dalle metriche riduzioniste del successo militare o del calcolo strategico, iniziamo a vederla per quello che è: una rottura metafisica, una forza di disordine nella grammatica coloniale del tempo stesso. Il colonialismo non si limita a occupare la terra, occupa la temporalità. Impone una nozione lineare e progressiva del tempo in cui i colonizzati sono sempre in ritardo, sempre in corsa per recuperare, sempre non ancora pronti per la libertà. In questo regime, la resistenza viene inquadrata come prematura (irrazionale, emotiva) oppure obsoleta (futile, arcaica). Entrambe le letture operano per soffocare l’immaginazione politica.
Ma la resistenza palestinese, soprattutto nelle sue forme più crude e irriducibili, rifiuta questa logica. Non cerca il permesso da quel futuro promesso dagli accordi di Oslo, né attende riconoscimento dall’orizzonte ormai svanito della legittimità internazionale. Al contrario, interrompe. Insiste sull'adesso, non come un punto sulla linea del tempo, ma come luogo di confronto, di creazione di significato, di espressione sovrana. Essa frantuma il tempo coloniale non solo affermando la presenza dei colonizzati, ma rifiutando i ruoli loro assegnati nel copione della storia.
Qui, la resistenza non è semplicemente reattiva, ma ontologica. Mette in scena una sorta di insurrezione contro il tempo stesso, producendo quelle che potremmo chiamare contro-temporalità: momenti in cui i colonizzati diventano contemporanei di sé stessi, in cui la storia si piega e in cui i morti camminano con i vivi. Si pensi al martire non come figura tragica, ma come colui che fa crollare la distinzione tra il passato sacrificato e il futuro riscattato. Si pensi al rifugiato che ritorna senza ritorno. Non sono atti metaforici, sono rivolte temporali.
In questo senso, la lotta palestinese non riguarda soltanto la terra – per quanto essa rimanga profondamente radicata nel suolo - ma riguarda anche il tempo. È un rifiuto di abitare il mondo secondo la cronologia coloniale: dalla nakba alla negoziazione, dall’intifada alla normalizzazione. È l'irruzione di un altro tipo di tempo: denso, ricorsivo, infestato e vivo con la presenza di ciò che il mondo insiste a voler seppellire.
E allora sì, dobbiamo imparare a vedere la resistenza non come un fallimento quando non “vince”, ma come evento che scardina l'ordine coloniale, che rende visibili le crepe nella sua presunta ineluttabilità e che indirizza verso un orizzonte radicalmente altro.
Detto ciò, non è meno importante considerare anche la resistenza nella sua dimensione razionale: nel suo rapporto tra fini e mezzi, nei suoi obiettivi dichiarati e nella lucidità strategica con cui si muove.
In questo momento storico - Gaza in rovina e la Cisgiordania sotto un assedio soffocante - dove, come e quando emergono e si allargano le crepe nel discorso egemonico di Israele? Non c'è dubbio che il 7 ottobre abbia esacerbato le tensioni interne a Israele, mettendo a nudo sue fragilità strutturali e socioculturali. Sembra che la violenza continua sia l'unico meccanismo che il regime utilizza per giustificare la propria esistenza. È un fascismo divenuto collante di una società profondamente fragile?
Sì, non stiamo più parlando di una “colla” che tiene insieme i frammenti della società israeliana, ma di una punta di lancia. La distinzione è importante. Mentre la colla nasconde una coesione disperata, una cucitura reattiva che tenta di rattoppare un ordine in disfacimento, la punta di lancia segnala la direzionalità, l'aggressività, la trasformazione della crisi in forza propulsiva. Non si tratta di riparare, ma di sfondare. La società israeliana, fratturata lungo linee etniche, ideologiche e di classe, non trova più nella violenza una via di fuga temporanea, ma una forma di divenire politico.
È per questo che dobbiamo usare cautela nel modo in cui denominiamo il fascismo. Ridurlo ai suoi sintomi più appariscenti - il messianismo dei coloni, gli appelli espliciti alla pulizia etnica, la mobilitazione teocratica - significa perdere di vista la sua presa più sottile, atmosferica. Il fascismo in Israele oggi non abita soltanto nella kippah di Ben Gvir o nell'uniforme dei giovani delle colline; pulsa, più pericolosamente, attraverso il cosiddetto centro, in quel laicismo liberale che inquadra l’esistenza palestinese come problema da gestire, controllare, estirpare.
Nel liberalismo israeliano risiede una complicità profonda: quella che piange la “perdita della democrazia” mentre applaude guerre che non potranno mai essere vinte, quella che denuncia “l'estremismo” mentre crede intimamente che la sovranità ebraica implichi la scomparsa dei palestinesi. Questo è fascismo senza messianismo, fascismo senza lo spettacolo del fervore. È il fascismo del consenso, della burocrazia, della ragione manageriale.
E dobbiamo essere ancora più vigili: quando limitiamo il termine fascismo ai suoi esponenti più rumorosi, permettiamo alle sue forme più silenziose di passare inosservate. Il sionista liberale che invoca una “fine ragionevole” della guerra, ma le cui linee rosse non includono mai il ripristino della vita dei palestinesi; l'intellettuale che chiede la coesistenza, ma solo all'interno della gerarchia etno-nazionale: costoro non sono fuori dal fascismo, sono il suo volto razionale.
Ciò che rende questo momento così pericoloso non è semplicemente la violenza del fascismo israeliano nella forma, ma la sua diffusione nella sostanza attraverso l’intero spettro politico. Questa è una società che non si limita a tollerare il fascismo, ma lo reclama, anche se con dialetti e codici di abbigliamento diversi. È, per usare le parole di Benjamin, l'estetizzazione della politica vestita da pragmatismo. E Gaza è la sua tela. Capire questo non significa solo dare un nome al regime per quello che è, ma prepararsi al mondo che cerca di costruire.
Il lungo e brutale genocidio di Gaza sta attirando, seppur tardivamente, una solidarietà internazionale senza precedenti. Eppure, la repressione mediatica rimane diffusa. Anche quei media che sono passati da un sostegno palese al cosiddetto “diritto all'autodifesa” di Israele a una condanna più ipocrita del solo Netanyahu, non affrontano il sistema coloniale nel suo complesso. E la repressione istituzionale rimane forte in Europa e negli Stati Uniti. In questo contesto, cosa significa oggi “resistenza epistemologica”?
Parlare oggi di resistenza epistemologica non significa invocare l'astrazione. È nominare un fronte di lotta non meno decisivo di quello materiale. Infatti, ciò a cui stiamo assistendo sulla scia del genocidio in corso a Gaza non è solo l'annientamento di corpi e case, ma anche il tentativo di preclusione del significato. La repressione a cui assistiamo nei media e nelle istituzioni occidentali, per quanto sofisticata nella sua coreografia, non riguarda semplicemente il silenzio, ma la messa in scena preventiva di ciò che è visibile e dicibile.
Anche dove emergono delle crepe - dove Netanyahu viene demonizzato, dove si recita una vaga preoccupazione per i “civili” palestinesi - l'ordine coloniale rimane intatto nel pensiero. La guerra di Israele viene ancora trattata come una deviazione dalle norme liberali, piuttosto che come conseguenza logica di un progetto coloniale d’insediamento sostenuto dal consenso imperiale. La violenza viene deplorata, ma l'architettura che la rende necessaria non viene mai menzionata. Questo è il lavoro dell'ideologia: spostare le cause sui sintomi, isolare le figure dai sistemi, moralizzare invece di storicizzare.
La resistenza epistemologica, quindi, inizia con la disobbedienza a questo ordine di conoscenza. È l'insistenza nel parlare dall'interno dell'esperienza storica palestinese, non come un supplemento al discorso dominante, ma come rottura di esso. Significa rifiutare la grammatica che ci rende visibili solo come vittime, rifiutare le cornici morali che distinguono tra il “buon arabo” e il “militante” e rifiutare il rinvio temporale che chiede ai palestinesi di aspettare, di calmarsi, di negoziare, mentre la terra sotto di loro viene consumata.
Significa anche affrontare la complicità delle istituzioni che si dichiarano neutrali. Università occidentali, think tank, ONG, media che reprimono ogni parola sulla Palestina non stanno tradendo i propri ideali: li stanno compiendo. Sono apparati statali epistemici che lavorano per filtrare, gestire e addomesticare il dissenso. Resistere sul piano epistemologico non significa solo affermare contenuti differenti, ma fratturare le stesse forme attraverso cui la conoscenza circola.
Ed è in questo momento, quando l'orrore di Gaza ha rotto il patto affettivo tra l'impero e i suoi spettatori, che inizia a pulsare una conoscenza diversa. L'immagine della Palestina non è più solo quella di una catastrofe umanitaria: sta diventando il luogo di un riorientamento globale, in cui l'Occidente è costretto a confrontarsi con la menzogna al centro del suo universalismo. Questo confronto - doloroso, destabilizzante e irrisolvibile all'interno dei parametri liberali - è esso stesso una forma di insorgenza epistemologica.
Ciò che si teme di più non è solo il discorso palestinese, ma il pensiero che porta con sé. Un pensiero che decolonizza non solo la terra, ma anche il senso. Un pensiero che osa dire: il mondo deve essere altrimenti.
Distruzione, spargimento di sangue e terrore in Palestina continuano incontrollati, guidati da un Israele che non paga alcuna conseguenza o sanzione. Dal 7 ottobre, l'impotenza del sistema legale e istituzionale internazionale è diventata ancora più evidente. Nonostante i procedimenti avviati dalla Corte internazionale di giustizia e dalla Corte penale internazionale, Israele - con il sostegno degli Stati Uniti - continua ad agire impunemente, anche all'interno delle Nazioni Unite. Il fatto stesso che Netanyahu abbia impartito l’ordine per l’eliminazione di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, direttamente dal Palazzo di Vetro a margine del suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ben simboleggia il disprezzo per un contesto giuridico palesemente snobbato. Si ha evidenza di avere a che fare con un quadro del diritto internazionale assimilabile a una sovrastruttura regolatoria applicata con doppiezza. Vuole esprimere un pensiero critico su questo tema?
Il pensiero critico deve abbandonare la premessa secondo cui il diritto internazionale sarebbe un terreno neutro. Studiosi appartenenti alla corrente Third World Approaches to International Law (TWAIL), come Makau Mutua e Antony Anghie, sostengono da tempo che le strutture del diritto internazionale sono emerse di pari passo con la conquista coloniale, progettate non per limitare il potere ma per strutturarne la legittimità. Le stesse categorie di “sovranità”, “sicurezza” e “autodifesa” non sono universali: sono codificate, razzializzate e profondamente gerarchiche. L’invocazione israeliana del diritto all’“autodifesa” dopo il 7 ottobre - mentre ai palestinesi è negato perfino il linguaggio della resistenza - esemplifica questa asimmetria coloniale inscritta nel diritto stesso.
Inoltre, come hanno dimostrato pensatori come Walter Mignolo e Achille Mbembe, la cosiddetta “comunità internazionale” non è affatto una comunità, ma un cartello di potere strutturato lungo linee civilizzatrici. L’universale è sempre rivendicato dall’Occidente, mentre la particolarità - e dunque la sacrificabilità - viene imposta al resto del mondo. I palestinesi non soffrono semplicemente per l’assenza di riconoscimento giuridico, ma per l’esistenza di un ordine giuridico che non è mai stato pensato per loro.
Eppure, qualcosa sta cambiando. La crescente disillusione nei confronti delle istituzioni internazionali non è solo una crisi, è un'apertura. Ci consente di parlare di diritto non come salvezza, ma come terreno di lotta. L'erosione della legittimità liberale dà origine a un nuovo linguaggio politico, fondato non sulla supplica, ma sull'assertività. Non si tratta di mendicare un riconoscimento, ma di costruire solidarietà che guardino oltre la maschera della neutralità.
Dopo l'assassinio di molti leader della resistenza, la distruzione delle infrastrutture di Hamas e l'estensione dell'occupazione israeliana a Gaza, possiamo ancora parlare di un movimento di resistenza organizzato? O stiamo entrando in una fase di lotta più diffusa, spontanea e molecolare?
Parlare oggi di resistenza - dopo l'assassinio dei quadri, la decimazione delle infrastrutture e l’ampliamento dell’occupazione su Gaza - non significa parlare di scomparsa, ma di trasformazione. Dobbiamo stare attenti a non confondere l'architettura visibile della resistenza con la sua capacità esistenziale. È vero, ci sono state perdite senza precedenti: disarticolazione organizzativa, smantellamento delle strutture di comando, distruzione mirata del tessuto sociale e logistico che rendeva possibile una lotta armata coordinata. Ma la resistenza, come la Palestina ci ha insegnato più volte, non è riducibile alle sue istituzioni. D'altra parte, l'idea che la resistenza palestinese sarebbe diventata più molecolare è, in parte, vera come tendenza. Ma non è del tutto esatta. La resistenza palestinese a Gaza conserva ancora buona parte dei suoi quadri, della sua infrastruttura e della sua capacità di reagire. L’obiettivo, in questa fase, è sostenere la resistenza nel lungo periodo, rendere l’occupazione israeliana il più possibile onerosa, e protrarre una lotta di volontà che non si esaurisca in un colpo secco.
Nel suo lavoro, lei ha spesso evidenziato la distanza tra le élite palestinesi e il popolo. Dopo mesi di guerra totale a Gaza e di erosione istituzionale, vede segni di ricomposizione politica o questa frattura strutturale è destinata a persistere?
La distanza tra l'élite politica palestinese e il popolo non è una novità. È una condizione strutturale, nata con Oslo, resa più profonda dalla dipendenza securitaria dell'Autorità palestinese (ANP) dall'occupazione e consolidata dalla duplice logica dei finanziamenti internazionali e del consolidamento autoritario. Ciò che abbiamo visto negli ultimi mesi - tra le rovine di Gaza, la paralisi della Cisgiordania e il collasso morale dell'ANP - non è il superamento di questa frattura, ma la sua esposizione. La maschera è caduta, ma il regime rimane. Non c'è una ricomposizione politica in senso formale, non ancora. Le istituzioni esistenti sono svuotate, in bancarotta sia dal punto di vista finanziario che etico. Continuano a esistere non per legittimità, ma per inerzia, paura e assenza di alternative immediate. Oggi, l'ANP non è un progetto nazionale. È un'istituzione fantasma, mantenuta in vita per contenere il malcontento sociale e assorbire la pressione internazionale. La sua sopravvivenza non è indice di vitalità politica, ma di necessità coloniale. Eppure, sotto questa decadenza, qualcosa si muove. Non nei ministeri di Ramallah o nei quartieri generali delle fazioni, ma nelle strade, dove la questione del da farsi rimane intatta.
Nel pensiero critico palestinese esiste una crescente tensione tra la liberazione nazionale e un orizzonte post-statale. Quale futuro immagina per il soggetto politico palestinese: uno Stato, una confederazione o cos'altro?
Questa tensione - tra liberazione nazionale e un orizzonte post-statuale - non è soltanto teorica. È l’eco di una contraddizione vissuta. Da un lato, il desiderio di sovranità, di una bandiera, di un riconoscimento internazionale, della dignità della statualità, resta potente, soprattutto in un mondo in cui l’assenza di Stato ha significato cancellazione, frammentazione, e soggezione senza fine. Dall’altro, lo Stato - così come si presenta nel mondo postcoloniale, come forma ereditata dalle cartografie coloniali e sostenuta dalle istituzioni imperiali - è divenuto un apparato di gestione, non di liberazione.
Chiedersi quale futuro attenda il soggetto politico palestinese significa interrogarsi se tale soggetto possa mai essere libero all’interno della forma-Stato - o se la libertà non si trovi ormai al di là di essa.
L’Autorità Palestinese, gli Accordi di Oslo e l’intero modello della partizione a due Stati hanno mostrato i limiti strutturali della statualità così come è attualmente concepita. Non hanno prodotto sovranità, ma un’occupazione subappaltata. La mappa che ci è stata promessa è stata incisa con la logica del contenimento. Lo Stato è stato offerto non come una conquista di liberazione, ma come una ricompensa per l'obbedienza. E in questa offerta, il soggetto politico è stato addomesticato, burocratizzato, frammentato.
Tuttavia, non possiamo liquidare lo Stato in modo assoluto. Per molti, il desiderio di uno Stato non riguarda la diplomazia o i confini: riguarda la riparazione storica, l'annullamento della violenza dell'espropriazione, l'essere visibili. L'orizzonte post-statale non deve deridere questo desiderio. Deve metabolizzarlo.
Ciò verso cui potremmo muoverci, allora, non è una scelta binaria tra statualità e assenza di Stato, ma un'articolazione più complessa di sovranità non sovrana, una forma di vita politica collettiva che non sia vincolata allo Stato-nazione westfaliano né ridotta alle finzioni gestionali delle ONG. Chiamatelo immaginario federato, politica confederata della fuga o persino giurisdizione decoloniale senza Stato, ma deve essere costruito dal basso, attraverso pratiche di solidarietà, gestione della terra, ritorno e rifiuto. Deve attingere alle lotte indigene, alle tradizioni radicali nere e al pensiero antistatale arabo, senza idealizzarne gli esiti.
Una tale forma politica non cercherebbe il riconoscimento delle Nazioni Unite, ma della storia. Non controllerebbe i confini, ma smantellerebbe la metafisica stessa della divisione. Centrerebbe il ritorno, non solo come rimpatrio fisico, ma come riaffermazione di una presenza politica laddove si voleva la nostra scomparsa.
Il futuro del soggetto politico palestinese non può essere dettato dal pragmatismo diplomatico o dalla logica dei donatori. Deve emergere dalle ceneri di Oslo e dalle rovine di Gaza come qualcosa di impensabile per il presente coloniale - qualcosa per cui non abbiamo ancora un linguaggio, ma che forse stiamo già praticando. E forse è questo che spaventa di più i nostri nemici: che i palestinesi non chiedono più di entrare nella storia, ma di riscriverla.
Va detto, intanto, che si è determinata un'innegabile correlazione tra la devastazione materiale della regione e l'indebolimento della resistenza militare sul terreno. Hamas è stato duramente colpito, Hezbollah deve affrontare limitazioni in Libano, la Siria si è spostata geopoliticamente e l'Iran sembra paralizzato. Il cosiddetto Asse della Resistenza sembra sfidato nel suo coordinamento, nonostante abbia impedito a Israele di raggiungere alcuni obiettivi. Quali risultati sono stati raggiunti e quali scenari futuri prevede per la lotta contro l'occupazione sionista?
Quello a cui stiamo assistendo non è il crollo dell'Asse della Resistenza, ma il suo momento di resa dei conti. Sì, la devastazione materiale su vasta scala a Gaza ha colpito duramente Hamas come forza militare organizzata; Hezbollah è limitato dal collasso interno del Libano e da una logica regionale di guerra fredda che impone moderazione e dai pesanti colpi subiti nel conflitto; la Siria è intrappolata nella sua riconfigurazione post-bellica; e l'Iran, sebbene retoricamente sfidante, agisce con crescente prudenza, consapevole delle sue vulnerabilità geopolitiche e delle sue tensioni interne.
Ma sia chiaro: l'Asse della Resistenza non è mai stato una struttura di comando unificata e coesa, bensì una costellazione tattica fluida di forze unite da un antagonismo comune verso l’egemonia statunitense-israeliana. La sua efficacia è sempre stata discontinua. Ciò che è cambiato non è la sua natura, ma il terreno stesso dello scontro. Sebbene Israele possa rivendicare alcuni successi, anche questi – come nel caso siriano – non sono il frutto esclusivo della sua azione, ma il prodotto di una costellazione di fattori e convergenze, tra cui la persistenza di Idlib, della Turchia e di altri attori regionali e internazionali. Questa narrazione del successo israeliano andrebbe quindi messa in discussione su questi termini: è, per usare un eufemismo, fortemente esagerata.
Inoltre, l'incapacità di Israele di ottenere una vittoria totale a Gaza, nonostante l’impiego di una forza schiacciante, non è un segno della coesione dell'Asse, ma di limiti strutturali del colonialismo d’insediamento. Se c'è un risultato in questo momento, è l'evidenza di un tetto strategico del sionismo. Israele ha dimostrato di poter distruggere, ma non governare. Può sfollare, ma non eliminare. Può bombardare, ma non risolvere. In questo fallimento si trova un nuovo orizzonte di lotta, non incentrato solo sul coordinamento regionale, ma su forme di confronto disperse, decentrate e transnazionali. Il futuro potrebbe appartenere meno agli attori statali e più a moti insorgenti multipolari, guidati da nuove solidarietà provenienti dal basso.
Il cosiddetto "piano per Gaza" di Trump, sebbene possa sembrare assurdo, porta con sé un pericolo virulento: cerca di normalizzare l'idea di una società etnicamente “pura”, in cui i gruppi non conformi sono sistematicamente esclusi. Questa visione fa rivivere le politiche razziste e propone un progetto autoritario radicato nelle ideologie fasciste e nella supremazia bianca. Cosa ne pensa?
Il cosiddetto “piano per Gaza” di Trump non è una deviazione, ma l’estensione logica di un impulso autoritario globale che fonde purezza razziale e dominio territoriale. La sua assurdità non deve distrarci dalla sua violenza. Ciò che prevede non è la pace, ma la bonifica: la trasformazione finale di Gaza in una zona priva di densità politica, di memoria, di persone.
Non si tratta solo di sionismo smascherato, ma di supremazia bianca globalizzata. Quello che Trump propone è una fantasia fascista di purificazione spaziale: una Gaza senza gazawi, una Palestina senza palestinesi. Riesuma i più antichi miti coloniali - la terra nullius, il progresso civilizzatore, il barbaro da redimere - e li riveste di un discorso di sicurezza post 11 settembre.
Più pericolosamente, è un invito al mondo: normalizzare la pulizia etnica come politica, legittimare il pensiero genocida come pianificazione dello sviluppo. E in questo Trump non è solo. È solo più rumoroso. I silenziosi tecnocrati che parlano di “reinsediamento”, “zone cuscinetto” e “stabilizzazione post-conflitto” partecipano allo stesso progetto ideologico. Ciò a cui stiamo assistendo non è un’eccezione, è il nocciolo fascista del presente globale.
Come interpreta la risposta del mondo arabo alla catastrofe umanitaria in Palestina? Sta emergendo un nuovo panarabismo di base o le logiche statali e gli interessi nazionali sono ancora dominanti?
La risposta ufficiale araba alla catastrofe di Gaza è stata segnata, senza sorpresa, da codardia, complicità e freddo calcolo. Gli Stati restano legati all'interesse nazionale, alla sicurezza del regime e alla paura della rivolta popolare. Si preoccupano a parole, pur mantenendo la normalizzazione; inviano aiuti, moderando il pubblico discorso.
Ma sotto questa stagnazione si muove qualcos'altro. In tutto il mondo arabo - da Amman a Rabat, dal Cairo a Tunisi - stiamo assistendo ai fermenti di un nuovo panarabismo di base: non il vecchio progetto nasserista di unità interstatale, ma una ricostituzione affettiva popolare dell'identità araba forgiata attraverso la condivisione di indignazione, lutto e rifiuto.
Questo non è ancora un programma. Non è organizzato. Ma è sentito. Si ascolta nei canti dei manifestanti, nelle solidarietà sovversive online, nei gesti intimi della gente comune che rifiuta il silenzio dei suoi governanti. Questo nuovo arabismo è meno legato alle bandiere e più all'affiliazione: un'identificazione con la Palestina come ferita che non può essere nazionalizzata, come specchio della propria oppressione, come simbolo di ciò che deve ancora essere superato nei propri Stati.
Se questo affetto si consolida in organizzazione - se rifiuta di dissolversi una volta cessati i bombardamenti – potrebbe diventare l’eredità più potente di questo momento: un risveglio della coscienza politica araba non dall’alto, ma dal campo. Ma sono molti i “se” in gioco, e inoltre questa lettura tende a offuscare il potere della disidentificazione e delle re-identificazioni che agiscono anch’esse come forze nel mondo arabo: forme di identità più ristrette, meno rivoluzionarie, legate alla quotidianità e prive di un orizzonte di futuro. Per ora, questo affetto si percepisce, ma non si manifesta ancora pienamente nella realtà.
*Pasquale Liguori è farmacologo e lavora nel settore sanitario. Scrittore indipendente e fotografo urbano, è impegnato in pratiche decoloniali e nella denuncia delle forme contemporanee di oppressione politica, sociale e culturale.
Abboud Hamayel, noto anche con lo pseudonimo Abdaljawad Omar, è un intellettuale palestinese, docente e analista politico. Attualmente è Assistant Professor presso il Dipartimento di Filosofia e Studi Culturali dell’Università di Birzeit, nei pressi di Ramallah. Dopo aver conseguito un dottorato in Scienze Sociali Interdisciplinari nella stessa università, ha dedicato la sua ricerca alle forme della resistenza palestinese, con particolare attenzione al periodo compreso tra la Prima Intifada e il 2015. Scrive regolarmente in arabo e in inglese, con interventi pubblicati su riviste accademiche, oltre che su piattaforme internazionali. Le sue analisi combinano rigore teorico e impegno politico, affrontando temi come il colonialismo, la costruzione dell’identità, la militarizzazione e il ruolo delle élite. È una voce attiva nel dibattito internazionale, partecipando a conferenze, seminari e podcast in cui approfondisce le connessioni tra teoria critica e prassi decoloniale.
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 10:00:00 GMT
Ore 13: 00 Iran: decine di donne e bambini sono stati uccisi negli attacchi israeliani.
Le moschee saranno disponibili come rifugi per la popolazione. Sono state istituite sale di crisi nelle province."
"Vorrei chiarire l'ovvio: non c'è alcuna intenzione di danneggiare fisicamente i residenti di Teheran come il dittatore assassino fa ai residenti di Israele", ha affermato Katz in una dichiarazione su X.
“Gli abitanti di Teheran dovranno pagare il prezzo della dittatura ed evacuare le loro case dalle zone in cui sarà necessario attaccare obiettivi del regime e infrastrutture di sicurezza a Teheran”.
Katz aveva già avvertito in precedenza che la popolazione della capitale iraniana "pagherà presto il prezzo" per i mortali attacchi di rappresaglia iraniani contro Israele.
Ore 11:30 Il direttore generale dell'AIEA afferma che non ci sono ulteriori segni di danni nei siti nucleari iraniani
Ha precisato che non vi sono segni di ulteriori danni nei siti di arricchimento di Natanz o Fordow.
"L'agenzia è e rimarrà presente in Iran. Le ispezioni di sicurezza in Iran proseguiranno non appena le condizioni di sicurezza lo consentiranno, come richiesto dagli obblighi di sicurezza dell'Iran previsti dal TNP", ha affermato nella dichiarazione.
Grossi ha affermato in precedenza che gli attacchi israeliani hanno distrutto l'impianto pilota di arricchimento in superficie di Natanz e che l'Iran ha segnalato attacchi ai siti di Fordow e Isfahan.
Ha affermato che anche l'infrastruttura elettrica di Natanz è stata distrutta e che l'interruzione di corrente in una sala a cascata potrebbe aver danneggiato le centrifughe presenti. Ha tuttavia aggiunto che il livello di radioattività all'esterno di Natanz è rimasto invariato e normale.
Ore 10:00 Riepilogo ultimi avvenimenti
ORE 8:30 AGGIORNAMENTI. IL PUNTO SUGLI ULTIMI SVILUPPI NELLA GUERRA DI ISRAELE ALL'IRAN
L'Iran ha lanciato una nuova ondata di attacchi di rappresaglia contro Israele, colpendo il centro di Tel Aviv e il nord di Haifa, uccidendo almeno quattro persone.
Fonti mediche confermano che almeno altre 74 persone sono state trasferite in un ospedale nel centro di Israele e che la maggior parte delle vittime ha riportato ferite lievi.
Gli attacchi sono avvenuti dopo che le forze israeliane hanno bombardato la capitale iraniana, Teheran. L'esercito israeliano ha rivelato di aver bombardato il quartier generale della Forza Quds dell'IRGC in città, nonché siti missilistici terra-terra in Iran.
Trump, parlando con i giornalisti prima di recarsi al vertice del G7 in Canada, ha affermato di sperare in un accordo tra Israele e Iran, ma "a volte devono combattere".
Le agenzie di stampa Reuters e AP riferiscono che Trump ha posto il veto al piano israeliano di uccidere la guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei.
Ore 08:00 Il bilancio delle vittime in Israele sale a 8: rapporto
Secondo quanto riportato dalla radio ufficiale dell'esercito israeliano, il bilancio delle vittime degli ultimi attacchi iraniani è salito a otto.
Questo dopo che è stata confermata la morte delle tre persone scomparse nella città di Haifa
In precedenza, erano state segnalate altre cinque vittime nel centro di Israele.
Ciò significa che più di 20 persone sono state uccise in Israele da quando l'esercito ha lanciato gli attacchi contro l'Iran quattro giorni fa. Oltre 300 persone sono rimaste ferite.
Ore 07:30 Israele: i residenti di Teheran "pagheranno presto il prezzo" per gli attacchi
Il ministro della Difesa Israel Katz ha avvertito che la popolazione della capitale iraniana "pagherà il prezzo" per gli attacchi iraniani contro i civili israeliani, dopo che gli attacchi missilistici notturni hanno ucciso almeno cinque persone e ne hanno ferite decine.
Riferendosi alla guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, Katz ha scritto sul suo canale Telegram: "Il vanaglorioso dittatore di Teheran si è trasformato in un codardo assassino, sparando deliberatamente al fronte interno civile di Israele nel tentativo di dissuadere [l'esercito israeliano] dal continuare l'offensiva che sta paralizzando le sue capacità.
“I cittadini di Teheran ne pagheranno il prezzo, e presto.”
Ore 07:00 L'Iran promette altri attacchi "devastanti" contro "obiettivi vitali" in Israele
L'Iran ha promesso di condurre operazioni più "devastanti" contro obiettivi israeliani dopo una nuova serie di attacchi mortali contro il Paese.
Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie dell'Iran (IRGC), in una dichiarazione diffusa dall'agenzia di stampa ufficiale IRNA, ha avvertito che "operazioni efficaci, mirate e più devastanti contro obiettivi vitali" in Israele "continueranno fino alla sua completa distruzione".
Almeno quattro persone sono state uccise e decine sono rimaste ferite in seguito all'ultima ondata di attacchi iraniani contro Israele.
Pezeshkian: l'Iran non ha intenzione di sviluppare armi nucleari
Secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa ufficiale IRNA, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha parlato in Parlamento in merito ai continui attacchi israeliani.
"Il nemico non può eliminare noi e la nazione dalla scena colpendo, uccidendo e assassinando. Perché per ogni eroe la cui bandiera cade, ci sono centinaia di altri eroi che la raccoglieranno e si opporranno alla crudeltà, all'ingiustizia, al crimine e al tradimento che questi codardi stanno commettendo", ha affermato.
Il leader iraniano ha ricordato che gli iraniani "non sono aggressori" e ha osservato che il suo governo sta negoziando con gli Stati Uniti sul suo programma nucleare.
"Non stiamo cercando armi nucleari", ha continuato, aggiungendo che l'Occidente sostiene che l'Iran non dovrebbe ottenere tali armi, "mentre noi non abbiamo alcuna intenzione di ottenerle".
Pezeshkian ha tuttavia promesso che il Paese continuerà ad arricchire l'uranio per scopi energetici, ribadendo che l'Iran ha il "diritto di beneficiare dell'energia nucleare".
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AGGIORNAMENTI
Ore 19:00 Netanyahu: Trump è stato informato prima degli attacchi all'Iran
In un'intervista alla Fox News, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato di aver informato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump prima di lanciare la campagna militare contro l'Iran.
Ha descritto la cooperazione con l'attuale amministrazione statunitense come "senza precedenti", aggiungendo che l'intelligence israeliana condivide "ogni bit di informazione" con Washington.
Netanyahu ha aggiunto che un regime change in Iran potrebbe essere il risultato degli attacchi militari israeliani. "Il problema qui non è la de-escalation, il problema qui non è il cessate il fuoco, il problema qui è fermare [l'Iran]", ha affermato, descrivendo il paese come una "minaccia mortale" per Israele, così come per gli stati del Golfo, gli Stati Uniti e l'Europa.
Ore 18:30 Iran, sale bilancio vittime per gli attacchi di Israele
Il bilancio delle vittime degli attacchi israeliani contro l'Iran è salito a 128, ha riferito domenica il Ministero della Salute iraniano, stando a quanto riportato dai media locali.
Tra le vittime, 40 erano donne, 15 delle quali di età inferiore ai 20 anni, ha dichiarato Hossein Kermanpour, direttore del Centro Informazioni del Ministero. Dall'inizio dell'offensiva di Tel Aviv contro Teheran, nelle prime ore di venerdì scorso, sono rimaste ferite più di 900 persone.
Ore 18:00 L'Iran afferma che 44 droni e quadricotteri israeliani sono stati abbattuti
Secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa ufficiale IRNA, Ahmad Ali Goudarzi, comandante della guardia di frontiera, nelle ultime 48 ore le unità di frontiera iraniane hanno impedito a 44 droni e quadricotteri di entrare nello spazio aereo del Paese.
Ore 17:30 Macron spera che il conflitto Iran-Israele si "calmi" nelle "prossime ore"
Il presidente francese, durante una visita in Groenlandia, ha espresso la speranza che "le prossime ore portino calma e un percorso di discussione, per evitare qualsiasi escalation delle capacità nucleari, l'acquisizione di capacità nucleari in Iran e per prevenire qualsiasi disordine nella regione".
"Avremo l'opportunità, tra poche ore, di riesaminare questa questione con i leader del G7", che si riuniranno da domenica a martedì in Canada, ha aggiunto.
Da aprile, gli Stati Uniti e l'Iran hanno tenuto cinque round di colloqui per cercare di trovare un percorso verso un nuovo accordo sul nucleare che sostituisca quello del 2015 abbandonato da Trump durante il suo primo mandato.
Ore 17:00 "Mossa estremamente pericolosa": Teheran denuncia l'attacco al giacimento di gas Iran-Qatar
L'attacco israeliano a un importante impianto di gas lungo la costa del Golfo è stato un tentativo di "estendere la guerra oltre" l'Iran, afferma il ministro degli Esteri israeliano.
"Trascinare il conflitto nella regione del Golfo Persico è un grave errore strategico, probabilmente deliberato e finalizzato a estendere la guerra oltre il territorio iraniano", ha affermato Abbas Araghchi.
Si riferiva all'attacco a un impianto operativo a South Pars , situato al largo della provincia meridionale iraniana di Bushehr. Il giacimento fornisce quasi il 70% del gas naturale nazionale iraniano.
Il mega-giacimento di South Pars/North Dome è la più grande riserva di gas conosciuta al mondo. L'Iran, che condivide l'enorme giacimento con il gigante energetico Qatar, sta sviluppando la sua parte di gas dalla fine degli anni '90.
Sabato i media iraniani hanno riportato una "grossa esplosione" e un incendio dopo che un drone israeliano ha preso di mira una delle strutture della Fase 14 di South Pars. Le autorità hanno affermato che la situazione è sotto controllo.
Araghchi ha descritto l'attacco come "una mossa estremamente pericolosa", aggiungendo che qualsiasi attacco militare nel Golfo "potrebbe coinvolgere l'intera regione, e forse il mondo intero".
Ore 16:30 Mosca può svolgere un "ruolo chiave" nella mediazione del conflitto Israele-Iran
L'inviato russo per gli investimenti, Kirill Dmitriev, ha rilasciato queste dichiarazioni in un post su X dopo che Trump aveva dichiarato ad ABC News di aver parlato con il presidente Putin del conflitto.
Quanto al potenziale mediatore di Putin nel conflitto, Trump ha rivelati ad un giornalista di ABC News: "È pronto. Mi ha chiamato per parlarne. Ne abbiamo parlato a lungo".
Ore 16:00 Intanto, Cosa sta succedendo in Cisgiordania?
Ecco alcuni recenti sviluppi nella Cisgiordania occupata:
Ore 15:30 Trump: è"possibile" che gli Stati Uniti "possano essere coinvolti" nel conflitto tra Israele e Iran
Il presidente degli Stati Uniti ha affermato, durante un’intervista alla ABC news che "è possibile che veniamo coinvolti" nel conflitto in corso tra Israele e Iran.
Trump ha aggiunto che gli Stati Uniti "al momento non sono coinvolti" nel conflitto.
Ha anche ribadito che sarebbe "aperto" al ruolo di mediatore del presidente russo Vladimir Putin. "È pronto. Mi ha chiamato per parlarne. Ne abbiamo parlato a lungo", ha detto Trump ad ABC.
Ore 14:30 Cinque autobombe esplose a Teheran
Secondo quanto riportato dai media locali, Israele ha fatto esplodere almeno cinque autobombe nelle strade di Teheran, nel contesto dei suoi intensi attacchi alla capitale iraniana.
Ore 14:00 L'Iran ha lanciato altri missili balistici verso Israele
Israele ha attaccato diverse zone di Teheran, tra cui Niavaran a nord e i dintorni delle piazze Valiasr e Hafte Tir nel centro della città.
Il primo ministro israeliano si sta dirigendo verso una località colpita da un missile iraniano a Bat Yam, nel centro di Israele.
Il portavoce dell'Iran ha dichiarato che a partire da stasera le stazioni della metropolitana e le moschee saranno a disposizione del pubblico come rifugi antiaerei.
Dall'alba, il fuoco dell'esercito israeliano a Gaza ha ucciso almeno 23 persone, tra cui 11 persone in attesa di aiuti.
Nelle ultime 24 ore, i corpi di almeno 65 palestinesi sono stati trasportati negli ospedali di Gaza.
Ore 12:00 Riepilogo degli ultimi avvenimenti:
Ore 11:30 Teheran: "Abbiamo le prove che gli Stati Uniti sono complici dell'aggressione israeliana"
Gli Stati Uniti sono complici degli attacchi israeliani e devono assumersi la responsabilità, secondo il ministro degli Esteri iraniano Seyyed Abbas Araghchi .
Per il capo della diplomazia iraniana, l'attacco israeliano non sarebbe stato possibile senza l'aiuto di Washington e l'Iran ha prove documentate del suo sostegno alle forze statunitensi nella regione.
"Abbiamo ricevuto messaggi da vari canali statunitensi negli ultimi due giorni che affermano che non è coinvolto, ma non crediamo a questa affermazione”, ha spiegato
"Abbiamo prove schiaccianti del fatto che le forze statunitensi nella regione sostengono le campagne di Israele. Abbiamo osservato attentamente e possediamo ampie prove di come le forze statunitensi abbiano aiutato il regime. Gli Stati Uniti sono complici di questi attacchi e devono assumersene la responsabilità", ha concluso.
Ore 11:00 L'attacco iraniano provoca danni alla raffineria di petrolio di Haifa
Secondo quanto riportato dai media israeliani, l'azienda israeliana Bazan, che gestisce una raffineria di petrolio nella città settentrionale di Haifa, durante l'attacco notturno dell'Iran si sono verificati danni "localizzati" agli oleodotti e alle linee di trasmissione del complesso.
L'azienda ha dichiarato che le sue raffinerie continuano a funzionare, sebbene alcuni altri impianti siano stati chiusi. Ha aggiunto che sta ancora valutando le conseguenze dei danni.
La notizia arriva mentre i media israeliani affermano che le forze iraniane hanno lanciato circa 80 missili contro Israele durante la notte, di cui 40 verso le zone settentrionali del Paese, dove si trova Haifa.
Lo sceicco Tamim ha condannato fermamente l'attacco israeliano all'Iran, definendolo "una flagrante violazione della sovranità e della sicurezza dell'Iran e una chiara violazione delle norme del diritto internazionale".
Secondo l'agenzia di stampa ufficiale iraniana IRNA, Pezeshkian ha affermato che la strategia degli Stati Uniti di imporre richieste all'Iran attraverso "pressioni e aggressioni" si è rivelata un fallimento, condannando il sostegno di Washington agli attacchi israeliani contro il suo Paese.
"Oggi sostengono gli attacchi di Israele contro l'Iran e pensano di poter imporre le loro richieste attraverso la pressione", ha detto Pezeshkian.
Ha ringraziato lo sceicco Tamim per le sue espressioni di simpatia e solidarietà nei confronti del popolo iraniano dopo gli attacchi di Israele.
"Tutti gli equipaggi e gli aerei sono pronti a entrare in azione non appena possibile, ma potrebbe volerci molto tempo, a seconda della situazione della sicurezza" si legge in una nota.
"Una decisione sul ripristino dei voli verso Israele verrà presa solo quando saremo certi che il Paese sarà sicuro", aggiunge il comunicato, precisando che i valichi di frontiera terrestri di Israele verso la Giordania e l'Egitto restano aperti.
Ore 09:00 L’analista Muhanad Seloom ad Al Jazeera: Le difese aeree israeliane "sopraffatte" dagli attacchi iraniani
Secondo l’analista Muhanad Seloom, del Doha Institute for Graduate Studies, il sistema di intercettazione missilistica israeliano noto come Iron Dome ha mostrato vulnerabilità nel corso degli ultimi tre giorni di combattimenti con l'Iran.
"L'Iron Dome non è noto per contrastare attacchi di questo tipo, perché è destinato a missili e razzi a corto raggio. Ma quello che stiamo vedendo sono missili da crociera, missili balistici e missili ipersonici provenienti dall'Iran", ha spiegato.
Ha però osservato che gli israeliani dispongono di altri tipi di difesa aerea – Arrow 1 e Arrow 3 – in grado di raggiungere altezze di lancio fino a 100 km (43 miglia). Il sistema David Sling può intercettare proiettili da una distanza compresa tra 20 e 70 km (8-30 miglia).
"Hanno un sistema integrato di difesa aerea ed è efficiente, ma possono essere sopraffatti e lo abbiamo visto nelle ultime 48 ore", ha ribadito Seloom ad Al Jazeera.
Ore 08:30 L'Iran ha lanciato 80 missili verso il nord e il centro di Israele durante la notte
I media hanno citato stime dell'esercito israeliano.
Secondo quanto riportato dal Times of Israel, dei 40 missili della prima salva, uno ha colpito un'abitazione nella cittadina di Tamra, a maggioranza palestinese, nel nord di Israele, uccidendo quattro civili.
Il secondo bombardamento, lanciato verso il centro di Israele, era composto da 35 missili; uno di questi colpì Bat Yam, uccidendo almeno sei persone e ferendone quasi 200, mentre un altro colpì Rehovot, ferendo 40 persone.
Anche l'esercito israeliano ha riferito questa mattina di aver intercettato sette droni lanciati verso il suo territorio.
Non vi è stato alcun commento immediato dall'Iran.
Anche gli Houthi dallo Yemen hanno confermato di aver lanciato diversi missili verso il centro di Israele in coordinamento con l'esercito iraniano.
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Iran e Israele si sono scambiati attacchi per tutta la scorsa notte.
Gli attacchi di Teheran che hanno colpito duramente le raffinerie di petrolio nei pressi di Haifa, sono avvenuti dopo che le forze israeliane hanno bombardato infrastrutture civili ed energetiche in tutto l'Iran, innescando un incendio presso l'impianto petrolifero di Shahran a Teheran. L'esercito israeliano afferma di aver preso di mira siti "legati al progetto di armi nucleari del regime iraniano".
I media iraniani precisano che gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 80 persone e ne hanno ferite altre 800 negli ultimi due giorni. Tra le vittime, anche 20 bambini.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nel pomeriggio di ieri, ha ribadito che lui e il suo omologo russo, Vladimir Putin, concordano sulla necessità di porre fine alle ostilità tra Israele e Iran.
Intanto, l'Iran annulla il sesto round di colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti, mentre il ministro degli Esteri Abbas Araghchi ritiene che non vi è alcuna giustificazione per proseguire i negoziati alla luce dei continui attacchi di Israele.
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AGGIORNAMENTI
Ore 13:30 Un missile iraniano colpisce la roccaforte militare strategica di Israele a Tel Aviv. Tre scienziati nucleari iraniani uccisi in attacchi israeliani
I video dei testimoni mostrano un'area della città israeliana di Tel Aviv, dove si trovano diverse installazioni militari chiave, dopo che un missile iraniano ha colpito nell'ambito di un attacco di rappresaglia della nazione iraniana, riporta il New York Times, che ha verificato il filmato.
Intanto, tre scienziati nucleari iraniani sono rimasti uccisi in attacchi israeliani, riporta l'agenzia di stampa Tasnim.
Secondo quanto riportato, gli scienziati sono stati identificati come Ali Bakaei Karimi, Mansour Asgari e Saeid Borji. L'esercito israeliano ha affermato che i suoi attacchi aerei contro gli impianti nucleari iraniani hanno causato la morte di nove importanti scienziati nucleari iraniani.
Ore 13:00 Papa Leone: "Nessuno minacci l'esistenza di un altro": Papa Leone
“L’impegno per costruire un mondo più sicuro, libero dalla minaccia nucleare, deve essere perseguito attraverso incontri rispettosi e un dialogo sincero per costruire una pace duratura, fondata sulla giustizia, sulla fraternità e sul bene comune”, ha affermato Papa Leone XIV.
Secondo il pontefice, "nessuno dovrebbe mai minacciare l'esistenza di un altro. È dovere di tutti i Paesi sostenere la causa della pace, avviando percorsi di riconciliazione e promuovendo soluzioni che garantiscano sicurezza e dignità per tutti".
Ore 12:30 L’aeroporto israeliano Ben Gurion è chiuso fino a nuovo avviso
L'aeroporto internazionale Ben Gurion di Israele è chiuso fino a nuovo avviso, ha dichiarato una portavoce, mentre Israele e Iran continuano a scambiarsi attacchi per il secondo giorno.
"Non è stata ancora fissata una data o un giorno per la riapertura dell'aeroporto", secondo la portavoce dell'aeroporto, Lisa Diver.
Le immagini dall'aeroporto mostravano banchi del check-in e sale d'attesa per i passeggeri deserti, mentre i pannelli informativi sui voli indicavano che tutti i voli erano stati cancellati.
Altri paesi della regione, tra cui Libano e Giordania, hanno dichiarato che riapriranno il loro spazio aereo sabato.
Ore 12:00 Decine di morti nell'attacco israeliano a un complesso residenziale a Teheran
L'ambasciatore iraniano presso le Nazioni Unite aveva già comunciato che venerdì 78 persone erano state uccise e 320 ferite nella prima ondata di attacchi da parte di Israele.
Teheran ha invitato i suoi cittadini a unirsi in difesa del Paese, mentre il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu li ha esortati a ribellarsi al loro governo.
Ore 11:00 AIEA: Nessun aumento delle radiazioni esterne negli impianti nucleari iraniani
Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, non si è verificato alcun aumento nei livelli di radiazioni esterne dopo gli attacchi israeliani agli impianti nucleari iraniani.
"Gli impianti nucleari di Esfahan sono stati presi di mira più volte il 13 giugno", ha affermato l'organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite in un post su X.
Esfahan nuclear facilities were targeted several times on June 13. No increase in off-site radiation levels has been reported as of now. The IAEA remains in close contact with Iran. https://t.co/zXIqSwCmzC
— IAEA - International Atomic Energy Agency ?? (@iaeaorg) June 14, 2025
Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, non si è verificato alcun aumento nei livelli di radiazioni esterne dopo gli attacchi israeliani agli impianti nucleari iraniani. "Gli impianti nucleari di Esfahan sono stati presi di mira più volte il 13 giugno", ha affermato l'organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite in un post su X.
Ore 10:30 Funzionario iraniano conferma danni limitati al sito nucleare di Fordow
I danni subiti negli attacchi israeliani sono stati confermati dall'agenzia di stampa ISNA, che ha citato un portavoce dell'organizzazione iraniana per l'energia atomica.
"Ci sono stati danni limitati in alcune aree del sito di arricchimento di Fordow", ha affermato il portavoce dell'agenzia Behrouz Kamalvandi.
"Avevamo già spostato una parte significativa delle attrezzature e dei materiali, non si sono verificati danni ingenti e non ci sono rischi di contaminazione".
Ore 10:00 Gli attacchi dell'Iran contro Israele continueranno: funzionari
Secondo quanto riportato da alti ufficiali militari iraniani, gli attacchi contro Israele continueranno.
"Questo scontro non terminerà con le azioni limitate di ieri sera e gli attacchi dell'Iran continueranno, e questa azione sarà molto dolorosa e deplorevole per gli aggressori", ha avvertito un funzionario a condizione di anonimato citato dall'agenzia di stampa Fars.
Ore 09:30 Maduro condanna gli attacchi di Israele all'Iran definendoli "sionismo neonazista"
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha condannato il bombardamento dell'Iran da parte di Israele, definendolo un "attacco criminale" che "viola il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite".
"No alla guerra, no al fascismo, no al sionismo neonazista", ha detto Maduro in una dichiarazione.
Maduro ha inoltre accusato Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti di sostenere “l’Hitler del XXI secolo”, riferendosi al primo ministro Netanyahu, “contro il nobile e pacifico popolo iraniano”.
Ore 09:00 La Cina si scaglia contro Israele: oltrepassata una linea rossa attaccando gli impianti nucleari dell'Iran
La Cina condanna le violazioni della sovranità dell'Iran da parte di Israele e accusa gli israeliani di aver oltrepassato la linea rossa attaccando gli impianti nucleari iraniani.
"Condanniamo fermamente l'attacco di Israele all'Iran. Questa azione costituisce una violazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Iran", ha dichiarato l'ambasciatore cinese alle Nazioni Unite, Fu Cong, a margine di una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) sulla situazione in Asia occidentale.
In precedenza, durante l'incontro, Fu aveva osservato che "la Cina si oppone all'escalation delle contraddizioni e all'espansione dei conflitti, ed è profondamente preoccupata per le conseguenze che potrebbero derivare dalle azioni di Israele".
Il diplomatico cinese ha affermato che Pechino è particolarmente preoccupata per gli attacchi sionisti contro gli impianti nucleari iraniani, "che rappresentano un'altra linea rossa oltrepassata da Israele".
Ore 8:30 Funzionario Hamas elogia gli attacchi iraniani: le difese di Israele hanno fallito
Il leader di Hamas, Izzat al-Risheq, ha elogiato il successo dell'Iran nel colpire siti in Israele "nonostante tutto il clamore intorno all'Iron Dome e ai sistemi di difesa missilistica David's Sling".
Nella dichiarazione, condivisa dai siti di informazione locali palestinesi, al-Risheq ha affermato che le sofisticate difese di Israele hanno fallito e che il Paese "soffrirà di un incendio che ha da tempo acceso tra i popoli della regione".
"La forte risposta dell'Iran dimostra che non esiste arroganza senza risposta e non esiste aggressione senza punizione", ha ribadito.
Ore 08:00 Iran: i colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti sono "insensati" dopo l'attacco israeliano
"L'altra parte [gli Stati Uniti] ha agito in un modo che rende il dialogo privo di senso", ha spiegato Baqaei in merito ai colloqui che gli Stati Uniti hanno avuto con Teheran negli ultimi mesi per limitare il suo programma nucleare.
"Non si può pretendere di negoziare e allo stesso tempo dividere il lavoro consentendo al regime sionista [Israele] di prendere di mira il territorio iraniano", ha aggiunto.
Ore 07:30 L'ambasciatore statunitense in Israele afferma di aver trascorso una notte "difficile" a causa degli attacchi
Mike Huckabee racconta di aver dovuto rifugiarsi nei rifugi cinque volte durante la notte, a causa del bombardamento missilistico dell'Iran.
"Ora è Shabbat qui. Dovrebbe essere tranquillo. Probabilmente non lo sarà. L'intera nazione ha l'ordine di rimanere vicino ai rifugi", ha scritto l'ambasciatore statunitense in Israele su X.
Huckabee, un convinto sostenitore di Israele, ha dichiarato che "non esiste" la Cisgiordania all'inizio di questa settimana, oltre al fatto che per lui è improbabile la prospettiva che Israele lanci un attacco contro l'Iran senza l'approvazione o il coordinamento degli Stati Uniti.
"Non riesco proprio a immaginare che ciò possa accadere, data la vicinanza del rapporto e la fiducia, ed è questa la parola che vorrei sottolineare: c'è fiducia tra gli Stati Uniti e Israele", aveva dichiarato al notiziario israeliano Ynet.
"Dico spesso: abbiamo amici, abbiamo alleati, ma abbiamo un solo partner, Israele, e quando dico questo non intendo dire che non abbiamo relazioni profonde con altri Paesi", ha affermato Huckabee.
"Ma non esiste davvero nessun paese con cui abbiamo lo stesso livello di condivisione di intelligence, equipaggiamento militare, strategia, obiettivi comuni, in larga misura perché condividiamo un fondamento comune di civiltà basato sulla visione del mondo giudaico-cristiana".
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L'Iran ha lanciato diverse salve di missili contro Israele come rappresaglia per i precedenti attacchi israeliani contro siti residenziali e nucleari a Teheran, che hanno ucciso decine di persone, tra cui alti ufficiali militari e scienziati nucleari, e ne hanno ferite centinaia.
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— ???????? ????? ???????? (@Tasnimnews_Fa) June 13, 2025
Huge SHOCKWAVES of missile impacts on Tel Aviv pic.twitter.com/H8R1mb4oSm
— Iran Observer (@IranObserver0) June 13, 2025
Anche in Iran sono state udite diverse esplosioni: l'agenzia di stampa semi-ufficiale Tasnim ha condiviso le immagini degli incendi all'aeroporto internazionale di Mehrabad, nella capitale iraniana.
In un comunicato, "il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) dell'Iran, in quanto braccio difensivo e offensivo della nazione iraniana, facendo affidamento sul potere divino, sulla saggia guida del Comandante Supremo delle Forze Armate (Comandante Supremo delle Forze Armate) e sulla richiesta e il supporto unificato della nobile nazione iraniana, ha eseguito la sua risposta schiacciante e precisa contro decine di obiettivi, centri militari e basi aeree del regime sionista usurpatore nei territori occupati, Operazione 'Vera Promessa III'".
L'Iran riferisce che i suoi droni Arash hanno colpito diversi obiettivi nell'ambito dell'operazione True Promise III contro Tel Aviv.
"Nell'operazione dei droni dell'esercito iraniano contro l'aggressione del regime sionista, diversi droni suicidi Arash dell'esercito iraniano hanno colpito pochi minuti fa gli obiettivi designati nei territori occupati, distruggendoli completamente", ha riferito sabato il portale di notizie Defa Press .
La quinta ondata di attacchi missilistici dell'Iran è stata lanciata contro obiettivi di Israele nell'ambito dell'operazione di ritorsione True Promise III.
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— ???????? ???? (@FarsNews_Agency) June 13, 2025
L'esercito israeliano, confermando i nuovi attacchi dell'Iran, ha annunciato che diversi missili sono stati lanciati dal territorio iraniano verso obiettivi israeliani.
L'ambasciatore statunitense in Israele ha riferito di una notte tesa e difficile a causa degli attacchi missilistici dell'Iran contro obiettivi israeliani.
I media israeliani riportano una nuova ondata di attacchi missilistici iraniani contro Israele sionista. Le sirene sono state suonate in tutta la Palestina occupata.
La radio israeliana ha riferito che si tratta del quarto round di attacchi missilistici iraniani, che hanno preso di mira le zone di Al-Muruj e Tiberiade, nella Palestina settentrionale occupata.
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AGGIORNAMENTI
Ore 20:00 Khamenei "Israele non ne uscirà indenne"
La guida suprema dell'Iran ha avvertito che "Israele non rimarrà indenne" e Teheran "non userà mezze misure" quando reagirà agli attacchi di Israele.
In un discorso televisivo alla nazione, ha ribadito che le forze armate iraniane lasceranno Israele "impotente".
Ore 19:30 Putin ribadisce a Netanyahu che la Russia condanna le azioni di Israele nei confronti dell'Iran
Il presidente russo Vladimir Putin ha condannato l'attacco israeliano all'Iran, sottolineando che è stato condotto in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Le dichiarazioni di Putin sono state rilasciate durante le conversazioni telefoniche con il presidente iraniano Masoud Pezeshkian e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Inoltre, nel suo colloquio con Netanyahu, Putin ha sottolineato l'importanza di "tornare al processo negoziale e risolvere tutte le questioni relative al programma nucleare iraniano esclusivamente attraverso mezzi politici e diplomatici". Illeader russo ha offerto servizi di mediazione per prevenire un'ulteriore escalation delle tensioni in Medio Oriente.
Macron, intervenendo in una conferenza stampa, ha dichiarato di rammaricarsi del fatto che l'Iran non abbia colto le aperture degli Stati Uniti per trovare una soluzione diplomatica al suo programma nucleare e di sperare che i colloqui possano riprendere.
Ore 18:30 Il nuovo capo dell'IRGC: le porte dell'inferno si apriranno presto ai sionisti
"Il crimine commesso oggi dal regime sionista violando la sicurezza nazionale e l'integrità territoriale della Repubblica islamica non rimarrà certamente impunito", ha affermato venerdì il generale Mohamed Pakpur, nuovo comandante in capo del Corpo delle guardie della Repubblica islamica dell'Iran (IRGC), in un messaggio alla Guida della Rivoluzione islamica, l'ayatollah Seyed Ali Khamenei.
Ha inoltre sottolineato che "il regime sionista criminale e illegittimo di Israele andrà incontro a un "destino amaro e doloroso" con conseguenze enormi e distruttive."
Per il nuovo comandnate dell'IRCG "le porte dell'inferno si apriranno presto davanti a questo regime infanticida" per vendicare il sangue di comandanti, scienziati e civili martirizzati.
Ore 18:00 Tucker Carlson esorta Trump ad "abbandonare" Israele
Dopo che Israele ha attaccato l'Iran, il conduttore televisivo, che ha parlato alla Convention nazionale repubblicana lo scorso anno, ha affermato che gli Stati Uniti non dovrebbero sostenere il "governo affamato di guerra" di Netanyahu nel conflitto.
"Se Israele vuole scatenare questa guerra, ha tutto il diritto di farlo. È un Paese sovrano e può fare ciò che vuole. Ma non con il sostegno dell'America", si legge nella newsletter mattutina del Tucker Carlson Network.
Ha aggiunto che una guerra con l'Iran potrebbe "alimentare la prossima generazione di terrorismo" o portare all'uccisione di migliaia di americani in nome di un programma straniero.
"Inutile dire che nessuna di queste due possibilità sarebbe vantaggiosa per gli Stati Uniti", si leggeva nella newsletter. "Ma c'è un'altra opzione: abbandonare Israele. Lasciare che combattano le loro guerre".
Ore 17:00 Ecco un riepilogo degli ultimi avvenimenti:
Ore 16:30 Gli Stati Uniti spostano risorse militari in Medio Oriente
La Marina degli Stati Uniti ha ordinato al cacciatorpediniere USS Thomas Hudner di iniziare a navigare verso il Mediterraneo orientale e a un secondo cacciatorpediniere di iniziare ad avanzare, in modo da essere disponibile se richiesto dalla Casa Bianca.
Uno dei funzionari ha rifeito che il presidente Donald Trump sta incontrando i vertici del Consiglio per la sicurezza nazionale per discutere della situazione.
Ore 16:00 Trump: "C'è ancora molto da fare"
"Penso che sia stato eccellente", ha detto Trump ad ABC News. "E c'è ancora molto da fare. Molto di più."
Donald Trump ha dichiarato alla CNN: "Le persone con cui avevo a che fare sono morte, i sostenitori della linea dura".
Ore 15:30 Il ministro degli Esteri iraniano invia una lettera al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
Ecco i punti chiave sollevati da Araghchi:
Ore 15:00 Netanyahu parla con Trump e Putin
"I leader hanno dimostrato comprensione nei confronti della necessità di Israele di difendersi dalla minaccia di annientamento iraniana", secondo quanto precisa l'ufficio di Netanyahu in una nota.
Ore 14:00 Erdogan definisce gli attacchi israeliani all'Iran una "chiara provocazione"
"Gli attacchi di Netanyahu e della sua rete di massacri, che stanno incendiando l'intera regione e il mondo, devono essere prevenuti", ha affermato Erdogan in un post su X, aggiungendo che Ankara sta monitorando attentamente gli sviluppi nella regione.
Ore 13:00 Trump minaccia l'Iran dopo gli attacchi israeliani: "Sono tutti morti ormai, e la situazione non potrà che peggiorare!"
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha minacciato l'Iran in un messaggio pubblicato venerdì, affermando che senza un accordo, Teheran dovrà aspettarsi attacchi "ancora più brutali". La dichiarazione del leader statunitense arriva nel bel mezzo dell'escalation in Medio Oriente seguita all'attacco israeliano all'Iran di giovedì sera.
Trump ha scritto sul suo account Truth Social:
Ho dato all'Iran una possibilità dopo l'altra per raggiungere un accordo. Ho detto loro, con la massima fermezza, di 'farlo e basta', ma per quanto si sforzassero, per quanto ci andassero vicino, non ci sono riusciti. Ho detto loro che sarebbe stato molto peggio di qualsiasi cosa sapessero, prevedessero o si fossero sentiti dire, che gli Stati Uniti producono il migliore e più letale equipaggiamento militare al mondo, DI GRAN LUNGA, e che Israele ne ha in abbondanza, e ne avrà ancora molto, e sa come usarlo. Alcuni intransigenti iraniani hanno parlato coraggiosamente, ma non sapevano cosa stava per succedere. Ora sono tutti MORTI, e la situazione non potrà che peggiorare! C'è già stata grande morte e distruzione, ma c'è ancora tempo per porre fine a questo massacro, con i prossimi attacchi già pianificati che saranno ancora più brutali. L'Iran deve raggiungere un accordo, prima che non rimanga nulla, e salvare quello che un tempo era conosciuto come l'Impero iraniano. Basta con la morte, basta con la distruzione, FATELO E BASTA, PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. Dio vi benedica tutti!
Ore 12:30 L'Iran chiede una riunione d'urgenza del Consiglio di sicurezza dell'ONU
Amir Saeed Iravani, rappresentante permanente dell'Iran presso le Nazioni Unite, ha presentato una richiesta scritta per una riunione di emergenza del Consiglio, chiedendogli di adottare "azioni decisive ... contro questi atti criminali", ha riferito l'agenzia di stampa statale iraniana Tasnim.
"In un atto sconsiderato, illegale e premeditato, il regime sionista ha portato a termine una serie di attacchi militari coordinati contro gli impianti nucleari e le infrastrutture civili della Repubblica islamica dell'Iran, che sono considerati una chiara violazione della Carta delle Nazioni Unite e dei principi fondamentali del diritto internazionale, e le cui pericolose conseguenze minacciano seriamente la pace e la sicurezza regionale e internazionale", si legge nella missiva.
Ore 12:00 I paesi arabi condannano Israele e chiedono moderazione
Il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, ha affermato che le "azioni assurde" di Israele continuano a distruggere le prospettive di pace e rappresentano un pericolo imminente per la sicurezza globale.
Il Ministero degli Affari Esteri del Qatar ha descritto l'attacco come una "chiara violazione" del diritto internazionale e ha invitato alla moderazione.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno condannato gli attacchi "nei termini più forti" e "hanno sottolineato l'importanza di esercitare il massimo autocontrollo e giudizio" per evitare un'ulteriore escalation.
Anche l'Egitto ha condannato gli attacchi, mettendo in guardia dalle possibili "ripercussioni senza precedenti sulla sicurezza e la stabilità del Medio Oriente".
Ore 11:00 I leader mondiali reagiscono all'attacco di Israele all'Iran
Il presidente cubano Miguel Díaz-Canel ha diffuso un messaggio di disapprovazione in merito all'attacco di Israele contro l'Iran dal suo account sul social network X.
"Condanniamo con la massima fermezza gli attacchi condotti da Israele contro la Repubblica islamica dell'Iran, che aumentano in modo sconsiderato le tensioni in Medio Oriente e mettono a repentaglio la pace e la sicurezza internazionale e regionale con conseguenze imprevedibili", ha ricordato il leader cubano.
La Ministra degli Esteri australiana Penny Wong ha espresso "allarme per l'escalation tra Israele e Iran" e ha invitato le parti a tornare al dialogo. "Questo tipo di azioni potrebbe destabilizzare ulteriormente una regione già fragile. Esortiamo alla moderazione e a una soluzione diplomatica", ha dichiarato in una conferenza stampa riportata dall'agenzia Reuters.
Sulla stessa linea, il Primo Ministro neozelandese Christopher Luxon ha descritto l'offensiva israeliana come "uno sviluppo indesiderato" in Medio Oriente. "È essenziale evitare qualsiasi errore di valutazione che potrebbe portare a un conflitto più ampio", ha avvertito in un messaggio indirizzato sia a Tel Aviv che a Teheran.
Dall'Asia, il capo di gabinetto giapponese Yoshimasa Hayashi ha ribadito che il suo Paese "continua a compiere sforzi diplomatici per contenere l'escalation" e ha chiesto di garantire la sicurezza dei civili, compresi i cittadini giapponesi, nella regione.
Ore 10:30 La Russia condanna le azioni di Israele contro l'Iran e mette in guardia sulle conseguenze
Il Ministero degli Esteri russo ha condannato fermamente gli attacchi israeliani sul territorio iraniano, perpetrati giovedì sera, affermando che sono stati perpetrati "in violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle norme del diritto internazionale".
Il Ministero ha ribadito che "attacchi militari immotivati ??contro uno Stato membro sovrano delle Nazioni Unite, i suoi cittadini, le sue città pacifiche e addormentate e le sue infrastrutture nucleari ed energetiche sono categoricamente inaccettabili". A suo avviso, la comunità internazionale non può rimanere indifferente a tali "atrocità che distruggono la pace e danneggiano la sicurezza regionale e internazionale".
Allo stesso tempo, Mosca sottolinea che la soluzione della situazione relativa al programma nucleare iraniano non ha una soluzione militare e "può essere conseguita solo attraverso mezzi pacifici, politici e diplomatici".
"Esortiamo le parti a dar prova di moderazione per evitare un'ulteriore escalation delle tensioni e il trascinamento della regione in una guerra su vasta scala".
Ore 10:00 La guida suprema dell'Iran nomina il nuovo capo dell'IRGC
L'ayatollah Ali Khamenei ha nominato il generale di divisione Mohammad Pakpour nuovo comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dopo l'uccisione di Hossein Salami, secondo quanto ha riportato l'agenzia di stampa Tasnim.
Salami è stato assassinato durante attacchi israeliani insieme a diverse altre figure chiave dell'esercito.
Following the martyrdom of Lt. Gen. Hossein Salami, the Commander of the IRGC in an Israeli attack, the Leader of the Islamic Revolution Ayatollah Seyed Ali Khamenei has appointed Major General Mohammad Pakpour as the new IRGC Chief. pic.twitter.com/w3Ny6qqtzX
— Tasnim News Agency (@Tasnimnews_EN) June 13, 2025
Anche un impianto di arricchimento del carburante a Fordow non è stato finora interessato.
Secondo quanto riferito, gli aerei da combattimento israeliani hanno bombardato il sito nucleare nella città di Natanz durante un blitz nelle prime ore di venerdì mattina, ma l'AIEA ha precisato che al momento non si è registrato alcun aumento dei livelli di radiazioni nel sito.
L'agenzia ha confermatp che anche la centrale nucleare di Bushehr non è stata colpita.
Ore 8:30 L'Iran conferma: sei scienziati nucleari sono stati uccisi negli attacchi
L'agenzia di stampa iraniana Tasnim ha confermatp che sei scienziati nucleari iraniani sono rimasti uccisi negli attacchi israeliani.
In un post su X, l'agenzia ha riferito che sei scienziati (Abdulhamid Minouchehr, Ahmadreza Zolfaghari, Seyyed Amirhossein Faqhi, Motlabizadeh, Mohammad Mehdi Tehranchi e Fereydoun Abbasi) sono rimasti uccisi negli attacchi.
"Il regime sionista ha dimostrato che... è sceso in guerra contro i nostri scienziati usando lo strumento del terrore", si legge nel post.
Ore 8:00 Il ministro britannico Starmer esprime preoccupazione per gli attacchi e invita alla calma
Starmer ha definito preoccupanti gli attacchi israeliani e ha invitato "tutte le parti a fare un passo indietro e a ridurre urgentemente le tensioni".
"Adesso è il momento della moderazione, della calma e di tornare alla diplomazia", ??ha affermato.
Ore 7:30 L'Arabia Saudita condanna gli attacchi all'Iran
"Mentre il regno condanna questi attacchi efferati, afferma che la comunità internazionale e il Consiglio di sicurezza hanno la grande responsabilità di porre immediatamente fine a questa aggressione", ha affermato il ministero in una nota.
Ore 7:00 Attacchi di Israele e Iran nel 2024 rispetto ad oggi
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Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato venerdì notte che l'aviazione israeliana ha condotto un attacco “preventivo” in Iran.
I media iraniani hanno riportato esplosioni a Teheran e intercettazioni di missili. È stata dichiarata una situazione di emergenza in tutto Israele. “A seguito dell'attacco preventivo dello Stato di Israele contro l'Iran, si prevede un attacco missilistico e con droni contro lo Stato di Israele e la sua popolazione civile nell'immediato futuro ”, ha dichiarato Katz.
Il capo di Stato Maggiore israeliano, Eyal Zamir, si è rivolto al popolo israeliano dopo che il suo Paese ha lanciato nelle prime ore di venerdì un attacco contro il programma nucleare iraniano.
Stiamo chiamando a raccolta decine di migliaia di soldati e ci stiamo preparando su tutti i confini”, ha sottolineato l'alto militare. ‘In questo momento, vi chiedo di sostenere le truppe e le forze di sicurezza dell'IDF, che operano con forza e determinazione, sia sui fronti vicini che su quelli lontani’, ha detto.
Parlando dell'attacco alla centrale nucleare di Natanz, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il suo Paese “ha colpito il cuore del programma nucleare iraniano”. “Ci siamo concentrati sul principale impianto di arricchimento dell'uranio iraniano, a Natanz”. Il capo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA), Rafael Grossi, ha confermato che l'impianto nucleare di Natanz è stato attaccato da Israele. “L'Agenzia è in contatto con le autorità iraniane in merito ai livelli di radiazioni. Siamo anche in contatto con i nostri ispettori nel Paese”, ha detto Grossi, aggiungendo che ‘l'AIEA sta seguendo da vicino la preoccupante situazione in Iran’.
L'attacco giunge dopo settimane di tensioni in seguito al fallimento dei nuovi negoziati sul programma nucleare iraniano. Il mese scorso diverse testate giornalistiche hanno riferito che Israele ha discusso con gli Stati Uniti di potenziali attacchi ai siti nucleari iraniani. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha recentemente accusato Teheran di "rallentare ” i negoziati e ha ribadito che il suo obiettivo è il completo smantellamento del programma nucleare iraniano. L'Iran ha negato di perseguire armi nucleari, sostenendo che le sue attività nucleari sono esclusivamente per scopi civili.
Secondo un corrispondente di Fox News che ha parlato con Trump, il presidente americano era a conoscenza degli attacchi israeliani. Gli Stati Uniti non partecipano militarmente e mantengono la loro intenzione di negoziare con l'Iran. Inoltre, ha aggiunto che gli Stati Uniti offriranno aiuto a Israele per difendersi da un possibile contrattacco.
L'aviazione israeliana ha finora effettuato cinque ondate di attacchi in Iran, riferisce The Times of Israel, citando una fonte militare. In totale sono stati effettuati centinaia di attacchi, ha detto il funzionario informato sulla questione.
Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche iraniane ha confermato la morte del suo comandante in capo, il generale Hossein Salami, e di altri militari, a seguito dell'attacco israeliano perpetrato venerdì.
Il leader supremo dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato che Israele “avrà senza dubbio un destino doloroso” dopo l'attacco perpetrato contro la nazione persa venerdì.
Il regime deve aspettarsi una punizione severa. La potente mano delle Forze Armate della Repubblica Islamica non lo lascerà scappare, con il permesso di Dio”, ha affermato. ‘Con questo crimine, il regime sionista si è preparato un destino amaro e doloroso, che senza dubbio riceverà’, ha aggiunto.
Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, riporta l'ANSA, ha convocato una riunione di emergenza alle 7.30 alle Farnesina con gli ambasciatori dell'area interessata sulle operazioni militari di Israele in Iran.
(IN AGGIORNAMENTO)
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:30:00 GMT
di Pasquale Liguori
Non pochi avevano creduto - ingenui - a un barlume di rinsavimento del sistema. Persino i media liberal padronali (Repubblica, Corsera, Mentana & co.), dopo mesi di complicità, sembravano accorgersi che a Gaza si stava consumando un genocidio. Addirittura, il PD balbettava qualcosa del genere e quelli del “né con… né con…”, del “7 ottobre condannato senza se e senza ma” in premessa, si erano messi in marcia. E via poi con Ong, Onlus, Pro Loco, scout, festival, tavoli per la pace, arcobaleni, gruppi facebook infervorati. Tutti in un nuovo coro, allineato. Con le loro grafiche emotional da “ultimo giorno”, i leggiadri hashtag solidali, le bianche lenzuola stese e quei cinque minuti di buio programmato per dar luce alle coscienze.
Ricorderemo questo vivace mese di redenzione.
Aleggiava perfino un’ebbrezza da “massa critica” - l’ho sentito dire da insospettabili. Il sistema vacillava! L’opinione pubblica si destava!
Poi, mentre finalizzava indisturbato la pratica genocidio, Israele ha attaccato l’Iran.
Ed ecco che, come un sol uomo, l’intero mainstream occidentale ha ritrovato la bussola: di nuovo compatti in difesa della civiltà bianca contro la barbarie islamista.
Riecco i discorsi floreali su libertà, democrazia, diritti delle donne - non a Gaza, eh, ma a Teheran.
Riecco Israele, repentinamente dimenticato criminale e nuovamente faro nella notte persiana, baluardo contro i veli, le frustate, gli Ayatollah tagliagole.
La parola genocidio? Tornata a far paura, come comunismo negli anni '50.
Le piazze? Sul divano o al mare.
I lenzuoli? In lavatrice.
Gli hashtag? Deleted.
Il campo largo anti”massacro”? Ha smontato il palco.
Un saluto tenero va alle anime belle che si erano commosse al “meglio tardi che mai”, al “finalmente si muove qualcosa”. Sì, si muoveva: era la ruota del criceto.
Il peggior nemico è la fame di consenso, la sete di approvazione, la dipendenza dal riconoscimento del potere.
Bisogna essere altro: seri. Non distante da noi v’è resistenza. Che non si fa coi pranzi equi e solidali.
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:30:00 GMT
di Fabrizio Poggi
Nel 2019, nel corso di un talk show su canali televisivi russi, il defunto ex leader del LDPR, Vladimir Zhirinovskij aveva “pronosticato” l'attacco israeliano all'Iran, dicendo che «verrà un tempo quando tutti si dimenticheranno dell'Ucraina», proprio in ragione dell'attacco israeliano a Teheran. La guerra, aveva detto Zhirinovskij, comincerà con «Israele che colpirà obiettivi in cui, a suo parere, possono trovarsi centri nucleari» iraniani. Dopo di che, l'Iran risponderà all'attacco e gli USA «verranno in aiuto, mobilitando la NATO e cominceranno a bombardare l'Iran, utilizzando armi molto pericolose, con effetto locale», che potrebbero «cancellare l'intero paese».
Al momento, quantomeno la prima parte della “predizione” si è avverata...
In ogni caso, sembra il caso di ricordare quanto scritto nell'aprile scorso da Topwar.ru, a proposito delle minacce – un vero e proprio ultimatum - lanciate da Donald Trump all'indirizzo dell'Iran, secondo cui questo avrebbe subito attacchi «senza precedenti» se Teheran si fosse rifiutata di firmare il cosiddetto “accordo sul nucleare”, fissando anche un limite temporale per la firma.
Questo avveniva dopo che nel gennaio 2025 Mosca e Teheran avevano firmato un accordo di partenariato strategico globale, in cui è previsto anche il rafforzamento della cooperazione militare. I dettagli dell'intesa russo-iraniana, scriveva Topwr.ru, non sono del tutto chiari, ma, in generale, sorge la domanda se, in presenza di tale accordo, la Russia possa rimanere in disparte nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di "far fuori" l'Iran.
D'altra parte, già all'epoca Teheran chiariva di essere pronta a discutere nuove proposte americane per l'accordo sul nucleare, avendo quale intermediario l'Oman. In sostanza, gli USA pretendevano da Teheran un totale disarmo missilistico e il divieto assoluto di arricchimento dell'uranio.
Ora, dopo due giorni di attacchi sionisti e delle risposte iraniane, giunge la notizia secondo cui il Ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi avrebbe dichiarato che Teheran è pronta a concludere un accordo in cui si garantisca l'assenza di armi nucleari nella repubblica, nonché il loro sviluppo, ma che non intende interrompere lo sviluppo dell'energia nucleare a scopi pacifici. Al tempo stesso, scrive oggi Topwar.ru, il parlamento iraniano sta discutendo il ritiro della repubblica dal Trattato di non proliferazione delle armi nucleari.
«Siamo pronti per qualsiasi accordo il cui obiettivo assicuri l'assenza di armi nucleari in Iran» avrebbe dichiarato il Ministro Araghchi, dal momento che, «in base ai nostri principi, le armi nucleari sono proibite. Tuttavia, se scopo dell'accordo è quello di privare l'Iran dei suoi legittimi diritti, allora non siamo pronti per un accordo del genere». In base alle dichiarazioni ufficiali, Teheran è anche pronta a interrompere i bombardamenti sul territorio dello stato ebraico, se Israele cesserà di colpire il territorio iraniano.
Prima di questo, era venuta la dichiarazione di Donald Trump, secondo cui gli USA sono pronti a «concludere un accordo» tra Iran e Israele per porre fine al conflitto e sono anche disposti a riprendere i negoziati (in teoria, previsti per oggi, 15 giugno) sul programma nucleare iraniano, interrotti a causa degli attacchi israeliani.
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:30:00 GMT
di Luca Busca
Il 15 giugno scorso La Repubblica on line titolava: Iran, il fisico Cotta-Ramusino: “Senza un accordo arriveranno alla bomba”. Com’è ormai consuetudine nel mainstream, il titolo è totalmente disconnesso dal contenuto dell’articolo che, in questo caso, consiste in un’intervista a Paolo Cotta-Ramusino che “è stato per decenni professore alla Statale di Milano, dove ha tenuto anche un corso sulle armi atomiche. E fino al primo gennaio scorso ha ricoperto il ruolo di Segretario generale delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, movimento di scienziati pacifisti fondato nel 1957 da Joseph Rotblat e Bertrand Russell e premiato con il Nobel per la Pace nel 1995. Ora è membro del Gruppo di lavoro per la Sicurezza Internazionale e il Controllo degli Armamenti dell’Accademia dei Lincei, presieduto dal fisico Luciano Maiani. Ma continua a viaggiare per Pugwash.” (repubblica-paolo-cotta-ramusino-attacco-israele).
Lo scienziato italiano ha evidenziato di non aver avuto problemi durante la recente visita e che “L’Iran è un grande Paese e ha molte anime: noi abbiamo parlato soprattutto con i rappresentanti dell’attuale governo. E l’establishment iraniano era preoccupato.” In maniera piuttosto esplicita poi Cotta-Ramusino sentenzia: “Il solo modo per impedire che l’Iran costruisca ordigni atomici è fare un accordo analogo a quello stipulato nel 2015 con l’Amministrazione Obama. Attaccando l’Iran lo si induce a costruirsi la bomba. È il contrario dell’obiettivo dichiarato. E poi: Israele è l’unico Paese che possiede armi nucleari senza dichiararle. E prende questa posizione nei confronti dell’Iran perché ha paura di essere aggredito?”
Ora risulta evidente anche ai bimbi delle elementari che, se vogliono ottenere un accordo amichevole con il proprio compagno di classe, come il farsi passare il compito in classe di aritmetica, l’ultima cosa da fare è picchiarlo e per giunta davanti ai maestri. Il bambino picchiato può fare solo due cose: o decide di difendersi o si rivolge all’autorità preposta per farsi proteggere. Se i maestri si comportano come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con uno di loro che, essendo il padre padrone del bambino picchiatore, pone il veto alla risoluzione per la sospensione del bambino, reo palese di violazione del diritto scolastico, all’alunno bullizzato non resta altro che reagire. Se il bambino picchiatore è più forte, anche in funzione dell’appoggio del padre padrone maestro, quello più debole chiamerà amici e parenti per tutelarsi. Il conflitto si allargherà rischiando di far esplodere una faida lunga e violenta.
Nel caso dell’articolo di Repubblica il geniale giornalista, Luca Fraioli, sembra voler interpretare la parte del maestro: “Israele dice che ha attaccato perché l’Iran era a un passo dalla bomba. E la Iaea conferma che l’arricchimento dell’uranio è al 60%: ad arrivare al 90% necessario per gli ordigni ci vuole poco.” Nonostante lo sganassone dialettico ricevuto con la risposta precedente l’intervistatore insiste con domande retoriche che tendono a dirottare le responsabilità dell’attacco israeliano sul “mostro” di turno: “Però la Iaea ha anche evidenziato una serie di irregolarità e di mancate risposte: Teheran non è stata trasparente sui suoi programmi nucleari.” Lo scienziato italiano di Pugwash conclude esprimendo il suo parere in merito alla possibilità di trovare un accordo: “Faccio notare che il ritorno al JCPoA non l’ha voluto nemmeno l’Amministrazione Biden. L’approccio occidentale alla vicenda del nucleare iraniano è stato, per essere gentili, scoordinato. Se invece vogliamo essere cattivi, potremmo dire che è stato malintenzionato.”
Credere che l’Occidente, inclusa Israele, con la migliore “intelligence” del mondo dotata delle attrezzature di controllo più sofisticate, sia “scoordinato” è puerile. In secondo luogo, nel mondo dei social ormai i giornali li leggono in pochi e questi pochi sbirciano i titoli e basta. Nel caso preso in esame (Iran, il fisico Cotta-Ramusino: “Senza un accordo arriveranno alla bomba”) il contenuto viene appositamente distorto nello “strillo” per indurre la paura del “mostro” iraniano e della sua bomba atomica che, però, non c’è.
Lo scopo è di giustificare un attacco, da parte di chi di bombe nucleari ne ha tante, il cui intento è palesemente quello di ottenere il contrario di quanto dichiarato, ovvero la reazione del bimbo picchiato, e probabilmente l’allargamento della faida mediorientale. Trump, infatti, ha immediatamente elogiato l’operazione: “Penso che sia stato eccellente. Abbiamo dato loro una possibilità e non l’hanno colta. Sono stati colpiti duramente, molto duramente. Sono stati colpiti più o meno nel modo più duro possibile. E c’è altro in arrivo. Molto altro.”, ha detto Trump secondo quanto scritto da un giornalista della Abc su X. [... ovviamente] - Il premier Benjamin Netanyahu ha detto che Israele aveva informato gli Stati Uniti dei suoi piani di attacco all’Iran prima di attuarli. (Fonte Reuters)
Il problema ora è comprendere le ragioni che hanno indotto gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran per mano del loro 51° Stato, Israele appunto. La logica è la stessa di sempre, come primo passo si crea un mostro, come già accaduto, in ordine cronologico, a: Slobodan Miloševi? e la Serbia intera; Bin Laden con al-Qaeda e i Talebani e tutto l’Afghanistan; Saddam Hussein e l’Iraq; Hezbollah e Hamas, in questo caso la personificazione del male ha incontrato delle difficoltà dovute alla vita breve dei vertici a causa degli “omicidi mirati” di Israele e degli Stati Uniti; Bashar al-Assad e la Siria; Mu?ammar Gheddafi e la Libia; gli Houti anche qui personificazione assente in virtù della morte prematura del leader, ?usayn Badr al-D?n al-??th?, da cui il gruppo prende il nome; Vladimir Putin e la Russia intera, inclusi artisti, letterati e sportivi; Ali Khamenei e la retrograda Repubblica Islamica dell’Iran.
La tecnica prosegue poi con l’invenzione di tremendi pericoli per il mondo intero. Il fine è quello di certificare la mostruosità del soggetto prescelto come nei casi, sempre in ordine cronologico, della pulizia etnica; della responsabilità dell’attentato alle Torri Gemelle; delle armi di distruzione di massa; delle decapitazioni di bambini e degli stupri di donne; dei massacri diffusi e dell’utilizzo di fosse comuni; della tratta di esseri umani, torture e omicidi di massa, questi ultimi in alcuni casi finanziati dall’Europa per frenare l’immigrazione; della condizione femminile e del mancato rispetto dei diritti civili; della dittatura interna e dell’intenzione di invadere l’Europa con le pale dell’Ottocento; della bomba atomica che ancora non c’è.
Una volta scritta la sceneggiatura, si realizzano i filmati, le interviste agli esperti, i dibattiti necessari a indottrinare il popolo in merito alla straordinaria cattiveria del nuovo mostro. In questo modo si nasconde la vera ragione che spinge a innescare il nuovo conflitto armato. Una piccola ricostruzione storica aiuta a capire meglio questa dinamica. Il 10 marzo 2023, Arabia Saudita e Iran, grazie alla mediazione cinese, hanno ripristinato le relazioni diplomatiche dopo anni di conflitto indiretto in Yemen. Il 24 agosto 2023, durante il 15° vertice del gruppo tenutosi in Sudafrica, i due paesi annunciano il loro prossimo ingresso nei BRICS.
Improvvisamente il 7 ottobre dello stesso anno Hamas riesce a “bucare” quello che viene considerato il migliore esercito del mondo, coadiuvato dalla più efficiente delle intelligence, con qualche deltaplano, motociclette sgangherate e altri mezzi di fortuna. Il bilancio è il peggiore di sempre per Israele con 1201 vittime e 247 persone rapite. In nome del diritto all’autodifesa, Israele scatena la rappresaglia peggiore in oltre settant’anni di persecuzione del popolo palestinese. Ne scaturisce un vero e proprio genocidio, con tanto di utilizzo della fame, della sete e del freddo come armi di sterminio. L’orrore è tale che anche nelle menti semplici, generalmente inclini ad aderire alla teoria del “mostro”, comincia a insinuarsi il dubbio che in fondo l’obbrobrio si stia trasformando in vittima.
Quella di Gaza assomiglia sempre meno a una guerra e sempre più a un massacro unilaterale, che include troppi bambini, ragazzi, donne e civili per essere considerato “giusto” da chiunque. Per mantenere alta la tensione bisogna cambiare fronte. Così Stati Uniti e Israele, di comune accordo, decidono di violare per l’ennesima volta il diritto internazionale attaccando l’Iran. La complicità statunitense è palese, non solo per le dichiarazioni di Trump e Netanyahu sopra riportate, ma anche per la consegna, avvenuta pochi giorni prima dell’attacco, di trecento missili anticarro Hellfire in dotazione agli elicotteri, non certo utili in un contesto, come quello di Gaza, in ci gli unici blindati presenti sono quelli israeliani.
Come fa notare Pino Arlacchi in un suo articolo (Pino Arlacchi Israele ha aperto il vaso di pandora dell'atomica): “Israele ha commesso un delitto di proporzioni storiche. Bombardando le installazioni nucleari civili di uno Stato parte del Tnp [Trattato di non proliferazione nucleare], posto sotto il controllo dell’Agenzia Atomica di Vienna (Aiea), Netanyahu ha violato simultaneamente il diritto internazionale, la Carta Onu e ogni principio di proporzionalità. Ma l’aspetto più grave è che questo atto ha fornito all’Iran la giustificazione giuridica perfetta per ritirarsi dal Tnp e sviluppare armi nucleari in piena legalità internazionale.
L’articolo dieci del Tnp permette il ritiro quando “eventi straordinari abbiano messo in pericolo gli interessi supremi” di uno Stato. È difficile immaginare evento più straordinario di un assalto militare. La Corea del Nord invocò lo stesso articolo nel 2003 per molto meno. E tre anni dopo aveva la bomba, in regime di legalità internazionale perché non si è mai riusciti a proibire l’atomica. L’Iran può ora citare un pesante attacco militare contro la sua sovranità territoriale e le sue installazioni militari legali. Netanyahu ha appena regalato all’Iran la strada legale verso l’arma nucleare. Gli Stati Uniti si sono resi complici di questa catastrofe diplomatica.”
Questa analisi, se ce ne fosse stato bisogno, smentisce categoricamente la motivazione data da Usa e Israele per l’avvio dell’ennesima guerra. Non sempre è semplice, però, capire la ragione reale per cui l’Occidente tende a scatenare la guerra contro il “mostro” di turno. A volte si possono fare delle supposizioni, sempre in ordine cronologico: la Jugoslavia era l’ultima enclave socialista rimasta in Europa, anche se non allineata, e andava smembrata. Operazione perfettamente riuscita nel giro di sette anni. In Iraq e in Libia si può supporre che facessero gola le risorse petrolifere, assenti però in Afghanistan e irrilevanti in Siria per non parlare della Palestina. In Ucraina l’intento, oltre alle risorse, probabilmente era anche quello di deteriorare i rapporti tra Europa e Russia, deleteri dal punto di vista economico per gli Stati Uniti.
Un altro dato va però esaminato prima di giungere a facili conclusioni: la cronologia delle crisi economiche occidentali. Nel 2000 la bolla delle Dot-com venne a galla e, nell’anno seguente, molte compagnie digitali fallirono creando una crisi finanziaria ed economica. L’11 settembre del 2001 due aerei piombarono sulle Torri Gemelle, un altro andò disperso nei pressi del Pentagono e uno, probabilmente diretto a Washington si schiantò in Pennsylvania, a seguito della rivolta dei passeggeri. Il più grave attacco subito dagli USA sul proprio suolo dopo Pearl Harbour diede l’avvio alle guerre d’Afghanistan e Iraq.
Tra il 2007 e il 2009 il mondo occidentale subì la più grave crisi economica dal 1929, a causa della bolla finanziaria dei mutui sub-prime. La crisi divenne strutturale, tanto è vero che nel 2010-2011 l’Europa era ancora in recessione, per effetto di quella che fu chiamata “crisi del debito sovrano”. Le conseguenze peggiori, com’è noto, le pagò la Grecia. Nel 2020 la gestione della pandemia, “per essere gentili, scoordinata, se invece vogliamo essere cattivi, potremmo dire che è stata malintenzionata”, ha indotto una nuova crisi economica, quando ancora non era del tutto risolta quella che ha attanagliato l’Occidente dal 2007 al 2015.
Durante tutti questi anni sono state avviate guerre in Libia, in Siria, nello Yemen, in Donbass a cui ha fatto seguito l’intervento russo in Ucraina. È stato promosso un genocidio, crimine che mancava da ottant’anni. Sono stati mantenuti diversi conflitti armati preesistenti in Africa e sobillati altri in Centro e in Sud America, sempre con l’invenzione di “mostri” cubani, venezuelani, nicaraguensi, etc. Contemporaneamente i due terzi del mondo, che non appartengono all’Occidente, stanno cercando di vivere in pace, nonostante le continue ingerenze, e tentano di affrontare le problematiche economiche in modo diverso.
Si sono organizzati, hanno fondato i BRICS, li hanno allargati, hanno creato un nuovo sistema per le transazioni economiche internazionali e stanno procedendo alla de-dollarizzazione delle stesse. In quest’ottica le guerre che l’Occidente va promuovendo in giro per il mondo sembrano assumere un’unica ragion d’essere, destabilizzare gli altri due terzi del mondo per inficiare la loro condizione economica. Allo stesso tempo le guerre servono a occultare lo stato dell’economia occidentale, non proprio idilliaco e, attraverso l’ampliamento del debito pubblico, a risanarla, anche se solo momentaneamente, fino all’esplosione della prossima bolla finanziaria. In sostanza, la guerra ha smesso di essere il mezzo per raggiungere uno scopo come la conquista di territori e risorse. È diventata il fine che si vuole raggiungere: uno stato permanente di conflitto che destabilizzi la concorrenza “orientale” e nasconda la crisi strutturale dell’economia finanziaria.
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:30:00 GMT
di Federico Giusti e Emiliano Gentili
Il Rapporto Annuale ADAPT sulle dinamiche contrattuali indica un quadro per nulla confortante, in cui il welfare aziendale cresce[1] e i salari reali calano. Una lettura diversa rispetto alla consueta narrazione della Cgil, autentico Giano bifronte del panorama sindacale, che conferma di muoversi all’interno di perenni contraddizioni.
Veniamo ad evidenziarne le principali:
Stando ad una ricerca Adapt, il lavoro a tempo determinato è stato trattato nel 35% degli accordi, facendo particolare attenzione alle causali (che giustificano l’utilizzo del contratto precario), che non a caso vorrebbero rimuovere; nel 20% dei rinnovi considerati si è parlato della retribuzione degli apprendisti e della loro formazione, tirando sempre in ballo gli Enti bilaterali; nel 36% degli accordi di rinnovo si è parlato di orari di lavoro all’insegna della flessibilità e degli interessi aziendali; in 8 casi su 10 esiste un Capitolo del Contratto appositamente dedicato a salute e sicurezza, anche se poi tutto si riduce a tutele individuali per gli ammalati a lungo termine o alla gentil concessione di uno smart che sovente è pure accompagnato da carichi di lavoro aggiuntivi; e, per chiudere, la formazione, che dovrebbe essere tra i capitoli più gettonati da imprese che lamentano di non trovare professionalità sul mercato… ebbene, solo nel 20% dei contratti il capitolo formativo ha trovato spazio; solo in pochi casi si è parlato di inquadramento e di professionalità, come se da questi elementi non dipendesse anche la corretta attribuzione di adeguati livelli in base alle prestazioni erogate e alle conoscenze acquisite. Ancora una volta è evidente quali siano gli interessi delle aziende: abbattere il costo del lavoro, ottenere aiuti fiscali generosi dallo Stato, accrescere la flessibilità e le deroghe, rinviare gran parte delle decisioni alla contrattazione di secondo livello, dove hanno maggiore forza;
In conclusione, leggendo il Rapporto ADAPT non serve essere un fine giuslavorista o un analista di altro tipo per rendersi conto di come il nodo focale sia lo scambio tra aumenti contrattuali e benefit. Uno scambio che conviene alla parte datoriale sia sotto il profilo fiscale e sia perché in molti casi il datore – quando non anche il sindacato – ha anche degli interessi specifici nell’ambito di elargizione dei benefit stessi (strutture sanitarie “amiche” e via dicendo…). E, dunque, «Focalizzando l’attenzione sulle dinamiche salariali, si nota come la quasi totalità degli accordi in materia retributiva affronti il tema dalla prospettiva del salario premiante. Tra gli obiettivi più ricorrenti per la retribuzione di risultato si rilevano la produttività e l’efficienza economica, che rappresentano il criterio predominante insieme alla redditività e, in misura minore ma comunque significativa, alla qualità. Più della metà degli accordi in materia di premio di risultato prevede l’opzione di welfarizzazione del premio»[2].
Amen.
[1] Cfr. F. Giusti, Il welfare aziendale non compenserà la distruzione dello stato sociale, 05 Giugno 2025, https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_welfare_aziendale_non_compenser_la_distruzione_dello_stato_sociale/42819_61235/.
[2] La contrattazione collettiva in Italia (2022), XI Rapporto ADAPT. Adapt University Press, 2023, p. XXIII.
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:00:00 GMT
di Alessandro Mariani
“Almeno Maurizio Landini ha avuto l’onestà di riconoscere la sconfitta!”
Sentendo certi commenti si è veramente tentati di fuggire su Marte, magari elemosinando un passaggio dallo spiritato d’oltreoceano. Ma cos’altro avrebbe potuto fare il segretario della CGIL, dopo aver percorso in lungo e largo l’Italia ed essersi sgolato nel ripetere che il raggiungimento del quorum era un obbiettivo possibile? Dichiarare logica e matematica fuoricorso forse? Neanche fosse un giudice della Corte costituzionale!
Dai fronti più disparati sono già in troppi a mettere il dito nella piaga e del resto la reazione della sinistra sinistrata era prevedibile quanto il flop referendario. Attardarsi a commentare la debacle di CGIL, PD e compagnia cantante, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Ed oltre che scontato sarebbe del tutto inutile, tanto il persiste et signe ed il diabolicum perseverare vanno ormai a braccetto da quelle parti!
Altrettanto prolissi e banali ci sentiremmo nel commentare i gongolanti interventi dei vari esponenti di destra, un’orchestra di bimbi minchia tenuti insieme dalla direttrice che è una vera fuoriclasse in fatto di opportunismo, minacciata più dalla pochezza dei suoi che dalle fughe pindariche dell’opposizione. Ma forse è persino esagerato definire opposizione quella calca riottosa e squinternata che la stessa presidente del consiglio sembra in grado di orientare e manovrare con minori difficoltà rispetto alla maggioranza che la sostiene. La sorella d’Italia si trova alle corde tra i prezzi che aumentano, la povertà che avanza e l’ irrilevanza del suo governo a livello europeo ed internazionale; e i nostri fessi volonterosi che cosa fanno? Le corrono in soccorso caricando di significato politico i referendum dall’esito scontato.
Anni or sono un politico di lungo corso disse che lasciare i giornali nelle edicole avrebbe dovuto essere considerato un gesto di civiltà. Un coro di critiche proveniente da tutte le direzioni lo trafisse come un San Sebastiano delle sette frecce. Naturalmente fu costretto a rettificare quella che invece era stata una delle cose più sensate dette nella sua lunga e finalmente terminata carriera.
Una rapida lettura delle prime pagine dei quotidiani all’indomani dell’ultima chiamata alle armi non fa altro che confermare la persistente validità di quell’assunto; Giornaloni, Giornalacci e Giornaletti riportano la notizia del mancato raggiungimento del quorum tutti, com’è ovvio che sia, cercando di portare acqua al mulino di riferimento, ed ognuno con una serie di fesserie diversamente argomentate.
Non fa eccezione (e lo diciamo con rammarico) neppure il Fatto Quotidiano, la cui analisi è, almeno in parte, tra le più sballate di quelle in circolazione. Ritenere come fa il suo direttore che la ragione del flop referendario risieda nella inammissibilità (dichiarata a suo tempo dalla Consulta) del referendum sulla legge Calderoli (autonomia differenziata) può stare a significare solo due cose: a) mancata cognizione dei processi reali, b) la classica pezza cucita a protezione del buco.
Ora essendo M. Travaglio una tra le poche voci degne di considerazione, la prima ipotesi va decisamente scartata. Ma resta il problema, non di poco conto di quel che i suoi occhi non vedono o che fan finta di non vedere. Tanto per parlar chiaro mi riferisco all’ormai acclarata impresentabilità di un personaggio che alla politica di questo disastrato paese ha già dato fin troppo. Parlo di Giuseppe Conte, quello (non dimentichiamolo) che un tempo per poter parlare doveva chiedere il permesso a Giggino Di Maio e che nel fù movimento dell’ “uno vale uno”, vale ora da solo più di tutti gli altri messi insieme.
Una volta diventato grande, l’uomo dei dpcm e delle “libertà autorizzate” non ha più freni inibitori. Se ne frega altamente (e da questo punto di vista ha tutta la nostra comprensione) dell’antico padre padrone che, come il Mazzarò di Giovanni Verga, in punto di morte va colpendo a destra e a manca sbraitando “Roba mia vientene con me!”
Si propone, rilascia interviste, memorabile l’ultima al Corriere della Sera dove commentando la bocciatura del referendum ha detto “dobbiamo abbattere il quorum a un terzo, portandolo al 33%. Così anche chi è contrario, sarà motivato ad andare a votare (sic!)”. Che è poi come dire che se il termometro sale a 39 si può sempre sostenere che fino a quando non si arriva a 40 non si deve parlare di febbre.
Ma pensare che nello stato pietoso in cui versa il cosiddetto campo progressista, il M5s capitanato dall’avvocato del popolo, possa ancora svolgere una funzione di rilievo o addirittura trainante, è un’ingenuità che stentiamo ad attribuire ad un giornalista rodato e capace come il direttore del Fatto Quotidiano. La realtà è che il partito che non voleva esser tale si è ormai avviato a seguire lo stesso iter comune a molti dei partiti e movimenti italiani: nato al nord, dopo aver raggiunto l’acme, è destinato ad un inarrestabile fase di declino per poi spegnersi definitivamente al sud.
A dire il vero una forte critica si era invece udita da quelle parti, per bocca di A. Padellaro, presidente e fondatore della testata: “ma ci rendiamo conto del rischio di un quorum non solo non realizzato, ma magari lontano dal quorum stesso…ci rendiamo conto di come quest’arma verrà usata per dire…vedete!? Gli italiani stanno con noi, queste fesserie non le calcolano […] Ecco! In quei ventisei milioni di persone che non vanno a votare, e non so quante andranno a votare per i referendum, quanto disamore c’è per colpa di politiche che la gente non capisce?” [1]
Bene dunque, “L’onore della testata è salvo”, vi direte. E Dio solo sa quanto ci sia bisogno di una voce critica e libera[2] in tempi in cui gli scemi di guerra imperversano a 360° da destra a sinistra per non dire di un centro che è ormai, da qualsiasi parte lo si guardi, l’ombelico di se stesso.
Al contrario invece, tutto male nel caso di specie per uno dei pochi giornali che non andrebbe lasciata nelle edicole, anche perché all’indomani del flop referendario lo stesso Padellaro, invece che rivendicare la bontà delle considerazioni ante-referendum, si accoderà al coro di chi invoca rispetto per i quattordici milioni di elettori che alle urne ci sono andati (come un Bersani qualsiasi).
Ma lì dove vi chiederete? Sugli scranni di la Sette naturalmente! Gli stessi dove Travaglio è ospite fisso a giorni alterni. La TV di sistema che vezzeggia gli antisistema o, a seconda della prospettiva la tv anti-Sistema che corteggia il Sistema. In tal senso un network realmente completo, pluralista a 360 gradi, alfiere (in teoria) dei valori del mondo libero, nella pratica la rete regina in quel genere di spettacolo intellettualmente così ripugnante che sono i talk. Laddove l’abilità del conduttore sta tutta nel sapersi trasformare in un buttafuori senza darlo a vedere.
Ora, concesso che allo stato degli atti ha poco senso pretendere dai leader politici rigore e coerenza, c’è però da chiedersi fino a che punto possa continuare a reggere la finzione democratica su cui si reggono (Italia in primis) le nostre oligarchie liberali,. La maggior parte del circo mediatico ormai non si fa più problemi nel giustificare il velo di menzogna e spaccia la sua compiuta accettazione per maturità politica. Così è normale che quando si è all’opposizione si gridi di voler diminuire le accise ed altrettanto normale è aumentarle in silenzio quando si è al governo.
Detto in questi termini parafrasando Moritz Steinschneider verrebbe da dire che l’unica cosa che si possa fare per la democrazia rappresentativa sia assicurarle un funerale decente. Resta il rilevantissimo problema del come, perché è inutile nascondersi che ci troviamo nel momento più difficile dal dopoguerra in qua.
A questo punto mi viene da dire che si potrebbe trarre spunto proprio da Giuseppe Conte. Si proprio lui, non è una boutade: quello dalle ottime intenzioni e delle azioni sbagliate, l’azzeccacarbugli che in politica non ne ha azzeccata una, l’uomo dei monopattini e del 110%, dei lockdown e del sostegno al governo Draghi. Solo che bisognerebbe avere il coraggio di proporre l’esatto opposto di quel che da lui è sostenuto, altro che abbassare il quorum per i referendum abrogativi! Bisognerebbe avere il coraggio di proporlo anche per le elezioni politiche! Al di sotto di una certa soglia i rappresentanti del popolo realmente sovrano andrebbero estratti a sorte da appositi elenchi di cittadini in possesso di determinati requisiti, più o meno come avviene per la designazioni dei giudici popolari presso le corti d’appello. Cosa ci sarebbe di così sconvolgente da un punto di vista concettuale, rispetto al reciproco rinfacciarsi dei due poli contrapposti di essere minoranze nel paese?
P.s.1 Ci perdonino l’eccessiva verve polemica direttore e presidente del Fatto Quotidiano ma per certi versi, la nostra è anche farina di quel sacco.
Ps. 2 Le astuzie della ragione sono sempre in agguato, come sa bene la sorella d’Italia che opportunisticamente tace mentre compagni di coalizione e di partito contribuiscono a segare, giorno dopo giorno il ramo su cui son seduti.
[1] Intervento ai margini della presentazione del suo libro Antifascisti immaginari, al Salone del libro di Torino
[2] Il Fatto è l’unico tra i quotidiani di maggior tiratura a rifiutare i finanziamenti pubblici
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:00:00 GMTIl Medio Oriente vive ore drammatiche dopo l’operazione aerea israeliana Rising Lion, che ha colpito diverse installazioni militari e nucleari in Iran. Oltre 200 jet israeliani hanno attaccato siti strategici a Natanz, Fordo, Isfahan e altre città, causando almeno 80 morti e centinaia di feriti, tra cui alti ufficiali delle Guardie Rivoluzionarie e scienziati nucleari. Teheran ha reagito con una pioggia di droni e missili, molti dei quali hanno colpito la capitale Tel Aviv. Sfatando così due miti: in primis quello sull’invincibilità di Israele e poi quello riguardante la presunta inviolabilità del sistema antimissile Iron Dome.
L’Iran ha dimostrato che i suoi missili ipersonici sono in grado di bucare la cosiddetta Cupola di Ferro israeliana. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha definito l’attacco una "dichiarazione di guerra" e ha accusato direttamente gli Stati Uniti di complicità, sostenendo di possedere prove concrete dell’appoggio logistico statunitense alle forze israeliane. Ha inoltre criticato i “messaggi privati” inviati da Washington per negare il coinvolgimento, ritenendoli insufficienti. Il presidente Trump, dal canto suo, ha elogiato l’operazione, dichiarandosi “informato in anticipo” e rinnovando le sue pressioni su Teheran affinché abbandoni il proprio programma nucleare. Una posizione che rischia di far naufragare i già fragili negoziati in Oman, ora sospesi.
Giustamente l’Iran nno ha nessuna voglia di sedersi al tavolo delle trattative dopo essere stato attaccato. Dal resto del mondo si levano voci di condanna: Russia e Cina parlano apertamente di violazione del diritto internazionale, mentre Putin avverte del pericolo di una “catastrofe nucleare”.
Anche molti Paesi del Sud globale, dal mondo arabo all’America Latina, si schierano contro l’aggressione imperialista israeliana.
Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati
Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 05:00:00 GMT