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Carne da cannone per l’Occidente: l’Ucraina sacrificata all’ambizione europea

Il tentativo di Donald Trump di raggiungere un accordo rapido con Mosca sta mettendo a nudo una verità che in Europa si preferirebbe occultare: non è Washington a frenare la pace, bensì un’Unione Europea prigioniera della propria retorica bellicista e un regime di Kiev deciso a prolungare la guerra a ogni costo. Nonostante mesi di messaggi concilianti verso Zelensky e i partner europei, Trump si ritrova davanti un muro: Bruxelles rifiuta qualunque compromesso e Kiev ha ridotto il piano USA da 28 a 20 punti tagliando tutto ciò che non si adatta alla sua narrativa. Europa e Ucraina insistono che “non si cede territorio”, ma la realtà - come ammettono gli stessi funzionari europei - è che la guerra si trascina perché qualcuno non vuole la pace.

Lo dice apertamente il ministero degli Esteri russo: l’Europa “sta deliberatamente prolungando il conflitto”, convinta di poter infliggere alla Russia una “sconfitta strategica” usando gli ucraini come carne da cannone. Trump critica apertamente i suoi alleati: “Parlano tanto, ma non producono”, mentre l’Europa non riesce nemmeno a chiudere il prestito da 200 miliardi con asset russi congelati; gesto che rischierebbe peraltro enormi ritorsioni legali ed economiche. Intanto, per giustificare l'ennesima escalation, i governi europei alimentano la fantasia di un imminente attacco russo al continente. Putin liquida questa narrativa come “ridicola” e frutto di politici che “non stanno bene” o cercano solo fondi e potere.

L’analista Adriel Kasonta va oltre: parla di ucraini trasformati in “carne da cannone” da élite europee in declino economico e incapaci di ammettere il fallimento della loro postura anti-russa. E non manca chi, come il geopolitologo francese Carpentier de Gourdon, denuncia apertamente la strategia reale: smembrare la Russia e indebolirla in modo permanente. Una missione che l’Europa continua a inseguire anche quando diventa chiaro che non ha i mezzi per sostenerla. Mentre i BRICS costruiscono un ordine multipolare basato su cooperazione e sviluppo, l’Europa reagisce censurando le voci che osano dissentire, temendo media come RT e Sputnik che mostrano fatti scomodi per il racconto ufficiale.

Una paura che rivela un continente sempre più chiuso, sempre più autoritario e sempre più lontano dalla realtà. E mentre Bruxelles gioca alla guerra per procura, gli unici a pagare sono gli ucraini e gli stessi cittadini europei, schiacciati da crisi economica, inflazione e un establishment incapace di ammettere che la strada verso la pace non passa dalle armi, ma dal coraggio di abbandonare una strategia fallita.


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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Trump mette Zelensky all’angolo: “È ora di votare in Ucraina”

Nella sua ultima intervista a Politico, Donald Trump ha lanciato un messaggio diretto al regime di Kiev: è tempo che l’Ucraina torni alle urne. Per il presidente USA, l’ambiguità sullo status legale di Zelensky non è più sostenibile e rischia di sabotare qualsiasi negoziato, soprattutto ora che la Russia mantiene l’iniziativa sul campo di battaglia. Un giudizio duro che si accompagna all’ennesima stoccata agli alleati europei, accusati di non avere una strategia e di fallire su quasi tutti i fronti.

Secondo Pavel Koshkin, dell’Istituto per Studi USA e Canada, la pressione di Trump sulle elezioni è la naturale prosecuzione del suo malcontento: Zelensky non avrebbe nemmeno rivisto il pacchetto di proposte USA per un accordo. Per Trump, chiarire il quadro politico ucraino è essenziale prima di parlare seriamente di compromessi.

Il politologo Malek Dudakov definisce queste parole una vera e propria “nota nera” recapitata al presidente ucraino. Nel mirino di Washington c’è infatti il rischio che l’Ucraina, rifiutando di votare, scivoli nell’autocrazia, danneggiando la sua immagine internazionale.

E non si esclude - avverte l’esperto - che gli USA possano perfino considerare la sostituzione di Zelensky se la situazione dovesse degenerare.


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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 06:00:00 GMT
MondiSud
La Cina rilancia in America Latina: sovranità, cooperazione e un’alternativa all’egemonia USA


di Fabrizio Verde

La Repubblica Popolare Cinese ha rilasciato il suo terzo ‘Policy Paper on Latin America and the Caribbean’ - Documento programmatico della Cina sull'America Latina e i Caraibi, un documento strategico che riafferma con forza l’impegno di Pechino a consolidare e approfondire i legami con l’intera regione latinoamericana e caraibica. Si tratta del terzo atto di una visione di lungo respiro: il primo documento risale al novembre 2008, il secondo allo stesso mese dell’anno 2016. A distanza di quasi due decenni, la Cina ribadisce non solo continuità, ma anche un’evoluzione significativa del proprio approccio verso un’area geografica sempre più centrale negli equilibri del Sud globale e nello scacchiere internazionale.

Il nuovo documento arriva in un contesto globale segnato da trasformazioni epocali: crisi economiche persistenti, tensioni geopolitiche, un ordine multilaterale sotto pressione e una crescente affermazione dei Paesi del Sud globale. In questo scenario, la Cina si presenta come attore responsabile, promotore di un ordine multipolare e di una globalizzazione inclusiva, e partner affidabile per i Paesi latinoamericani. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: costruire insieme una “comunità con un futuro condiviso”, fondata su principi di uguaglianza, beneficio reciproco, apertura e benessere dei popoli. Un approccio completamente diverso e opposto agli Stati Uniti che hanno sempre ritenuto l’America Latina come il proprio ‘patio trasero’, il cortile di casa.

Il testo, ricco e articolato, traccia una visione olistica delle relazioni bilaterali, ben oltre la dimensione economica e commerciale. Se è vero che Pechino punta a espandere la cooperazione in settori strategici - dal commercio agli investimenti, dalle infrastrutture alle energie rinnovabili, dalla finanza all’agricoltura - è altrettanto rilevante l’attenzione dedicata alla governance globale, alla sicurezza, alla cooperazione scientifica e tecnologica, e soprattutto agli scambi tra popoli. La Cina si impegna a rispettare le sovranità nazionali, a sostenere percorsi di sviluppo autonomi e a contrastare ogni forma di egemonismo o politica di potenza.

Particolare enfasi viene posta sul rispetto del principio “una sola Cina”, considerato fondamento non negoziabile dei rapporti diplomatici. Al contempo, Pechino esprime apprezzamento per la posizione della maggioranza dei Paesi latinoamericani, che riconoscono Taiwan come parte integrante del territorio cinese. Questo pilastro politico costituisce la cornice entro cui si sviluppano tutte le altre forme di cooperazione.

Il documento dedica ampio spazio ai meccanismi istituzionali esistenti, come il Forum Cina-CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici), che Pechino intende rafforzare con nuove iniziative settoriali e una più solida architettura istituzionale, fino alla prospettiva, in futuro, di un vertice tra leader. Viene inoltre incoraggiata la cooperazione trilaterale, purché guidata e richiesta dai Paesi della regione, a dimostrazione che l’approccio cinese non è esclusivo né antagonistico rispetto ad altri attori internazionali.

Non meno significativa è la volontà di approfondire i legami “dal basso” e culturali: attraverso scambi accademici, collaborazioni tra think tank, promozione della lingua cinese, cooperazione sanitaria, partenariati nel campo dello sport e del cinema, e progetti di gemellaggio tra città. La Cina intende costruire un’amicizia duratura non solo tra governi, ma tra società, culture e giovani generazioni.

Infine, il documento riafferma l’adesione cinese alle grandi iniziative globali lanciate dal presidente Xi Jinping: lo Sviluppo Globale, la Sicurezza Globale, la Civiltà Globale e la Governance Globale. Attraverso queste “quattro G”, Pechino propone un’alternativa concreta all’unilateralismo, invitando l’America Latina a camminare insieme verso un futuro più equo, sostenibile e cooperativo. In un mondo sempre più frammentato, il terzo Documento programmatico della Cina sull'America Latina e i Caraibi appare dunque non solo come un piano d’azione bilaterale, ma come un manifesto di diplomazia Sud-Sud, ambizioso e ricco di promesse per il futuro delle due regioni.

Il contrasto tra l’approccio delineato nel nuovo documento programmatico cinese e la cosiddetta “nuova Dottrina Monroe” invocata da un’amministrazione Trump sempre più tracotante – e ripresa in varie forme da settori dell’establishment statunitense - è profondo non solo nelle forme, ma soprattutto nei fondamenti ideologici e strategici.

Mentre Pechino insiste sulla sovranità, sul non interventismo, sulla cooperazione multilaterale e sul rispetto delle scelte di sviluppo autonome dei Paesi latinoamericani, l’impostazione statunitense, specialmente nella sua versione trumpiana più assertiva, ha riaffermato una visione di “sfera di influenza” tradizionale, in cui Washington si riserva il ruolo di arbitro esclusivo degli equilibri politici, economici e di sicurezza dell’emisfero occidentale. La nuova Dottrina Monroe - con la sua retorica di contenimento verso attori esterni come Cina e Russia e il ricorso a sanzioni, pressioni diplomatiche, condizionalità e minacce militari come nei Caraibi - si inserisce in un’ottica egemonica, spesso denunciata come paternalistica o neocoloniale dagli stessi governi latinoamericani, o quantomeno quelli che conservano ancora sovranità come Messico e Venezuela.

Al contrario, la Cina presenta la propria offerta come aperta, inclusiva e non subordinata a condizioni politiche: non impone modelli di governo, non interferisce in questioni interne e lega la propria partnership allo sviluppo concreto, alle infrastrutture, al commercio e alla cooperazione tecnologica. Questo approccio risulta sulla stessa lunghezza d’onda di un’America Latina sempre più incline a riaffermare la propria autonomia strategica e a diversificare le proprie alleanze, in particolare in un contesto globale sempre più multipolare.

Non si tratta semplicemente di una competizione tra potenze, ma di due visioni del mondo: una gerarchica e unipolare, l’altra orizzontale e plurale. E in questa competizione di idee - oltre che di investimenti - la Cina punta a conquistare non solo i mercati. Quello cinese è un percorso a lungo termine volto a tramutare in realtà quel concetto di ‘comunità dal futuro condiviso’ lanciato dal presidente Xi Jinping.

 

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 17:23:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Siamo un paese sovrano": il muro di Sheinbaum contro le ambizioni militari di Trump

Nuova tensione tra Washington e i suoi vicini meridionali. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dichiarato senza mezzi termini di essere pronto a ordinare azioni militari dirette contro i cartelli della droga in Messico e Colombia, paragonandole ai recenti bombardamenti condotti dalla Marina USA contro imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico orientale. Queste operazioni, secondo fonti, avrebbero già causato oltre 80 vittime e sono state bollate dal presidente colombiano Gustavo Petro come "esecuzioni extragiudiziali".

Intervistato dalla testata Politico, Trump ha risposto affermativamente alla domanda se considererebbe azioni simili nei territori nazionali di Messico e Colombia, paesi definiti "ancora più responsabili" nel traffico di fentanyl verso gli Stati Uniti. "Sì. Io lo farei. Certo che lo farei", ha dichiarato il presidente dalla Casa Bianca, pur evitando di approfondire i dettagli di quelle che sarebbero, in assenza di consenso dei governi locali, palesi e illegali violazioni della sovranità nazionale e del diritto internazionale.

La risposta da Città del Messico non si è fatta attendere. La presidente Claudia Sheinbaum, nel corso della sua consueta conferenza stampa, ha respinto con fermezza qualsiasi ipotesi del genere. "No, questo non avverrà perché non è necessario, in primo luogo. In secondo luogo, perché siamo un paese sovrano e non accetteremmo mai un'intervento straniero; e terzo, perché abbiamo già un'intesa con gli Stati Uniti in materia di sicurezza", ha dichiarato la leader messicana, adottando un tono pragmatico ma irremovibile.

Sheinbaum ha scelto di non innalzare ulteriormente i toni della polemica, sottolineando di non dover rispondere a ogni dichiarazione del presidente Trump e di cercare sempre la miglior relazione possibile tra i due paesi. Tuttavia, il messaggio di fondo è stato chiaro: la sovranità del Messico è una linea rossa invalicabile. La replica della presidente evidenzia la profonda divergenza tra la retorica bellicista di Washington, che estende la cosiddetta "Operazione Lancia del Sud" ben oltre la lotta al narcotraffico secondo le critiche di molti osservatori, e la difesa del principio di non ingerenza da parte delle nazioni latinoamericane.

Lo scenario che si delinea supera infatti la questione del controllo del traffico di droga. Le azioni statunitensi nelle acque internazionali, accompagnate da accuse senza prove al governo venezuelano di Nicolás Maduro e da ingenti dispiegamenti militari, sono viste da molti nella regione come una pericolosa escalation di stampo unilaterale e neocoloniale. Le condanne giunte da Russia, Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani e diversi governi regionali, unite allo scetticismo sull'effettiva proporzionalità e legalità di tali attacchi, pongono Trump di fronte a una forte resistenza diplomatica.

Mentre la Casa Bianca persegue una strategia di forza, descritta dai critici come una politica del "fatto compiuto" militare, leader come Sheinbaum e Petro stanno ergendo un argine basato sul diritto internazionale e sulla difesa della sovranità nazionale. Il contrasto non potrebbe essere più netto: da una parte la minaccia di interventi diretti, dall'altra l'affermazione di una partnership paritaria e rispettosa dei confini. Una partita che si gioca non solo sulla sicurezza, ma sulla stessa definizione delle relazioni interamericane nel XXI secolo.

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 16:25:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Oslo: proteste contro il premio Nobel alla guerra

Oslo si prepara a consegnare il Premio Nobel per la Pace 2025 a una figura che incarna tutto tranne che i concetti di pace e pacifismo: María Corina Machado, paladina dell’interventismo statunitense e sostenitrice storica di rovesciamenti violenti del potere in Venezuela. Una scelta che stride in modo lampante con il tanto proclamato spirito spirito del fondatore Alfred Nobel e che si trasforma, in questo delicatissimo momento geopolitico, in un’arma di legittimazione per una strategia di cambio di regime. Il Venezuela, infatti, vive sotto la costante minaccia di un’escalation militare, con navi da guerra USA che pattugliano aggressivamente il Mar dei Caraibi in operazioni violente e illegali.

Mentre la cerimonia ufficiale è avvolta da un’aura di teatralità e incertezza - con la stessa Machado che annuncia a singhiozzo la sua presenza dopo aver cancellato conferenze stampa - le strade di Oslo raccontano un’altra storia. Migliaia di cittadini norvegesi sono scesi in piazza per respingere quello che definiscono un “Nobel sanguinario”. Le loro voci si uniscono a un coro internazionale di dissenso, che include il Movimento per la Pace norvegese, il quale accusa il comitato di aver tradito i principi fondativi del premio: de-militarizzazione, conferenze di pace e cooperazione.

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha colto l’occasione per ringraziare questa mobilitazione globale, sottolineando come anche negli Stati Uniti oltre 65 città abbiano visto proteste sotto lo slogan “No war Venezuela”. Un dato, secondo Maduro, che riflette il rifiuto dell’opinione pubblica mondiale verso le minacce militari e le guerre per le risorse.

La traiettoria di Machado spiega bene le ragioni di tale indignazione. Proveniente dall’élite economica venezuelana, fu una figura pubblica a sostegno del golpe fallito del 2002 contro il governo democraticamente eletto di Hugo Chávez. Da allora, la sua agenda politica non ha mai abbandonato la retorica della destabilizzazione, arrivando a dedicare idealmente questo Nobel al presidente USA Donald Trump e ad auspicare apertamente invasioni militari e sanzioni asfissianti contro la sua stessa nazione. Critici e analisti sottolineano come il suo obiettivo non sia una transizione democratica, ma un cambio di regime imposto dall’esterno, con la visione esplicita di fare del Venezuela una testa di ponte per smantellare i governi progressisti in tutta l’America Latina.

Il summit di Oslo, che raduna altre figure neoliberiste di destra come i presidenti di Argentina e Panama, Javier Milei e José Raúl Mulino, insieme all’altro oppositore venezuelano Edmundo González, assume così le sembianze di un consesso politico anti-Bolivariano. Un palcoscenico perfetto per trasformare un premio che dovrebbe onorare i costruttori di pace in un trofeo per i fautori di guerra e sostenitori dell’imperialismo. In gioco non c’è solo la ormai residua credibilità di un’istituzione centenaria, ma soprattutto la sovranità di un paese le cui immense riserve petrolifere sono un bottino troppo allettante per gli interessi che Machado dichiara di voler servire. 

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 15:21:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Musk chiede lo scioglimento della Commissione Europea

Elon Musk ha sollecitato lo scioglimento della Commissione Europea. “La Commissione Europea dovrebbe essere sciolta a favore di un organo eletto e il presidente dell'Unione Europea dovrebbe essere eletto direttamente”, ha scritto l'oligarca statunitense su X.

Il sistema attuale è governato dalla burocrazia, non dalla democrazia”, ha aggiunto. I suoi commenti sono stati giunti in risposta a un altro post sul social network che affermava che “il vero cancro che corrode l'UE dall'interno è la Commissione Europea, che dovrebbe essere sciolta e sostituita da un organismo democratico".

Per vostra informazione, la Commissione Europea è composta da 32.000 funzionari retribuiti e la loro unica funzione è quella di creare leggi con cui nessuno è d'accordo”, ha affermato l'utente della piattaforma, ottenendo il sostegno di Musk. 

Le dichiarazioni dell'oligarca proprietario del social network X si inseriscono nel contesto della più recente multa multimilionaria che la Commissione Europea ha inflitto a X, per aver violato la legge sui servizi digitali del suo quadro normativo. A seguito di questa decisione, Musk ha ribadito le sue critiche all'ente, sottolineando che “l'Unione Europea dovrebbe essere abolita".

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 14:37:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Un soldato britannico muore in Ucraina: Londra parla di "tragico incidente"

Un nuovo caduto delle forze armate britanniche in Ucraina. Il Ministero della Difesa del Regno Unito ha confermato la morte di un proprio militare, avvenuta martedì in circostanze definite "un tragico incidente". L'uomo, secondo il comunicato ufficiale, è stato ferito mentre osservava le forze ucraniane testare una nuova capacità difensiva in una zona lontana dal fronte.

La versione di Londra cerca di circoscrivere l'accaduto a una fatalità, escludendo esplicitamente il fuoco nemico. Tuttavia, la notizia della morte di Alan Robert Williams riaccende i riflettori sulla reale natura, estensione e rischi della presenza militare britannica in Ucraina, un tema da sempre trattato con estrema opacità dalle autorità di Londra. Il premier Keir Starmer ha espresso le condoglianze alla famiglia, affermando che "il suo servizio e sacrificio non saranno mai dimenticati", ma senza aggiungere dettagli.

Questo episodio, presentato come il primo caso ufficiale di un caduto in uniforme britannica, solleva interrogativi più ampi. Non è infatti il primo cittadino del Regno Unito a perdere la vita nel conflitto. Stime giornalistiche parlano di almeno 40 morti tra i volontari e i mercenari dal 2022. Le loro storie spesso sfumano in narrazioni controverse e inquietanti.

Come nel caso di Jordan Chadwick, ucciso nel giugno 2023 in circostanze mai chiarite, probabilmente per mano dei suoi stessi colleghi. O come Alan Robert Williams, morto nell'agosto scorso durante un attacco di droni russi, il cui corpo sarebbe stato abbandonato dalla sua unità durante la ritirata. La madre di un altro mercenario, ucciso dai commilitoni, ha pubblicamente chiesto verità e giustizia alle autorità.

Mosca, dal canto suo, ha sempre avvertito che considera qualsiasi militare straniero in territorio ucraniano un bersaglio legittimo. Le forze russe affermano di aver eliminato sistematicamente mercenari e di averne catturati e processati diversi per crimini. Il sostegno occidentale, con l'addestramento di decine di migliaia di soldati ucraini proprio tramite programmi come l'operazione 'Interflex' guidata dal Regno Unito, è visto dal Cremlino come una partecipazione diretta e ostile al conflitto.

La morte di questo soldato, quindi, va ben oltre la fredda cronaca di un "incidente". È il sintomo di una guerra ibrida e opaca, dove il confine tra personale in servizio attivo, consiglieri, volontari e mercenari si fa volutamente labile. Mentre Londra continua a ribadire il suo sostegno al regime neonazista di Kiev, ogni perdita riporta alla luce i costi umani reali, le zone d'ombra operative e i rischi di un sempre più profondo coinvolgimento nella crisi ucraina. 

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 14:02:00 GMT
IN PRIMO PIANO
L'ONU respinge fermamente qualsiasi modifica al confine di Gaza

 

Martedì le Nazioni Unite hanno espresso il loro rifiuto a qualsiasi modifica ai confini tra la Striscia di Gaza e i territori occupati da Israele.

Le Nazioni Unite (ONU) hanno rilasciato questa dichiarazione dopo che il capo dell'esercito del regime israeliano ha dichiarato che la "linea gialla", il punto oltre il quale le truppe israeliane si sono ritirate all'interno della Striscia di Gaza come parte dell'accordo di cessate il fuoco, "è un nuovo confine".

"Penso che ciò vada contro lo spirito e la lettera del piano di pace di (il presidente degli Stati Uniti Donald) Trump, e ci opponiamo fermamente a qualsiasi modifica ai confini di Gaza e Israele", ha dichiarato il portavoce del Segretario generale delle Nazioni Unite Stéphane Dujarric in una conferenza stampa.

A questo proposito, Dujarric ha sottolineato che l'organizzazione multilaterale continuerà a considerare la Striscia di Gaza come il suo intero territorio originario e non solo la parte situata all'interno della "linea gialla".

Israele continua a occupare più del 50% del territorio di Gaza, in base all'accordo di cessate il fuoco, e la linea gialla separa le aree di dispiegamento militare israeliano dalle aree in cui i palestinesi possono muoversi. 

Il capo dell'esercito del regime israeliano, il generale Eyal Zamir, ha dichiarato domenica che "la linea gialla è un nuovo confine, un fronte avanzato, sia offensivo che difensivo per le nostre comunità".

Approfittando del vuoto creato dalla mancanza di coordinamento nelle posizioni internazionali e dall'assenza di una pressione efficace da parte delle organizzazioni mondiali, il regime israeliano cerca di formalizzare il suo controllo indiretto su Gaza; un controllo che, insieme al mantenimento del blocco e all'ostruzione della ricostruzione delle infrastrutture, porta in ultima analisi a una separazione permanente.

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 12:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Politico: Il sostegno a Trump divide l'estrema destra europea

 

di Politico

Questa settimana, il presidente del National Rally Jordan Bardella ha rilasciato interviste ai media britannici in cui si è dichiarato ampiamente d'accordo con il programma anti-migranti di Trump, ma si è opposto all'idea di un ruolo del presidente degli Stati Uniti nella guida della politica francese.

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 12:00:00 GMT
OP-ED
Caitlin Johnstone: Il New York Times vuole che l'esercito americano sia preparato per la guerra con la Cina

 

Caitlin Johnstone*

Proprio mentre gli Stati Uniti raggiungono il loro primo bilancio militare annuale ufficiale di mille miliardi di dollari, il comitato editoriale del New York Times ha pubblicato un articolo in cui sostiene che gli Stati Uniti dovranno aumentare i finanziamenti militari per prepararsi a una guerra di grandi dimensioni con la Cina.

L'articolo è intitolato " Overmatched: Why the US Military Must Reinvent Itself " e, per essere chiari, si tratta di un editoriale, non di un singolo articolo, il che significa che rappresenta la posizione del giornale stesso e non solo quella degli autori.

Ciò non sorprenderà nessuno che sappia che il New York Times ha sostenuto ogni guerra americana nel corso della sua intera storia, perché il New York Times è un'agenzia di propaganda di guerra mascherata da organo di stampa. Ma è sorprendente quanto siano sfacciati in questo caso particolare.

L'articolo si apre con una grafica che un commentatore ha descritto come "mussolinianea" per via della sua estetica palesemente fascista, accompagnata da tre righe di testo in maiuscolo che recitano quanto segue:

“L'ESERCITO AMERICANO HA DIFESSO IL MONDO LIBERO PER 80 ANNI.

IL NOSTRO DOMINIO STA Svanendo.

I RIVALI LO SANNO E STANNO COSTRUENDO PER SCONFIGGERCI."

La narrazione secondo cui la macchina bellica statunitense avrebbe "difeso il mondo libero" durante il suo periodo di dominio globale postbellico è di per sé una folle propaganda imperialista. Washington ha abusato, tiranneggiato e affamato il mondo a livelli senza pari in quel periodo, guidando al contempo il furto di centinaia di migliaia di miliardi di dollari dal Sud del mondo attraverso l'estrazione imperialista. L'impero statunitense non ha difeso alcun "mondo libero", ma ne ha attivamente ostacolato l'emergere.

Il testo effettivo dell'articolo si apre con un'altra bufala, la cui prima frase recita: "Il presidente cinese Xi Jinping ha ordinato alle sue forze armate di essere pronte a conquistare Taiwan entro il 2027".

Questa è pura e semplice propaganda di stato. La redazione del New York Times sta qui ripetendo acriticamente un'affermazione completamente infondata che il cartello dell'intelligence statunitense sostiene da anni , e che Xi Jinping nega esplicitamente . Sebbene la posizione ufficiale di Pechino sia che Taiwan alla fine verrà riunificata alla Cina continentale, non è mai stato presentato al pubblico uno straccio di prova per la scadenza del 2027. Si tratta di un'affermazione del governo statunitense riportata come un fatto verificato dal "giornale ufficiale" della nazione.

E da lì in poi la situazione non migliora. Il Times cita una valutazione del Pentagono secondo cui gli Stati Uniti perderebbero una guerra aperta con la Cina per Taiwan come prova di "un declino decennale nella capacità dell'America di vincere una guerra lunga con una grande potenza", sostenendo che questo è un problema grave perché "un'America forte è stata fondamentale per un mondo in cui libertà e prosperità sono molto più comuni che in quasi qualsiasi altro momento della storia umana".

"Questo è il primo di una serie di editoriali che esaminano cosa è andato storto nell'esercito statunitense - a livello tecnologico, burocratico, culturale, politico e strategico - e come possiamo creare una forza rilevante ed efficace in grado di scoraggiare le guerre quando possibile e vincerle quando necessario", ci dice il New York Times.

Il Times sostiene che gli Stati Uniti devono riorganizzare il proprio esercito per sconfiggere la Cina in guerra, o per vincere una guerra con la Russia se attaccano un membro della NATO, affermando che "le prove suggeriscono che Mosca potrebbe già stare testando dei metodi per farlo, tra cui il taglio dei cavi sottomarini da cui dipendono le forze della NATO".

La “prova” citata dal Times a sostegno di questa affermazione è un collegamento ipertestuale a un articolo di gennaio intitolato “La Norvegia sequestra una nave con equipaggio russo sospettata di aver tagliato un cavo sottomarino”, ignorando completamente il fatto che la Norvegia ha rilasciato la nave poco dopo, quando non è riuscita a trovare alcuna prova che la collegasse all’evento, e ignorando completamente i rapporti secondo cui i servizi segreti statunitensi ed europei avevano concluso che il danno al cavo sottomarino era stato causato da un incidente e non da un sabotaggio.

E poi, naturalmente, arriva la richiesta di maggiori finanziamenti militari.

"Nel breve termine, la trasformazione dell'esercito americano potrebbe richiedere spese aggiuntive, principalmente per ricostruire la nostra base industriale. In termini di economia, la spesa per la difesa oggi – circa il 3,4% del PIL – rimane vicina al livello più basso degli ultimi 80 anni, anche dopo i recenti aumenti di Trump", scrive il Times, aggiungendo che anche gli alleati degli Stati Uniti dovrebbero essere spinti ad aumentare la spesa per la macchina bellica.

"Un mondo più sicuro richiederà quasi certamente un maggiore impegno militare da parte di alleati come Canada, Giappone ed Europa, che da tempo fanno affidamento sui contribuenti americani per finanziare la propria protezione", scrivono gli autori, affermando che "la capacità industriale della Cina può essere soddisfatta solo mettendo in comune le risorse di alleati e partner in tutto il mondo per bilanciare e contenere la crescente influenza di Pechino".

Naturalmente, l'idea che forse gli Stati Uniti dovrebbero evitare di combattere una guerra calda con la Cina proprio al largo delle coste del proprio continente non viene mai presa in considerazione. L'idea che sia folle sostenere guerre su vasta scala con grandi potenze dotate di armi nucleari per garantire il dominio planetario degli Stati Uniti non viene mai sollevata. È semplicemente dato per scontato che investire ricchezza e risorse nei preparativi per una guerra mondiale dell'era nucleare sia l'unica opzione normale sul tavolo.

Ma questo è il New York Times. È gestito dalla stessa famiglia dalla fine del 1800 e da allora promuove gli interessi informativi di ricchi e potenti imperialisti. È un giornale osceno e militarista che in qualche modo si è guadagnato una rispettabilità immeritata, e merita di essere trattato come tale. Prima cesserà di esistere, meglio sarà.

_______________

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

*Giornalista e saggista australiana. Pubblica tutti i suoi articoli nella newsletter personale: https://www.caitlinjohnst.one/

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 11:30:00 GMT