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Nativi
La Battaglia per la restituzione dei Tesori Sacri Nativi: il Vaticano e papa Leone XIV

 

Negli ultimi anni, le comunità indigene del Nord America, in particolare quelle rappresentate da organizzazioni come la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN), hanno intensificato le richieste per la restituzione di manufatti, regalia, tesori sacri e oggetti cerimoniali custoditi nei musei e nelle collezioni del Vaticano. Questi oggetti, che includono piume sacre, pipe cerimoniali, vesti tradizionali e altri elementi di profonda importanza spirituale, sono considerati parte integrante dell’identità culturale e religiosa dei popoli nativi. La loro presenza in istituzioni lontane, spesso acquisita in contesti coloniali, è percepita come una ferita aperta, simbolo di spoliazione culturale. Esploriamo il contesto di queste richieste, gli sviluppi recenti, i progressi compiuti e il ruolo del nuovo papa, Leone XIV, eletto nel 2025, in questa vicenda.

Il Contesto Storico: Una Lunga Storia di Appropriazione

Molti oggetti nativi americani custoditi dal Vaticano, in particolare nei Musei Vaticani e nelle collezioni etnologiche, furono raccolti tra il XVI e il XIX secolo, durante l’espansione coloniale europea e le missioni cattoliche nelle Americhe. Missionari, esploratori e funzionari coloniali spesso acquisivano questi manufatti – a volte tramite donazioni, altre attraverso confische o acquisti in contesti di coercizione – per inviarli in Europa come trofei culturali o come parte di studi etnografici. Per le comunità indigene, tuttavia, questi oggetti non sono semplici “reperti”: sono incarnazioni di spiritualità, storia e identità collettiva. La loro rimozione ha interrotto pratiche cerimoniali e indebolito il legame con le tradizioni ancestrali.

La FSIN, che rappresenta 74 nazioni indigene della Saskatchewan, Canada, insieme ad altre organizzazioni come l’Assembly of First Nations, ha sottolineato che la restituzione non è solo una questione di giustizia storica, ma un passo essenziale per la riconciliazione e la guarigione culturale. Le pipe sacre, ad esempio, sono considerate vive e indispensabili per le cerimonie, mentre le regalia (abbigliamento cerimoniale) incarnano il rapporto con gli antenati e la terra.

Cosa È Successo Finora: Progressi e Ostacoli

Le richieste di restituzione al Vaticano sono emerse con forza negli ultimi decenni, in parallelo al movimento globale per la repatriation di beni culturali indigeni. Alcuni momenti chiave:

Visita di Papa Francesco in Canada (2022): Durante il suo viaggio apostolico, Papa Francesco ha chiesto scusa per il ruolo della Chiesa cattolica nelle scuole residenziali, istituzioni che hanno inferto un colpo terribile alla perdita culturale indigena. In quell’occasione, leader indigeni canadesi hanno sollevato la questione della restituzione di manufatti custoditi dal Vaticano. Sebbene il papa abbia espresso apertura al dialogo, non sono stati presi impegni concreti immediati.

Mostra “Anima Mundi” (2019-2022): I Musei Vaticani hanno esposto oggetti indigeni, inclusi manufatti nativi americani, nella collezione etnologica “Anima Mundi”. La mostra, pur celebrando la diversità culturale, ha riacceso il dibattito sulla legittimità della custodia di questi oggetti. Leader indigeni hanno chiesto che tali esposizioni fossero accompagnate da discussioni sulla restituzione, ma il Vaticano ha risposto sottolineando il ruolo dei musei come “custodi universali” del patrimonio culturale.

Pressioni politiche: Nel 2024, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha pubblicamente esortato il Vaticano a restituire gli oggetti indigeni, rafforzando le richieste delle comunità native. Questo appello ha dato visibilità internazionale alla causa, ma non ha prodotto risultati concreti prima della fine del pontificato di Francesco.

Casi di restituzione parziale: Sebbene non specifici ai Nativi Americani, il Vaticano ha compiuto gesti simbolici in passato. Ad esempio, nel 2023, ha restituito frammenti dei Marmi del Partenone alla Grecia e ha avviato dialoghi con altre nazioni per la restituzione di beni coloniali. Questi precedenti hanno alimentato le speranze delle comunità indigene, ma anche la frustrazione per la lentezza del processo.

Nonostante questi sviluppi, il Vaticano ha finora adottato un approccio cauto, citando la complessità legale e logistica della restituzione, oltre alla necessità di bilanciare il ruolo dei Musei Vaticani come istituzioni di conservazione globale. Le comunità indigene, tuttavia, sostengono che la custodia di oggetti sacri in contesti non cerimoniali viola i loro diritti spirituali e culturali.

Il Ruolo del Nuovo Papa Leone XIV

Con l’elezione di Papa Leone XIV nel 2025, le aspettative delle comunità indigene si sono rinnovate. Subito dopo la sua nomina, la FSIN e altri leader indigeni canadesi hanno rivolto un appello diretto al nuovo pontefice, chiedendo la restituzione di migliaia di manufatti sacri, tra cui pipe cerimoniali, vesti tradizionali e altri oggetti culturali custoditi nei musei e archivi vaticani. Questi appelli, espressi attraverso comunicati stampa, lettere aperte e piattaforme social, sottolineano che la riconciliazione richiede azioni concrete oltre le scuse, come la repatriation del patrimonio culturale.

Ad esempio, il 15 maggio 2025, la FSIN ha dichiarato pubblicamente:

“Chiediamo a Papa Leone XIV di restituire gli oggetti sacri rubati alle nostre nazioni, per onorare il cammino verso la verità e la riconciliazione.” Leader indigeni hanno evidenziato che molti di questi manufatti, come le pipe sacre, sono essenziali per cerimonie ancora praticate, e la loro assenza rappresenta una perdita spirituale continua.

Finora, non ci sono indicazioni pubbliche di una risposta diretta di Papa Leone XIV a queste richieste, né di incontri formali con rappresentanti indigeni. Tuttavia, il suo pontificato è ancora agli inizi, e la pressione internazionale, amplificata da media e organizzazioni come il COMACH (Council for Museum Anthropology), potrebbe spingerlo a prendere una posizione.

Alcuni osservatori suggeriscono che Leone XIV, consapevole del crescente movimento per la decolonizzazione dei musei, potrebbe considerare gesti simbolici di restituzione come parte della sua agenda pastorale, ma ciò dipenderà dalla volontà del Vaticano di affrontare le complessità burocratiche e politiche interne.

Prospettive e Sfide Future

Le richieste di restituzione si inseriscono in un movimento globale più ampio, che vede musei in Europa e Nord America confrontarsi con il loro passato coloniale.

Tuttavia, il caso del Vaticano presenta sfide uniche:

Natura degli oggetti: Molti manufatti nativi americani non sono semplici opere d’arte, ma oggetti vivi con un ruolo attivo nelle cerimonie. La loro esposizione in musei è vista come una profanazione da alcune comunità.

Inventario e provenienza: Il Vaticano non ha reso pubblico un catalogo completo dei manufatti indigeni in suo possesso, complicando le richieste specifiche di restituzione. La FSIN e altre organizzazioni hanno chiesto trasparenza su questi inventari.

Precedenti legali: A differenza di restituzioni tra stati (es. i Bronzi del Benin), gli oggetti indigeni coinvolgono comunità non statali, richiedendo un quadro giuridico innovativo.

Resistenze interne: Alcuni funzionari vaticani potrebbero opporsi alla restituzione, temendo che apra la porta a richieste simili da altre culture.

Dall’altro lato, ci sono segnali positivi. Il dialogo avviato durante il pontificato di Francesco, unito alla crescente consapevolezza globale sui diritti indigeni, potrebbe favorire progressi.

Conclusione: Un Appello per la Giustizia Culturale

La richiesta di restituzione di manufatti, regalia e tesori sacri da parte di organizzazioni come la FSIN rappresenta una lotta per la sovranità culturale e spirituale dei popoli nativi americani. Sebbene il Vaticano abbia compiuto passi verso il dialogo, le azioni concrete rimangono limitate, e la pressione sul nuovo papa Leone XIV è in aumento. La restituzione di questi oggetti non è solo una questione di patrimonio, ma un atto di riparazione per le ferite del colonialismo e un passo verso una vera riconciliazione.

Per il futuro, sarà cruciale che il Vaticano collabori con le comunità indigene per identificare gli oggetti, stabilire protocolli di restituzione rispettosi e riconoscere il loro significato spirituale.

Nel frattempo, le voci dei leader indigeni continuano a risuonare, ricordando al mondo che la giustizia culturale è una responsabilità condivisa. Come ha dichiarato un rappresentante della FSIN: “Questi oggetti non appartengono ai musei. Appartengono alle nostre cerimonie, ai nostri popoli, alla nostra terra.”

Ricordiamo che la rubrica “Nativi” di Raffaella Milandri, qui consultabile, contiene una grande varietà di articoli esclusivi su Nativi Americani e popolazioni indigene e su temi inerenti storia e attualità.

 

 

Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
Attenti al Lupo
Ursula e Al Jolani: destini paralleli. Terrorismo: Il Re è nudo, ma regna

 

di Fulvio Grimaldi

Torno su due eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici, quasi sempre sconvolgenti, rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di questa fase sullo spicchio di pianeta nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente passato, e che minacciano di incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e verità.

Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.

La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.

Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità. Per il suo operato da ministro sarebbe tuttora inseguita da un’inchiesta giudiziaria relativa all’ assegnazione, nel segno dell’amichettismo, di varie consulenze ministeriali, redditizie ma indebite. Inchiesta che il suo ruolo a Bruxelles ha fatto rapidamente finire sotto le sabbie del Baltico brandeburghese.

Dipanando un curriculum di assoluta coerenza, la Von der Leyen degli utili di 90 miliardi generati dalla supposta pandemia e dal dubbio vaccino con allegato tampone PRC manipolato a forza di moltiplicazione dei cicli, ne avrebbe indirizzati ben 60 agli amici vaccinari, in primis all’amico Albert Bourla, AD di Pfizer.

Compenso per ben 900 milioni di dosi, con opzione per ulteriori 900, con centinaia di milioni in eccesso e quindi da buttare. Ma pagati. Non ne venimmo a sapere quasi nulla. Ci furono nascosti sotto omissis sui prezzi e sulle clausole relative agli indennizzi dovuti per effetti avversi (poi moltiplicatisi in misura esponenziale), messi interamente a carico del committente pubblico, cioè noi.

Pratica subito stigmatizzata dalla Corte dei Conti europei. Ma che riuscì a superare, grazie alla nonchalance della baronessa e dei suoi valletti, le richieste-proteste di alcuni volenterosi dell’altrimenti parco di buoi di Strasburgo. Fino alla resa dei conti del Tribunale UE che, ritenuta illegittimo il rifiuto al più autorevole giornale d’Occidente, il New York Times, di rivelare gli accordi con Pfizer, ha imposto a Ursula di rendere noti i celebri omissis messi a copertura di quanto - e come e perché – Ursula aveva concordato. motu proprio, col partner in affari Albert Bourla.

Copertura cui qualche ufficio UE aveva poi portato il soccorso della “sparizione” degli accordi stessi, tutti disinvoltamente formulati con scambi di sms tra Ursula e Albert, Che peccato, erano stati cancellati, perchè “irrilevanti”, dalla documentazione di ciò che la Commissione fa o non fa…Documentazione, ricordiamo, che avrebbe dovuto mantenerci al corrente sull’esborso di nostri 60 miliardi di euro per un eccesso strepitoso di dosi, perlopiù inutili. Miliardi e dosi oltretutto serviti, più a che a salvare i nonni dal contagio dei nipotini, a ridurci tutti a gregge obbediente anche in vista dell’arrivo di cani in armi e pastori armaioli, con conseguente disciplinamento ed economia di guerra.

Rappresentanti nel parlamento UE delle sinistre hanno ora chiesto la “dimissioni di tutti i parlamentari europei che hanno sostenuto la Von der Leyen nella grave violazione dell’obbligo di trasparenza e legalità”. Ovviamente, la cosa è rimasta lì, Vox clamantis in deserto.

La corte europea, sollecitata dal New York Times, ci ha svelato qualcosa che inerisce ai nostri soldi e alla nostra salute, oltrechè all’anima democratica dell’Unione di cui facciamo parte, ponendoci forse in condizione di saperci guardare meglio da vannemarchi, imbonitori e tappetari politico-farmaceutici che svolazzano tra le sale del Berlaymont.

Ma l’incontro a Damasco del 14 marzo, all’ombra benedicente di Mohammed bin Salman, tra Donald Trump e Al Jolani, riciclato nel democratico Ahmed al Sharaa, va molto oltre. Ci sbatte in faccia, con la rozza improntitudine che Trump manifesta in ogni sua iniziativa, una verità che alcuni di noi avevano visto incisa a chiare lettere (esplosive) sulle immagini del crollo delle Torri Gemelle e del muro del Pentagono, ma di cui la maggioranza s’era bevuta la paternità islamica di terroristi sauditi evolutisi, durante le ferie in USA, da viveur bevaioli e donnaioli in ascetici combattenti pronti al martirio.

Abbiamo ingoiato l’invereconda versione ufficiale poi confezionata a Washington, a dispetto dell’incancellabile, per quanto occultata, sequenza video degli israeliani che, evidentemente avendo saputo (fatto?) tutto in anticipo, su un terrazzo di fronte filmavano l’evento, corredando le riprese con balzi e girotondi di soddisfazione. Un indizio degno di prosecuzione, non meno di quanto lo fossero gli addestramenti in carcere di certi bombaroli di certi attentati europei.

Arrestati da disinformati poliziotti metropolitani, si rivelarono agenti del Mossad e, di conseguenza, vennero immediatamente liberati e imbarcati verso il paese e gli organismi di provenienza. Paese e organismi che, comunque sia, sono tra coloro che maggiormente hanno tratto incoraggiamento e vantaggi da quella che ha poi segnato tuti gli anni successivi: la guerra globale al terrorismo: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libano, Siria, Yemen. A rifletterci, tutte operazioni che hanno fatto molto comodo allo Stato del Dio degli Eserciti e che ora guardano con appetito all’Iran.

Al Jolani, ex-capo terrorista, nella sequenza para dinastica che viene fatta partire da Osama bin Laden, è l’erede dei conclamati genitori dello Stato Islamico (ISIS), Al Zawahiri e Al Baghdadi, proclamati teste (pensante e operante) del serpente terrorista da tutti i presidenti USA successivi all’11/9. 

Nello specifico, è’ l’emissario combattente del sultano neo-ottomano Erdogan, i cui miliziani feriti Netaniahu curava negli appositi ospedali sul Golan. E’ colui al quale il committente turco aveva affidato la conquista e il controllo della vasta regione di Idlib, nel nord della Siria, in vista di Aleppo, cuore della Siria e porta spalancata sul resto del paese. E’ colui per il quale Erdogan aveva sapientemente allestito campi per 2 milioni di profughi siriani da usare, sia per spremere miliardi all’UE, sia da addestrare, a forza di pagnotte e ricatti, alla militanza aljolaniana contro il paese da spartirsi tra Ankara e Tel Aviv, con il compenso di una rappresentanza formale a Damasco al mercenariato sunnita che aveva eseguito il compito.

Ma Al Jolani è anche, se permettete un ricordo personale, colui che al sottoscritto, in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi che accompagnavano l’assalto allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Ne fanno parte anche l’assassinio di Nicola Calipari che s’era permesso di liberare – e far parlare, anche se poi non ha detto molto - la giornalista Giuliana Sgrena, ma anche altri episodi poi ripetutisi in Libia e Siria. Fu di un tasso di criminalità pari alla distruzione della Biblioteca di Alessandria e all’assassinio di Ipazia su mandato del vescovo Cirillo, la devastazione dei siti millenari assirobabilonesi e la depredazione del Museo Nazionale Archeologico e della Biblioteca Nazionale, in combutta con terroristi reclutati nel Kuwait.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Al Jolani è anche, mi sia permesso, un ricordo personale, colui che al sottoscritto in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi dell’assalto in corso allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

Con pochi altri colleghi con cui ci erano avventurati in una guerra senza precisi fronti e con pericoli incombenti a 360 gradi,

ebbi diretta esperienza dei metodi con cui il neopresidente siriano conduceva la sua guerra per procura, liberato dall’onta dei 10 milioni di taglia e dalle sanzioni imposte a una Siria che, da lui e dall’aggressione colonial-terrorista, si difendeva. A Damasco, un giorno, arrivai 2 minuti dopo che un edificio era stato fatto esplodere alla maniera delle Torri Gemelle, Ospitava alcuni uffici della polizia metropolitana e le abitazioni delle loro famiglie. Arti di agenti e pezzi di passanti spiaccicati sui muri degli edifici circostanti, fin sotto il soffitto di un alto cavalcavia, pozze di sangue come pozzanghere dopo un diluvio. 80 morti di cui due terzi civili.

A Oms, con un gruppo di giornalisti, visitammo un ospedale. Si, tipo quelli che Israele polverizza con tutti dentro, dicendo di colpire Hamas. Anche qui intendevano colpire i soldati di Assad, che ovviamente non c’erano. Ma c’erano pazienti, sanitari, visitatori, e noi giornalisti. Fummo bersaglio di scariche di proiettili che, infrante le finestre, si ficcarono nei soffitti e nelle pareti.

Ma, come altre volte ho raccontato, gli orrori dei miliziani di Al Jolani, ora ricuperati al ruolo di liberatori dalla “dittatura” di Assad e democratici interlocutori per la rapina delle risorse del paese, avevano ben altri mezzi per diffondersi e provocare un terrore finalizzato alla resa e alla sottomissione. Che per 14 anni non riuscì. Catturavano, uccideva, mutilavano, stupravano, scuoiavano, impiccavano agli alberi, annegavano in gabbie di ferro sprofondate nei fiumi, lanciavano dai ponti e, strafatti di droga, sistematicamente giubilavano.

Riprendevano tutto con i cellulari, si scambiavano le prodezze e, soprattutto, giravano i video delle atrocità ai cittadini delle zone da conquistare. Stesso costume oggi praticato dai militi sionisti a Gaza.  A me famigliari, amici, esponenti politici delle vittime, Oms riuniti in un’assemblea da cui la protesta avrebbe dovuto esplodere sul mondo, hanno mostrato quelle immagini strazianti. Quali con l’amico, quali col figlio, quali con la moglie, quali con un mucchio di corpi.

Questa era l’opera di Mohammed Al Juliani. Un fiduciario del campo sion-occidentale e, dunque, di tutti noi, quelli della parte giusta e buona del mondo. Oggi riconosciuto e frequentato capo di quel frammento di Siria che i committenti esterni gli hanno concesso.

Ma la stretta di mano di Trump a questo personaggio, va oltre l’ammissione che il terrorismo va bene, o comunque lo si può assolvere, quando sia praticato da noi, tipo Guantanamo, Mi Lay, o Dresda. Non però quando siamo sempre noi, Occidente politico, a praticarloe e, fingendoci vittime, lo facciamo rivendicare ai nostri proxy, tipo Al Jolani.

Non solo Torri Gemelle. A partire da quell’episodio del 2001, non certo la prima delle False Flag su cui rigogliano le aggressioni, basti ricordare le BR reinventate e Moro, momento culminante della nostra stagione delle stragi mafio-fasci-statali, abbiamo conosciuto due lustri e passa di terrorismo endemico in Occidente a fuori.

Abbracciando Al Jolani, protagonista di quella strategia scellerata, il presidente degli USA ha rivelato al mondo ciò che la stragrande maggioranza degli umani si rifiutava di accettare. Che, se il terrorismo era il male assoluto, come sentenziavano Bush, Obama, Biden e tutto la cortigianeria mediatica a reggere lo strascico, quel male assoluto è stato riconosciuto degno di governare a Damasco nell’interesse della nostra parte del mondo.

Tutti gli attentati rivendicati dallo Stato Islamico e da altre targhe della jihad islamica, a partire dall’11 settembre e a finire con la frantumazione della Siria, hanno la stessa firma, travisata nel nome de plume “terroristi islamici”. Dal riconoscimento del capo jihadista in Siria da parte della massima autorità USA e occidentale, vera lacerazione del velo di Maja, dovrebbe discendere la consapevolezza in tutta l’opinione pubblica della vera e univoca responsabilità della stagione degli attentati, definiti islamici e svoltisi nelle prime due decadi del millennio con strascichi nella terza.

Ne dovrebbe conseguire un’altra certezza cambia-mondo: Dovremmo pensare a cosa è derivato, o, piuttosto, è stato tratto, dalla catena di stragi terroristiche successive a quella delle Torri Gemelle e che, nelle rivendicazioni, o attribuzioni, è perlopiù risultato consanguineo delle prodezze di Al Jolani in Siria e del combinato Isis-Al Qaida qua e là.

Che ne è stato di tutti noi dopo i due decenni di spargimento di dolore e sangue tra la gente? Nella Parigi del Bataclan e di Charlie Hebdo, o nella Mosca del teatro, a Magdeburgo dei mercatini di Natale, a Londra della metro e di London Bridge, a Bruxelles, Boston, Monaco, Mumbai, Barcellona…

Bataclan

Teatro Mosca

 

Attentato Boston

Bruxelles Aeroporto

E vai e vai e vai, per tutte le prime due decadi del secolo. E se non c’era l’avvertimento ignorato di qualche agenzia della Sicurezza, c’erano i precedenti da carcerato del sicario, schedato ma non vigilato, c’era la rivendicazione dell’ISIS, o c’era il retroterra iraniano o arabo, comunque musulmano. Salvo qualche fisiologico diversivo europeo, tipo quello del 2011 in Norvegia, con 877 morti. Poi, di colpo, tutto è finito. Neanche più un mortaretto. E’ cambiata la formula.

Noi abbiamo creduto a quanto ci spiegavano e loro, i potenti, hanno metabolizzato nelle istituzioni rinnovandosi in Stato necessariamente di sorveglianza, controllo e limitazione del libero andare e fare. E il primo capitolo del libro che si è poi continuato scrivere con la penna intinta nel Covid letale e poi nella crisi climatica-colpa nostra e poi nella guerra universale per via della minaccia russa… 

E così siamo andati perdendo pezzi di Habeas Corpus, di Carta dell’ONU, di Costituzione, di democrazia UE, di diritto internazionale e nazionale e cittadino. Senza neanche farci troppo caso.                                                                  

Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
Diritti e giustizia
Diritto allo studio. Cominciare dal dire NO all'alternanza scuola - lavoro.

 

di Michele Blanco

Fino quando  a scuola ci andavano solo i figli dei ricchi e delle élite  dominanti, tutti sapevano che andare a scuola era fondamentale e importantissimo per formare  persone più capaci e forti, con più possibilità e capacità nella vita. Ma da quando hanno incominciato ad andarci anche i figli degli operai e delle classi subalterne,  si è cominciato a dire: ma in fondo in fondo siamo proprio sicuri che studiare serva?
 
E così adesso siamo arrivati al punto che questa grande e fondamentale conquista di civiltà,  l'istruzione  gratuita  per tutti, viene messa in discussione. Invece è  giustissimo che tutti devono avere il diritto fondamentale a una istruzione  garantita come afferma l'articolo 34 della Costituzione  italiana che: "la scuola è aperta a tutti" e che "l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita", noltre, garantisce che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, abbiano diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Ma per molti oggi tutto  questo sacrosanto diritto non va più bene.
 
Si è voluto e cominciato a dire e a pensare che per mandare la gente a scuola però deve essere spendibile sul mercato del lavoro prima possibile, e si è arrivati, di conseguenza, adesso all’assurdità di dire ai  ai ragazzi come ai loro nonni analfabeti: anche se avete 15 o 16 anni, dovete lavorare, produrre perché questo vi tocca fare.  In fondo ci vogliono imporre che per i figli dei poveri: "
 
Che è questo lusso di studiare e basta?" No noi dobbiamo  ribellarci a queste assurdità e cominciare  a ribadire l'importanza  fondamentale  del diritto  allo studio a cominciare dal dire NO all'alternanza scuola lavoro.
Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
La telefonata Trump - Putin riapre la strada alla pace in Ucraina?

Dopo una telefonata durata oltre due ore, il presidente russo Vladimir Putin ha definitofranca e costruttiva” la conversazione avuta con Donald Trump, sottolineando la volontà comune di rilanciare i negoziati di pace tra Mosca e il regime di Kiev. Un’apertura diplomatica che segna una svolta significativa, proprio mentre i contatti tra le delegazioni russe e ucraine riprendono anche a Istanbul. Putin ha confermato la disponibilità della Russia a lavorare su un memorandum per un futuro trattato di pace, che includerebbe principi condivisi, un calendario per l’intesa e un possibile cessate il fuoco temporaneo.

Trump, dal canto suo, ha annunciato che le trattative tra le due nazioni partiranno “immediatamente”, come comunicato anche a Zelensky e ai leader europei. Il Vaticano, rappresentato dal papa Leone XIV, si è detto pronto a ospitare i colloqui, segnale di un crescente interesse internazionale per una soluzione pacifica. Trump ha inoltre evidenziato l’enorme potenziale economico di una Russia postbellica e il ruolo cruciale della ricostruzione ucraina, sottolineando che una pace stabile aprirebbe nuove opportunità di sviluppo e commercio per entrambi i Paesi.

Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha lodato l’approccio “neutrale” di Trump, in netto contrasto con quello, a suo dire, apertamente schierato dell’Europa. Resta da vedere se adesso siamo di fronte a un nuovo inizio che possa finalmente condurre alla costruzione di una nuova architettura di sicurezza europea.

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Deputato ucraino: “Zelensky ha trasformato l'Ucraina in un campo di concentramento”

Alexei Goncharenko, deputato della Rada Suprema (Parlamento ucraino), ha accusato duramente il leader del regime di Kiev, Volodymyr Zelensky, per i metodi utilizzati dai Centri Territoriali di Reclutamento e Supporto Sociale (TCC) nella mobilitazione forzata. In un post sul suo canale Telegram, Goncharenko ha scritto: "La mobilitazione è stata stravolta dall'alto commissario ucraino Zelensky. È lui che ha trasformato il paese in un campo di concentramento, dove nel marzo 2022 la gente pagava per unirsi all'esercito, mentre a maggio 2025 i TCC uccidono persone per strada".

Il legislatore ha denunciato che "quando la gente viene picchiata, mutilata e catturata, non si può parlare di Stato, ma solo di un campo di concentramento". Ha aggiunto: "Dobbiamo cambiare approccio. [...] Serve un limite temporale al servizio militare. Questo aiuterà a costruire un sistema di qualità, basato sulla libertà, non sulla schiavitù".

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
La UE prepara il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia

Mentre il 17° pacchetto di sanzioni contro la Russia dovrebbe essere adottato il 20 maggio e il 18° è ancora in fase di revisione, l'Unione Europea guarda già al 19°, alimentando una spirale sanzionatoria che sembra non avere fine. Lo ha confermato il Parlamento Europeo, sottolineando che l’obiettivo resta quello di esercitare pressione su Mosca fino al raggiungimento dei propri obiettivi politici.

Nonostante segnali di dialogo tra Russia e Ucraina, Bruxelles continua a spingere per nuove restrizioni, che non verranno rimosse nemmeno in caso di cessazione del conflitto. Tra le prossime misure in discussione, figurano l’innalzamento dei dazi sui fertilizzanti da Russia e Bielorussia e persino un embargo totale sul commercio con Mosca, ispirato alla proposta estrema del senatore USA Lindsey Graham di imporre un dazio del 500% sulle esportazioni russe.

Tuttavia, secondo l’esperto Ivan Timofeyev del Russian International Affairs Council, queste nuove sanzioni avranno un impatto economico marginale, essendo perlopiù simboliche. Serviranno piuttosto a rafforzare la coesione interna dell’UE e a marcare le distanze dagli Stati Uniti di Trump. Resta il nodo politico: fino a quando la UE riterrà possibile "sconfiggere" la Russia, continuerà a colpire, anche a costo di penalizzare sé stessa.

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Trump oltre Trump: i benefici di una momentanea tregua globale


di Diego Angelo Bertozzi per l'AntiDiplomatico

L'attivismo diplomatico che caratterizza in queste ultime settimane l'amministrazione Trump, solo in parte legata alla questione russo-ucraina, è certamente dettata dagli interessi di sopravvivenza dell'impero statunitense in un periodo di crisi, vale di dire di profondi cambiamenti nei rapporti di forza internazionali. L'aver umiliato l'Unione europea e i principali alleati del Vecchio Continente, escludendoli dalle discussioni e dai negoziati sui fronti diplomatici più caldi, è certamente parte di una chiara strategia. L'ipotesi di una temporanea tregua tra le tre principali potenze globali (Usa, Russia e Cina popolare) - il che non significa termine della conflittualità e di improvvise provocazioni - non può essere considerata peregrina. Anche perché l'attivismo di cui parliamo ha inevitabili conseguenze che vanno ben oltre i benefici di Washington.

Pensiamo, infatti, al principale avversario politico, eonomico e militare, vale a dire quella Pechino che porta avanti, per quanto in sordina e minore enfasi, l'iniziativa strategica della Nuova via della seta. Facciamo alcuni esempi per dare maggiore concretezza a quanto affermato in queste righe, soffermandoci sull'area Mediorientale o dell'Asia occidentale, settore delicato, nonché conflittuale, nel quale è crescente la presenza cinese per motivazioni tanto economiche quando di sicurezza delle rotte commerciali. Il viaggio di tre giorni di Trump nel Golfo - negli Emirati Arabi Uniti, in Arabia Saudita e Qatar - non si è certo caratterizzato per importanti iniziative/accordi in ambito di difesa o energia nucleare che avrebbero ben radicato la presenza statunitense. Il primo incontro con il neo presidente siriano Ahmed Sharaa - ex tagliagole con colletto bianco ripulito - e la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti e la conclusione del criminale regime sanzionatorio potrebbe vedere nella Cina uno dei principali attori per la ricostruzione delle infrastrutture di un Paese devastato. Poco prima dell'incontro con Trump, infatti Sharaa aveva ospitato a Damasco la terza delegazione cinese da quando è al potere.

Per quanto riguarda lo Yemen è l'accordo raggiunto tra Usa e Houti per fermare gli attacchi alle navi a stelle e strisce - di fatto la presa di coscienza da parte di Washington della impossibilità di sconfiggere coriacei e coraggiosi "resistenti" nonostante "spettacolari" bombardamenti - dà maggiore garanzia di sicurezza alla navigazione marittima e al transito della imponente flotta commerciale cinese che, a sua volta, gode già da un anno dei benefici di un simile accordo stretto dal governo di Pechino. Interessante sottolineare che l'accordo di questi giorni esclude Israele, che resta possibile bersaglio. L'unico settore che potrebbe, invece, causare qualche preoccupazione a quest'ultimoè l'accordo Usa-Riyad in materia di sviluppo dell'intelligenza artificiale, con la società saudita Humain (finanziata dallo Stato) interessata ad inserirsi nell'orbita tecnologica statunitense, mentre è già attivo una collaborazione con la Cina da parte della saudita Alat. C'è inoltre la possibilità di un accordo tra Stati Uniti e Iran in materia di nucleare. Per quanto si sia agli inizi e persistano forti resistenze e subitanei passi indietro, un esito positivo aprirebbe prospettive di pacificazione in un'area centrale per gli sviluppi della Nuova via della seta cinese.

Per concludere, invece di limitarsi alle battute e all'ironia sulla scorta di cammelli che ha accolto e accompagnato il presidente Usa in Arabia Saudita, è necessario comprendere quali siano le ricadute delle iniziative diplomatiche angli sugli altri attori presenti in quanto poteri globali. 

 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 18:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
I pronostici di Arestovic: un futuro funesto per l'Ucraina nazi-banderista

 


di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Al momento di scrivere, l'unica cosa che è dato sapere a proposito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin (a quanto pare, tuttora in corso) è quanto dichiarato dal portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, e cioè che non si prevede ancora un incontro diretto tra i due presidenti.

In compenso, pare si sprechino i pronostici su colloqui russo-ucraini a Istanbul e su prospettive del conflitto. Per parte russa l'osservatore Maksim Ševcenko ritiene che il conflitto possa durare fino al 2029, con una UE che oscilla ancora tra i punti di vista di Washington e Mosca e «cesserà di essere indecisa quando andranno al potere forze che la Washington trumpista identificherà come alleate», come Viktor Orbán, Robert Fitso, l'austriaca “Libertà”, AfD” in Germania e Rassemblement National in Francia, col romeno George Simion, che si oppone alle forniture di armi all'Ucraina, quale segnale importante della vittoria dei trumpisti in Europa: «questo è un passo avanti verso la fine della guerra anche senza un cessate il fuoco», afferma Ševcenko.

Putin e Trump soffocheranno l'Unione Europea, dice: la «UE non ha molte possibilità. Il conflitto ucraino è una trappola in cui è caduta la Russia, ma ne sta uscendo con l'aiuto di Trump. La UE ci è però finita molto più a fondo. Non è ancora certo che possa ottenere qualcosa in caso di pace sull'attuale linea del fronte, perché Trump sta mettendo le mani su centrali nucleari, porti e giacimenti di uranio, finora rivendicati dalla Francia».

Sulla stessa linea di Ševcenko anche l'ex deputato ucraino Oleg Tsarëv, secondo il quale i colloqui di Istanbul sono stati il risultato di una complessa partita tra Russia e Stati Uniti, che ha aperto la strada a un incontro diretto tra Vladimir Putin e Donald Trump e ha ridotto a zero «gli sforzi di Zelenskij e dei leader europei della NATO... I colloqui sarebbero dovuti iniziare 100 giorni dopo l'insediamento di Trump, ma il processo si è trascinato perché Zelenskij non firmava l'accordo sulle risorse ucraine... una volta firmato e ratificato dal parlamento, si è immediatamente passati alla fase successiva». In ogni caso, afferma Tsarëv, Trump non è al di sopra della mischia; «non è così importante come si concluderanno i negoziati: Trump li spaccerà come una grande vittoria. Ha firmato un accordo sulle risorse ucraine, ha fatto sedere Russia e Ucraina allo stesso tavolo, e questa è una grande vittoria» e per lui è fondamentale incontrare Putin per far progredire ulteriormente la questione: “la gente deve smettere di morire!”; Trump parlerà più o meno così, indipendentemente da come si concluderanno i negoziati, afferma Tsarëv, evidentemente pronosticando un molto prossimo incontro Trump-Putin che, come detto, al momento non appare così vicino.

E, però, The New York Times scrive che i negoziati con la parte russa sono diventati un vero banco di prova per Washington, mentre Mosca punta alla debacle delle élite ucraine. La Russia sta trasformando i suoi attuali successi tattici al fronte in un ultimatum politico a Kiev e all'Occidente che la sostiene, basato sul principio "vinciamo noi, e dettiamo le condizioni". I rappresentanti russi, dicono gli yankee, stanno avanzando «richieste massimaliste», non in linea con l'attuale situazione al fronte; la Russia «non può aspettarsi che le vengano restituiti territori che non ha nemmeno conquistato», dice a Fox News il vicepresidente USA Vance.

La questione viene però chiarita da Putin stesso: la Russia si considera vincitrice e, su questa base, pretende il massimo. Già lo scorso marzo Putin aveva dichiarato che «le forze russe hanno la superiorità su tutta la linea del fronte», mentre l'Ucraina è vicina alla sconfitta finale. Secondo il NYT, il Cremlino «continua a credere che la situazione sia in mano sua. La Russia dispone del più grande arsenale di armi nucleari al mondo e capacità di produzione di armi su larga scala e nel caso gli USA riducano gli aiuti a Kiev, questa risorsa diventa ancora più importante. Il Cremlino ritiene che l'Ucraina si stia esaurendo e la sua resistenza si stia gradualmente indebolendo»: Putin conta sul crollo psicologico delle élite ucraine.

Secondo Tat'jana Stanovaja, (secondo Mosca, agente straniero) del Carnegie Russia Eurasia Center, Putin punta non a un collasso militare dell'Ucraina, ma morale: «Putin ritiene che prima o poi le linee difensive dell'Ucraina non reggeranno, e questo sarà un colpo psicologico così forte che le élite ucraine cacceranno Zelenskij» per negoziare direttamente con Mosca.

Anche l'ex ambasciatore ucraino in USA, Valerij Chalyj, ritiene che le avventate misure diplomatiche della squadra di Zelenskij mirino solo all'impatto emotivo, non ai risultati. «È un bene che anche Putin sia caduto nella trappola. Credo che sia stata una mossa inaspettata da parte di Zelenskij la sua pretesa di incontrare Putin. Questa è una strategia classica: prima si respinge fermamente ogni possibile incontro e poi, quando il nemico non se lo aspetta, lo si mette in una posizione difficile. È stata una buona mossa». Sì: così buona che lo stesso Chalij, da fantomatico “diplomatico” della junta golpista, subito dopo non può far altro che ammettere che quel passo «non ha dato nulla, perché, a differenza dell'approccio emotivo da parte nostra, in Russia esiste una preparazione sovietica molto tradizionale per tutti gli incontri, un'attenta preparazione, con molti percorsi. È un modello vecchio, ma più preparato. A volte perde in velocità, ma alla fine non è una questione di velocità, ma di risultato», tanto che, povero Chalyj, lui stesso ha proprio l'impressione che «le concessioni le debba fare sempre l'Ucraina». Mosca non ha fatto alcuna concessione: a Istanbul Putin non ci è andato; i russi «non hanno cambiato affatto la loro posizione. Hanno persino rafforzato le loro richieste. Hanno rilasciato una dichiarazione affinché il mondo intero potesse sentire che sono pronti a combattere per sempre». Povero Chalyj, ha fatto tutto da solo: ha detto una cosa e se l'è smentita.

Ancora sul fronte dei pronostici, il politologo ed ex funzionario dell'ambasciata ucraina in USA (oggi emigrato) Andrej Teliženko sorpassa in “velocità” i tempi previsti da Maksim Ševcenko: la guerra in Ucraina continuerà per tutto il 2025, dichiara. Può accadere, dice l'ex diplomatico ucraino, che si formi un governo neutrale, senza più Zelenskij; un governo provvisorio concordato da Washington e Mosca e abbia quindi inizio il processo di pace. Questo governo provvisorio «firmerà l'accordo di pace, si impegnerà a indire elezioni entro sei, sette o otto mesi, a ripulire l'Ucraina dalle formazioni neonaziste, dopo di che l'opposizione potrà partecipare a questo processo, sapendo di non correre pericoli a rientrare in Ucraina per prendervi parte. Quindi l'intero processo potrà svolgersi immediatamente. E poi inizierà il cammino verso la pace», afferma Teliženko: forse un po' troppo ottimisticamente, ma a ben guardare non senza fondamento.

Molto più pessimista (a dir poco) il politologo ucraino Ruslan Bortnik, secondo il quale Kiev non intende soddisfare alcuna  richiesta russa, così che la prossima fase dei negoziati «potrebbe concludersi con una provocazione o non aver luogo affatto». A Istanbul, le parti hanno «concordato di mettere a punto proprie proposte per il cessate il fuoco, dopodiché le delegazioni si sarebbero di nuovo incontrate per discuterle. Ma non ci sono scadenze chiare per lo scambio dei piani sul cessate il fuoco, sebbene ci si sia accordati per tale scambio».

Bortnik suppone che possano sorgere enormi problemi, perché le richieste russe possono apparire come precondizione per il cessate il fuoco, mentre Kiev esige un cessate il fuoco incondizionato: proprio per questo c'è «un rischio enorme che, dopo lo scambio dei piani, il prossimo incontro venga rinviato, o che si trasformi in uno scandalo e in una baruffa, o non si tenga affatto». Questo, a meno che non intervenga il «fattore Trump, e prima di allora, non si raggiungano accordi russo-americani che possano immediatamente avvicinare le posizioni russo-ucraine». Ma tutto, a detta di Bortnik, appare molto aleatorio.

Cambiano le tempistiche delle predizione di stampo ucraino, ma i pronostici si fanno sempre più funesti: l'ex “consigliori” presidenziale golpista Aleksej Arestovic (per Mosca: estremista e terrorista) predice che se Kiev continuerà a ignorare le richieste russe, entro un paio d'anni la guerra sarà persa e scoppierà una guerra civile in ciò che resta del paese. Ciò che attende l'Ucraina, dice Arestovic, è una combinazione di «dittatura e rovina, con atamani che spadroneggiano e saccheggiano» tutto e tutti. Si assisterà a «guerre di veterani mercenari per la terra, il potere, per qualunque cosa. L'apice si verificherà intorno al 2027... e nel '27-'29, la Russia interverrà per la seconda volta».

Metà degli ucraini sani di mente fuggirà, dice Arestovic – ma, viene da chiedere: se già oggi la popolazione ucraina è ridotta quasi alla metà di quella del 1991, vuol dire che nel paese rimarranno solo le imprese yankee che si accaparrano terreni agricoli e risorse naturali? Non ci sarà più nessun ucraino - «per non tornare mai più. E la Russia finirà col liquidare definitivamente questa quasi-entità, impadronendosi di tutto quanto è a est del Dnepr», fino a Kiev.

Tutto questo lo pronostica quell'Arestovic che nel 2022 prometteva una rapida vittoria sulla Russia: «Metà di noi scapperà e gli altri deprederanno tutto e nessuno fornirà protezione. I nostri eroi dicono che non appena la guerra finirà, i confini si apriranno, ce ne andremo immediatamente e diremo a tutti gli amici di fare altrettanto».

Qualcosa suggerisce che buona parte dei pronostici di Arestovic siano già realtà quotidiana in alcune aree dell'Ucraina occidentale e possano diventarlo, in generale, quando le élite militari golpiste - probabilmente, a quel punto, abbandonate anche dagli sponsor “euro-volenterosi”, non più in vena di sortite anti russo-americane - vedranno prossimo il crollo del fronte e si daranno a far man bassa del poco rimasto.


FONTI:

https://politnavigator.news/tramp-s-putinym-dodushat-es-poverte-shevchenko.html

https://politnavigator.news/igra-ssha-i-rossii-perecherknula-plany-bryusselya-i-kieva-carev.html

https://politnavigator.news/strategiya-putina-ne-voennyjj-a-moralnyjj-krakh-ukrainy-the-new-york-times.html

https://politnavigator.news/my-proigryvaem-rossii-diplomaticheski-ehks-posol-ukrainy-v-ssha.html

https://politnavigator.news/podpisyvat-mir-budet-vremennoe-pravitelstvo-ukrainy-bez-zelenskogo-telizhenkorossiya-ehkspert.html

https://politnavigator.news/est-ogromnyjj-risk-masshtabnojj-provokacii-i-sryva-sleduyushhikh-peregovorov-bortnik.html

https://politnavigator.news/pozitivnogo-budushhego-u-ukrainy-net-tolko-krovavaya-grazhdanskaya-vojjna-arestovich.html

 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 17:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Polonia verso il ballottaggio presidenziale: scontro tra Trzaskowski e Nawrocki

Le elezioni presidenziali in Polonia si avviano verso un ballottaggio il 1° giugno, dopo che nessun candidato ha superato la soglia del 50% dei voti nel primo turno svoltosi domenica. Trzaskowski, sindaco di Varsavia e rappresentante della Coalizione Civica (alleata del premier Donald Tusk), ha ottenuto il 30,8% dei consensi, mentre il liberale Karol Nawrocki del partito Diritto e Giustizia (PiS) si è fermato al 29,1%, secondo i dati preliminari diffusi dalle televisioni nazionali. I risultati ufficiali, come confermato dal presidente della Commissione Elettorale Sylwester Marciniak, saranno resi noti martedì pomeriggio, nonostante il rapido spoglio delle oltre 32.000 sezioni elettorali nel paese.

Trzaskowski, sostenuto dall’alleanza al governo, ha espresso fiducia: «Questo risultato dimostra che dobbiamo essere determinati. C’è ancora molto lavoro per vincere». Nawrocki, pur riconoscendo di essere in svantaggio, ha dichiarato di non demordere: «Queste elezioni sono ingiuste, ma presto sarò presidente, voce di migliaia di cittadini». L’attuale capo di Stato Andrzej Duda, in scadenza di mandato ad agosto, ha esortato i polacchi a partecipare al ballottaggio per «scegliere democraticamente il nuovo leader».

A stupire, tuttavia, è stato il forte consenso ottenuto dai candidati di estrema destra, in particolare Slawomir Mentzen (15,4%) e Grzegorz Braun (6,2%) del partito Confederazione, che hanno polarizzato il dibattito su temi nazionalisti e critiche verso l’Ucraina.

Nawrocki, già critico verso il regime di Kiev, ha insistito sul blocco dell’adesione ucraina a NATO e UE finché non verranno affrontate questioni storiche come il massacro di Volyn del 1943, compiuto da nazionalisti ucraini. Ha accusato il presidente Volodymyr Zelensky di «mancanza di gratitudine» e di abilità diplomatiche, puntando il dito contro le «élite europee» e Donald Tusk, definito «maggio­rdomo» di Bruxelles. Ha inoltre promesso protezione per agricoltori e camionisti polacchi dalla concorrenza «sleale» ucraina.

Mentzen, da parte sua, ha chiesto il disimpegno totale della Polonia e della NATO dal conflitto in Ucraina, condannando il sostegno militare e definendo «delirante» la coalizione europea pro-Kiev. Braun, noto per gesti provocatori come la rimozione della bandiera ucraina dal monumento a Kosciuszko a Cracovia, ha lanciato il programma «Stop all’ucrainizzazione della Polonia», definendo il regime di Kiev «corrotto e letale» e sostenendo che gli aiuti militari «prolungano solo la guerra».

Data articolo: Mon, 19 May 2025 14:16:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Zakharova sottolinea l'“interferenza diretta” della Francia nelle elezioni rumene

La Russia accusa la Francia di ingerenza negli affari interni della Romania e di manipolazione elettorale attraverso la richiesta di bloccare canali conservatori su Telegram prima delle presidenziali. Lo ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, commentando le rivelazioni del cofondatore di Telegram Pavel Durov. Quest'ultimo ha denunciato le pressioni ricevute da Nicolas Lerner, capo dell'intelligence francese, per censurare voci conservatrici romene - proposta che avrebbe rifiutato.

Zakharova ha bollato il fatto come "violazione della libertà d'espressione e interferenza diretta in uno Stato sovrano", mentre il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha definito "alquanto strane" le elezioni romene, vinte a novembre dall'anti-NATO Calin Georgescu. I suoi successivi annullamenti e l'esclusione di Georgescu dai nuovi scrutini hanno scatenato proteste e critiche internazionali.

In Romania è stato eletto presidente - nella tornata elettorale di domenica - il filoeuropeo Nicusor Dan, sindaco di Bucarest, in un contesto segnato da accuse di campagne estere contro il suo rivale euroscettico George Simion. Il politologo Eduardo Luque Guerrero commenta: "La comunità internazionale sta assistendo a uno sviluppo autoritario dell'Unione Europea".

Data articolo: Mon, 19 May 2025 13:57:00 GMT