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OP-ED
Marco Travaglio - Reparto Eurologia


di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2025

Prima che il Consiglio Europeo, si spera senza il consenso del nostro governo, distrugga definitivamente l’economia dell’Europa rapinando gli asset russi (che, come dice la parola, appartengono ai russi) ed esponendo non solo gli Stati, ma lo stesso Euro a un disastro epocale, è bene ricordare alcune cosucce che dopo quattro anni di auto-propaganda ibrida tendiamo a dimenticare. L’Ucraina è stata invasa dalla Russia nel 2022, come purtroppo è accaduto a decine di Paesi (spesso a opera di noi occidentali) a cui non abbiamo mai inviato neppure una cerbottana. Ma non fa parte né dell’Ue né della Nato. Quindi, al di là del doveroso sentimento di umana solidarietà, che però può esprimersi in mille modi, Ue e Nato non devono a Kiev un solo euro o un fucile a tappo. L’invasione è un atto criminale, ma è legata a fattori storici interni all’Ucraina e non è un attacco né all’Ue né alla Nato. I Paesi che vogliono armare Kiev sono liberissimi, fuorché l’Italia, che “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: era dubbio che potesse farlo quando scattò l’invasione senza negoziati; è sicuro che non potesse dopo il sabotaggio dei negoziati di Istanbul; è sicurissimo che non può oggi, in presenza di un piano di pace americano che proprio a suon di armi si vuole boicottare, per risolvere la controversia internazionale con la guerra infinita.

Ora, siccome i governi Ue hanno svuotato le loro casse e i loro arsenali per l’Ucraina non alleata, non sanno più dove trovare i soldi per comprare le armi (americane) da regalare a Kiev (un governo così amico che dal 2022 fa di tutto per trascinarci nella terza guerra mondiale e ci ha fatto pure saltare i gasdotti Nord Stream). Quindi vogliono attingere dai 290 miliardi di asset russi congelati nelle banche come se fossero roba loro, senza neppure peritarsi di dimostrare che i legittimi proprietari sono complici delle scelte di Putin. Ma sanno benissimo di violare il diritto internazionale: infatti temono di perdere l’arbitrato, cioè di dover restituire il maltolto e pagare pure i danni; di vedersi sequestrare le aziende europee operanti in Russia; di mettere in fuga (negli Usa: e dove se no?) gli altri investitori stranieri; e di trasformare le nostre banche in luoghi radioattivi dove nessuno deposita più un quattrino, temendo di vederselo sgraffignare perché il suo governo non piace ai nostri. Il tutto per aiutare un Paese non alleato a perdere la guerra, cioè altri territori, altri militari e altri civili per qualche altro mese o anno.

Se esistesse un neuropsichiatra all’altezza di questi dementi, bisognerebbe affidarglieli in blocco. Ma purtroppo non esiste. Non resta che sperare che si autodistruggano con le proprie mani mentre tentano di distruggerci.

Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 12:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Non basta!". Gli ultimi deliri guerrafondai dal Corriere della Sera

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Non essendo in grado, per loro natura, di muoversi da soli, i “lattonzoli” delle cancellerie europee, autentici cuccioli ciechi privi di orientamento proprio, con stridule grida di esseri appena generati dalla femmina del suino vanno al seguito dei passi del complesso militare-industriale e così, ora, hanno stabilito che le masse popolari europee non siano state ancora sufficientemente spolpate e che, per dare ancora più fondi di guerra al regime nazigolpista di Kiev, si dovessero stanziare ulteriori 90 miliardi di euro sui mercati di capitali, ossia con l’emissione di debito comune, garantito dal bilancio europeo. Cioè: rubare ancora miliardi alla spesa sociale e gettarli nel tritacarne del proseguimento della guerra: non sia mai che i flebili tentativi di concludere qualcosa di simile a una pace rischino di andare in porto.

«La spesa per dotarsi di efficaci strumenti che garantiscano la difesa collettiva è sempre stata comprensibilmente poco popolare», ha detto con falsa ironia il presidente della repubblica italiana, più o meno nelle stesse ore in cui a Bruxelles ci si rotolava nel porcilaio della rapina ai danni delle masse e dei lavoratori; ma quella rapina «ora è necessaria», ha detto ancora Mattarella. Peccato che, parlando del «dovere di coltivare e consolidare ogni piccolo spiraglio che si apra rispetto ai conflitti in corso, in Ucraina come in Medio Oriente», Sergio Mattarella chiuda gli occhi sulla semplice constatazione per cui le spese di guerra, come sono state decise e ampliate, non contribuiscano affatto, come lui sembra ritenere, a «quella “pace permanente”, come la definì il presidente Franklin D. Roosevelt che affermava: “Più che una fine della guerra vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre”».

Dette da chi osanna quotidianamente “virtù” e “santità” di un ordine sociale che ha a fondamento lo sfruttamento del lavoro salariato per l'accaparramento del profitto privato e come clausola aggiuntiva la rapina della spesa sociale ai danni degli strati più deboli, proprio per alimentare le guerre, quelle non sono altro che ipocrite assicurazioni di catechistico liberalismo. All'origine delle guerre tra forze e soggetti borghesi c'è per l'appunto la sete di profitto del capitale e, finché quello capitalistico continuerà a essere l'ordinamento dominante, sarà impossibile eliminare le cause delle guerre di rapina. C'è guerra e guerra: ci sono le guerre rivoluzionarie dei popoli in lotta per la propria liberazione dall'oppressione imperialista; ma, parlare di guerra in generale, come fa il signor Mattarella, anche citando Roosevelt, non fa che confermare l'ipocrisia della visione borghese di una guerra scoppiata per caso e di contendenti tutti propensi farisaicamente alla pace, senza che si eliminino le cause che hanno portato alla guerra e che rendono le guerre inevitabili sotto il regime capitalista.

Ma di ciò basta. Tanto più che, immediatamente a ruota degli striduli grugniti dei “lattonzoli” sull'accordo raggiunto per le decine di miliardi con cui foraggiare i nazigolpisti ucraini, gli indefessi “figli della lupa” delle redazioni guerrafondaie si sono messi a guaire che questo non basta. Novanta miliardi son pochi. Come a voler ribadire il concetto a loro caro, pur se tenuto in sordina, di una guerra che va continuata fino all'ultimo ucraino da poter mandare al macello, i gaglioffi del Corriere della Sera, stizziti per il no del Consiglio europeo alla rapina dei fondi russi congelati, parlano di una «occasione persa nella guerra e nella politica globale».

Le loro manie belliciste non sono mai state troppo velate, ma finora si era avuto almeno un po' di ritegno a parlare della guerra come di una “occasione persa”. Sì, perché inneggiare a un'ulteriore rapina di soldi pubblici per alimentare una guerra, proprio nel momento in cui qualcuno sta, quantomeno apparentemente, dandosi da fare per trovarvi una soluzione negoziata, non può che essere tipico di un fogliaccio che da sempre, da almeno centocinquant'anni, plaude alle campagne coloniali e alle guerre di aggressione ai danni di popoli in Europa e in Africa.

E il furfante di turno, che si prende la briga, su quel giornalaccio milanese, di gridare più forte alla guerra, il signor Federico Fubini, si torce la mani dalla rabbia perché «90 miliardi dell’Unione europea da soli non bastano certo per due anni, come si è sostenuto da Bruxelles in queste ore; forse neanche per uno» e la guerra in terra ucraina va mandata avanti come minimo per altri due anni, se non di più; quantomeno per tutto il tempo necessario a che la cosiddetta “Europa” non ritenga di essersi armata a sufficienza per entrare nel conflitto in prima persona contro la Russia.

Si ode da qui lo stridore di denti del signor Fubini mentre scrive che «Se l’unione europea avesse mobilitato subito duecento miliardi in stile whatever it takes — e poteva, usando i beni russi congelati o aggiungendo al mix le risorse residue del Recovery Fund e del Meccanismo europeo di stabilità — il messaggio inviato al Cremlino sarebbe stato potente: noi non esitiamo e l’Ucraina resterà viva dentro questa guerra più a lungo di quanto la Russia possa restare al riparo da una crisi».

Già, ancora una volta l'esimio guerriero, a tempo perso pennivendolo del Corriere, si tuffa in un'insalatiera di concetti di cui, guarda caso, non dà però assolutamente conto: il tutto per sostenere che la Russia è ormai al collasso e ancora un paio d'anni di guerra finanziata coi soldi rubati alle casse sociali europee consentirebbero ai nazisti di Kiev di portare a casa il risultato atteso dai “lattonzoli” di Bruxelles.

State sicuri, recita il gaglioffo, ancora per «il 2026, Vladimir Putin ha le risorse per continuare l’aggressione. Ma intanto, malgrado i loro limiti, le sanzioni mordono; erosa dalla fuga all’estero dei giovani e dagli arruolamenti di massa, la manodopera non basta più a far funzionare le imprese normalmente; quasi tutti i settori dell’industria civile sono in recessione; l’inflazione corre, il deficit di bilancio di Mosca sale con l’aumento della spesa militare, mentre le entrate da petrolio calano. La Russia non sta bene. Dare oggi i mezzi a Kiev per resistere altri due anni avrebbe segnalato alle élite moscovite che Vladimir Putin, con la sua ossessione ucraina, è diventato un problema anche per loro».

Eccola, la ritrita nenia della pallottola sparata alla nuca di Vladimir Putin da un qualche oligarca della sua stessa cerchia, cui va stretta la politica del Cremlino: la “soluzione” di cui parlava qualche “analista” americano già più di dieci anni fa e oggi rimessa in circolazione dal ragioniere del Corriere della Sera, cui non farebbe male darsi un'occhiata alle reali cifre (da lui non menzionate) sul PIL russo, sulla crescita negli ultimi 3 anni (9,7%), sul calo dell'inflazione, sul deficit al 1,5%, sulle riserve auree e valutarie (741 miliardi di dollari). Ma, sghignazza il signor Fubini, convinto di aver sdoganato la formula che mette a tacere ogni pretesa russa, «Alla lunga il dittatore potrebbe dover scegliere fra continuare la guerra e tutelare il suo posto dentro al Cremlino». Eccolo lì: “zar”, “dittatore”, “autocrate”; il liberale non ha altri “argomenti” che non sia la mania di affibbiare epiteti che non significano nulla, antistorici e soprattutto aclassisti, che non dicono alcunché sui reali rapporti sociali di un paese che si pretende di descrivere, per un verso, affidandosi ai soliti “dissidenti oggi riparati all'estero” e, per un altro, ricorrendo a categorie prive di concreto contenuto sociale e classista.

Dalle parti di via Solferino è d'uso insomma affidarsi solo a grugniti; come quelli emessi da chi innalza peana bellicisti ai centocinquanta miliardi del cosiddetto programma “Safe” di diciannove paesi europei, come fa il signor Francesco Verderami ancora sul Corriere della Sera, gaudente per i «Mezzi corazzati per l’esercito, fregate per la Marina, jet da combattimento per l’aeronautica, droni, sistemi satellitari». Peccato che, singhiozza l'articolista, il tema incontri «la ritrosia dell’opinione pubblica, alimentata dalle polemiche partitiche e dalle manovre dei pacifinti». Brutti incoscienti che non siete altro, voi “pacifinti”, grugnisce il signor Verderami, che vi opponete ai carri armati, alle fregate, ai caccia e non capite che «i 150 miliardi sono stati distribuiti in modo da privilegiare i Paesi che hanno «maggiori emergenze». Tradotto vuol dire che le attenzioni sono state rivolte soprattutto agli Stati limitrofi al fronte russo: se l’Italia può disporre di 15 miliardi, infatti, la Polonia può attingere fino a 52 miliardi. È il segno dei tempi». Già: il segno di come le smanie di guerra dei “lattonzoli” delle cancellerie euro-atlantiste avvolgano anche i novelli “figli della lupa” di quelle redazioni in cui non si finge nemmeno di di volere la pace, ma si sventola a piene mani il vessillo della guerra. Farabutti.

Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 11:00:00 GMT
EXODUS
VIDEO ESCLUSIVI RADIO GAZA - ā€œLe tende a Gaza un commercio per le organizzazioni umanitarieā€.

 

di Michelangelo Severgnini 

E’ disponibile la diciassettesima puntata di Radio Gaza, pubblicata sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico.

 

Guarda la puntata 17: 


 

“Radio Gaza - cronache dalla Resistenza”, ogni giovedì alle 18, sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico, è un programma a cura di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue.

La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 182° giorno, avendo raccolto 124.903 euro da 1.581 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 124.024 euro.

Per donazioni: https://paypal.me/apocalissegaza

C/C Kairos aps IBAN: IT15H0538723300000003654391 - Causale: Apocalisse Gaza

FB: RadioGazaAD

Di seguito I testi della sedicesima puntata.

 

—————————————-

 

Radio Gaza - cronache dalla Resistenza

Un programma di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue 

In contatto diretto con il popolo di Gaza che resiste e che ha qualcosa da dire al mondo…

Puntata numero 17 del 18 dicembre 2025

 

Questa sarà una puntata speciale e crediamo in questo servizio di rendere al meglio lo spirito che anima questo programma. Come avevamo già raccontato nella puntata numero 15, a Gaza si è affermato il fenomeno del furto delle tende dai depositi delle organizzazioni umanitarie e della vendita di queste da parte di alcuni funzionari corrotti sul mercato nero a Gaza. Bene, oggi abbiamo filmati e ricostruzioni con le quali possiamo documentare e denunciare questo ennesimo reato sulla pelle del popolo sofferente di Gaza. Si svolge tutto su Omar Al-Mukhtar Street nell’area di Al Saraya. Qualora qualcuno volesse per sbaglio riportare la notizia, non potrebbe che farci piacere.

Mostreremo video e racconti di questo furto degli aiuti nel corso della puntata, ma prima vorremmo parlare della cornice internazionale che in questi giorni sta avvolgendo tutto questo. Un quadro che non lascia presagire nessun miglioramento a breve.

Questo martedì in Qatar, presso il Comando Centrale degli Stati Uniti, si è tenuta una conferenza per discutere della composizione delle Forze Internazionali di Stabilità (ISF).

Hanno partecipato Egitto, Indonesia, Qatar, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Italia, Francia, Regno Unito e Azerbaigian (tra i Paesi che più sono coinvolti al momento nell’iniziativa), insieme a Cipro, Georgia, Canada, Germania, Paesi Bassi, Giordania, Giappone, Grecia, Singapore, Arabia Saudita, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait, Marocco, Bahrein, Bosnia, Finlandia, Kosovo, Kazakistan, Indonesia, Spagna, Yemen e altri. 

45 Paesi in tutto.

Insomma tutti coloro che Trump ha potuto coinvolgere. Meno uno. La Turchia.

La Turchia è uno dei Paesi più critici di Israele a livello mondiale, con il presidente Recep Tayyip Erdogan che negli ultimi due anni di guerra ha spesso accusato Israele di genocidio, paragonandolo alla Germania nazista e assimilando il primo ministro Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler.

Erdogan ha anche stretto rapporti con Hamas nel corso degli anni, ospitando alti funzionari e definendo il gruppo terroristico “combattenti per la libertà”.

Israele ha espresso dunque una ferma opposizione alla presenza militare turca nella Gaza del dopoguerra.

La Turchia “potrà vedere Gaza solo con il binocolo”, ha scritto il mese scorso il ministro della Difesa Israel Katz su X.

“Non ci saranno soldati turchi sul terreno”, ha detto nei giorni scorsi ai giornalisti il portavoce dell'ufficio del primo ministro Shosh Bedrosian.

Lo stesso vice.presidente americano JD Vance ha dichiarato di recente, rispondendo ai sospetti israeliani: "Non importeremo truppe straniere sul suolo israeliano, ma crediamo che la Turchia possa svolgere un ruolo costruttivo. Siamo grati per il ruolo che hanno già svolto”.

Insomma, a questo giro Israele si è imposto, ottenendo al momento un’esclusione clamorosa. 

Tuttavia la fune questa volta ha rischiato di spezzarsi davvero. Sabato scorso un attacco israeliano ha ucciso un alto dirigente appartenente allo stato maggiore delle Brigate martiri di Al-Aqsa, ramo militare di Hamas, Raed Saad, che secondo Israele era alla guida del riarmo dello stesso movimento. In risposta lunedì Trump ha dichiarato che Washington sta “valutando” se Israele abbia violato il cessate il fuoco a Gaza con l'attacco che ha ucciso il comandante di Hamas.

Israele teme che Washington possa spingere per passare alla fase successiva del cessate il fuoco anche prima che venga stabilito un piano operativo chiaro per il disarmo di Hamas.

“Il messaggio della Casa Bianca a Netanyahu era: ‘Se vuoi rovinare la tua reputazione e dimostrare che non rispetti gli accordi, fai pure, ma non ti permetteremo di rovinare la reputazione del presidente Trump dopo che ha negoziato l'accordo a Gaza’”, ha riferito un funzionario statunitense negli ultimi giorni.

Tuttavia questa mossa rischia di inceppare il processo di creazione delle Forze di Stabilità, visto che alcuni potenziali contributori ritengono che Ankara sia necessaria al loro fianco come polizza assicurativa, dati i suoi legami con Hamas e il suo ruolo di mediatore e garante del cessate il fuoco.

Trump parla ormai apertamente di metà gennaio come data per l’ingresso delle “forze di pace”, ma i tempi sembrano sempre più difficili da rispettare, poiché nessuno dei paesi che si pensava fossero interessati a contribuire con truppe, come l'Azerbaigian e l'Indonesia, ha finora annunciato formalmente la propria decisione in tal senso.

Chi invece si è dichiarata pronta a mandare il proprio contingente è l’Italia. 

“Abbiamo dato da mesi la disponibilità a fare in modo che ci sia una tregua e poi la pace. Uno sforzo della comunità internazionale deve essere fatto da tutti i paesi e quindi anche da noi”. Così Guido Crosetto ha ribadito la sua posizione.

L’Italia vuole esserci da subito. L’ha ricordato anche Giorgia Meloni, incontrando Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, a Roma: da Palazzo Chigi, hanno fatto filtrare “la determinazione dell'Italia a svolgere un ruolo di primo piano” nella fase due a Gaza. 

Interverranno dunque i Carabinieri, già di stanza in Medio Oriente e attivi al valico di Rafah, che forniranno assistenza per la formazione della polizia palestinese. Poi saranno inviate ruspe e unità per la rimozione delle macerie e l’attività di sminamento. 

A quale mulino palestinese porterà in dote questi sforzi la Meloni, è stato apertamente esplicitato nei giorni scorsi, appunto, dalla visita a Roma di Abu Mazen. Hamas è terrorismo. L’Autorità Palestinese è democrazia. La volontà popolare palestinese uno spettro. E l’Occupazione è Libertà.

<<Per quanto riguarda la possibilità di un totale ritiro israeliano dalla Striscia, secondo i notiziari che attualmente ascoltiamo ci sarà una Forza internazionale che arriverà la metà del mese prossimo. A Gennaio dicono che ci sarà una Forza internazionale. Israele impone ancora le condizioni per il ritiro completo, tra cui il completo disarmo di Hamas. Qual'è l'attuale politica che si sta applicando, sinceramente non lo so. Tutti i notiziari parlano dell'arrivo, il mese prossimo, di una Forza internazionale, di un totale disarmo di Hamas, queste sono le notizie diffuse. Però qual è la verità, qual è la realtà, né io e né nessun altro nella Striscia di Gaza sta capendo quello che sta succedendo e cosa c'è di vero rispetto a ciò che affronteremo. Se stiamo veramente andando verso una seconda fase, se ci sarà una pace dichiarata, se affronteremo un altro percorso, sinceramente nessuno di noi lo sa>>.

 

La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 182° giorno, avendo raccolto 124.903 euro da 1.581 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 124.024 euro.

 

Tra pochi giorni la nostra campagna compirà 6 mesi. Tanti ne sono passati dal 20 giugno scorso quando battezzammo l’inizio di questa avventura al Teatro Flavio a Roma in occasione della presentazione di “Isti’mariyah”.

Dobbiamo anche ringraziare i numerosi sforzi di questi giorni che rispondono all’appello da noi lanciato la scorsa settimana. Abbiamo raccolto infatti quasi 3mila euro nel frattempo che sono serviti ad acquistare e a rinforzare le tende di alcune decine di famiglie a Gaza.

Tuttavia vogliamo essere chiari e onesti fino in fondo perché vorremmo che anche gli altri facessero altrettanto. Queste tende e questi rinforzi sono stati acquistati a prezzo maggiorato al mercato nero. 

Però facciamoci un ragionamento. Sulle tende che tra poco vedremo nelle immagini compare il nome dell’organizzazione che le ha messe a disposizione. Noi abbiamo riconosciuto a questo giro il nome del Qatar Fund for Development, altre volte erano comparse altre organizzazioni.

Insomma, queste tende sono entrate nella Striscia come aiuti internazionali, magari pagate anche con le donazioni di migliaia di persone, poi un funzionario corrotto le ha sottratte dal deposito degli aiuti e le ha vendute in mezzo alla strada, quando dovrebbero essere distribuite gratuitamente.

Dal momento che non ci sono tende per tutti, perché le tempeste hanno messo a dura prova la tenuta delle stesse, venderle sul mercato nero frutta ora parecchi soldi.

Noi lì le abbiamo trovate e lì le abbiamo comprate, a un prezzo ingiusto.

Le abbiamo comprate per le famiglie che erano rimaste senza tende e stavamo letteralmente morendo di freddo.

Questo perché siamo lì, con la gente della strada, a Gaza, a denunciare la vendita degli aiuti al mercato nero. 

Questo siamo. Un contatto diretto. Umano e, nel suo piccolo, utile.

 

<<Ringraziamo i fratelli donatori in Italia.

Ringraziamo il fratello Miklanglo per averci fornito aiuti a Gaza per acquistare teloni di nylon per proteggere la tenda dall'allagamento.

Che Dio vi benedica e vi ricompensi con il bene.

 

 

Fratello Rabi, queste tende vengono vendute sul mercato nero e ogni tenda porta un numero internazionale.

 

La pace sia con te, fratello Michelangelo. Ora stiamo affogando, abbiamo bisogno di teloni impermeabili.

 

La pace sia con te, amato fratello. Questo con il video, è un posto dove si vendono le tende al mercato nero e il prezzo della tenda che non protegge dalla pioggia,  qua a Gaza è di 700 shekel ed è fatta di stoffa. C’è la tenda che si chiama cupola “qobba” che il suo prezzo è 1600 shekel . Questi sono i prezzi del mercato nero, che in realtà si distribuisce da organizzazioni internazionali, e si vende davanti le loro porte.

 

Fratello, queste a Gaza sono organizzazione internazionali, hanno impiegati la maggior parte di loro sono di Gaza, impiegati per questi associazioni e le organizzazioni, che distribuiscono la metà e la metà la vendono, con la scusa che prendono il compenso del lavoratore che lavora con loro, però l’immagina non è cosi, 

sfruttano questi aiuti e li vendono nel mercato nero, per comprare delle macchine nuove di lusso , e portano cellulari molto cari, ecco, puntano su questo perché non c’è ne controllo governativo ne internazionale.

 

Pace e benedizione e misericordia di Dio sia con voi.

Nel tempo in cui le istituzioni dovrebbero essere un sostegno alla gente in difficoltà, qualcuno si è dato al commercio della sofferenza, vendendo le tende a chi ha perso casa. Invece di darle a loro,

come se la misericordia fosse diventata una merce che si vende.

Una vergogna per noi, come società, vedere chi ha perso casa a Gaza comprare una tenda per proteggersi dal freddo e dalla poggia. Le tende che normalmente dovrebbe essere date senza un compenso, si vendono come se fosse commercio. Quale umanità è questa che fa guadagnare dal dolore dei nostri, 

Istituzioni e impiegati che hanno venduto la coscienza, e hanno dimenticato che chi dorme nella nudità non è un cliente, ma è un essere umano che ha bisogno di protezione e di dignità.

In un tempo in cui le nostre famiglie vivono tra le macerie, bambini nudi e donne che sopportano la fame e il freddo, scopriamo che c’è chi vende le tende alla gente invece di darle a loro.

La tenda che normalmente dovrebbe essere una protezione, una misericordia, diventa un commercio da cui si guadagna.

Come facciamo ad accettare di trattare il delegato a compromessi sulla sua dignità? Chi  è questo essere umano che guadagna dal dolore, dalla perdita di casa e famiglia? Chi ha venduto una tenda ai profughi, ha venduto la sua coscienza prima di vendere la stoffa. Tacere di fronte a questo atto è complicità nell’ingiustizia. 

Dio ci basta ed è il migliore protettore>>.

 

La furia delle tempeste di pioggia gelata a Gaza hanno ormai invaso i telefonini di tutto il mondo. E’ giusto. Bisogna mostrare. Bisogna fare presto. Noi però raccogliamo le voce, la voce e le ragioni di chi sta cercando di sopravvivere con l’acqua gelida alle ginocchia e i bambini in braccio.

 

Purtroppo, in queste circostanze, tante tende sono state inondate. Tante persone vivono in ruderi. Ad altri è crollato addosso il tetto per via della forza di queste piogge, di questi venti, di queste tempeste. La situazione è veramente molto difficile. Tanti bambini si sono ammalati. Tanti bambini sono annegati per via di queste inondazioni, tanti bambini sono stati ricoverati. Gente anziana.

Che Dio sia lodato per via di un aiuto in denaro di 600 euro ricevuto 5 giorni fa per una signora madre di alcune bambine e senza marito. Questa signora si trovava in difficoltà in una zona localizzata nel Sud di Gaza, a Der Al Balah. Che Dio sia lodato questa signora si è spostata in una zona dove le è possibile stabilirsi senza rischio inondazioni ed ha potuto comprarsi una tenda. Prima viveva dentro in un insieme di stracci.

Per quanto riguarda la situazione degli ospedali, un numero elevato di bambini sta soffrendo di gravi malattie per via del freddo pungente e delle inondazioni causate dalle piogge. 3/4 delle famiglie nella Striscia di Gaza, purtroppo, vivono nelle tende. Le tende non sono altro che un insieme di stracci che non proteggono dal freddo e dalle piogge. In questo momento stiamo affrontando gravi precipitazioni di piogge, che Dio sia lodato, stiamo tentando di spazzare (dalle tende) tutta quest’acqua. Non abbiamo mezzi per proteggerci da tutto ciò. Chiediamo a Dio che ci avvolga nella sua misericordia e che ci protegga e che migliori questa situazione>>.

Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 10:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Guerra annunciata in Venezuela? Petrolio e potere dietro l’escalation USA

Le recenti dichiarazioni di Donald Trump segnano un’ulteriore escalation nella lunga offensiva statunitense contro il Venezuela. Alla domanda se Washington possa aprire un vero e proprio fronte di guerra, il presidente USA non ha escluso l’opzione militare. Un’affermazione che arriva dopo attacchi letali contro imbarcazioni, definiti da organismi internazionali come possibili esecuzioni extragiudiziali, e dopo l’annuncio di un blocco totale delle petroliere dirette da e verso il Paese. La giustificazione ufficiale resta la “guerra al narcotraffico”, ma Caracas la bolla a ragion veduta come pretesto.

Nicolás Maduro parla apertamente di una strategia già vista: impossibilitati a evocare armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti costruiscono un nuovo Afghanistan o una nuova Libia usando la narrazione fallace del narcotraffico. Al centro, ancora una volta, c’è il petrolio. La storia venezuelana dimostra che non si tratta di una novità. Sin dalla fine dell’Ottocento, con l’asfalto del lago Guanoco utilizzato per pavimentare Washington e New York, le risorse del Paese sono state sistematicamente integrate nello sviluppo statunitense. Le grandi compagnie nordamericane ed europee hanno operato per decenni come “Stato nello Stato”, influenzando governi, finanziando colpi di mano politici e imponendo regimi concessori estremamente favorevoli. Quando il Venezuela ha provato a spezzare questa dipendenza - dalla riforma del 50/50 del 1943 alla fondazione dell’OPEC nel 1960, fino alla nazionalizzazione del 1976 e alla rinazionalizzazione bolivariana del XXI secolo - la risposta è stata univoca: pressione economica, destabilizzazione politica, sanzioni.

L’attuale “assedio strutturale” a PDVSA, culminato con il sequestro di CITGO e il blocco navale di fatto delle esportazioni, rappresenta una forma moderna di nuova colonizzazione energetica. Le parole di Trump sul “petrolio che ci hanno rubato” rivelano senza filtri la logica sottostante: la sovranità venezuelana viene messa in discussione non per presunte e mai avvenute violazioni del diritto internazionale, ma perché Caracas rivendica il controllo delle più grandi riserve petrolifere del pianeta. In questo senso, la minaccia militare non è un’anomalia, ma la prosecuzione coerente di oltre un secolo di interventismo.

Il Venezuela continua a esportare, a resistere e a cercare appoggi internazionali, come dimostra il sostegno di Russia e Cina. Ma il quadro è chiaro: la crisi attuale non riguarda solo Maduro o Trump, bensì il conflitto strutturale tra sovranità nazionale e capitalismo energetico globale. Una lezione storica che, ancora una volta, viene scritta con il petrolio e con il sangue.


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Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Il discorso di fine anno di Putin e il nodo irrisolto della sicurezza

Nel suo tradizionale appuntamento annuale di domande e risposte, quest’anno integrato con la conferenza di fine anno, Vladimir Putin ha delineato uno scenario coerente e politicamente denso sul conflitto ucraino e sul rapporto con l’Occidente. Il messaggio centrale è chiaro: Mosca rivendica di aver cercato a lungo una soluzione negoziata e sostiene che oggi l’uscita diplomatica sia ancora possibile, a precise condizioni di sicurezza. Particolare rilievo è stato dato al ruolo di Donald Trump. Putin ha affermato che il presidente statunitense starebbe compiendo “sforzi seri e sinceri” per porre fine al conflitto e ha rivelato che, durante l’incontro di Anchorage, la Russia avrebbe “praticamente accettato” le proposte avanzate da Washington.

Una dichiarazione che mira a ribaltare la propaganda occidentale (principalmente europea) di una Mosca indisponibile al compromesso. Il presidente russo ha però ribadito quella che definisce la causa strutturale della guerra: l’inganno occidentale seguito agli accordi farsa di Minsk e l’espansione della NATO verso est. Secondo Putin, non si tratta di nuove richieste, ma della pretesa che vengano rispettate promesse già fatte. In questo quadro, la Russia non esclude la fine delle operazioni militari, ma solo se trattata “con rispetto” e senza ulteriori forzature strategiche.

Sul piano militare, il Cremlino rivendica un netto vantaggio sul terreno: avanzata lungo tutta la linea del fronte, perdita dell’iniziativa da parte ucraina e quasi totale esaurimento delle riserve strategiche del regime di Kiev. A ciò si accompagna una denuncia estremamente dura sulle violenze contro i civili compiute dai soldati del regime neonazista di Kiev. Putin ha anche attaccato l’Unione Europea sul tema degli asset russi congelati, definendo apertamente l’eventuale confisca come un “furto” destinato a produrre gravi conseguenze giuridiche e reputazionali. Parallelamente, ha accusato i leader europei di sostenere Zelensky in modo “rabbioso” per mascherare i propri fallimenti interni.

Non sono mancati toni ironici, come la battuta sulla cometa interstellare 3I/ATLAS descritta come “arma segreta russa”, ma il sottofondo resta serio: Mosca si dice pronta a cooperare con Stati Uniti ed Europa, ma solo su basi paritarie, in un sistema di sicurezza condiviso. Il messaggio finale è duplice: apertura negoziale sul breve periodo e fermezza strategica sul lungo. La palla, evidenzia Putin, è ora nel campo dell’Occidente.


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Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 06:00:00 GMT
Cultura e Resistenza
Gaza. Il peso della testimonianza

La testimonianza di Wasim Said “Witness to the Hellfire of Genocide: a Testimony from Gaza” è un testo nato sotto i droni, tra il fragore delle bombe, tra la fame e gli sfollati, tra le rovine e le macerie della Striscia di Gaza. Pubblicato da 1804 Books, è una delle prime testimonianze scritte emerse dalla Striscia mentre il Genocidio che documenta continua a consumarsi.

Said è uno studente di fisica di 24 anni di Beit Hanoun, nel Nord di Gaza, una città che ha subito alcuni dei massimi livelli di distruzione nelle fasi iniziali del Genocidio. Said ha iniziato a scrivere durante il breve cessate il fuoco del gennaio 2025, sperando che segnasse l’inizio del ritorno e della ripresa.
 
Ma prima che potesse terminare il suo primo capitolo, Israele ha violato il cessate il fuoco e la sua scrittura si è trasformata da riflessione a testimonianza vivente di sfollamenti, fame e bombardamenti.
 
Leggere “Witness to the Hellfire of Genocide: a Testimony from Gaza” di Wasim Said sembra un’impresa impossibile, non perché sia ??difficile da comprendere, ma perché comprenderlo richiede un confronto morale. È un libro che rifiuta rifugio.
 
Un libro che chiarisce fin dalla prima pagina che non si tratta di un esercizio letterario, ma di una presa di posizione politica e morale.
 
Nell’introduzione, Said dichiara lo scopo della sua testimonianza e la richiesta che pone al lettore:
 
Non l’ho scritto per farvi piangere.
Lo scrivo perché possiate appendere queste parole al collo, per farvi assumere la responsabilità della mia prospettiva, la responsabilità di sapere, la responsabilità di essere un testimone“.
 
Segue un silenzio, il silenzio del confronto. Leggere questo libro significa confrontarsi con la nostra partecipazione al mondo che l’ha reso possibile. Ci costringe a vedere il Genocidio non come una rottura nell’ordine delle cose, ma come il suo compimento.
 
Non una “crisi“, ma un sistema, amministrato, finanziato, normalizzato e reso invisibile dalla complicità globale.
 
Una volta lette queste parole, non è più possibile tornare alla distanza di sicurezza costruita tra sé e le immagini di morte e decadenza che si scorrono sui social media.
 
La distanza è scomparsa. Si è dentro l’inquadratura.
 
Wasim rifiuta il ruolo di spettatore del lettore. La sua testimonianza, scritta dall’interno del Genocidio, durante i bombardamenti, la fame e gli sfollamenti, rende la stessa condizione di spettatore insopportabile. Le sue parole accusano non solo i responsabili, ma anche l’opinione pubblica globale, il cui silenzio alimenta le condizioni del Genocidio.
 
Non stiamo leggendo dall’esterno dell’evento.
 
Stiamo leggendo come partecipanti alla sua costruzione.
 
Ogni governo che ha armato l’entità Sionista, ogni impresa che ha tratto profitto dal suo Massacro, ogni istituzione che ha dato credibilità alla sua Barbarie, ogni redazione che ha interferito e insabbiato i suoi massacri, e ogni spettatore che è rimasto a guardare mentre Gaza moriva di fame: ognuno di loro è un filo intrecciato nel tessuto del Genocidio.
 
È un tessuto che indossiamo ancora.
 
Wasim scrive dal cuore del collasso morale dell’Impero e, così facendo, lascia il lettore con una domanda: cosa facciamo del peso della testimonianza?



IMPORTANZA DELLA DOCUMENTAZIONE: LA SCRITTURA COME RIFIUTO

Wasim Said ha abbozzato i suoi capitoli nell’oscurità della notte, in tende improvvisate, che descrive come “fatte di assi di legno e barre di ferro ricoperte di stoffa o teli di plastica“, guidato dal debole fascio di luce di una torcia elettrica del telefono che doveva razionare tra scrittura e sopravvivenza. Non si tratta di uno scrittore che riflette o ritorna alla memoria; è uno scrittore che documenta il mondo che si deteriora intorno a lui. Questo libro non è un ricordo; è una testimonianza in tempo reale.

In Palestina, la scrittura è sempre stata intrecciata con la sopravvivenza. Per un popolo espulso dalla propria terra, privato della cittadinanza e reso superfluo dal consenso globale, l’atto di registrare diventa un atto di rifiuto. È un mezzo per rifiutare la scomparsa. È il modo in cui un popolo a cui è stata negata una storia insiste sulla propria esistenza.

La scrittura palestinese è sempre emersa dall’interno della lotta. Ghassan Kanafani scrisse durante l’esilio, durante la Pulizia Etnica di Massa del 1948, mappando la memoria su una geografia che gli veniva sistematicamente rubata.
 
Walid Daqqah trafugò le sue opere dall’interno di una prigione israeliana, scrivendo attraverso le sbarre di ferro.
 
Wisam Rafeedie compose “Trinità dei Fondamenti” dall’isolamento, ogni pagina trafugata attraverso i suoi compagni. Refaat Alareer curò e insegnò letteratura a Gaza fino alla settimana in cui fu assassinato da un attacco israeliano, rifiutandosi di cedere il suo lavoro all’occupante.
 
Tutti questi scrittori scrissero le loro opere mentre la violenza era ancora in corso, non dopo la sua fine. Non aspettarono sicurezza, distanza o riconoscimento. Scrissero sotto il coprifuoco, sotto assedio, in celle di prigione e sotto i bombardamenti.
 
Wasim appartiene a questa stirpe. Scrive sotto il telo di una tenda da sfollati, mentre l’acqua scorre e l’odore della morte aleggia pesante nell’aria. Ogni frase che scrive è composta all’ombra di un drone.
 
Scrivo mentre respiro affannosamente tra i proiettili; scrivo, e ogni parola potrebbe essere l’ultima“.
 
Un documento prodotto non al passato della tragedia, ma al presente dell’annientamento. Questa distinzione è importante perché la maggior parte della letteratura sul Genocidio che conosciamo oggi è post-evento: scritta dall’esilio, dalla memoria o dalla sopravvivenza.
 
Ma la testimonianza di Wasim non ha conseguenze su cui riflettere.
 
Scrive dal centro della storia e la struttura del libro segue la sua traiettoria attraverso il Genocidio. Inizia con la sua espulsione da Beit Hanoun, i ripetuti tentativi suoi e della sua famiglia di trovare rifugio e la fame che soffoca e governa ciò che resta della vita nella Striscia.
 
Condivide il suo racconto della caccia alla farina, dei massacri nei cosiddetti centri di soccorso e delle file di persone in attesa di una briciola di pane sotto il ronzio dei droni. Said poi racconta storie dal Nord, la Regione che Israele ha deliberatamente ridotto alla fame e isolato dal resto della Striscia, e che ha dovuto affrontare i massimi livelli di carestia e morti di massa.
 
Alla fine, il libro si addentra in una sezione intitolata “Martiri Senza Testimoni”, dove documenta ciò che il mondo si rifiuta di vedere: bambini bruciati vivi nelle aule, ospedali sotto assedio, famiglie costrette a conservare il corpo della madre in un frigorifero perché i cecchini davano la caccia anche ai morti. La sua organizzazione è un atto d’accusa; ogni capitolo rivela un ulteriore strato di un Genocidio orchestrato per non lasciare nessuno a ricordare, nessuno a parlare e nessuno a testimoniare.
 
La documentazione, per Wasim, non è memoria; è continuità. Impedisce al processo di annientamento di completarsi. Registrando, nega all’Impero l’ultima parola.

Finché queste parole esisteranno, Gaza non potrà essere Cancellata.

 

SCRIVERE NELLA MORTE: LE CONDIZIONI MATERIALI DEL GENOCIDIO

Wasim Said non scrive ai margini della catastrofe; scrive dal centro di un progetto globale che si sta sviluppando da decenni, ben prima del 7 ottobre.
Dall’inizio dell’assedio soffocante nel 2007, Israele, con il pieno sostegno del mondo occidentale, ha trasformato Gaza in un luogo progettato per la Morte di Massa.
 
Un laboratorio dove ogni metodo di controllo, sorveglianza, controllo della popolazione e guerriglia urbana viene testato sui palestinesi prima di essere esportato nel mondo. Queste sono le condizioni in cui è scritta ogni pagina di questo libro.
 
Il Genocidio a Gaza non è caos. Ciò che Wasim documenta non è una distruzione spontanea, ma la deliberata orchestrazione dell’annientamento.
 
L’assedio che lo intrappola, e che plasma ogni frase di questo libro, è uno dei progetti di sofferenza di massa più organizzati della storia moderna.
 
Quando gli ospedali vengono bombardati, non si tratta di un incidente militare.
 
È la distruzione della capacità di vivere di una popolazione. Quando vengono presi di mira panifici, impianti di depurazione e pannelli solari, non si tratta di danni collaterali.
 
Si tratta dell’eliminazione delle infrastrutture civili che sostengono la vita.
 
Vengono annunciate “zone umanitarie”, che poi si trasformano in fosse comuni. Gli “ordini di evacuazione” si traducono in sfollamenti forzati. Le “zone sicure” vengono bombardate ore dopo la loro dichiarazione.
 
Anche la fame è una politica. Israele ha perfezionato quella che chiama “Falciare l’Erba”, una Dottrina di Annientamento Sistematico che rende Gaza perennemente inabitabile. L’assedio interrompe cibo, carburante e medicine; controlla l’apporto calorico di due milioni di persone; decide chi può mangiare, chi può vivere e chi deve morire.
 
Quando Wasim descrive persone che fanno bollire le foglie per procurarsi il cibo o che raccolgono l’acqua di scarico per bere, non sta solo descrivendo la Carestia, sta descrivendo una Politica.
 
Queste politiche sono l’architettura del genocidio, il progetto di un’impresa coloniale di insediamento che sopravvive attraverso lo Sterminio del popolo palestinese.

 
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SMASCHERARE I FACILITATORI: IL GENOCIDIO COME STRUTTURA GLOBALE
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Wasim non descrive le armi che polverizzano Gaza come macchinari distanti o anonimi; ne parla attraverso la lente di chi le subisce. Quando gli aerei sganciano bombe a grappolo sulle famiglie sfollate che dormono nelle aule, le descrive come ne è stato testimone: prodotti “fatti nella terra della ‘Libertà e della Democrazia’”.
 
Enuncia ciò che i Facilitatori del Genocidio nel mondo preferiscono nascondere: che ogni esplosione, ogni missile, ogni colpo di cecchino non è una lontana raffica di violenza nel cielo di Gaza, ma l’implicazione materiale di un ordine globale che trae profitto dal suo fuoco. La testimonianza di Wasim chiarisce che le armi non arrivano semplicemente a Gaza: vengono inviate.
 
Le bombe sganciate su Gaza non sono state fabbricate lì. Le armi che hanno raso al suolo intere città non sono state assemblate a Rafah o a Khan Younis. Sono stati prodotti negli Stati Uniti, finanziati con i soldi dei contribuenti e assemblati attraverso una catena di fornitura transnazionale che collega aziende, Stati e finanziatori dal Canada ai Paesi Bassi e al Regno Unito. Il principale bombardiere israeliano, l’F-35I “Adir”, è prodotto con componenti e una catena di fornitura che si estende in tutto il mondo.

La seconda compagnia di trasporto marittimo al mondo, Maersk, è stata smascherata nel 2024 per aver trasportato milioni di libbre di carichi militari dagli Stati Uniti a Israele.

Persino l’infrastruttura digitale del genocidio è esternalizzata. Il Progetto Nimbus di Google e Amazon alimenta i sistemi di dati dell’esercito israeliano, fornendo la capacità di sorveglianza e Intelligenza Artificiale che guida le operazioni di individuazione. Le banche occidentali investono in produttori di armi come Elbit Systems e Lockheed Martin, aziende i cui profitti aumentano a ogni Massacro. La distruzione di Gaza non è solo sostenuta militarmente; è incentivata economicamente.

Questo è il mondo che le parole di Wasim ci costringono ad affrontare: un mondo in cui il Genocidio non è l’atto di un singolo Stato, ma una divisione globale del lavoro, una collaborazione internazionale.
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MEMORIA VIVA, RESPONSABILITÀ ATTIVA
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Questa non è una recensione. È una resa dei conti.
 
Ciò che Wasim ci offre è un atto d’accusa e un invito. Non un invito a commemorare, ma a impegnarsi. Una volta entrati in questo libro, una volta che ne avete fatto vostre le parole, non potete fingere di essere fuori dalla storia. Ci siete dentro.
 
Leggere questo libro significa capire che Gaza ci sta insegnando qualcosa sul mondo. È una testimonianza di ciò che il mondo ha permesso che accadesse. E di ciò che il mondo continuerà a permettere se non agiamo.

Questo libro ci lascia con una responsabilità che non possiamo portare da soli, una responsabilità dei vivi verso i vivi.

Responsabilità verso le persone che ancora respirano sotto assedio.

Verso la bambina che si trova dove un tempo c’era la sua scuola.

Verso il prigioniero ancora detenuto nelle segrete dell’Occupazione.

Verso le famiglie che hanno memorizzato i volti dei loro figli per paura che i loro corpi non vengano ritrovati.

A coloro che si sono rifiutati di morire in silenzio: i nostri martiri.

I nostri martiri, i cui corpi tornano alla terra che non li ha mai liberati, che tornano alla terra che ha custodito i loro nomi e coloro che li hanno preceduti, il cui sacrificio non sarà mai dimenticato: non un ricordo da custodire, ma una responsabilità da portare con sé.
 
La nostra responsabilità non è quella di sentirci devastati. È quella di devastare i sistemi che hanno reso possibile questo libro.
 
Non siamo indifesi. Siamo posizionati.
 
Non siamo distanti. Siamo coinvolti.
 
E quindi la domanda finale non è: cosa vi ha fatto provare questo libro?
 
La domanda è: cosa vi farà fare questo libro?

 
*
Tratto da Mondoweiss.
Traduzione: La Zona Grigia.
Shatha Mahmoud è un’organizzatrice del Movimento Giovanile Palestinese.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 23:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"3 soldati russi sconfinano in Estonia". Fun-checking al video di Repubblica


di Francesco Dall'Aglio*

Chi non ha Twitter (mi rifiuto di chiamarlo X) davvero non sa che si perde. L'ultima di Repubblica (foto 1): sconfinano in Estonia tre soldati "in uniforme dell'esercito sovietico". La cosa più divertente, ad ogni modo, non è questa.



FUN FACT # 1: i tre militari russi (in uniforme ovviamente russa, e non sovietica) hanno sconfinato davvero, non si sa se per errore o per malizia, nel punto indicato nella carta che allego, dove il fiume Narva esce dal lago Peipsi (o, alla tedesca, Peipus). Lo sconfinamento è stato "aiutato", diciamo così, dal fatto che il confine segue il corso del fiume tranne proprio in quel punto, dove c'è un pezzetto di territorio estone. È un tratto di confine molto strano e in nessun altro punto l'Estonia ha terra sulla sponda orientale del fiume Narva né la Russia su quella occidentale. È forse il risultato di un fenomeno di accrezione, molto comune in zone del genere, con paludi e terreno piatto: in quei casi il confine si sposta insieme al fiume e potrebbe essere successo questo, ma bisognerebbe avere sott'occhio le carte catastali del periodo sovietico, che ovviamente non ho a disposizone. Ad ogni modo ci interessa poco perché...


... FUN FACT # 2, questo veramente molto fun: il confine tra Estonia e Russia NON È FORMALMENTE DEFINITO da alcun trattato. De facto è un confine a tutti gli effetti ed entrambe le parti, oltre agli organismi internazionali, lo trattano come tale, ma de jure non è stato mai formalizzato. Quando gli uomini scelsero le tenebre invece che la luce e l'URSS cessò di esistere, fu deciso di comune accordo di considerare i confini amministrativi tra le varie repubbliche come i confini dei nuovi stati indipendenti. Nel 1995 si decise di formalizzare la cosa e ci si accordò sul confine sovietico, con qualche piccolo aggiustamento. Con tutta la calma di questo mondo il trattato venne infine firmato da entrambe le parti e ratificato dal Parlamento estone nel 2005, ma quando i russi lessero la parte scritta in piccolo ritirarono la firma, perché nel testo estone si faceva riferimento ai confini secondo il Trattato di Tartu del 1920, che li poneva (vedi carta) molto più a est che nel 1991 e che secondo i legislatori estoni (solo secondo loro, ovviamente) non aveva mai perso validità. I negoziati ripresero nel 2012 e si conclusero nel 2014. Nel nuovo trattato i riferimenti al confine del 1920 sono stati cassati, ma entrambi i parlamenti non lo hanno ratificato. I confini tra Estonia e Federazione Russa, inclusi quelli marini, restano dunque formalmente non definiti.



Questa cosa mi diverte molto.


*Post Facebook del 19 dicembre 2025

Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 22:00:00 GMT
Editoriali
Come una Ursula qualunque...


di Vito Petrocelli

19 dicembre 2025. Una data triste nella già famigerata storia dell'Unione Europea. Il Consiglio europeo che doveva rilanciare "l'indipendenza" degli stati membri si è concluso con la sensazione degli ultimi colpetti dei violinisti del Titanic e con la grande assenza di una strategia di pace.

All’ordine del giorno, ovviamente, vi era la questione ucraina. Sul tavolo il tema dei finanziamenti all’Ucraina e l’utilizzo degli asset russi, che si preannunciava spinoso già alla vigilia. La proposta della Commissione di utilizzare gli asset russi congelati era infatti già stata duramente osteggiata, oltre che da Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, soprattutto dal primo ministro belga De Wever. 

Bruxelles, infatti, risulta essere tra le più esposte alle possibili ritorsioni russe poiché gli attivi russi sono, in gran parte, depositati presso la società di capitali Euroclear con sede in Belgio. Alla fine, la scommessa del conservatore fiammingo è stata vincente e la proposta Merz-Von der Leyen di finanziare il governo di Zelensky con i fondi russi è naufragata.  

Il Consiglio europeo ha sì deciso di mantenere i fondi russi congelati ma ha optato per una formula diversa per finanziare Kiev: un prestito di 90 miliardi di euro sui mercati di capitali, ossia con l’emissione di debito comune, garantito dal bilancio europeo.  Quella che, andando ben oltre il semplice supporto economico, doveva essere la dimostrazione di compattezza dell’Unione nel sostegno a Kiev, è stata invece la cartina di tornasole della frammentazione dei paesi membri e della scarsa credibilità della classe dirigente europea.

Il vincitore indiscusso è Viktor Orban, che riesce in un colpo solo ad evitare l’utilizzo dei fondi russi e a garantirsi, insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia, una clausola di opt-out dalla nuova tranche di finanziamenti a debito. Come ha dichiarato un diplomatico europeo ad Al Jazeera: “Siamo passati dal salvare l’Ucraina a salvare la faccia”. Neanche quella, aggiungiamo. 

Ci troviamo di fronte alla debacle dell’Europa. Un’Unione di Stati vassalli di Washington, che pur di obbedire hanno sacrificato tutto. Letteralmente tutto. 

La doccia fredda che Trump gli ha riservato, nel momento stesso in cui ha dichiarato che l’Ucraina non è più una priorità per gli Stati Uniti, ha messo a nudo la frammentazione e la debolezza del discorso europeo sul sostegno a Kiev. Tre anni di guerra per procura, venduti come minaccia alla sicurezza europea – i russi arriveranno fino a Lisbona dicevano – e che, nonostante tutto, hanno prodotto nient’altro che una sconfitta sul campo e centinaia di migliaia di morti, non sono bastati ai vari Merz, Macron, Von der Leyen e Kallas, per tornare sui propri passi. 

Se 90 miliardi di debito comune sono, a detta delle delegazioni europee e viste le premesse della proposta della Commissione, un modo per salvarsi la faccia nei confronti di Kiev, cosa rappresentano dinanzi ai milioni di cittadini europei che non arrivano a fine mese? Ai disoccupati? Ai malati a cui viene negata un’assistenza sanitaria degna?  Solo quindici anni fa ci imponevano l’austerità lacrime e sangue come l’unico modo per superare la crisi. E oggi? Possiamo indebitarci a cuor leggero per continuare a finanziare una guerra già persa?

E qui arriviamo al triste esultare del governo Meloni. Un esultare di chi ha impegnato i soldi delle giovani generazioni di italiani per i prossimi cessi d'oro degli oligarchi ucraini. Il triste esultare di chi sceglie la via guerrafondaia dei "volenterosi" fino all'ultimo ucraino. Lo stridulo esultare di chi non vuole fare i conti con la realtà, continuando a vaneggiare di integrità territoriale, guerra ibrida, supporto incondizionato all’Ucraina. Come una Ursula qualunque...

Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 15:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
No war, yes peace: la resistenza bolivariana contro il fantasma della Dottrina Monroe

 

di Geraldina Colotti

Il 16 dicembre 2025, il Teatro Teresa Carreño di Caracas non era solo un palcoscenico, ma l’epicentro di una nuova epopea proletaria. Oltre cinquemila delegati e delegate, eletti dalle oltre 22.000 assemblee di base, hanno chiuso il gran Congresso costituente della classe operaia, insieme al ministro del Lavoro, Eduardo Piñate, a quello dell'Educazione, Héctor Rodríguez, e la presidente della Centrale bolivariana socialista dei lavoratori e delle lavoratrici, Wills Rangel. In platea, un mare di berretti rossi con lo slogan No war yes peace lanciava un messaggio inequivocabile al mondo: il Venezuela non vuole la guerra, ma non teme di difendere la propria dignità.

Il calore della solidarietà internazionale è stato palpabile grazie alla presenza e ai messaggi di sostegno dei popoli e dei sindacati di ogni continente, che hanno riconosciuto in questo congresso il cuore pulsante della resistenza globale contro il capitale.

Mentre la classe operaia discuteva di indipendenza tecnologica e della creazione del Consiglio scientifico, oltre i confini si riaffacciava lo spettro di una nuova Dottrina Monroe. Una dottrina che, a 200 anni di distanza, usa le stesse categorie coloniali: la presunta incapacità dei popoli latinoamericani di autogovernarsi e la necessità di una polizia internazionale statunitense attraverso la pretesa di extraterritorialità delle leggi di Washington.

Donald Trump, nel suo stile suprematista e xenofobo, ha gettato la maschera, mostrando i veri interessi imperialisti. Non si tratta di democrazia — un termine svuotato di senso dal genocidio in Palestina, dalle bombe e dai blocchi — ma di una pretesa coloniale pura e semplice. Trump ha affermato che le aziende USA rivogliono i loro diritti petroliferi, trattando le risorse del sottosuolo venezuelano come proprietà privata della Casa Bianca. Siamo di fronte a quella che lo storico Juan Romero definisce necropolitica: l'imperialismo si arroga il diritto di decidere chi deve vivere e chi deve morire attraverso il blocco navale e il sequestro di navi petroliere come la Skipper.

È un’aggressione che ignora il diritto internazionale, lo stesso che proprio in Venezuela, nel 1929, vedeva il Maresciallo Sucre firmare i primi trattati di regolarizzazione della guerra. Maduro ha risposto con fermezza: un governo colonialista non durerebbe 48 ore di fronte alla coscienza del popolo erede dei libertadores e delle libertadoras.

Per comprendere la portata di questo attacco, è necessario tornare alla lezione magistrale di Alí Rodríguez Araque, il cui pensiero è oggi difeso e attualizzato da figure come lo storico Juan Romero e l'esperto David Paravisini. Il punto di concordanza tra questi analisti è cristallino: il petrolio è l'essenza del problema perché rappresenta lo scontro storico tra la proprietà nazionale del suolo e il capitale transnazionale.

Romero sottolinea come l'imperialismo utilizzi il pretesto del debito e della crisi per ripristinare il corollario Roosevelt, cercando di trasformare la risorsa in un bene extraterritoriale sotto giurisdizione USA. Paravisini, dal canto suo, evidenzia come la lotta per la sovranità operativa di PDVSA sia la chiave per smantellare il cavallo di Troia della vecchia tecnocrazia meritocratica.

Insieme ad Araque, essi concordano che la rendita petrolifera non è un dato contabile, ma un territorio di lotta politica: chi la controlla decide se finanziare la vita o la guerra. Questa triade di pensiero ribadisce che il Venezuela non è un debitore insolvente, ma un proprietario sovrano che amministra la propria risorsa in base alle leggi di miniera nate con Bolivar già nel 1829.

Nel programma Sin Truco ni Maña, condotto da Tania Díaz, questo scontro è stato sviscerato attraverso la voce di Yelitze Santaella, Ministra della Donna. Santaella ha denunciato come l'aggressione imperiale colpisca al cuore il nucleo della vita quotidiana, ma ha anche sottolineato la resilienza delle donne venezuelane, avanguardia nella difesa della pace e della sovranità familiare e territoriale. La ministra ha ricordato che la resistenza non è solo militare, ma è la capacità di sostenere il tessuto sociale contro la coercizione economica e il terrore del blocco.

In questa battaglia per la verità, un ruolo cruciale è svolto dai media comunitari e alternativi, organizzati e presenti, per esempio, nella piattaforma Rompiendo fronteras comunicando alternativas (rompiendofronterasmundial@gmail.com). Questi comunicatori popolari hanno rinnovato il loro impegno internazionale per rompere l'assedio mediatico, agendo come una vera artiglieria del pensiero per diffondere la realtà del Venezuela e contrastare le menzogne dell'industria culturale del nord.

Il gran Congresso della costituente operaia ha prodotto una dichiarazione-manifesto che delinea i pilastri della resistenza. In primo luogo, la sovranità tecnologica attraverso il nuovo Consiglio scientifico della classe operaia, per garantire l'autosufficienza e sostituire le importazioni strategiche nel campo industriale e informatico. Segue il piano di riattivazione industriale sotto gestione operaia diretta, per rispondere al blocco con l'incremento della produzione nazionale. Il manifesto sancisce l'impegno dei lavoratori e delle lavoratrici come moltiplicatori della difesa territoriale nell'unione civile-militare, e riafferma il petrolio come risorsa inalienabile per il finanziamento dei diritti sociali conquistati dalla rivoluzione.

In questo clima, il Presidente Nicolás Maduro ha annunciato la convocazione di una nuova tappa della Costituente Operaia per il 9 e il 10 gennaio 2026. Questo organo di potere costituente permanente avrà il compito di blindare l'economia nazionale contro ogni attacco esterno, trasformando definitivamente la classe operaia nel soggetto dirigente della nuova fase produttiva e politica del paese.

Il prossimo 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU diventerà il campo di battaglia dove il Venezuela, sostenuto da Russia e Cina, smaschererà l'illegalità delle sanzioni e dei sequestri navali. Si discuterà dell'atto di pirateria contro il petroliero Skipper e del tentativo di Trump di imporre una giurisdizione globale attraverso il gran garrote.

Anche il fondatore del sito Wikileaks, Julian Assange, perseguitato per aver rivelato i crimini di guerra degli Stati uniti, ha denunciato come il Venezuela sia nel mirino non per mancanza di democrazia, ma per il suo esempio di alternativa al modello neoliberista. Il giornalista ha anche sottolineato l'ironia di assegnare un premio per la pace a una figura come Maria Corina Machado, che ha apertamente invocato l'intervento militare e l'applicazione della Dottrina Monroe contro il proprio paese: azioni che porterebbero inevitabilmente alla guerra e non certo alla pace.

In Venezuela, il fronte della patria si presenta unito: l'Assemblea Nazionale ha visto l'accordo unanime di tutti i deputati, chavisti e di opposizione, in difesa della nazione contro l'aggressione. Il governo bolivariano risponde con la geopolitica della pace, stringendo accordi con l'asse multipolare e chiamando alla unione perfetta con i militari della Colombia per rinnovare il sogno di Bolivar di una Patria grande. E, intanto, come diceva Alí Rodríguez Araque, in tempi difficili occorre spiegare l'ovvio: il petrolio appartiene al popolo venezuelano. “Abbiamo visto la luce e non torneremo mai più alle tenebre del passato coloniale”, dice la rivoluzione bolivariana, ricordando le parole del Libertador.

Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 14:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Per molti musulmani britannici, il Regno Unito ĆØ diventato una patria ostile

 

di Middle East Eye

Venticinque anni fa, quando ero una studentessa di livello avanzato con un profondo interesse per le questioni politiche, ricordo di aver partecipato a un evento della comunità musulmana in cui un avvocato fu chiamato sul palco per fare una presentazione improvvisata sul nuovo Terrorism Act del 2000, recentemente introdotto nel Regno Unito

Mise in guardia dal cambiamento che questa nuova legge comporta, spostando l'antiterrorismo dall'ambito della legislazione di emergenza a un quadro giuridico primario, insieme alla sua nuova attenzione alla definizione del terrorismo in relazione all'ideologia, piuttosto che al conflitto.

All'epoca mi sembrò agghiacciante, ma nella sala aleggiava anche un senso di sconcerto. Non credo che nessuno tra il pubblico avrebbe potuto immaginare quali sarebbero state le implicazioni durature, non solo per la libertà di espressione, ma anche per la condizione dei musulmani nel Regno Unito. 

Molti dei gruppi proscritti da questa legge operavano nel mondo musulmano, alcuni con una visione apertamente islamica. Cosa significherebbe per i musulmani questa potenziale associazione tra l'azione politica musulmana e il terrorismo ideologico?

L'anno successivo, si verificò l'11 settembre, e le sue conseguenze immediate furono avvertite visceralmente nelle comunità musulmane di tutto il mondo. Un argomento di grande costernazione tra i raduni musulmani del Regno Unito divenne la domanda: "Abbiamo un futuro in questo Paese?" 

Alcuni nati e cresciuti nel Regno Unito, dove si erano costruiti una vita nel corso degli anni, iniziarono a esprimere la preoccupazione che quel posto non potesse mai essere una vera casa per i loro figli o nipoti. 

In un'epoca in cui la legislazione antiterrorismo si stava esplicitamente concentrando sul demone popolare islamista, la preoccupazione era che intere comunità sarebbero diventate capri espiatori: che l'ingerenza statale e le leggi draconiane avrebbero alimentato e aggravato un clima di sospetto, rendendo la vita insostenibile per molti musulmani di origine immigrata nel Regno Unito. Il ricordo del genocidio bosniaco era ancora fresco nella mente delle persone. 

Narrazione di lealtà

Le organizzazioni e gli attivisti musulmani si sono occupati di questo tema in vari modi. Alcuni hanno investito molto nello sviluppo di una narrazione e di una strategia politica incentrate sulla lealtà allo Stato-nazione. La logica era che le nostre comunità si sono stabilite qui da generazioni; questa è la nostra casa e dobbiamo accoglierla con forza come tale. 

Molti grandi gruppi e istituzioni musulmane diedero priorità all'obiettivo di garantire legittimità presso l'opinione pubblica, piuttosto che impegnarsi in campagne a favore di comunità e individui vittimizzati e assediati. Guardare all'esterno per affermare che l'Islam e i musulmani non erano una minaccia, erano autoctoni e rappresentavano una risorsa per la nazione era considerata una strategia più astuta in quel momento, e che avrebbe avuto maggiori probabilità di garantire stabilità e longevità nelle attuali circostanze politiche. 

Questo approccio è stato manifestato attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica che sottolineavano la capacità di relazionarsi con i vicini musulmani e che esploravano la lunga storia dell'Islam nel Regno Unito, incluso il servizio musulmano nelle forze armate, oltre a evidenziare il valore economico della "sterlina musulmana".

Grande enfasi è stata posta anche sull'articolazione degli strumenti teologici relativi al dovere civico di un musulmano in un Paese non musulmano. Tra questi, l'obbligo di onorare la nostra cittadinanza obbedendo alle leggi del Paese e rimettendoci alle norme sociali e politiche prevalenti. 

Si è discusso dell'obsolescenza delle categorizzazioni territoriali classiche: si sosteneva che avremmo potuto considerare il Regno Unito come "dar al-shahada", la dimora della testimonianza e un luogo in cui, nonostante i suoi difetti, avevamo lo stato di diritto e l'opportunità di praticare la nostra fede apertamente e in sicurezza.  

Ne consegue che i musulmani dovrebbero impegnarsi con tutto il cuore, e per alcuni, esclusivamente, ad accettare la cittadinanza britannica. Dopotutto, i loro Paesi di origine erano dittature autoritarie in cui l'azione religiosa e il dissenso politico venivano spesso perseguitati spietatamente, senza alcun ricorso al giusto processo o alla trasparenza. 

Questa spinta intenzionale e palese a dimostrare visibilmente la lealtà allo Stato, alla sua storia e alla sua cultura – a sposare una particolare forma di britannicità – sperava di trovare risonanza e rassicurare i media e l'establishment politico,  entrambi apparentemente incessantemente affascinati dall'interrogarsi su dove risiedesse realmente la lealtà dei musulmani.  In breve, abbiamo assistito a una politica di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione.

Tropi islamofobi

Facciamo un salto in avanti di un decennio e, nel 2010, successivi aggiornamenti alla legislazione antiterrorismo avevano sancito per legge restrizioni alla parola e all'espressione, ampliando al contempo la portata dello stato di sicurezza nei settori della sorveglianza e della detenzione senza accusa. 

In particolare, gli anni 2010 sono stati quelli in cui abbiamo assistito all'emergere di una massiccia privazione della cittadinanza, anche per motivi di "bene pubblico", che, come sottolinea un nuovo rapporto del Runnymede Trust e di Reprieve, colpisce principalmente i musulmani di origine sud asiatica, mediorientale o nordafricana. 

Sebbene inizialmente scioccante, col tempo l'idea di privare della cittadinanza è diventata una caratteristica normalizzata delle prerogative del Ministro degli Interni. I casi più eclatanti sono stati quelli che i media e le istituzioni politiche hanno cospirato per demonizzare nell'immaginario pubblico, come Abu Hamza al-Masri e, forse il più importante, Shamima Begum

Per rappresentare entrambe queste figure come mostri agli occhi del grande pubblico, sono stati utilizzati stereotipi islamofobi. Sono stati caricaturati a causa di aspetti del loro aspetto fisico considerati sgradevoli, minacciosi e alieni. 

"Capitan Uncino" è il nome con cui i titoli hanno ritratto Abu Hamza e, naturalmente, Begum è stata adulterata come una "sposa jihadista", un modo per ottenere il consenso pubblico per misure draconiane e autoritarie che, in circostanze normali, avrebbero suscitato incredulità per la loro erosione dello stato di diritto. 

Tutti i musulmani coinvolti nella crescente rete di securitizzazione del Regno Unito venivano ora associati a queste figure "mostruose" e, quindi, rappresentavano plausibilmente una minaccia ideologica, anzi esistenziale, che poteva essere esclusa se ritenuta appropriata dallo Stato, lasciandoci con un regime di cittadinanza a due livelli.

Lontano dalla realtà 

La neutralizzazione degli atteggiamenti pubblici e politici non è stata l'unica conseguenza di questo regime. Ho trascorso gli ultimi quattro anni esplorando e mappando con i colleghi aspetti del panorama digitale musulmano britannico. Nel farlo, ho notato un numero significativo di influencer che utilizzano i social media per discutere e approfondire il concetto di "hijra". 

Questo termine arabo si traduce letteralmente con "migrazione", ma è utilizzato da alcuni per descrivere uno spostamento da un ambiente in cui si sperimentano ostilità o persecuzioni a un luogo o una comunità in cui è possibile praticare più liberamente la propria fede, evocando la migrazione del profeta Maometto e della prima comunità di musulmani dalla Mecca a Medina. 

Il sottotesto di questi discorsi è la sensazione che, per molti musulmani britannici, il Regno Unito non sia la patria che loro (o i loro genitori) avrebbero potuto immaginare, e che sia saggio predisporre un piano di fuga, per ogni evenienza. Tali piani si stanno sempre più avvicinando alla categoria del "quando", non del "se".  

L'idea che il Regno Unito offra sicurezza e stabilità per una vita appagante ha meno presa su molti musulmani.

Vedo questo discorso nei resoconti "come fare", che offrono consigli passo dopo passo su luoghi, processi e procedure, cosa fare e cosa non fare. Ma ci sono anche discussioni teologiche e sociologiche, che analizzano e collegano momenti storici e offrono consigli ai cittadini con doppia cittadinanza su come affrontare i pericoli specifici del loro status. 

Pertanto, il recente rapporto Runnymede/Reprieve, che rileva che le persone di colore hanno 12 volte più probabilità rispetto ai britannici bianchi di essere a rischio di revoca della cittadinanza, non è stato accolto con allarme, ma piuttosto come un'annoiata ammissione di ciò che molti musulmani britannici hanno già interiorizzato. 

Nel 2025, molte delle persone che languiscono nelle carceri del Regno Unito per la loro presunta partecipazione ad azioni dirette contro i produttori di armi che riforniscono Israele del genocidio in Palestina , sono le stesse cresciute all'ombra di questo regime a due livelli. Per loro, il più ampio contesto politico di draconiana estensione e sospensione del giusto processo non è un'aberrazione scandalosa, come io e i miei coetanei della generazione dei Millennial avremmo potuto considerare i suoi precursori nel 2000. 

Loro, e altre voci dissenzienti, vengono ritratti come sovversivi e anti-britannici, esponenti della quinta colonna, e sono quindi ben consapevoli della precarietà del loro status. Guardando oltre Atlantico, arresti arbitrari e molestie da parte dei funzionari dell'immigrazione statunitensi sottolineano la sensazione che l'accesso al giusto processo per i cittadini musulmani o i residenti in Occidente non sia una questione di diritti, ma di opportunità politica. 

Questa generazione è molto meno interessata a dimostrare la propria gradimento e simpatia a un sistema che li ha disumanizzati per fini politici. Le strategie di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione dei loro genitori devono sembrare lontanissime dalla loro realtà attuale.

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT