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Il Principe
Il filo rosso che unisce il racconto ucraino-sionista all'imperialismo dell'Occidente


di Giuseppe Giannini

In Italia, da un pò di tempo, è in atto una preoccupante strategia politico-comunicativa, che ispira conservatori e cd. socialdemocratici, e che non tollera altre opzioni. Essa, alla fine, si risolve nel rafforzamento del regime al governo. E' un modello che detta l'agenda ed è verificabile anche in quei Paesi una volta considerati democratici. Non parliamo dell'Ungheria o del blocco di Visegrad ma di nazioni come la Francia, la Germania o l'Inghilterra, nei quali l'escalation repressiva fa concorrenza alle autocrazie. La narrazione tossica parte dalla gestione del covid, si rafforza con il conflitto ucraino-russo, e diventa ancora più invadente e falsa con l'impunità dei crimini israeliani. Uno Stato, quello gestito dai sionisti,  abituato da sempre a non rispettare il diritto internazionale e le risoluzioni dell'ONU, e che insieme ai suoi coloni si rende colpevole del genocidio e di ogni sorta di crimini contro l'umanità (le detenzioni arbitrarie, le torture, gli stupri).  

Palesamente in guerra non contro un nemico visibile (un altro esercito armato), ma con la scusa di dare la caccia ai membri di Hamas, che esso stesso ha contribuito a rafforzare, delegittimando le altre organizzazioni storiche, e facendo transitare i fondi dal Qatar, Israele sta operando la pulizia etnica della popolazione civile palestinese, questa si dichiarata da ministri, coloni, fanatici religiosi e, purtroppo, da gran parte della società ebraica. Perchè, secondo loro, un arabo, in quanto tale, va eliminato, poichè non umano essendo assimilabile agli animali. E' lo stesso Stato, che riceve il sostegno politico-economico, logistico, e di rifornitura di armi dai suoi alleati e complici dell'Occidente, che utilizza la propaganda mediatica e la repressione delle forze di polizia e dei provvedimenti degli esecutivi, per identificare, categorizzare e mettere a tacere chiunque provi ad indignarsi dinnanzi al gratuito e reteirato oceanico spargimento di sangue innocente.

La voce di Israele è quella che non accetta contraddittorio, e per far questo elimina i testimoni scomodi. Uccidendo centinaia di giornalisti e gli operatori umanitari. E, dopo aver accusato, in assenza di prove, di fiancheggiamento ad Hamas esponenti delle Nazioni Unite, intellettuali ed organizzazioni della società civile,  impedisce alle ONG di portare aiuti alla popolazione occupata. Nel vergognoso racconto nostrano le vittime, a volte, cambiano, perchè anche l'accanimento personalizzato può stancare. Così, dopo i manifestanti di "Palestina libera dal fiume al mare" e la relatrice Francesca Albanese ora è il turno degli esponenti più vicini alla comunità palestinese. Prima è toccato all'imam di Torino, vano il tentativo di espulsione in mancanza di elementi fattuali, mentre adesso sotto i riflettori della giustizia è il presidente della Associazione dei palestinesi in Italia (API) Mohammad Hannoun. Accusato di terrorismo! Stando alle intercettazioni e alle perquisizioni risultano affermazioni e fondi a sostegno di Hamas.

In pratica, i soldi raccolti per la popolazione palestinese sarebbero stati versati a diverse associazioni con sede a Gaza o nei Territori Occupati che, in base alle sole dichiarazioni dello Stato ebraico, sono da considerare illegali perchè, in qualche maniera, collegate ad Hamas. E' compito della giustizia (sempre più sotto pressione e sempre più condizionata da ingerenze  esterne, politiche e di una certa opinione pubblica) fare il suo corso, ma l'attendibilità di uno Stato che nega i suoi crimini dove sta? L'esecutivo israeliano accusa di antisemitismo ogni voce critica. Uguale è il comportamento degli alleati. Quante ne abbiamo sentite negli ultimi anni. Dai membri dell'ONU ed i giudici delle corti di giustizia internazionale considerati covo di antisemiti e minacciati di morte, alle missioni della Flottila al servizio di Hamas, fino al recente arresto dell'attivista Greta Thunberg, in quanto sostenitrice della Palestine Action.

Quindi colpevole non è chi mette in pratica il genocidio ma chi lo denuncia! In questo quadro viene in rilevanza la proposta di legge Gasparri, fatta propria anche da Delrio, che mette sullo stesso piano l'antisionismo e l'antisemitismo. E che fa proseliti negli altri Stati europei e nella stessa UE dove, esponenti "ambigui" delle istituzioni come la von der Leyen o la Picierno sono tra i fomentatori dell'insensato clima di guerra. Come è strana la giustizia nelle democrazie liberali. Spostare l'attenzione e martellare mediaticamente sono tecniche di distrazione funzionali alla perpetuazione dei crimini. Il punto è che le accuse, tutte da verificare, provengono, e sono accettate acriticamente (la "cooperazione" della DDA di Genova), da Israele. Un salto qualitativo nella informazione che, se in qualche modo è riuscita, finalmente, a sdoganare il termine genocidio (impensabile sino a qualche mese fa), ha già dichiarato il suo verdetto. Se per i sionisti sono tutti antisemiti e colpevoli, sulla base di dichiarazioni decontestualizzate ed in assenza di crimini, mentre i reali orrori vengono tollerati, il beneficio del dubbio è il minimo.

La stessa prassi è quella riguardante la guerra della Nato in Ucraina. Guerra preparata da un decennio per smantellare il governo russo e per mettere le mani su quella parte dei territori ancora, parzialmente, autonomi dalla visione occidentalocentrica. Il buffone di corte Zelensky, che da persona corrotta assurge al ruolo di pedina-eroe per una resistenza da inventare. Con il sostegno di coloro che, all'epoca dei fatti del Donbass del 2014, erano critici e cercavano di capire le ragioni dei russi, ma successivamente all'invasione, invece, in un'opera di trasformismo dettate dalle supreme ragioni atlantiste, oggi sono diventati i protagonisti della propaganda a senso unico (è il caso, ad esempio, dell'inaffidabile Calenda, giunto a tatuarsi il simbolo nazionalista ucraino che tanto piace ai filonazisti eredi di Bandera).  Anche in questo caso, tutte le voci critiche ed indignate vengono trasformate in filoputiniane. Una delle ultime vittime è il professor Angelo D'Orsi. Il giornalismo di regime è vergognoso (ricordiamo la lista di proscrizione del Corriere della Sera del 2022?).

Ogni tentativo di dialogo viene spento sul nascere. Putin è disposto a prendere in considerazione un eventuale accordo? ecco subito pronto un attentato terroristico ucraino per destabilizzare il clima (è successo con la figlia di Dugin, con il sabotaggio del gasdotto Nord Stream e, recentemente, con l'uccisione di un generale dell'esercito russo). All'interno di questo clima i vertici militari invitano alla guerra preventiva, i governi alla leva volontaria per il supporto della guerra infinita, e Putin, allora, si dichiara pronto a reagire, e cosa titolano i nostri media: "Putin minaccia l'Europa". Insomma, c'è un filo rosso che minaccia la stabilità delle democrazie, è che è figlio di quel multilateralismo a giorni alterni, che tanto piace a Mattarella, che parla della supremazia del diritto internazionale, eppure non fa nulla per farlo rispettare.

P.S.: Lo stesso giorno dell'arresto del presidente dell'API, i solerti media italiani, ci ricordano che quarant'anni fa (il 27 dicembre 1985) ci fu l'attentato terroristico palestinese all'aeroporto di Fiumicino, considerandolo come una lunga sequenza di attentati di matrice islamica, che caratterizzò le vicende europee negli anni '70 e '80. Certo, ci furono episodi cruenti e drammatici, come quello dell'Organizzazione Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco nel '72 ed altri attentati e il sequestro dell'Achille Lauro, ma di lì a descrivere il periodo come contrassegnato da un clima di perenne terrore ce ne passa. Anche queste "notizie", insieme alle immagini degli agenti dell'antiterrorismo, che prelevano i documenti e i soldi incriminati destinati ad Hamas (ripetiamo, sempre in base all'impulso e alle informative israeliane) dalla cassaforte (dove avrebbero dovuto conservarli?), fanno parte di quella propaganda occidentale che non vuole sentire ragioni oltre le proprie.

Data articolo: Tue, 30 Dec 2025 22:29:00 GMT
IN PRIMO PIANO
I nazisti di Kiev attaccano, ma per la stampa di regime è una “false flag” russa


di Fabrizio Poggi

Non c'era nemmeno da dubitarne che i fogliacci di regime avrebbero reagito da soliti filibustieri quali sono alla notizia dell'attacco di droni ukro-nazisti alla residenza di Vladimir Putin al Valdaj. Per il Corriere della Sera, sono indubitabili le parole di Vladimir Zelenskij, secondo cui «questa è una tipica menzogna russa» e, aggiungono da via Solferino, vedete bene che si tratta di «una pura invenzione, da spendere per giustificare nuovi raid sul paese invaso». La ritrita nenia liberal-farsesca su “aggredito” e “aggressore”, che ignora volutamente le condizioni storiche e politiche che hanno portato al conflitto.

Più “sottile” l'approccio di Repubblica, che, al pari de La Stampa – la velina è con ogni evidenza la stessa, passata di redazione in redazione – gioca sui numeri dei droni e assicura i lettori che «i dati sballati di Lavrov portano al falso attacco».

In ogni caso, va da sé che, trattandosi dell'ennesimo attacco terroristico dei nazisti di Kiev, i fogliacci italici parlino di «presunto attacco» e scrivano che «A quindici ore dall’incursione denunciata da Mosca non è stata presentata una sola prova... l'assalto contro la dimora del presidente invece resta avvolto nel buio, senza alcun riscontro». Si fosse trattato di qualcosa che avesse toccato un qualunque edificio ucraino, non ci sarebbero stati dubbi sulla “matrice di Mosca”. E che diamine. Qui, invece, non si è «fornito un solo elemento concreto di questa battaglia che avrebbe dovuto impegnare dozzine di batterie contraeree, di caccia e di radar coinvolgendo centinaia se non migliaia di militari. Sono indizi che sembrano accreditare la tesi di Kiev: il raid contro Putin è una “false flag”, inventata per giustificare l’escalation e demolire i negoziati». Migliaia di militari; e perché non milioni? Già che ci siamo, facciamo le cose in grande e non se ne parli più. Eh, caro mio, qui non c'è che da «accreditare la tesi di Kiev: il raid contro Putin è una “false flag”, inventata per giustificare l’escalation e demolire i negoziati». Nemmeno il più flebile dubbio, anche soltanto buttato là per tentare di accreditarsi come “fonte imparziale”, che si tratti proprio del contrario e che qualcuno, a Bruxelles, o magari a Londra, allarmato per la possibilità che il piano di Donald Trump vada in porto e l'accordo di Washington con Moskva porti a un accordo di pace completo, costringendo Zelenskij ad adeguarvisi, abbia gettato il sasso per scompaginare il tavolo e rimettere tutto in discussione. Magari anche nonostante lo stesso Zelenskij, per accelerarne l'uscita di scena. D'altronde, non c'è da aspettarsi altro da chi, come i giornalacci di regime, finge da anni di ignorare il ruolo avuto da Boris-Macbeth-Johnson nell'affossare le trattative a Istanbul nel 2022, proprio quando si era in prossimità di un'intesa. 

Dopotutto, proprio in queste ore si sta rafforzando l'ipotesi, che circola ormai da tempo, di una svolta ai vertici nazigolpisti, con Londra che avrebbe definitivamente optato per mettere da parte Vladimir Zelenskij e insediare al potere a Kiev l'ex comandante in capo Valerij Zalužnyj, con l'obiettivo di concludere un accordo fittizio con la Russia. Questa è almeno la tesi avanzata da Kim “Dotcom” Schmitz, fondatore dei siti di condivisione file Megaupload e Mega. Attenzione, dice Schmitz: «Zelenskij non c'è più. L'MI6 ha preparato e sta inviando a Kiev il principale nazista, Zalužnyj, per prendere il potere. Gli è stato ordinato di concludere una tregua con Putin e preparare l'Ucraina a un nuovo conflitto dopo la presidenza di Trump. I russi non devono in nessun caso riconoscerlo come leader dell'Ucraina. È un burattino dei servizi segreti britannici».

Ma, in generale, come sta la faccenda? Secondo Kirill Strel'nikov, che ne scrive su RIA Novosti, sia i "catastrofisti" di casa che i russofobi occidentali sono stati praticamente unanimi nell'interpretare le fughe di notizie sulle cosiddette "concessioni" della Russia nei negoziati con gli americani: l'unica differenza stava nei dettagli e negli epiteti. Ora, con la reazione russa all'attacco su Valdai, diventa chiaro quali fossero le concessioni e cosa ne sarà di esse. Si può sorvolare sugli “auguri natalizi” omicidi recitati da Zelenskij all'indirizzo del presidente russo; ma l'attacco del 28 dicembre dimostra, a parere di Strel'nikov, che la junta di Kiev aveva già allora deciso di attentare alla vita di Putin. Ma, soprattutto, bisogna notare che i droni ucraini sarebbero stati lanciati un paio d'ore prima dell'inizio dell'incontro Trump-Zelenskij in Florida: segno che l'esito dell'incontro era già chiaro in anticipo e non era affatto positivo per i nazisti di Kiev.

Sin dall'inizio, Zelenskij non ha avuto alcuna possibilità di far passare il “suo” piano: ha ribadito che le forze ucraine non avrebbero lasciato il Donbass, che ci si aspetta la presenza di contingenti militari NATO in Ucraina, che la Russia è tenuta a realizzare un cessate il fuoco a lungo termine, che Kiev potrebbe indire un referendum: in sostanza, ancora una volta  condizioni inaccettabili per Moskva.

Zelenskij dunque, dopo aver ricevuto il via libera da Londra, avrebbe deciso per l'attacco. Difficile pensare che i nazisti contassero davvero di eliminare Putin. Il piano era semmai quello di obbligare Moskva a rispondere con eccessiva durezza, potendola così poi accusare di aver mandato a monte i colloqui di pace.

Ma le cose sono andate diversamente; il tentativo di assassinare Putin è stato sventato e i funzionari russi, nota RIA, invece delle consuete minacce, hanno rilasciato poche dichiarazioni secche: l'attacco è stato un atto di terrorismo di Stato, di cui Zelenskij è personalmente responsabile; è avvenuto nel bel mezzo del processo di pace e rappresenta uno schiaffo al leader americano, che fino alla fine sperava nella ragionevolezza di Kiev. Come che sia: le azioni del regime di Kiev non rimarranno senza risposta e questa non sarà diplomatica; la posizione negoziale della Russia sarà rivista in modo inequivocabile e Moskva conta sulla comprensione dei partner americani.

L'attacco di ieri, scrive Strel'nikov, vanifica le concessioni fatte dalla Russia, dal momento che è diventato «ovvio persino agli americani che l'attuale entità terroristica chiamata Ucraina, guidata da uno sciacallo impazzito, non può più, per definizione, essere oggetto di negoziati».

Dopo l'attacco, Trump ha dichiarato di essere estremamente arrabbiato per il fatto che la provocazione di Kiev sia arrivata in un "momento completamente inopportuno", di essere categoricamente contrario a un attacco alla "casa di Putin" e di non riuscire nemmeno a immaginare "azioni così folli". Ma ciò che Trump farà o non farà con Zelenskij è ormai irrilevante. Ciò che conta è come reagirà la Russia. A dispetto di cosa prevedano in Occidente, il quartiere che ospita gli edifici governativi di Kiev non sarà trasformato in un cratere, anche se Zelenskij ci spera vivamente. Non ci saranno bombardamenti spettacolari.

In ogni caso, scrive Kristina Cerkasova su Ukraina.ru, la provocazione di Kiev rappresenta un "pericoloso degrado" delle autorità ucraine, che ancora una volta hanno "toccato il fondo" e, a detta di politici e osservatori russi, l'attacco è anche un tentativo di screditare gli sforzi di Trump per risolvere pacificamente il conflitto. A causa del passaggio di Kiev al "terrorismo di Stato", afferma il politologo Jurij Barancik su Ukraina.ru, Moskva non solo lancerà un attacco militare, ma inasprirà anche i termini dei negoziati. Barancik non esclude l'uso di armi ad alta precisione, come l'Orešnik, in versione non nucleare e afferma che i territori incorporati nella Costituzione russa non sono soggetti a negoziato.
Aleksej Nechaev, leader del partito "Uomini Nuovi" afferma che l'attacco nazista è un segno del profondo declino della leadership ucraina e un duro colpo per il futuro del paese. Secondo Nechaev, i politici ucraini stanno deliberatamente portando la situazione in un vicolo cieco, facendo tutto il possibile per prolungare la guerra per gli anni a venire e ha osservato che, nonostante la Russia disponga di "modi asimmetrici di risposta", l'obiettivo strategico di Moskva nei negoziati con gli Stati Uniti rimane invariato: raggiungere una pace stabile e a lungo termine.

Roza Cemeris, della Commissione internazionale della Duma, dichiara che con l'attacco alla residenza di Putin, la junta «ha strappato la sua ultima maschera, rivelando il volto del principale terrorista di Kiev, che sorride convulsamente per la paura di un'imminente rappresaglia». La parlamentare si è detta fiduciosa che la Russia risponderà in modo duro e simmetrico, ma non interromperà i colloqui di pace.

Fuori della Russia, Michael Flynn, ex Consigliere per la Sicurezza nazionale nella prima presidenza Trump, scrive sui social che l'attacco ucraino indica un possibile coinvolgimento UE: «a mio parere: Trump vuole la pace, Putin vuole la pace, Zelenskij fa tutto ciò che la UE gli dice di fare». L'analista militare americano Andrei Martyanov, in un'intervista a Daniel Davis, ha affermato che il tentativo di attacco del regime di Kiev potrebbe innescare una risposta russa che riporterebbe l'Ucraina all'età della pietra.
In definitiva, ancora Kirill Strel'nikov dice che ci sono tutti i segnali che «la possibilità stessa di avere rappresentanti dell'attuale regime ucraino al tavolo dei negoziati sia stata ormai eliminata, così come sembra diventato «inutile, dato il ritmo dell'avanzata dell'esercito russo, discutere del ritiro delle forze ucraine dal Donbass. L'altra parte è rappresentata da terroristi, e non ci saranno più negoziati con loro; l'attuale governo di Kiev è terrorista e non può essere preservato. Punto». 

E, a proposito di quanto detto sul possibile ricambio Zelenskij- Zalužnyj, pare comunque molto improbabile che una “nuova” junta guidata dall'ex capo di Stato Maggiore rappresenti qualcosa di diverso da una nuova banda nazi-banderista, addestrata dai curatori europeisti a preparare una nuova guerra, che i media di regime si preoccuperanno, alla loro maniera, di spacciare per “resistenza di un paese democratico all'aggressione di una autocrazia”.

 

Data articolo: Tue, 30 Dec 2025 22:14:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Tredicesima mordi e fuggi: la caduta del nostro potere di acquisto


di Federico Giusti

 Che il potere di acquisto dei salari sia in continua erosione lo si evince anche da due semplici fatti: le svendite iniziano con giorni di anticipo rispetto al passato, i regali natalizi sono ridotti in attesa che i prezzi calino permettendo acquisti a costi decisamente inferiori
 
La tredicesima nel 2025 ha messo in circolazione oltre 50,5 miliardi di euro ma gli effetti da qualche anno risultano assai contenuti, soldi utili per pagare bollette arretrate e sostenere spese da tempo rinviate. 
 
Tra rate, mutui, utenze domestiche e imposte di fine anno la tredicesima si volatizza in tempi rapidi e non avrà effetti trainanti per i consumi. L'argomento di per sè non entusiasma, la scoperta tardiva della erosione del potere di acquisto non arriva mai al cuore del problema ossia comprendere le reali cause di quanto sta accadendo ai salari e alle pensioni. Si guarda solo agli effetti, mai alle cause scatenanti che a nostro avviso sono legate alle regole adottate per rinnovare i contratti al ribasso, a quel codice Ipca che esclude dal calcolo del costo della vita  i prodotti energetici, dalla assenza di meccanismi automatici per adeguare stabilmente pensioni e salari ai rincari.
 
Il grande clima di incertezza  è acuito dalla tendenza di guardare solo agli effetti della caduta del potere di acquisto e mai alle cause, per questo finiamo invischiati nelle narrazioni parziali o pensiamo che gli elevati tassi di interesse siano più rilevanti della abrogazione della scala mobile.

Rilevante è poi il capitolo fiscale perchè il Governo ha operato scelte incondivisibili quali ridurre le tasse sul lavoro tagliando risorse al welfare, alla sanità e alla istruzione o comunque rinunciando ad adeguare i capitoli di spesa in base ai reali fabbisogni. E' innegabile  che parte della tredicesima viene bruciata tra IMU , TARI ma attenzione a non cedere alle lusinghe di chi vorrebbe eliminare la tassazione perfino sulla seconda casa in una ottica antistatalista
 
Per tutte le ragioni fino ad oggi analizzate il Natale 2025 sarà una festività caratterizzata da parsimonia, da scelte oculate e prudenziali ma è pur vero che un ragionamento sui consumi andrebbe sviluppato includendo il Black Friday di fine novembre, gli acquisti di dicembre e quelli di inizio anno con i saldi.
 
Non è da ora che la erosione del potere di acquisto dei salari dovrebbe essere al centro della nostra elaborazione e iniziativa politica, ci si accorge del problema solo quando il costo della vita diventa insostenibile cedendo spesso alla idea che sia tutta colpa delle tasse.

L’indice della borsa di Milano era un anno fa inferiore del 30 per cento rispetto ai nostri giorni, di conseguenza se la ricchezza cresce in Borsa, è lì che lo Stato dovrà pescare le risorse per risanare i conti pubblici. E con questi soldi potremmo adeguare il welfare ai nuovi bisogni esigendo dalle imprese una azione indispensabile come adeguare i salari al costo della vita. Per agevolarne il compito servono  nuove regole che potranno scaturire da nuovi rapporti di forza  diversi da quelli attuali senza che i lavoratori continuino a soccombere al cospetto delle imprese. Siamo allora gli interessi delle classi subalterne ad avere la meglio sul primato  della impresa. E solo a quel punto avrà un senso parlare di salvaguardia del potere di acquisto scegliendo le iniziative indispensabili per dare concretezza ai nostri buoni propositi.
  

Data articolo: Tue, 30 Dec 2025 21:54:00 GMT
L'Intervista
Venezuela, il Difensore del Popolo: "Il blocco è un crimine contro i bambini, ma la nostra sovranità non è in vendita"


di Geraldina Colotti

 

 Alfredo Ruiz Angulo non è solo il Difensore del Popolo della Repubblica Bolivariana del Venezuela; è un uomo la cui traiettoria è indissolubilmente legata alla difesa della dignità umana nei contesti più complessi. Come capo di una delle istituzioni fondamentali del Potere Cittadino, Ruiz Angulo rappresenta la nuova architettura dello Stato venezuelano nata con la Costituzione del 1999.

In uno scenario internazionale segnato dalla disinformazione e dall'assedio diplomatico, la sua voce risulta chiave per comprendere l'operatività dei diritti umani in un paese che, secondo le sue parole, “è stato asfissiato nel 99% del suo bilancio”, ma che si rifiuta di rinunciare alla propria sovranità e alla protezione dei suoi cittadini. In questa intervista, analizza la realtà del sistema penitenziario, l'impatto criminale delle sanzioni e la lotta per una giustizia integrale.

Per il nostro pubblico internazionale, potrebbe spiegare cos'è il Potere Cittadino e qual è la funzione specifica della Defensoría del Pueblo all'interno della Rivoluzione Bolivariana?

La Defensoría del Pueblo è una delle tre istituzioni che compongono il Potere Cittadino, insieme alla Contraloría General de la República e alla Fiscalía General de la República (il Ministero Pubblico). Si tratta di un potere con lo stesso rango ed equivalenza di quello Esecutivo, Legislativo, Giudiziario ed Elettorale. Godiamo di totale indipendenza, secondo un principio di cooperazione tra i poteri. La nostra funzione è vigilare sul rispetto dei diritti umani e assicurare un servizio ottimale in tutta l'amministrazione pubblica. È importante chiarire che non possediamo potere di coazione o sanzione diretta. La nostra forza risiede nella persuasione e nella formazione della cittadinanza sulla primazia dei diritti umani. Abbiamo il mandato di educare, promuovere e vigilare; per questo, visitiamo ospedali, carceri e qualsiasi spazio che presti un servizio pubblico per emettere raccomandazioni e rapporti di miglioramento.

È un lavoro che va direttamente sul terreno. Come si articola questo con le comunità organizzate?

Lavoriamo fianco a fianco con il popolo. Ci riuniamo con gli anziani o ispezioniamo il sistema di protezione di bambini e adolescenti. A causa delle misure coercitive unilaterali, il bilancio nazionale è stato drasticamente ridotto e la Defensoría non fa eccezione. Per questo ci appoggiamo alla cittadinanza organizzata. L'articolo 132 della nostra Costituzione stabilisce che è un dovere di tutti i cittadini promuovere e difendere i diritti umani. Un esempio concreto è la nostra convenzione con il Ministero della Donna, attraverso la quale abbiamo formato più di 12.000 difensore comunali che, su base volontaria, accompagnano le vittime di violenza di genere in tutto il paese.

Lei menzionava il sostegno ai venezuelani all'estero. Esiste cooperazione con istituzioni di altri continenti?

Certamente. Abbiamo accordi di scambio di buone pratiche con istituzioni simili in Cuba, Bolivia, Guinea Equatoriale, Benin, Nigeria e Federazione Russa. Apparteniamo all'Assemblea Generale delle Istituzioni Nazionali dei Diritti Umani dell'ONU e alla Federazione Iberoamericana dell'Ombudsman. Questi legami sono vitali quando si rompono le relazioni politiche per differenze ideologiche, poiché permettono alle defensorías di quei paesi di prestare attenzione ai cittadini venezuelani all'estero.

L'estrema destra suole diffondere che in Venezuela esistano sparizioni forzate e violazioni sistematiche dei diritti del lavoro. Qual è la realtà di queste denunce?

Il tema di quelle che alcuni chiamano "sparizioni" è legato, in realtà, a mancanze nella notifica immediata. A volte gli organismi di polizia tardano a informare i familiari sul luogo di detenzione per ragioni di sicurezza. Tuttavia, la legge obbliga a notificare il Ministero Pubblico entro 24 ore e il giudice entro 48 ore. Quando l'informazione ritarda, c'è una violazione del giusto processo, ma non una "sparizione forzata", poiché lo Stato riconosce la detenzione. Rispetto ai diritti del lavoro, un lavoratore può essere detenuto se ha commesso un reato comune, non per la sua condizione di operaio. C'è, ovviamente, sempre margine per avanzare; ad esempio, dobbiamo legiferare di più sul telelavoro per assicurare che si rispettino i limiti di orario e le vacanze. Quello che invece è un progresso totale è l'universalizzazione della salute attraverso la Previdenza Sociale (IVSS), dove si assiste chiunque senza necessità di tessera o assicurazione preventiva.

E cosa ha potuto constatare sul sistema penitenziario, che suole essere il bersaglio delle maggiori critiche?

Negli anni '90, sotto la Quarta Repubblica, i massacri nelle carceri come Sabaneta o il Retén de Catia costavano centinaia di vite. Questo non accade più. Il grande traguardo è stato recuperare il controllo statale dei centri penitenziari, che prima erano nelle mani della criminalità organizzata. Gruppi come il "Tren de Aragua", da tempo, non controllano più le prigioni. Inoltre, abbiamo avanzato nella "rivoluzione giudiziaria" convocata dal presidente Maduro per ridurre il ritardo processuale mediante udienze telematiche e una maggiore agilità nei tribunali.

L'impatto del blocco sulla salute sembra essere il punto più critico della sua denuncia.

Il blocco ha avuto conseguenze criminali. Prima, lo Stato finanziava trapianti e operazioni di alta complessità all'estero. Banche europee e statunitensi hanno sequestrato quelle risorse, il che ha provocato la morte di molti bambini e adulti che aspettavano un intervento già pagato. Oggi stiamo riprendendo questi interventi a livello nazionale, incluse operazioni complesse in stati come Barinas, ma il danno causato da questo assedio è incalcolabile.

Per chiudere, qual è il suo sguardo sulla violazione della legalità internazionale a livello globale, come il genocidio in Palestina o l'assedio al Venezuela?

Quello che stanno applicando in Palestina - e che tentano di applicare in Venezuela - è un assedio medievale per impedire l'ingresso di cibo e medicine. È uccidere la popolazione civile per fame. È un attentato contro ciò che è più sacro: i nostri bambini e le nostre bambine. Inoltre, esiste un cinico pretesto nella lotta al narcotraffico. Gli Stati Uniti intervengono militarmente nei Caraibi in base a "sospetti" infondati, distruggendo imbarcazioni di pescatori e commettendo esecuzioni extragiudiziali. Abbiamo conosciuto sopravvissuti di Trinidad e della Colombia che sono stati liberati, in assenza di prove e dopo aver visto le loro vite distrutte. Sono state riportate più di 100 morti in queste operazioni. Questa non è lotta al crimine; è terrorismo di Stato applicato in modo unilaterale. Il Venezuela continuerà a denunciare queste violazioni, perché la preminenza dei diritti umani è la nostra bandiera irrinunciabile.

Data articolo: Tue, 30 Dec 2025 16:17:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Le litanie de la Stampa e le ultime (disperate) mosse di Zelensky

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Vladimir Zelenskij messo all'angolo non sa fare altro che tentare l'assassinio di Vladimir Putin e, con ciò stesso, mirare alla distruzione dell'intero processo negoziale, mandando droni a colpire la residenza presidenziale russa nel Valdaj. I droni sono stati abbattuti; ma, ugualmente, si è trattato di un tentativo di frantumare l'intera situazione, afferma l'esperto militare Vladislav Šurygin; di seppellire tutti i negoziati e mettere l'Occidente di fronte al «dilemma: o sostenere pienamente l'Ucraina, che ha commesso questo crimine, oppure... È chiaro che dietro questo attacco non c'era il solo Zelenskij: come minimo, il suo principale sostenitore in Gran Bretagna lo ha approvato; altrimenti, semplicemente non avrebbe osato farlo».

L'attacco era avvenuto nella notte tra il 28 e il 29 dicembre, cioè dopo il deludente (per Kiev) risultato dell'incontro Trump-Zelenskij, mentre successivamente, nella serata del 29 dicembre, era attesa una nuova conversazione telefonica Trump-Putin, con il primo che doveva ragguagliare il presidente russo sull'incontro del giorno precedente con Vladimir Zelenskij.

Tirando qualche somma del faccia a faccia del 28 dicembre in Florida e pure se l'incontro si è svolto a porte chiuse, alcune conclusioni si erano potute cogliere dalla conferenza stampa di Trump e Zelenskij e, come nota Irina Rinaeva su Komsomol'skaja Pravda, già da quella risultava che Trump non ha alcuna intenzione di cedere ai desideri di Zelenskij. Una singola nota, dice Rinaeva: si sarebbe dovuta vedere la faccia del nazigolpista quando l'inquilino della Casa Bianca ha detto che «la Russia vuole che l'Ucraina prosperi». In sostanza, notano a Moskva, fin dall'inizio la visita non è andata troppo bene per Zelenskij: quando ha detto che la Russia sta bombardando Kiev, il che significa che non vuole la pace, Trump ha risposto che «anche la Russia viene attaccata, e chi potrebbe essere? Certamente non il Congo o gli Stati Uniti».

Questo, anche per i giornalacci di regime che quotidianamente riempiono le pagine su «droni e missili russi su Kiev», ma si guardano bene dallo scrivere un solo rigo sui civili uccisi dai bombardamenti ucraini sui villaggi del Donbass o su quelli delle regione confinarie russe di Belgorod o Brjansk.

Nella sostanza dell'incontro, secondo Trump l'accordo è concordato al 95%, mentre per Zelenskij il piano di pace in 20 punti è fissato al 90% e le garanzie di sicurezza USA per l'Ucraina lo sono al 100%. Importante, secondo Donald Trump, è che ci si stia avvicinando a «un accordo sulla questione territoriale. Penso che verrà risolta». Per Zelenskij, di contro, quella dei territori «è una questione molto complessa... Possiamo indire un referendum su qualsiasi punto del piano di pace se si rivelasse troppo difficile per la società. Oppure possiamo dare al parlamento l'opportunità di votare». Insomma, come dire, cerchiamo di tirarla ancora un po' per le lunghe; al che Trump interviene bruscamente: «Si potrebbe pensare che gli ucraini vogliano continuare a combattere. So che c'è stato un sondaggio che mostrava che il 91% vuole porre fine a questa guerra. Vogliono che la guerra finisca. Anche la Russia lo vuole. Tutti vogliono... Penso che abbiate già perso la terra di cui parlate. Fareste meglio a fare un accordo ora».

In conclusione, il cessate il fuoco temporaneo auspicato da Zelenskij non ci sarà: «Capisco la posizione di Putin», ha detto Trump, se viene deciso un cessate il fuoco e poi non si raggiunge un accordo, «si dovrà ricominciare tutto daccapo».

Operativamente, i team negoziali inizieranno a lavorare a gennaio, con Trump che insiste affinché gli ucraini interagiscano direttamente con i russi. Da parte americana parteciperanno alle consultazioni i Segretari di stato e alla difesa, Marco Rubio e Pete Hegseth, l'Inviato Speciale Steve Witkoff e il genero di Trump, Jared Kushner. Per Kiev ci saranno il Segretario del Consiglio di sicurezza Rustem Umerov, il vice ministro degli esteri Serghej Kislitsa e il Capo di SM Andrej Gnatov.

Intanto però, sempre per Komsomol'skaja Pravda, il corrispondente di guerra Aleksandr Kots analizza i principali punti che sono assenti nel cosiddetto piano di pace di Vladimir Zelenskij, colui che la signora Anna Zafesova, su La Stampa del 29 dicembre, con lacrimevole pathos di entusiastica partecipazione, definisce «il leader carismatico della resistenza in guerra»: le gesta di un paladino cantate dal suo bardo in gonnella di via Lugaro, a Torino.

Dunque, sorvolando sul fatto per nulla secondario relativo alla questione territoriale, che sul momento rimane irrisolta, dato che Trump favorisce la posizione della Russia, mentre Zelenskij sta tergiversando, temendo di adottare misure impopolari – così impopolari, potremmo dire, soprattutto tra determinati settori del nazi-nazionalismo ucraino, che potrebbero costargli molto care – rimane il fatto che dalla “famosa” lista dei venti punti mancano alcune questioni cruciali, originariamente presenti nel piano di Trump e che erano state discusse ad Anchorage. In effetti, osserva Kots, l'intero documento di Zelenskij si basa sulla responsabilità unilaterale della Russia per ogni cosa. E non impone alcun obbligo all'Ucraina, all'Europa o all'Occidente nel suo complesso.

Per cominciare, l'accordo dovrebbe, tra le altre cose, stabilire la responsabilità di Kiev e dell'Europa in caso di un'ipotetica rottura del cessate il fuoco: un attacco anfibio, un drone su Belgorod, un “Mykola ubriaco” che perde il controllo di sé in trincea: dovrebbero stabilirsi delle responsabilità per questi casi.

In secondo luogo, Moskva è pronta a fornire garanzie legali di non aggressione contro l'Ucraina e l'Europa: dal Cremlino e dal Ministero degli esteri è stato ribadito anche nei giorni scorsi che Moskva è pronta a mettere per iscritto che non attaccherà mai; ma perché l'altra parte non fornisce le stesse garanzie? Il piano di Trump, ricorda Kots, affermava che «se l'Ucraina invade la Russia, perderà le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti» e, come “bonus”, stabiliva che «La Russia non invaderà i paesi vicini e la NATO non si espanderà ulteriormente». Ma, un po' di pazienza: abbiate contezza del fatto che si sta parlando di quella che il signor Jacopo Iacoboni, ancora su La Stampa del 29 dicembre, assicura essere una «fantomatica presunta espansione della Nato a est». Quando mai si è vista una tale propagazione dell'Alleanza atlantica verso i paesi che circondano a ovest la Russia?! Come, quando e dove?! Ora, delle due l'una, o si raccomanda al signor Iacoboni un accurato consulto in qualche rinomata clinica oftalmologica, in modo che, dopo, sia in grado di leggere adeguatamente una qualunque mappa di geografia politica dell'Europa orientale, a partire, diciamo, dal 1994; oppure si prendono per facezie le sue elucubrazioni della ritrita nenia liberal-filibustiera su «aggressione russa» e «resistenza ucraina», quella “resistenza” che, come scrive l'articolista Zafesova, «piaceva, convinceva e commuoveva l’Occidente “storico” – il coraggio, l’aspirazione alla libertà, il sogno dell’Europa e il sacrificio nazionale in una guerra di resistenza». Commovente, anche questo endecasillabo della menestrella torinese, specialmente se riferito alla “resistenza” dei battaglioni e delle brigate naziste.

A ogni buon conto, i 28 punti stabilivano, tra le altre cose, che le forze armate ucraine avrebbero dovuto essere composte non da 800.000, ma da 600.000 uomini che già così va molto al di là del necessario. Dunque?

In quarto luogo, Zelenskij ignora una delle questioni chiave: lo status di paese fuori dai blocchi, in generale e l'adesione alla NATO, in particolare. Questo, come minimo, dato che la versione precedente conteneva una settima clausola, secondo cui la non adesione alla NATO sarebbe stata inclusa nella Costituzione e la NATO accetterebbe di includere nel proprio statuto una disposizione che stabilisca che l'Ucraina non sarà ammessa in futuro all'Alleanza atlantica.

Di più: la clausola successiva stabilisce che «la NATO non schiererà le sue truppe in Ucraina». Guarda caso, i cosiddetti "volenterosi" sono però in piena agitazione e gareggiano per dichiarare la propria disponibilità a schierare contingenti in Ucraina. Peccato, si affligge il signor Iacoboni con evidente amarezza, che «non è assolutamente fissato se si pensa a un invio di truppe europee in Ucraina, e eventualmente chi, e dove». Cosa aspettano a decidersi, quei rammolliti! Hanno forse paura che Moskva concretizzi davvero la minaccia di considerare quell'invio di contingenti “europeisti” come un'aggressione e risponda a tono con missili, anche nucleari? Smidollati “volenterosi”!

Altri punti che, a detta di Aleksandr Kots, mancano dall'elenco, riguarderebbero la clausola dell'amnistia, i diritti dei russi e dei cristiani ortodossi, nascosti dietro la “foglia di fico” sui programmi di tolleranza scolastica, che non riesce nemmeno a coprire il nazismo e la russofobia che caratterizzano le cerchie dirigenti della junta di Kiev. Questo, laddove il piano di Trump affermava che «l'Ucraina adotterà le norme UE sulla tolleranza religiosa e la protezione delle minoranze linguistiche... Qualsiasi ideologia nazista e attività correlate sono proibite»: vale a dire, la denazificazione, proclamata tra gli obiettivi principali delloperazione militare in Ucraina.

In conclusione, dice Kots, si potrebbe approvare il 99,99% del piano, ma se lo si fa senza tenere conto degli interessi russi, compresi quelli legati alla sicurezza globale (e il testo precedente menzionava anche il nuovo trattato START), allora la condizione successiva per un cessate il fuoco sarà il ritiro delle forze armate ucraine anche dalle regioni di Nikolaev e Odessa.

Lo ammettono ormai anche i più accaniti banderisti, pur se a La Stampa fingono di non accorgersene: la continuazione della guerra non fa che peggiorare la situazione, afferma il giornalista Ostap Drozdov, non certo un filo-russo. Continuare la guerra significa stringere gradualmente il cappio, millimetro per millimetro, senza via d'uscita, ammette il banderista, che dice anche come, alla «fine dell'anno si sia aperta una "finestra ristretta" per sfuggire al cappio e trovare una via pacifica, anche a costo di condizioni estremamente sfavorevoli... Se l'anaconda ti inghiotte e riduce costantemente il diametro del suo respiro... allora non ci sono molte opzioni».


FONTI:

https://politnavigator.news/shurygin-otvetom-za-ataku-na-valdajj-dolzhna-byt-obuglennaya-tushka-zelenskogo.html

https://www.kp.ru/daily/27761/5191445/

https://www.kp.ru/daily/27761/5191588/

 

 

Data articolo: Tue, 30 Dec 2025 06:00:00 GMT
Difesa e Intelligence
“Justice Mission 2025”: il messaggio strategico di Pechino agli USA e ai loro alleati


di Fabrizio Verde

L’avvio delle esercitazioni “Justice Mission 2025” da parte del Comando del Teatro Orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione non è un episodio isolato né una semplice risposta legata alle ultime mosse statunitensi su Taiwan. È, piuttosto, l’ennesima manifestazione di una trasformazione profonda e strutturale della postura strategica cinese, che intreccia la questione taiwanese con l’ascesa della Cina come potenza militare globale e con una concezione sempre più forte della propria sovranità.

Dal punto di vista di Pechino, Taiwan non rappresenta un dossier tra i tanti, ma il nodo simbolico e politico più sensibile dell’intero processo di rinascita nazionale. La leadership cinese considera la separazione dell’isola come una diretta eredità della guerra civile e dell’interferenza esterna nel secondo dopoguerra, non come una scelta autodeterminata legittimata dal diritto internazionale. In questa cornice, ogni atto che rafforzi il profilo politico-militare di Taipei, in particolare attraverso forniture di armamenti statunitensi, viene giustamente denunciato come un attacco diretto all’integrità territoriale e alla sicurezza nazionale della Repubblica Popolare Cinese.

Le manovre militari avviate attorno all’isola si inseriscono esattamente in questa logica. La loro estensione geografica, che abbraccia lo Stretto di Taiwan e le aree circostanti su tutti i quadranti, e la partecipazione congiunta di forze terrestri, navali, aeree e missilistiche indicano un livello di pianificazione che va ben oltre la dimostrazione di forza. L’obiettivo è simulare un ambiente operativo completo, in cui il controllo dello spazio marittimo e aereo, il blocco delle infrastrutture portuali e la neutralizzazione di obiettivi mobili diventano elementi di un’unica architettura di pressione. Dal punto di vista cinese, si tratta di mostrare che qualsiasi ipotesi di resistenza armata o di intervento esterno sarebbe affrontata con una capacità di risposta rapida, integrata e multilivello.

La Cina evidenzia il carattere “legittimo e necessario” di queste esercitazioni, presentandole come una misura difensiva volta a scoraggiare il separatismo e l’ingerenza straniera. È una posizione che riflette una visione del diritto internazionale centrata sulla sovranità statale e sull’inviolabilità territoriale, principi che Pechino considera sistematicamente erosi dall’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti. In questo senso, Taiwan diventa anche il terreno su cui la Cina contesta l’idea occidentale di intervento “a tutela della democrazia”, contrapponendovi una lettura westfaliana delle relazioni internazionali.

Sul piano operativo, “Justice Mission 2025” evidenzia un’evoluzione significativa della dottrina militare cinese. Le simulazioni di attacchi di precisione contro obiettivi terrestri mobili, condotte con l’impiego coordinato di caccia, bombardieri, droni e missili a lungo raggio, rispondono a una chiara esigenza: neutralizzare rapidamente le capacità offensive di Taiwan, incluse quelle acquisite dall’estero, prima che possano essere efficacemente impiegate. La dimensione della cosiddetta “decapitation strike”, evocata da analisti militari cinesi, segnala inoltre la volontà di colpire non solo le strutture materiali, ma anche i centri simbolici e decisionali del fronte secessionista, riducendo al minimo i tempi di escalation.

A completare il quadro interviene l’azione della Guardia Costiera cinese, impegnata in pattugliamenti e operazioni di applicazione della legge (law enforcement) attorno all’isola. Anche qui il messaggio è duplice. Da un lato, Pechino intende normalizzare la propria presenza nelle acque che considera giuridicamente proprie, spostando la linea di demarcazione tra attività militare e applicazione del diritto interno. Dall’altro, l’uso di una comunicazione fortemente simbolica, come l’illustrazione del “nodo cinese” che circonda Taiwan, serve a rafforzare l’idea di una riunificazione non solo politica, ma anche storica e culturale, presentata come inevitabile e persino naturale.

Questi sviluppi regionali si inseriscono in un contesto internazionale molto più ampio, che riguarda l’ascesa della Cina come attore militare globale. La recente diffusione di immagini televisive relative a simulazioni di guerra del PLA in teatri lontani, come il Golfo del Messico, i Caraibi o il Mare di Ochotsk, rappresenta una rottura significativa con la tradizionale riservatezza cinese. Mostrare mappe operative che includono aree considerate parte della sfera strategica statunitense equivale a un messaggio politico preciso: la Cina non si limita più a difendere i propri confini immediati, ma pianifica scenari di conflitto su scala planetaria.

Questa evoluzione è il risultato di decenni di investimenti nella modernizzazione delle forze armate, nell’integrazione dei domini operativo-territoriali e nello sviluppo di sistemi di simulazione avanzati, basati su intelligenza artificiale e modelli in tempo reale. L’obiettivo dichiarato è addestrare comandanti e unità a gestire conflitti complessi senza dover ricorrere al combattimento reale, ma l’effetto politico di queste rivelazioni è altrettanto importante: segnalare che la Cina si percepisce, e vuole essere percepita, come una potenza militare pari agli Stati Uniti, capace di pensare e agire su più teatri simultaneamente.

In questa prospettiva, Taiwan resta il fulcro di una competizione strategica che va ben oltre l’isola stessa. Per Pechino, il controllo di Taiwan non è solo una questione di sovranità incompiuta, ma un passaggio cruciale per rompere il contenimento strategico nel Pacifico occidentale e consolidare il proprio status di grande potenza. Le esercitazioni “Justice Mission 2025” delineano con sempre maggiore chiarezza il perimetro di uno scontro possibile, in cui la Cina intende arrivare preparata, forte di una superiorità regionale e di una crescente proiezione globale nel campo della difesa.

 

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 16:48:00 GMT
Cultura e Resistenza
Emanuele Severino, sottosuolo filosofico, tecnica e guerra


di Diego Angelo Bertozzi

Non solo un gigante della filosofia, ma anche un acuto osservatore della realtà politica nazionale e internazionale: Emanuele Severino (1929-2020) è stato in grado di declinare il suo originale, e non certo semplice, pensiero filosofico in un linguaggio giornalistico chiaro, coerente e comprensibile. Il libro di Paolo Barbieri Emanuele Severino giornalista (Morcelliana, 2025) riprende e ripercorre con puntualità e rigore, tenendo insieme apparato filosofico e analisi della realtà politica, sociale e culturale, l'imponente e originale attività giornalistica del filosofo bresciano. Forse oggi un impegno poco conosciuto, o forse tenuto debitamente ai margini perché certamente non sostenibile e "digeribile" in un contesto di analisi politica e culturale alimentata da sterili contrapposizioni politiche e ideologiche ormai sterili, come quella, giusto per fare un esempio, tra occidente democratico e oriente autoritario; tuttavia ci troviamo di fronte - anche se ancorate in gran parte al periodo della guerra fredda, con il duumvirato Usa-Urss, e al crollo del socialismo reale - a un corpus critico che merita l'emersione nel pubblico dibattita dal sottosuolo nel quale è relegato quasi fosse uno specchio in grado di rivelare, senza nascondimenti, la menzogna delle nostre verità e di rivelare la trappola del nichilismo che inesorabilmente ci avvinghia.

Fin dal suo primo articolo sul quotidiano Bresciaoggi (1 giugno 1974), dedicato alle motivazioni interne e internazionali della strage di Piazza della Loggia a Brescia, Severino ha sempre guardato alle tragedie, e in generale all'attualità, del nostro Paese attraverso il filtro dei rapporti internazionali, caratterizzati in gran parte dal "duumvirato Stati Uniti-Unione Sovietica, vale a dire dal duopolio della potenza tecnica di distruzione planetaria, e successivamente dal crollo dell'Urss e dell'affacciarsi del terrorismo di matrice islamica. Barbieri riesce bene nel proposito di tenere insieme e rendere comprensibile la trama di un pensiero filosofico complesso, tutt'altro che agevole da affrontare, ma perfettamente in grado di analizzare il presente traendo fonte da quello greco (a partire da Parmenide) e che intravede nel dominio planetario dell'Apparato tecnico-scientifico l'ineludibile sbocco di una storia millenaria della riflessione occidentale; di un sottosuolo filosofico del quale non abbiamo piena coscienza: quel nichilismo ("estrema follia") che assimila ogni ente, ogni cosa, al nulla, rendendoli disponibili alla distruzione e al totale annientamento. Qui trova radice la guerra quale "levatrice e becchino delle civiltà" perché le cose come intese durante larghissima parte della storia dell'occidente risultano disponibili "all'essere e al niente" e proprio per questa situazione di oscillazione ontologica tra i due poli (essere e nulla) di ogni cosa "sorge la volontà di dominarla e di produrla e di distruggerla". Così intese, le cose sono oggetto della volontà di potenza e rendono possibile ogni azione e ogni forma estrema di dominio.

Soffermiamoci - visti anche la natura e gli interessi della nostra testata - sul sesto capitolo del libro di Barbieri perché ha un'importanza cruciale nel delineare le riflessioni del filosofo bresciano ed esprimerne la piena attualità di fronte allo sviluppo sempre più accelerato dell'Apparato tecnico-scientifico. Ci immergiamo in quel sottofondo filosofico che ha reso possibile la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche, vale a dire di ogni tradizione, religione, ideologia, valore (anche estetico) che hanno preteso  - e in parte ancora pretendono - di porre dei limiti, una cornice prestabilita (come le possenti colonne di un tempio) al divenire delle cose, per trovare riparo dall'angoscia della morte e dell'annientamento. La fede/follia nel divenire altro delle cose è ciò su cui si regge la prassi della tecnica e del suo continuo sviluppo: utilizzata come mezzo dalle varie forze/forme della tradizione che si pretendono come immutabili (l'autore esamina nello specifico capitalismo, marxismo e cristianesimo) e che sono fra di loro in competizione per prevalere, la tecnica, una volta ingaggiata nella battaglia non può tollerare alcun limite, morale o politico che sia, pena il suo deperimento e conseguente sconfitta dell'immutabile che serve. Per evitare questo, il dio, l'ordine capitalistico e la costruzione della società socialista decadono perché, per prevalere, non possono porre alcun limite allo sviluppo della tecnica tanto da retrocedere via via alla condizione di mezzi di questa. L'esempio riportato da Severino è quello del socialismo sovietico, crollato proprio perché impalcatura politica e valoriale troppo pesante. Il rapporto tra servo e padrone di hegeliana memoria si ribalta lungo un tragitto già tracciato, scolpito nelle stanze antiche in cui dimora la tradizione filosofica occidentale. La guerra di oggi - pensiamo a quella in Ucraina tra Russia e Nato - diventa così, pur nella sua quotidiana drammaticità, un fronte secondario (una forma in via di estinzione) del conflitto generale ingaggiato dall'apparato tecnico scientifico contro ogni forma di tradizione; lo sviluppo di nuove armi, l'uso dell'intelligenza artificiale ne alimentano forza e pretese.



Barbieri, in ultimo, rende omaggio nel modo migliore a Severino; lo fa a detrimento di tutti coloro che danno per morta la filosofia, perché sconfitta dalla volontà di potenza delle varie scienze specialistiche. Invece proprio a questa bistrattata "ancilla" si deve ricorrere per comprendere che quest'ultime poggiano la loro vittoria da un originario sottosuolo filosofico. Non solo: la figura di Severino, efficacemente illustrata nel libro, è esempio cristallino della capacità del pensiero filosofico rigoroso di confrontarsi con tutte le contraddizioni che attraversano la nostra società; di farsi radicale confronto con il fondamento del nostro vivere quotidiano.

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 16:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Un Crosetto è per sempre


di Marco Trionfale*

Fino a qualche giorno fa, per mia negligenza, non avevo nessuna idea su che persona fosse Guido Crosetto. Sentivo dire in giro fosse uno dei migliori della variopinta compagnia Meloni. Così quando ho saputo di una sua intervista concessa a Marco Travaglio, dunque non al solito clone VespaMentana, l’ho guardata per cercare di capire.
E qualcosa ho capito, almeno credo.

Ho notato che Crosetto ha puntualizzato, due volte, di essere una persona razionale; che è un po’ come affermare: “Sono un essere umano”. Sarà che è abituato a trattare con persone non razionali? Che in passato qualcuno lo ha accusato di non esserlo? Bah, mi sono detto, capirò più avanti.

A un certo punto dell’intervista Crosetto, ministro della Difesa, si lascia andare a questo spericolato parallelismo: “Non è che gli Usa stiano abbandonando l’Europa, è che, come un buon padre di famiglia, stanno dicendo al figlio ormai grande: ti ho mantenuto fino ad ora, ti ho protetto, adesso cammina con le tue gambe”.

Una visione del mondo allegra e spensierata. Mi ha fatto ripensare ai tempi in cui Silvio, il fu capocomico della compagnia, raccomandava di trattare gli elettori come alunni di quarta elementare, “E non fatta nel primo banco”, aggiungeva per consolidare la sua fama di mattacchione.

Quando il giornalista gli ha fatto notare che non è esattamente la stessa cosa, che gli Usa hanno avuto il loro tornaconto dal loro ruolo di protettori, l’uomo razionale ha risposto: “Si va be’, ma sempre meglio che stare sotto l’ombrello dell’Urss o della Cina!”.

Che è un po’ come sostenere A, e quando ti vien fatto notare che A è falso, tu rispondi: “Sempre meglio di B”. Un non sense. E mentre Travaglio pensava a come riallacciare i fili della logica, il buon Crosetto, ridendo, era già passato ad altro.

Questo non sense mi ricordava qualcosa. Ci ho pensato un po’ su, e mi è venuto in mente.

Ricordate la scena del treno con Totò e l’onorevole Cosimo Trombetta? Questi prova a instaurare un dialogo con il compagno di scompartimento, il quale gli mette costantemente le mani addosso, finché l’onorevole non sbotta: “Ma insomma, la pianti di toccarmi!”. E l’altro: “Si va be’, io tocco; ma perché lei fa il ritocco?”
E approfittando dello sbigottimento dell’onorevole, Totò cambia rapidamente discorso e prosegue con altre facezie. Dal punto di vista scenico è lui quello che ha vinto. 
Ma possibile che un ministro della difesa della Repubblica Italiana usi il trucchetto del ritocco come Totò?

Parrebbe di sì. In un’altra occasione Crosetto se ne esce con la strabiliante dichiarazione che la Nato non ha mai aggredito nessuno. Il giornalista aggrappandosi disperatamente alla realtà, gli fa notare che ha aggredito Serbia, Iraq e Libia. Ne segue questo brevissimo botta e risposta:
-  La Nato è intervenuta sulla base di risoluzioni -
– Contro le risoluzioni! – 
- Sulla base di risol… vabbè comunque l’hanno fatto perché non c’era il ministro della difesa Crosetto. -  
Applausi e risate.
Evvai di ritocco!

In un’ennesima occasione per dimostrare che la Nato non si è mai espansa verso est, ha asserito con forza che la Svezia ci ha messo due anni e mezzo per essere ammessa. E quindi? Un altro non sense.

Ma allora, mi sono chiesto non volendo dubitare delle affermazioni di un ministro sulla propria razionalità, non sarà che anche l’uso del ritocco e dei non sense sia per lui un esercizio di razionalità?

In quale caso dichiarazioni senza senso possono essere ritenute razionali? Be’, ad esempio quando si vuole convincere qualcuno.

È quello che fa Totò nella scena in cui vende la fontana di Trevi: racconta un sacco di cose non proprio verissime al fine di convincere il malcapitato a comprare.
Ma cosa mai potrebbe volerci vendere Guido Crosetto?

Sì, lo so, viene spontaneo rispondere armi. Eppure non può essere.

Perché durante l’intervista ha affermato, lasciando capire che da ministro ha accesso a informazioni che noi comuni mortali non abbiamo, che la Russia per conquistare l’1,5% del territorio ucraino ha perso, negli ultimi tre anni, un milione e centomila uomini. 

E attualmente ha un esercito di un milione e mezzo di uomini.

La direste mai una cosa così, se voleste convincere qualcuno a comprare armi per difendersi dalla Russia? Non è razionale.

Io, che sono leggermente autistico, ho fatto i conti: mantenendo le proporzioni, per conquistare l’Italia, la Russia perderebbe 33 milioni di uomini; per la sola Lombardia 3 milioni di uomini. Certo se si accontentasse della Romagna (ai russi Rimini è sempre piaciuta) ne perderebbe soltanto 800.000. Pordenone, se uno si accontenta, viene via con meno di 5000 uomini.

Ma se volesse conquistare l’intera Unione Europea perderebbe 470 milioni di uomini. Milione più, milione meno.

Quindi dalle parole del nostro ministro della difesa si deduce che la Russia non è un pericolo serio, non ha nessuna interesse ad attaccarci e non ha senso perseguire chissà quale aumento delle spese militari per difendersi da una minaccia così remota.

E quindi, di nuovo, cosa vuole venderci Crosetto?

Non riuscivo a capire.

Poi mi sono concentrato sul pronome maledetto: io.

Ripercorrendo l’intervista ho contato una miriade di io: io ho detto, io ho convinto, io ho sempre sostenuto, io non avrei mai fatto…e lì mi è preso lo sconforto.
Ecco allora, meschinamente, a cosa servivano il ritocco, i non sense, le battutine: a dare una bella immagine di sé, ad apparire vincente in un dibattito, contando sulla semplicità di un pubblico per il quale, quando si assiste a uno spettacolo, alla fin fine, quel che conta è divertirsi.

In conclusione quindi, quel che temo d’aver capito è che, in questo mondo di perenni adolescenti afflitti da narcisismo patologico, solo questo voleva venderci il ministro: un Crosetto. 

P.S. Marco Trionfale, dopo acceso dibattito interiore, diffida se stesso per i secoli venturi dall’accostare in alcun modo il nome di Totò a quello di Guido Crosetto.

*Marco Trionfale, ovvero Mirta Contessi, Franco Costantini e Leonardo Fedriga, hanno appena pubblicato per le edizioni de l’AntiDiplomatico due romanzi comunisti: “Albeggerà al tramonto” e il suo seguito “Il tempo del secondo sole”. Sono le storie un po’ sgangherate dell’impegno sociale di un gruppo di anziani, che decidono sia giunto il momento di ribellarsi al potere costituito, sempre più impudente e corrotto, riscoprendo la voglia di lottare per la propria e la nostra libertà. Merco Trionfale scrive del tempo maledettamente reale, e nello stesso tempo surreale e travolgente in cui viviamo, con echi della fantasia di Stefano Benni, del sarcasmo atroce di Daniel Pennac, del realismo magico di Tullio Avoledo, con le note sgangherate dei Leningrad Cowboys e qualche personaggio che assomiglia fin troppo ai leader in “Libera Baku Ora”.

 

ALBEGGERA’ AL TRAMONTO

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:53:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Appello urgente al presidente ucraino per il rispetto delle norme UE sui diritti umani e la libertà religiosa nel caso del Metropolita Arseny


di Eliseo Bertolasi

Come riferito dall’ufficio stampa dell’Unione dei giornalisti ortodossi, il tribunale distrettuale di Chechelovsky di Dnipro, in Ucraina, ha prorogato fino al 3 febbraio 2026 la custodia cautelare del metropolita Arseniy (Yakovenko), abate della Lavra di Svyatogorsk della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica. Di fatto, il provvedimento prolunga il “Calvario” giudiziario del religioso, ancora in cella e senza accesso alle necessarie cure salvavita. Inquietanti anche le immagini che ritraggono il metropolita condotto in tribunale ammanettato come un pericoloso criminale scortato da quattro agenti di sicurezza.

I dettagli della vicenda sono stati da poco riportati anche da l’AntiDiplomatico.

Il clamore di questo particolare caso giudiziario, ormai uscito dai confini dell’Ucraina, ha destato l’attenzione dell’Associazione Libera-mente Umani (ALU), organizzazione apartitica e senza scopo di lucro con sede a Lugano, Svizzera, impegnata nella tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che si è prontamente attivata rivolgendo un appello urgente al presidente ucraino Zelensky: 

Portiamo alla Sua attenzione il caso del Metropolita Arseny (Igor Fedorovich Yakovenko), abate del Monastero della Santa Dormizione di Svyatogorsk della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica, detenuto dal aprile 2024 in un centro di detenzione preventiva a Dnipro. Il Metropolita è accusato di collaborazionismo e divulgazione di informazioni sulle forze armate ucraine, basate principalmente su un sermone del settembre 2023 in cui ha menzionato posti di blocco che impedivano l’accesso al monastero durante i combattimenti. Egli ha negato le imputazioni e ha scelto di rimanere nel monastero per assistere monaci e rifugiati, nonostante i rischi. Il 29 ottobre 2025, un tribunale ha concesso gli arresti domiciliari per un intervento chirurgico cardiaco urgente, riconoscendo l’incompatibilità delle condizioni detentive con la sua salute. Tuttavia, è stato immediatamente di nuovo arrestato dal Servizio di Sicurezza Ucraino (SBU) con nuove accuse (giustificazione dell’aggressione russa e rivelazione di posizioni militari). L’ultima udienza del 6 dicembre 2025 presso il Tribunale Distrettuale di Chechelovsky a Dnipro ha esteso la detenzione preventiva fino al 3 febbraio 2026, nonostante le gravi condizioni di salute (crisi ipertensive in aula, necessità di cure immediate) e le richieste di misure alternative avanzate dalla difesa e da nove deputati ucraini. Queste circostanze sollevano seri interrogativi sul rispetto dei diritti umani, inclusa la libertà religiosa e di coscienza, garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articoli 1,2, 3,5,6, 9 e 10), a cui l’Ucraina aderisce come membro del Consiglio d’Europa. Inoltre, come Paese candidato all’UE, l’Ucraina è tenuta a conformarsi ai criteri di Copenaghen, che richiedono il rispetto della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, inclusa la protezione delle minoranze religiose e l’accesso a un processo equo. Il Metropolita Arseny, un uomo anziano con problemi cardiaci gravi, rappresenta un simbolo della Chiesa Ortodossa Ucraina canonica. Il suo caso ha suscitato preoccupazione internazionale, inclusi appelli da parte di gerarchie della Chiesa Ortodossa, deputati ucraini, attivisti per i diritti umani e recenti manifestazioni negli Stati Uniti (16 dicembre 2025) che chiedono la sua liberazione immediata e la revoca di leggi percepite come repressive nei confronti della Chiesa canonica. L’Associazione ALU Le chiede rispettosamente di intervenire affinché: Sia garantito al Metropolita Arseny l’accesso immediato alle cure mediche necessarie, inclusa l’operazione cardiaca urgente;
Sia rivisto il suo caso in conformità con gli standard internazionali di giustizia equa e imparziale;
Sia rispettata la libertà religiosa e di espressione, evitando misure che possano essere percepite come discriminatorie nei confronti della Chiesa Ortodossa Ucraina.
Crediamo fermamente che azioni in questa direzione rafforzerebbero l’impegno dell’Ucraina verso i valori europei e contribuirebbero a una risoluzione pacifica delle tensioni interne. Siamo disponibili a fornire ulteriori informazioni o a dialogare su questo tema. La ringraziamo per l’attenzione e confidiamo in una Sua risposta positiva. Cordiali saluti, Avv. Francesco Scifo

L’avvocato Scifo contattato telefonicamente ha confermato che il ricorso è già stato registrato dall’Ufficio del Presidente. 

In passato l’avvocato Scifo con il team di ALU si era già occupato con successo di due casi delicati, sempre nel contesto ucraino: 

- la liberazione-scambio del prigioniero di guerra russo Denis Reznikov detenuto e torturato nelle carceri ucraine (14 agosto 2025);

- il trasferimento agli arresti domiciliari dell’avvocata attivista ucraina Elena Berezhnaja rilasciata dalle carceri di Kiev dopo oltre 3 anni di reclusione (27 giugno 2025).

Ora si auspica che anche il metropolita Arseny possa essere quanto prima rilasciato per accedere alle cure salvavita di cui necessita e per tornare tra i tanti fedeli che lo aspettano e lo sostengono con la preghiera.

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https://alu-associazioneliberamenteumani.com/2025/12/22/appello-urgente-al-presidente-della-repubblica-ucraina-per-il-rispetto-delle-norme-ue-sui-diritti-umani-e-la-liberta-religiosa-nel-caso-del-metropolita-arseny-igor-yakovenko/

 

https://www.kommersant.ru/doc/8269156

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:24:00 GMT
L'Intervista
“La giustizia è il karma della storia: la mia parola non si arrende al fascismo”. Intervista esclusiva a Tarek William Saab, Procuratore generale del Venezuela


di Geraldina Colotti 

 

Brandisce versi e tatuaggi, gli occhi neri come dardi, e s'infiamma parlando di giustizia e di poesia. In Tarek William Saab (nato a El Tigre nel 1962) sembra convivere la tensione morale di un Saint-Just - l'angelo della Rivoluzione francese che non ammetteva macchie sull'ideale di virtù - e la ricerca spirituale dei personaggi di Hermann Hesse. Con 45 anni di vita letteraria alle spalle, Saab è una voce unica nel panorama lirico castigliano, capace di abitare il limite tra la carne e lo spirito.

Avvocato specializzato in Diritti umani e attuale Procuratore generale della repubblica, ha costruito un percorso intellettuale che conta 17 libri pubblicati — tra cui Los Ríos de la Ira (1987), Cielo a Media Asta (2000) e il recente Un Tren Viaja al Cielo de la Medianoche (2025) — per un totale di 36 edizioni internazionali in paesi come Russia, Cina, Egitto e Italia.

La sua opera, definita da Hugo Chávez come "vibrante, profonda e patriota" e da Juan Liscano come un "riscatto della teologia rivoluzionaria", si è fatta cronaca viva in Los Niños del Infortunio (2006), scritto in Pakistan e con l'ammirazione di Fidel Castro. Pluripremiato a livello internazionale, Saab redime il ruolo della "parola insurgente", trasformando la sua militanza, di ascendenza araba, in una dottrina di salvezza che fonde etica e lirica nel cuore della tempesta venezuelana.

Ma Saab è, prima di tutto, un figlio della "Patria Grande". La sua voce si inserisce in quel solco profondo tracciato da José Martí, dove la parola è al servizio della libertà, e da Roque Dalton, che della poesia fece un’arma di guerriglia contro l'ingiustizia. C’è in lui l’eco della "poetica del fango e della gloria" di un Víctor Valera Mora, quel sentire venezuelano che sa essere viscerale e al tempo stesso colto, ribelle e profondamente radicato nel paesaggio.

Per Saab, la "giustizia poetica" non è una metafora, ma una prassi. Se Saint-Just scriveva che "non si può regnare innocentemente", Saab risponde con una legalità che è anche riparazione etica, un "karma" che trasforma la sentenza in un atto di difesa della sovranità contro l’assedio imperiale. In questo incontro, commento ai suoi quarant'anni di opera poetica culminati in Soñando el Largo Viaje, il Procuratore Generale si sveste della toga per mostrare la carne viva di chi ha attraversato il fascismo del 2002 e la resilienza di chi vede nella cultura l’ultima linea di difesa contro la barbarie.

Questa immagine di lei come un "giacobino bolivariano" che recita Martí e Roque Dalton affascina anche l’Europa. Lei brandisce versi e s'infiamma per la giustizia. In questo presente di aggressione multiforme, come convivono in Tarek William Saab il rigore del Procuratore e la libertà del poeta?

Credo che la coerenza sia l'unico ponte possibile tra la legge e l'anima. Come per Martí, per me il dovere è un altare su cui si sacrifica tutto, ma è la poesia a dare il respiro necessario per non soccombere alla durezza del conflitto. La mia voce poetica è nutrita dalla stessa sete di giustizia che muoveva Roque Dalton: l'idea che la poesia debba essere come il pane, per tutti e tutte. Nella mia antologia Soñando el Largo Viaje noterà che il tono si è fatto più decantato, ma la passione è la stessa di quando leggevo i classici o quando scrivevo tra le montagne dell'Himalaya. Come diceva il nostro "Chino" Valera Mora, noi siamo fatti di questa materia: una ribellione che non accetta compromessi, ma che cerca sempre il lirismo per poter durare oltre il tempo della battaglia.

Veniamo alla battaglia politica. Lei ha denunciato con forza il ritorno di un’estrema destra "neofascista" dopo le elezioni del luglio 2024. Quali casi emblematici hanno segnato l'azione del Ministero Pubblico in questo senso?

Quella che affrontiamo oggi è una fazione transnazionale che usa l'odio e la tecnologia come armi. Il Ministero Pubblico è stato l'argine contro i piani dei settori più estremisti. Abbiamo perseguito crimini d'odio atroci durante le cosiddette "guarimbas cibernetiche". Un caso decisivo è stato lo smantellamento dell'operazione Brazalete Blanco, un piano per l'omicidio del presidente e assalto alle caserme. Abbiamo anche ottenuto sentenze storiche contro il sabotaggio elettrico. Per noi la giustizia non è vendetta, ma l'unica garanzia affinché il fascismo non diventi la norma.

Eppure Washington continua a parlare di "persecuzione politica" mentre stringe il cappio delle sanzioni. Qual è la sua risposta a questo assedio multiforme?

È un'ipocrisia totale. L'aggressione degli Stati uniti è una violazione massiccia dei diritti umani. Le loro "sanzioni" sono misure coercitive unilaterali volte a provocare morte. Il Ministero Pubblico documenta questo impatto devastante ogni giorno; per noi sono crimini di lesa umanità. L'aggressione si manifesta anche nel furto di beni come CITGO o del nostro oro a Londra. Di fronte a questo, la nostra risposta è la "Giustizia Sovrana": non permetteremo che una potenza straniera utilizzi la fame come arma di ricatto politico.

Stiamo chiudendo questo 2025 sotto una delle fasi più aggressive della cosiddetta "guerra ibrida". L'amministrazione statunitense è arrivata a utilizzare metodi di pirateria internazionale per tentare di appropriarsi del petrolio venezuelano e ha promosso il terrorismo con la scusa della lotta al narcotraffico nei Caraibi. Come analizza lei questo assedio che mira al controllo delle risorse e del territorio del Venezuela?

Siamo di fronte a una delle fasi più terribili della guerra ibrida. L'amministrazione Trump non ha risparmiato sforzi nel promuovere il terrorismo internazionale per uccidere innocenti nel Mar Caraibico, usando la falsa scusa della lotta al narcotraffico. È un'infamia: il Venezuela non è un paese produttore né trafficante. Il 95% della droga che arriva negli Stati Uniti proviene dalla costa del Pacifico, da paesi come la Colombia o il Perù, a migliaia di chilometri dalle nostre coste. Noi siamo solo un paese di transito marginale, meno del 5%, e la nostra lotta è implacabile con sequestri record. In realtà, usano la paura e il terrorismo, violando tutte le dichiarazioni dell'ONU, per rovesciare il governo legittimo del presidente Nicolás Maduro. È pirateria del XXI secolo per rubare il nostro petrolio, ma il mondo, con la Russia, la Cina e il Consiglio di Sicurezza, sta già reagendo contro questa politica senza precedenti. Il Venezuela è oggi l'avanguardia mondiale e il presidente Maduro si consolida come un leader globale che ispira i popoli nella loro lotta per la liberazione.

Questa sua fermezza nasce anche dal 2002, quando vide il fascismo in faccia. Cosa le ha lasciato quel sequestro nell'Helicoide?

Il 12 aprile 2002 fui a un passo dall'essere assassinato. Nonostante l'immunità parlamentare, mi tirarono fuori di casa con la forza e mi colpirono con i fucili fino a farmi svenire. Mi accusarono falsamente di trafficare armi, quando in realtà erano solo scatole dei miei libri. Fui tenuto nei sotterranei della DISIP senza cibo per due giorni. Una volta libero, paradossalmente, dovetti pagare dieci arepas ai miei stessi sequestratori che avevano fame! Ma tornai subito a Miraflores per accogliere Chávez. Vederlo tornare fu la conferma del "karma positivo": la lealtà vince sempre.

In questa lotta, lei cita spesso la sua anima buddista e la filosofia di Hermann Hesse. Come la aiutano a governare il Ministero?

Mi sono adattato a questa filosofia perché tutto ciò che accade ha a che fare con il Dharma e il Samsara. Il poeta ha un'anima empatica; se non fossi stato così fin da bambino, non potrei essere il rivoluzionario che sono. La mia militanza non è fredda, è organica. Contro la "guerra cognitiva" che cerca di alienare i giovani, noi opponiamo la cultura e la disciplina. Come quando Fidel mi mandò in Pakistan nel dicembre del 2005: scrissi Los Niños del Infortunio dettandolo in otto notti. È la parola che si fa azione, la lealtà alla storia che ci permette di camminare a testa alta.

Data articolo: Mon, 29 Dec 2025 15:11:00 GMT