Oggi è Giovedi' 18/09/2025 e sono le ore 10:14:16
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Giovedi' 18/09/2025 e sono le ore 10:14:16
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
#news #antidiplomatico
di Mjriam Abu Samra*
“Che si fa?” “Siete bravi a criticare, ma poi, che si fa? Non mi pare che sappiate fare meglio.” Non mi ero mai accorta, veramente, della gravità di queste reazioni. Anzi. D’istinto mi viene, solitamente, quasi di giustificare, di trovare immediatamente la risposta. Mi parte la tachicardia se non ce l’ho sulla punta della lingua. Non è un "che si fa?" genuino, come quello costruttivo che ci si chiede, collettivamente, tra militanti, sui territori, quando si discute insieme per immaginare strategie di mobilitazione o anche per confrontarsi positivamente con critiche e crisi che vanno affrontate. Questo è un "che si fa?" diverso, che viene posto spesso da una classe intellettuale "progressista" ma che resta neoliberale negli approcci, ancora incapaci di radicarsi davvero tra le masse. È un "che si fa?" che sembrerebbe quasi ingenuo ma che è invece accusatorio.
Non si possono criticare le metodologie della solidarietà neoliberale perché si viene immediatamente incalzati: “Che fate voi di meglio? Criticate queste iniziative ma allora che si fa?”
Riflettendo su quante volte in questi giorni io e tanti altri siamo stati contestati in questo modo, mi rendo conto ora di come questa domanda (ma anche la reazione d’ansia che mi provoca) sia l’ennesima espressione della cultura autoassolutoria che ormai domina l’approccio generale alle problematiche sociali (magari solo alla Palestina!). Relegare agli altri la responsabilità di creare, trasformare, aggiustare le falle del sistema politico. Così come si esternalizza la solidarietà identificandosi con quelle immagini eroiche di "chi ha il coraggio dell'azione spettacolare di rottura", si esternalizza anche la responsabilità di individuarne i limiti; anzi, la si rigetta per poter continuare a crogiolarsi nell’idea che “la solidarietà con la solidarietà” sia tutto ciò che si può fare, e che ci appaga, ci soddisfa; estingue ogni altra forma di ingaggio che invece potrebbe esserci.
E proprio per questo, la solidarietà-con-la-solidarietà non va solo giustificata e difesa dalle critiche: si passa al contrattacco, all’accusa verso chi evidenzia potenziali limiti dell’approccio, si accusa di “criticare per criticare” senza saper proporre alternative, di distruggere per il gusto del disfare, del remare contro, del pontificare radical-chic e intellettualoide di chi non sa invece comprendere il sentimento popolare. E incalza la domanda: “E allora tu che fai? Che si fa?” Come se questa fosse una domanda legittima! Come se davvero dovessero essere gli altri a dare questa risposta.
Di nuovo, ancora, convintamente, si delega e, anzi, ci si aspetta — con arrogante indignazione — una risposta esterna che non ci vede parte dell’equazione, che non considera il nostro ruolo come quello di soggetto protagonista, creativo, pensante, responsabile di elaborazione, ma solo come, ancora, sempre, spettatore, fruitore. Spettatore a cui va indicata la strada. Ed è responsabilità altrui se quella strada non si trova.
E questo è, nuovamente, dimostrazione di quanto il sistema abbia già cooptato, annichilito la società. Ha abituato tutti ad aspettare, pretendere e quindi anche godere, paradossalmente, di risposte e decisioni che vengono dall’alto, senza pensare, senza riflettere, senza neanche opporsi, appunto, qualora non si rivelassero effettivamente vantaggiose o genuinamente nell’interesse della società, della persona. E quindi anche il cambiamento non è più responsabilità nostra, condivisa, collettiva. È qualcosa che ci deve essere indicato.
Ma non solo: deve essere presentato bello e pronto. Non si accetta neanche più l’idea della decostruzione, del tempo dell’analisi necessario a comprendere come e da dove ripartire. L’analisi è superflua, è esercizio intellettuale rifiutato, svilito, neutralizzato nel paradossale ricorso alla narrativa dell’“immobilità” del contro-producente criticismo sterile. L’analisi, la decostruzione — per essere più chiari, l’esercizio del pensiero, del pensare — vengono interpretati come ostacoli alla fattualità, non come le basi su cui costruire insieme una prassi che sia coerente con la realtà, con obiettivi ben identificati, chiariti, condivisi ed effettivamente trasformativi.
È la vittoria del pensiero neoliberale e capitalista anche nella produzione intellettuale e nella concezione del politico: consumismo appagante nella dinamica del “tutto e subito”. Guardiamo alle idee e alla mobilitazione come quando si sta al ristorante: si ordina il menù del giorno, che indica le opzioni possibili e le presenta tutte succulente, e ci si aspetta di vedersi serviti tutto e subito; e i camerieri che si affrettano ad assicurare che il servizio sia efficiente.
Ecco l’altro paradosso: “Che si fa?” E io ho la tachicardia perché so che, se non rispondo — e non rispondo con una strategia che sia accettabile, facilmente comprensibile, capace di presentarsi come appagante, facile da mettere in atto, spettacolare negli obiettivi — verrò additata come quella che non si accontenta, come quella che rema contro. E quasi mi preparo a scusarmi. Anche io, assuefatta a quell’egemonia neoliberale in cui la passività è accettata come indiscutibile realtà, e chi si muove, chi interagisce, interviene, è un’eccezione. E proprio per questo, anche quando ci si muove male, in effetti, bisognerebbe risparmiarsi la critica, bisognerebbe ringraziare. È un circolo vizioso. A cui è difficile sfuggire. E rischi allora di internalizzare il colonialismo, ringraziando la società civilizzatrice e le sue pratiche di solidarietà neoliberale perché troppo debole per rivendicare che, forse no, forse non devo rispondere io — pronta, automatica, decisa — al “che si fa”, come un distributore ATM.
Che si fa? Beh, innanzitutto, si prende consapevolezza di non essere spettatori, di avere una responsabilità storica — e sempre più impellente — di sforzarci tutti di rispondere a questa domanda, di farla a noi stessi e riportarla nella collettività invece che esternalizzarla, di porla da fuori come se non ci riguardasse ma la risposta ci fosse dovuta da altri. Forse bisognerebbe partire dal concepire l’analisi, anche quella che presenta la critica spietata, come momento fondante del processo costruttivo che identifica le falle e si prepara a immaginare nuovi mondi.
Forse questo ci permetterebbe di non aver bisogno di eroi che ci somigliano, di non restare chiusi in un eurocentrismo, un provincialismo che finisce per riprodurre narrative e rapporti coloniali e per soddisfare il sogno esotico del salvatore bianco, del Che Guevara politically correct, integrabile nella concezione rassicurante della retorica pacifista e del dissenso non violento che ci eleva a civilizzazione dai valori superiori e universali; e che riduce “i salvati e i salvabili” a tenersi le critiche e ringraziare amaramente.
Ghassan Kanafani ci ha insegnato il romanticismo rivoluzionario. Ci ha regalato il sogno di una rivoluzione che, per essere tale, non può che essere romantica nella sua ambizione al tutto che è la liberazione. E per quel sogno, per quell’insegnamento, io non mi accontento, e continuo a “decostruire”, a “criticare”.
Soprattutto non accetto di accontentarmi dei luccichii che abbagliano e, prendendo di più della solidarietà, pretendo l’alleanza nella lotta, la presa di coscienza che ci vuole tutti in prima linea ma invisibili, sagome confondibili di piccole formichine che, senza farsi notare e con pazienza infinita, costruiscono insieme un’alternativa vera, solida, duratura: che cambia il sistema, che lo destabilizza alle fondamenta rifiutando di lasciarsi limitare nell’immaginario del possibile, rifiutando il compromesso di una schiavitù a cinque stelle. La giustizia, la rivoluzione.
-------
CONSIGLIO DI LETTURA:
L'autrice ha curato la stesura di una pubblicazione tutta al femminile che attraverso la riflessione personale delle palestinesi in Italia propone una disamina culturale e politica della violenza genocidaria sionista e della storica resistenza palestinese al progetto coloniale.
Con i contributi di Mjriam Abu Samra (curatrice), Shaden Ghazal, Rania Hammad, Sabrin Hasbun, Laila Hassan, Samira jarrar, Sara Rawash, Noor Shihade, Tamara Taher, Widad Tamimi.
ACQUISTALO ORA
* Ricercatrice post-doc Marie Curie presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell'Università Ca' Foscari di Venezia e il Dipartimento di Antropologia dell'Università della California, Davis, USA. È stata coordinatrice del Renaissance Strategic Center ad Amman, in Giordania, e ha insegnato all'Università di Giordania e in istituti universitari americani ad Amman. Mjriam ha un dottorato in Relazioni Internazionali presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito, la sua ricerca si concentra sulla politica studentesca transnazionale palestinese e anticolonialismo. È stata tra i fondatori del movimento giovanile palestinese transnazionale (PYM).
<<Perché dovremmo andarcene da Gaza? Questo è il nostro Paese, è l'occupazione che se ne deve andare da Gaza. Il piano di emigrazione forzata fallirà. Nessuno vuole andarsene via da Gaza, anche a costo della nostra vita, noi non ce ne andremo. Questo è il nostro Paese e noi resisteremo fino alla morte>>.
Nonostante l’esodo forzato di centinaia di migliaia di Palestinesi verso il sud della Striscia sia una minaccia evidente di espulsione dalla Striscia, la popolazione sta dando prova di un ultimo estremo sforzo di coraggio ed eroismo.
Questa e altre testimonianze dal campo sono incluse nella quarta puntata di “Radio Gaza”, disponibile da oggi, giovedì 18 settembre dalle 18.00 sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico a questo link:
“Radio Gaza - cronache dalla Resistenza”, ogni giovedì alle 18, sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico. Un programma a cura di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue.
Attraverso la campagna “Apocalisse Gaza”, arrivata oggi al 91° giorno, sono stati raccolti finora 89.158 euro da 1.211 donazioni. Di questi, 88.565 euro sono già stati inviati a Gaza.
Per donazioni: https://paypal.me/apocalissegaza
FB: RadioGazaAD
TUTTE LE PUNTATE PRECEDENTI:
“Una giornata a Gaza”
https://www.youtube.com/watch?v=2kDDCHQvZ44&t=39s
“Pentoloni per Gaza”
https://www.youtube.com/watch?v=yoOuewWBCH8
“Donne di Gaza”:
https://youtu.be/O3d8EkCdXJQ
“Lenticchie e acqua fresca per le retrovie di Gaza”
https://www.youtube.com/watch?v=YGHGmcSnM5k
Il promo di Radio Gaza:
https://www.youtube.com/watch?v=xI_NM5QVBBg
Radio Gaza puntata 01:
https://www.youtube.com/watch?v=gO15guUmkaw&t=2s
Radio Gaza puntata 02:
https://www.youtube.com/watch?v=Vl1CvdGCQIs&t=63s
Radio Gaza puntata 03:
https://www.youtube.com/watch?v=ugfc80t96cs
Data articolo: Thu, 18 Sep 2025 07:00:00 GMT
di Francesco Fustaneo
Quella che per giorni era stata presentata al mondo come una prova incontrovertibile dell’aggressione russa ai danni di un paese NATO da un momento all’altro, invece si è tramutata in una verità scomoda e imbarazzante per il governo polacco. La fake news in questione è stata ufficialmente smentita dalle rivelazioni del quotidiano polacco Rzeczpospolita.
Il fatto risale alla notte tra il 9 e il 10 settembre, quando uno sciame di droni “ russi” violava lo spazio aereo polacco. Un’abitazione nel villaggio di Wyryki, nella Polonia orientale, subiva gravi danni che venivano dalle autorità di Varsavia imputati proprio all’incursione “nemica”. Il governo ha utilizzato finanche una foto della casa distrutta come prova durante una sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 12 settembre scorso, dove il viceministro degli Esteri, Marcin Bosacki, ha accusato pubblicamente Mosca.
La smentita: il missile "amico"
Il 16 settembre, invece come prima anticipato, Rzeczpospolita ha ribaltato completamente la narrazione ufficiale. Secondo la testata che avrebbe consultato fonti dell’intelligence polacca, l’edificio è stato in realtà colpito da un razzo aria-aria lanciato da un caccia F-16 polacco. Il missile, partito per intercettare uno dei droni “invasori”, avrebbe subito un "malfunzionamento del sistema di guida", mancando il bersaglio e schiantandosi sull’abitazione civile. Fortunatamente non c’erano state vittime.
Il terremoto politico
La rivelazione ha scatenato un terremoto politico a Varsavia. L’opposizione di destra (PiS e Confederazione) ha accusato il governo di centro-sinistra del Premier Donald Tusk di aver occultato la verità e di aver mentito all’opinione pubblica polacca e internazionale.
Il presidente Karol Nawrocki ha protestato ufficialmente per non essere stato tenuto all’oscuro dei fatti, chiedendo spiegazioni chiare. L’ex premier Mateusz Morawiecki (PiS) ha parlato di “menzogne che distruggono l’unità nazionale”, mentre l’ex ministro della Difesa Mariusz B?aszczak ha affermato che “nascondere informazioni alimenta la propaganda russa”.
La difesa del governo
Il governo in evidente imbarazzo ha provato a difendersi sostenendo che, in ogni caso, la responsabilità ultima rimane della Russia: senza l’incursione dei droni, il missile non sarebbe mai stato lanciato. Il Premier Tusk, su X, ha commentato: "La piena responsabilità per i danni ricade sugli autori della provocazione con i droni, ovvero la Russia", promettendo informazioni esaustive a indagini completate. Il ministro della Difesa W?adys?aw Kosiniak-Kamysz ha negato di aver nascosto informazioni, affermando che tutto è stato reso noto appena verificato. Tuttavia, la contraddizione rimane: il viceministro Bosacki dal canto suo ha ammesso di aver appreso la verità proprio dalla lettura del giornale.
Il precedente
Quello di Wyryki non è un caso isolato. Viene subito alla memoria l’episodio di Przewodów nel novembre 2022, quando un missile di difesa aerea ucraino, partito per intercettare un attacco russo, cadde per errore in territorio polacco uccidendo due persone. Anche in quell'occasione, le prime versioni parlarono di un attacco russo diretto, prima che le indagini chiarissero definitivamente la reale dinamica poi e cadde il silenzio: nessun politico in Polonia si prese però la briga di accusare Kiev né, figurarsi, di attivare consultazioni con i paesi alleati invocando l’articolo 4 della Nato.
L'episodio dimostra quanto, in tempo di guerra ibrida, la disinformazione possa diffondersi rapidamente, soprattutto in Europa e soprattutto quando si parla di Russia.
Data articolo: Thu, 18 Sep 2025 07:00:00 GMT
di Michele Blanco
- In Germania la contrattazione è molto più strutturata, è presente il salario minimo e le politiche sociali che tendono a proteggere, in molti modi, il reddito reale.
- In Italia è spesso le diversità territoriali portano a minore capacità di retribuire bene a tutti i livelli, regioni con sviluppo troppo disomogeneo, basso tasso di crescita per molte imprese, reti di protezione sociale assolutamente meno presenti e meno efficaci.
Crescita economica generale_
- La Germania ha avuto una crescita economica più stabile, dovuta in particolare ai maggiori investimenti in tecnologie innovative, protezione dell’industria e dei posti di lavoro, con maggiore competitività sui mercati internazionali per l’offerta di prodotti tecnologicamente migliori, quindi con esportazioni forti.
- L'Italia ha sofferto mancanza di investimenti in tecnologie innovative, stagnazione, crisi finanziarie, crisi del debito, crisi del settore manifatturiero, e altri vincoli strutturali.
Politiche fiscali, tassazione, redditi da lavoro:
- L’aliquota fiscale, contributi, imposte indirette e costi (affitti, servizi) differenziano fortemente l’impatto reale su quanto resta nelle tasche del lavoratore, con i lavoratori tedeschi favoriti in molte agevolazioni che in Italia non sono presenti.
di Marco Trionfale*
Una delle distorsioni più evidenti nei ragionamenti sui grandi avvenimenti del mondo è la tendenza generalizzata a sempliquidare.
Sempliquidare è un neologismo che propongo, la cui definizione può essere: liquidare un problema semplificandolo mediante l’eliminazione delle variabili che non si è in grado di calcolare.
Provo a spiegarlo meglio.
L’idea che occorra una parola specifica per esprimere questo concetto mi è venuta molto tempo fa ed è legata ad un ricordo personale.
Dall’età di quattro anni mia figlia andava regolarmente, con grande orgoglio e col sacchetto dei soldi, a fare la spesa nel negozietto di frutta e verdura davanti casa. Le piaceva moltissimo. Per arrivare doveva attraversare la strada e io la osservavo preoccupato da dietro le tendine della finestra. Ma il negozietto davanti casa non le bastò. Cominciò ad andare alla latteria dietro l’angolo, e poi all’edicola, dove non potevo più seguirla con lo sguardo.
Una di queste volte - ci riferì poi sorridendo Marisa la fruttivendola - mia figlia, che è sempre stata teatrale, prima di uscire esclamò: “Sono molto soddisfatta di me!”
Negli anni quei negozietti hanno tutti chiuso, sacrificati al progresso degli iperqualcosa e i bambini a fare la spesa vanno coi genitori nei centri commerciali.
Questo episodio, secondo me, poneva un problema: come quantificare in termini economici la soddisfazione di una bambina di quattro anni, contenta di sé, fiduciosa degli altri e in buona relazione con il territorio in cui vive.
Quando ho provato ad affrontare il tema con persone pragmatiche, non mi hanno saputo rispondere.
Sapevano calcolare i posti di lavoro creati dagli ipermercati, la diminuzione dei prezzi per i clienti, gli oneri di urbanizzazione e via dicendo, ma quanto lo Stato risparmiasse crescendo cittadini contenti di sé e del luogo in cui vivono, non lo sapevano.
Ma, e qui è stata la sorpresa, non lo volevano nemmeno sapere. Era come se nella loro testa non ci fosse la casella excel dedicata a questo. Escludere dal problema questo dato che non sapevano quantificare pareva loro anzi un punto a vantaggio della razionalità e una dimostrazione di pragmatismo.
Ma avevano ragione?
Immaginiamo uno studente assente nella settimana in cui la professoressa spiega i logaritmi. Al compito in classe successivo si trova davanti tutte queste formule con il simbolo log che non capisce. Che fa? Cancella i log e risolve il problema senza di questi, poi tutto fiero di sé consegna il compito. Può funzionare?
Eppure è più o meno quello che facciamo. Continuamente.
Iniziare una guerra, perpetrare un genocidio, costruire una centrale nucleare, un rigassificatore, un ponte, una ferrovia, un ennesimo ipermercato: chi compie questi atti si è posto il problema delle conseguenze nel lungo periodo?
La risposta purtroppo pare negativa.
Per dire:
Cosa sarà dei profughi palestinesi?
Cosa di un bambino cui abbiano ammazzato i genitori?
Cosa di un genitore cui abbiano ammazzato i figli?
Quanti rabbiosi attentati nei prossimi anni?
Quanti occidentali arriveranno a schifarsi della propria stessa civiltà?
Come gli israeliani potranno guardarsi allo specchio finita la rabbia?
Cosa sarà di quei soldati che hanno sterminato civili inermi?
Nessuno lo sa. E nessuno lo vuole nemmeno sapere. Non c’è la casella excel.
Eppure tutte queste voci avranno una ricaduta, anche economica, ma troppo difficile da calcolare. Sono i log che eliminiamo dal problema.
Poniamoci infine un’ultima domanda: perché è servita tutta questa tiritera per illustrare un concetto, alla fin fine, piuttosto semplice? Perché manca la parola che lo incornici, lo rappresenti, consenta di riconoscerlo immediatamente, maneggiarlo con facilità e comunicarlo senza spiegazioni.
È per tutti questi motivi che abbiamo urgente bisogno di sempliquidare.
*Chi è Marco Trionfale o, sarebbe meglio dire, chi sono Marco Trionfale? È il nome collettivo, ma anche l’anagramma dei loro nomi propri, con cui tre autori scrivono del tempo maledettamente reale, e nello stesso tempo surreale e travolgente, in cui viviamo. Di prossima pubblicazione per LAD Edizioni i due strepitosi romanzi di Marco Trionfale, “Albeggerà al tramonto” e “Il tempo del secondo sole”. Questo è il secondo breve scritto Leo, Mirta e Franco che pubblichiamo per incuriosirvi, ma anche per darvi un assaggio del loro stile. Ne seguiranno altri…
Data articolo: Wed, 17 Sep 2025 15:00:00 GMT
di Daniele Luttazzi - Nonc'èdiche, Fatto Quotidiano
Una settimana fa, quando Israele buttò bombe su Doha per uccidere la dirigenza di Hamas che stava esaminando l’accordo di pace trumpiano (bersaglio mancato: i leader di Hamas erano altrove, in preghiera; ma avevano lasciato i telefonini in quella stanza, e lì sono piombate le bombe, ecco come Israele li scova), tutti i giornali delle colonie imperiali, compresa la nostra, per togliere d’imbarazzo il capo supremo scrissero che 1) Trump era all’oscuro del bombardamento: Netanyahu aveva rivendicato la responsabilità dell’operazione; oppure, poiché è impossibile che Israele bombardi un alleato Usa senza informare Washington, che 2) Trump, informato dell’attacco da Israele, aveva avvisato il Qatar, purtroppo non in tempo. Solo un comico, lo stesso giorno, scrisse su questo giornale che Trump era stato informato da Israele e non aveva avvisato il Qatar.
Passano 4 giorni e l’Ansa conferma: Trump era stato informato 50 minuti prima. “Ci fu una discussione a livello politico tra Netanyahu e Trump, e poi attraverso canali militari”, afferma un alto funzionario israeliano, “Trump non ha detto di no”. “Se Trump avesse voluto fermarlo, avrebbe potuto”, afferma un secondo funzionario, “in pratica non l’ha fatto”. Entrambi i funzionari hanno dichiarato che i missili non erano ancora stati lanciati quando Trump e Netanyahu hanno parlato, e che Israele avrebbe annullato l’attacco se Trump si fosse opposto.
Un terzo funzionario israeliano: “Israele avvertì l’amministrazione Trump in anticipo, ma decise di assecondare le smentite della Casa Bianca”. Un ulteriore funzionario israeliano ha detto che non è la prima volta che l’amministrazione Trump, per motivi politici, “inventa cose” riguardo alle conversazioni con Israele. La fonte è Barak Ravid, l’ex Unità 8200 che pubblica su Axios i suoi articoli di hasbara. Ravid presenta la notizia come scoop (rispetto alla sua hasbara precedente: Trump informato, ma non in tempo); la vera notizia, però, è che adesso Israele mette in mezzo Trump, tramite Ravid e vari funzionari israeliani (tanto anonimi quanto opportuni, come sempre le gole profonde sbandierate da Ravid nei suoi pezzi).
Resta il fatto che Trump ha mentito. Alla nuova notizia, quel narcisista patologico di Trump ha ripetuto la balla (“No, no, Netanyahu non mi avvisò”). Nei giorni scorsi ha mentito anche sull’Ucraina: infatti non è vero, come dice, che in Ucraina la guerra prosegue perché Putin e Zelensky si odiano (l’ha spiegato il prof. Orsini: la guerra in Ucraina prosegue perché l’Europa non accetta la sconfitta, e cioè la demilitarizzazione dell’Ucraina e la conquista delle sue regioni più ricche e strategiche da parte della Russia). Né è vero, come ha ripetuto Trump per l’ennesima volta, che la guerra in Ucraina è la guerra di Biden contro Putin: è la guerra della Nato contro la Russia (lo disse Stoltenberg al Parlamento europeo due anni fa, ricorda Orsini). Menzogne di Trump anche per l’assassinio di Kirk: “Spero nella pena di morte per l’assassino della sinistra radicale”. Ma il killer di Kirk non c’entra nulla con la sinistra radicale. Insomma, balle balle, balle, balle, balle. Del resto, a quante cose sbagliate ci hanno fatto credere, da quando siamo al mondo?
[...]
Data articolo: Wed, 17 Sep 2025 15:00:00 GMT
di Gery Bavetta*
Accompagnando mio figlio al suo primo giorno di scuola a Ribera, cittadina siciliana nota ai più per la sua produzione di arance, non ho potuto non notare la gigantografia della bandiera dell’Ucraina con la colomba della Pace. Siccome il cartello era posto al centro del cortile, mi aspettavo che dall’altro lato ci fosse una bandiera della Palestina per ricordare le vittime del popolo palestinese in corso, invece niente . Poiché la guerra a Gaza (Palestina) la fa Israele (che è sotto la sfera di influenza USA come del resto lo siamo noi in Italia) con il nostro supporto, allora non se ne deve parlare, perché è chiaro che noi culturalmente dobbiamo rappresentarci come i “buoni”.
E’ chiaro ed evidente che si vuole culturalmente educare i bambini a distinguere attraverso le immagini i buoni dai cattivi, rappresentando negli istituti scolastici soltanto le guerre che politicamente convengono al nostro blocco di appartenenza. Quindi di fatto, non una sincera azione di Pace, ma una mossa politico-culturale.
Apprendiamo così che ci sono morti di serie A e morti di serie B, in perfetto stile suprematista occidentale e antidemocratico ci sono (come diceva Mao Zedong) “morti che pesano come una piuma e altri che pesano come montagne”.
Come disse il saggista e fisico Carlo Rovelli sulla sua pagina X: “Gli israeliani massacrano i palestinesi, nessun problema per l’occidente. I Palestinesi massacrano gli israeliani? L ’Occidente è totalmente scioccato. Decenni e decenni così, e continuano. Se questo non è razzismo, cos’è?”
Ripeto le stesse parole del saggista e fisico Carlo Rovelli agli istituti scolastici: “Questo è razzismo?”
Sembrerebbe di si, forse non ce ne accorgiamo perché intrinseco alla nostra cultura occidentale.
Se guardiamo ora al Sudan (Africa) all’attuale conflitto in corso, tra cause dirette e indirette si registrano 150 mila morti, ma nessuno ne parla. Forse se questi anziché essere africani e neri avrebbero avuto la pelle bianca e si troverebbero a Londra, Roma o Parigi, attualmente sarebbe alle cronache h24, e invece no, Silenzio stampa ! Non interessa.
Sulla stessa linea è anche il matematico e logico Piergiorgio Odifreddi, che parla di razzismo e suprematismo culturale in occidente. Non a caso dice Odifreddi (sintetizzo): il nazismo ed il fascismo solo culture razziste e suprematiste nate in Europa (occidente), ideologie che derivano da un altro passato supremasista, quello colonialista britannico, francese ed europeo in generale, e di cui il nazismo in Germania ne fu solo l’erede sfacciatamente più recente e prepotente.
Ricordiamo agli istituti scolastici che attualmente nel mondo esistono più di 50 guerre, quelle più ad alta intensità al momento sono in Ucraina ed in Medioriente. In Ucraina la fanno i Russi per fermare l’espansione della Nato ai propri confini e porre fine alla guerra del Donbass (2014), mentre in Medioriente la facciamo “noi” sovvenzionando Israele di soldi ed armi con l’obiettivo di espandere la nostra influenza in medioriente, che è uno dei più grandi crocevia internazionali di scambio di merci e materie prime.
La diversità tra i due conflitti è palese, da una parte combattono due eserciti regolari, quello ucraino con il supporto della NATO, dove di fatto la Nato combatte i russi per interposta persona in una guerra che Putin ha cercato di evitare, quando nel dicembre 2021 ha chiesto sia agli USA che alla NATO garanzie di sicurezza ai propri confini, accordi che successivamente l’ex segretario della NATO Jens Stoltenberg ha ammesso in modo compiacente di aver rifiutato sapendo di porre l’Ucraina a rischio invasione.
Così di fatto gli USA e l’occidente utilizzano la carne ucraina per i propri interessi geopolitici, così come come d’altronde ammesso dall’ex premier britannico Boris Johnson in un intervista via radio parlando di “Proxy War” (Guerra per Procura).
Mentre dall’altra parte, a Gaza, non c’è alcun esercito regolare e si bombarda indiscriminatamente in una delle aree più densamente popolate al mondo, sapendo di sventrare uomini, donne e bambini radendo al suolo tutto. Eppure a casa nostra ci sono politici che parlano del “diritto alla vita e alla famiglia tradizionale” massacrando all’estero famiglie straniere e negando il diritto alla vita, raccontandoci a casa nostra la falsa retorica dell’Islam che ci odia, quando invece siamo noi occidentali, bianchi, liberali e cattolici che massacriamo gli Islamici a casa loro.
Di fatto da una parte abbiamo secondo alcune stime, in Ucraina 14.000 civili uccisi dal 24 febbraio 2022, mentre a Gaza abbiamo 60.000 civili uccisi dall’unica democrazia in medioriente (Israele), con il supporti di tutte le democrazie occidentali (le nostre).
Numeri alla mano a Gaza c’è un vero e proprio sterminio silenziato, più silenziato ancora è quello in Sudan, mentre si continua a parlare dell’Ucraina come l’unica guerra in un mondo da sempre dominato dalla pace (Falso). Queste rappresentazioni propagandistiche distorcono la realtà e la percezione dell’opinione pubblica.
In realtà gli istituti scolastici, nascondendo tali informazioni si dimostrano, coscienti o meno, al servizio della cosiddetta “guerra psicologica” che i vari governi USA e paesi membri Nato attuano nel nostro paese, con il fine di avere una funzione psicologica e sociologica nell’educare i bambini attorno alle politiche dei paesi NATO guidati dalla Casa Bianca.
Ricordiamo che quando i paesi NATO hanno aggredito la sovranità del Kosovo (1999), dell’Iraq (2003), della Libia (2011), della Siria (2014), dello Yemen (2015), sono state tutte aggressioni in violazione del diritto internazionale che hanno causato oltre 1 milione di vittime dirette e indirette, ma nessuna bandiera di questi popoli è stata sventolata sopra gli istituti scolastici.
Si richiede l’attenzione del sindaco Matteo Ruvolo su tale propaganda all’interno degli istituti scolastici, l’inserimento della bandiera Palestinese per ricordare le vittime della guerra a Gaza da parte di Israele assieme a quella Ucraina, oppure la rimozione di ogni bandiera, dato che come spesso accade si scelgono le guerre che a noi fanno più comodo e si silenziano tutte le altre.
*Ex pugile professionista di Muay Thai, ha sostenuto diversi incontri da professionista a livello internazionale in Thailandia e in altri paesi esteri : è tra i pochi italiani ad essere stato inserito nella classifica mondiale WBC alla 16º posizione per la propria categoria di peso. Attivista e militante politico, ha scritto per diverse testate tra cui La Riscossa, Marx21 e l’Antidiplomatico
di Pasquale Liguori
Mentre Gaza viene rasa al suolo, le Nazioni Unite hanno ritrovato la voce. Dichiarano che sì, c’è genocidio. Che a Gaza c’è carestia, persino “prevedibile e prevenibile”. Lo scrivono in un rapporto ufficiale, lo dichiarano nei briefing. Due anni di massacri sistematici, di fame amministrata, di bambini, donne e anziani uccisi, di case, scuole, luoghi di culto e ospedali ridotti alla polvere, e adesso arriva la verità protocollata. Non per fermare, non per impedire, ma per mettere agli atti. Non per salvare vite, ma per salvare la faccia. Il diritto internazionale non è crollato a Gaza: attraverso le sue istituzioni, ha funzionato alla perfezione. È servito a differire, a coprire, a lasciare che la catastrofe maturasse. Quando tutto è già compiuto, pronuncia la parola proibita sdoganata con il timbro dell’istituzione, come se fosse una scoperta. Non è un atto di giustizia: è un atto notarile, un poter dire “noi l’avevamo detto”. Il linguaggio diventa così certificazione postuma e autoassoluzione dell’Impero che manovra quelle stesse istituzioni. È il certificato di coscienza di chi ha guardato altrove mentre la macchina della distruzione completava il suo compito.
A rendere grottesco questo teatro, nello stesso giorno scorrono le immagini della cosiddetta flottiglia umanitaria. Barchette che avanzano verso Gaza, salutate come simbolo di coraggio civile, celebrate come testimonianza del fatto che “qualcuno ci prova”. Non è tanto chi vi partecipa, molti in buona fede e rischiando la pelle, a costituire il problema: è il valore attribuito alla scena. È lo stesso meccanismo della dichiarazione Onu, quello di un rito di autoassoluzione e spettacolarizzazione. Non cambia nulla sul campo, non scalfisce la crudeltà israeliana, non restituisce acqua, pane, ospedali ai palestinesi. Ma tutto ciò consente, ancora una volta, di sentirsi buoni, “dalla parte giusta”. Un gesto che produce immagini per il consumo occidentale: lo spettacolo della coscienza pulita. Un surrogato di resistenza estetizzato, brandizzato, funzionale a preservare l’ordine del capitale, diventandone cornice morale. Capitale che, nel frattempo, lui sì che veleggia verso lo sterminio compiuto.
La verità non confessata è che siamo autori, non semplici complici, di questo genocidio. Con i nostri governi, le nostre armi, le nostre basi militari, i nostri finanziamenti, i nostri voti nei consessi internazionali, nazionali, regionali, comunali. Con i nostri media, giuristi e opinion makers che da due anni si sciacquano la bocca con le parole “diritto internazionale” e “umanità” a supporto di iniziative tardive e cortei pluralisti. Il sumud ridotto a marchio da esibire, bandiere e kefie brandite come accessori di chissà quale scudetto vinto. Le piazze, in larga parte prive di cultura politica, costruite per candeggiare la coscienza. Le stesse figure, sempre le stesse, che dai social e dalle televisioni pontificano senza tregua. Autoreferenziali, recitano un cinico copione: non per liberare la Palestina, ma per mettere sé stessi al centro, per occupare la scena, per farsi riconoscere come garanti morali. Paladini bianchi di un diritto che non difende nessuno, di un umanitarismo che copre la fame, di una legalità che serve solo a prolungare l’ingiustizia. Non sono voci marginali: sono ingranaggi centrali della macchina che regola il consenso, normalizza lo sterminio e lo traduce in rappresentazione morale.
Ed è qui che emerge un altro inganno: l’idea che la critica sia sterile se non si accompagna a una proposta immediata e confezionata. È il riflesso di una cultura autoassolutoria che neutralizza l’analisi, pretendendo soluzioni pronte all’uso e delegando sempre ad altri la responsabilità di pensare e di agire. Ma l’analisi radicale non è un lusso: è già azione, è la base indispensabile per ogni progetto di trasformazione. Senza questo momento di decostruzione e di smascheramento, non esiste possibilità di prassi: resta solo la ripetizione dei rituali che confortano e preservano l’ordine coloniale.
La flottiglia diventa così emblema perfetto di questa società malata: un corteo sull’acqua che non scalfisce l’assedio, ma che regala al pubblico occidentale l’illusione di partecipare senza però ‘sporcarsi’.
Israele è un’entità canaglia, fondata sulla pulizia etnica, che proclama apertamente di voler cancellare i palestinesi. I governi occidentali, i nostri soldi la armano, la finanziano, la coprono. Le bombe portano i nostri marchi, i droni le nostre tecnologie, le banche i nostri capitali. E mentre la macchina coloniale esegue il suo compito, i nostri giuristi, i nostri intellettuali, i nostri campioni dell’umanitarismo vendono lo spettacolo della coscienza: barchette, conferenze stampa, hashtags.
La catena logistica del genocidio è nostra e il diritto internazionale ne è la copertura. Le carte Onu che arrivano ora non sono denuncia, ma assoluzione preventiva. È qui che va detto senza ambiguità: si tratta del linguaggio che depoliticizza, che neutralizza, che trasforma il massacro in atto giuridico. È il cuore macabro della “comunità internazionale”: registrare lo sterminio come si registra un contratto.
La verità è che la Resistenza palestinese, con il suo sangue versato, è l’unica forza che ha interrotto l’automatismo della catena coloniale. Non i nostri atti simbolici, non i cortei di autocelebrazione. È la Resistenza, con il suo sacrificio, che smaschera la bassezza morale dell’Occidente, la vergogna del suo diritto.
Il fiore palestinese sboccia sulle macerie che noi abbiamo contribuito a produrre. La sua esistenza è la sola denuncia credibile della nostra civiltà fallita. Per questo oggi non abbiamo alcun diritto di giudicare, di prescrivere, di misurare. Abbiamo solo il dovere di tacere la nostra ipocrisia, di smettere di fornire armi, di sciogliere le catene del nostro sistema che nutre il genocidio.
La critica, per quanto scomoda, è parte di questo compito: non un diversivo, ma la condizione necessaria per rifiutare le illusioni e aprire spazi di alternativa. Non serve attendere eroi né applaudire messinscene rassicuranti. Serve il lavoro ostinato e collettivo, invisibile e tenace, di chi non si accontenta del consumo di immagini ma mira a destabilizzare l’ordine coloniale alle sue fondamenta.
Tutto il resto è spettacolo. Ed è lo spettacolo che copre lo sterminio.
Data articolo: Wed, 17 Sep 2025 14:00:00 GMT
di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 17 settembre 2025
Siccome l’attentato russo all’aereo di Ursula non era né russo né attentato, siccome il killer russo del leader Nato-nazista ucraino Parubij era un ucraino incazzato col suo governo, siccome lo sciame di droni fuori rotta abbattuti o caduti in Polonia aveva subìto eguale sorte in Bielorussia ed è improbabile che Putin bombardi il migliore amico per bombardare un nemico, e siccome i popoli europei continuano a opporsi alla guerra preventiva alla Russia, bisogna somministrare loro un “attacco” o “minaccia” della Russia al giorno. A costo di inventare. Lunedì Peskov, portavoce di Putin, dice una banalità che tutti sanno dal 2014, tant’è che la Nato se ne vanta e Mosca la fa notare da un pezzo: “La Nato è in guerra con la Russia per il suo sostegno all’Ucraina. Questo è ovvio e non richiede ulteriori prove”. La Nato ha messo in piedi, addestrato, finanziato e armato l’esercito di un Paese non Nato, l’Ucraina, per undici anni: prima per attaccare gli ucraini russofoni ribelli dopo il golpe di Maidan, poi per difenderli dall’invasione russa, poi per attaccare la Russia con missili Nato su bersagli quasi solo civili (case, uffici, ponti, porti, aeroporti, ferrovie, raffinerie, centrali elettriche e pure nucleari). Se la Nato, violando il suo stesso Trattato, s’intromette in una guerra che non la riguarda per attaccare la Russia per interposta Ucraina, come può stupirsi se la Russia le ricorda ciò che sta facendo? E se l’Ucraina finanziata e armata da Nato e Ue fa saltare i gasdotti russo-europei NordStream, con che faccia l’Europa tace e poi accusa la Russia di attaccarla per 19 droni fuori rotta senza morti né danni?
I guerrapiattisti vedono i sondaggi e sanno che, malgrado loro, molti cittadini queste contraddizioni le colgono (Putin ha appena ripetuto in Cina che non intende attaccare l’Europa e alle sue esercitazioni bielorusse ha invitato osservatori Usa). Infatti ribaltano di 180 gradi la frase di Peskov per trasformare un’ovvietà (la Nato in guerra con la Russia) in una dichiarazione di guerra (la Russia in guerra con la Nato). Kallas: “Putin cerca l’escalation”. Crosetto: “L’Italia non è preparata ad attacchi russi né di altri”, neppure del Madagascar, senza spiegare perché mai la Russia o il Madagascar dovrebbero attaccarci. La stampa fa il resto. Corriere: “L’affondo del Cremlino”. Rep: “La minaccia del Cremlino: ‘Già in guerra con la Nato’”. Stampa: “Mosca sfida la Nato”, “la minaccia di Peskov”. Messaggero: “Il Cremlino minaccia la Nato: ‘Siamo già in guerra’”. Giornale: “Attacchi da Mosca. Allarme Italia indifesa”. Libero: “Il Cremlino provoca la Nato. Putin alza il tiro”. Domani: “Putin minaccia: ‘Siamo già in guerra con la Nato’”. Peskov ha detto l’opposto, ma qui la stampa è molto libera. Mica siamo in Russia.
Data articolo: Wed, 17 Sep 2025 14:00:00 GMT
Il ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif ritiene che la recente aggressione israeliana contro il Qatar non è stata condotta senza il previo consenso degli americani, affermando che è giunto il momento per i paesi musulmani di formare un'alleanza militare islamica in stile NATO per affrontare le sfide comuni.
Asif ha rilasciato queste dichiarazioni durante un'intervista concessa martedì al canale di informazione pakistano Geo News, in seguito al vertice di emergenza arabo-islamico in Qatar, tenutosi in risposta agli attacchi israeliani contro i leader del movimento di resistenza palestinese Hamas a Doha la scorsa settimana.
Il ministro pakistano ha inoltre esortato i musulmani a "riconoscere i nemici amici" e a "superare le sfide comuni", sottolineando che "dovrebbero formare una NATO islamica".
Asif ha anche sottolineato il cambiamento nell'opinione pubblica nel mondo occidentale, sottolineando che perfino negli Stati Uniti si sta verificando una crescente opposizione a Israele.
Ha affermato che Israele ha lanciato l'attacco contro i leader di Hamas "con il consenso di Washington", avvertendo che "ne vedremo le conseguenze nel prossimo futuro".
Asif ha inoltre sottolineato il coinvolgimento americano nello sviluppo di al-Qaeda e il ruolo della CIA nel portare l'ex leader del gruppo terroristico, Osama bin Laden, dal Sudan alla regione.
Nel suo discorso ha parlato degli sviluppi in corso in Siria, in particolare del regime change, descrivendoli come un'indicazione della tacita approvazione degli Stati Uniti.
Ha inoltre sottolineato la necessità per i musulmani di stabilire un'alleanza militare simile alla NATO, con l'obiettivo primario della difesa reciproca piuttosto che prendere di mira un paese specifico.
Data articolo: Wed, 17 Sep 2025 12:30:00 GMT