Oggi è Sabato 13/12/2025 e sono le ore 02:25:33
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Sabato 13/12/2025 e sono le ore 02:25:33
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
#news #antidiplomatico
La nuova proposta di pace USA, presentata da Washington come “compromesso realistico”, è stata immediatamente respinta da Vladimir Zelensky. Il motivo è sempre lo stesso: il Donbass. Nonostante la disfatta militare sul campo e l’avanzata russa in più settori, il regime di Kiev continua a rifiutare qualsiasi soluzione che implichi la rinuncia a territori che non controlla più. La bozza USA, che prevedeva il ritiro delle forze ucraine dalle zone residue e la creazione di una “zona economica libera” neutrale, è stata liquidata dal leader ucraino come ingiusta, dimenticando che la “giustizia” non si misura a colpi di propaganda, ma sui rapporti di forza reali. Il contro-piano inviato da Kiev e dalle capitali europee a Washington, ancora una volta senza coinvolgere la Russia, mostra chiaramente che l’Occidente non cerca la pace, ma una tregua utile a prolungare la guerra, fornire al regime di Kiev nuove armi e guadagnare tempo.
Berlino e Londra continuano a recitare il ruolo di paladini della “sovranità ucraina”, ma la loro strategia è palese: combattere fino all’ultimo ucraino. Zelensky, con mandato scaduto e sempre più isolato, tenta ora la carta del referendum: una mossa che non ha nulla di democratico, ma che mira a bloccare ogni dialogo. Perfino alcuni leader europei - come il ministro tedesco Wadephul- ammettono che Kiev dovrà accettare “concessioni dolorose”. Ma il blocco di potere che governa l’Ucraina, penetrato per anni da milizie ultranazionaliste e gruppi apertamente neonazisti, non ha alcun interesse alla fine della guerra: perdere il Donbass significherebbe perdere il pilastro ideologico su cui ha costruito la propria narrativa interna. Mosca, dal canto suo, parla chiaro. Il consigliere presidenziale Ushakov ha ribadito che il Donbass è territorio russo e tornerà sotto pieno controllo di Mosca, negoziando o combattendo.
Dmitri Medvedev ha colto l’essenza del momento: il referendum proposto da Kiev è un diversivo che paralizza i negoziati, un espediente per mantenere la linea oltranzista e continuare a ricevere fondi e armi dall’Occidente. Intanto sul campo la realtà procede in direzione opposta alla retorica occidentale. L’esercito russo avanza con costanza: Seversk è caduta, aprendo la via verso Kramatorsk e Slaviansk, mentre Pokrovsk - altro luogo cruciale - è ormai prossima al collasso. Kiev risponde con attacchi disperati e lanci massicci di droni, mentre l’infrastruttura energetica del Paese subisce colpi sistematici. La diplomazia occidentale si muove in un equilibrio schizofrenico.
Trump non ha nascosto il suo fastidio, definendo Zelensky uno dei principali ostacoli alla pace. Dietro le quinte, però, sono i governi europei a frenare: una pace che riconosca le annessioni del 2022 equivarrebbe a certificare il fallimento di dieci anni di politiche di escalation. In definitiva, la guerra continua perché Kiev non può accettare la pace e l’Europa non vuole accettarla. L’unico attore che oggi possiede una posizione coerente è Mosca: cessate il fuoco in cambio del riconoscimento delle realtà sul terreno. Fino a quando Washington e i governi europei non rinunceranno alla fantasia di usare l’Ucraina come ariete geopolitico contro la Russia, il conflitto rimarrà ostaggio dell’ideologia, dei nazionalisti ucraini e dei guerrafondai che, comodamente lontani dal fronte, continuano a combattere “per la democrazia” sacrificando la vita degli altri.
LA NOTIZIA CHE HAI LETTO FA PARTE DELLE "TRE PRINCIPALI NOTIZIE DELLA SETTIMANA" - LA NEWSLETTER CHE OGNI SABATO ALLE 7.00 DEL MATTINO ARRIVA NELLE EMAIL DEI NOSTRI ABBONATI.
SCOPRI COME ABBONARTI A L'ANTIDIPLOMATICO E SOSTENERE LA NOSTRA LUNGA MARCIA
CLICCA QUI
La liberazione di Seversk da parte delle Forze Armate russe rappresenta una delle operazioni più significative delle ultime settimane nel conflitto del Donbass. Dopo durissimi combattimenti e una complessa manovra tattica, la città situata in un nodo strategico fra Lisichansk, Slaviansk e Artëmovsk, è passata sotto controllo russo, aprendo nuovi scenari sia militari che politici. Seversk, con poco più di 10.000 abitanti prima della guerra, era stata trasformata dal regime neonazista di Kiev in un hub logistico di primo livello: truppe d’élite ucraine, mercenari occidentali, depositi di munizioni e un sistema di fortificazioni in cemento armato ne facevano un bastione chiave della difesa ucraina nel settore nord-occidentale del Donbass. Da qui partivano attacchi verso le posizioni russe e venivano coperti i collegamenti verso Liman, Kramatorsk e Slaviansk, i principali centri dell’area controllata da Kiev.
L’operazione russa si è basata su una combinazione di accerchiamento, interdizione logistica e assalto urbano progressivo. Per evitare un attacco frontale troppo pericoloso, il comando ha scelto di bloccare la città su tre lati, tagliare le vie di rifornimento e avanzare con una manovra a tenaglia: gruppi d’assalto coordinati hanno preso il controllo della linea ferroviaria e dei cosiddetti “portoni del sud”, mentre altre unità eseguivano una penetrazione profonda per chiudere i corridoi occidentali. Il risultato è stata la ritirata disordinata delle forze ucraine e la caduta completa della città. Dal terreno è arrivata conferma del successo: secondo il tenente Naran Ochirgoriayev, 28 gruppi d’assalto hanno liberato oltre 300 edifici tra residenziali e industriali, affrontando la resistenza più dura in una fabbrica e nella stazione ferroviaria. Le perdite russe, secondo il comandante, sono state minime grazie a tattiche “audaci e non convenzionali”.
A poche ore dalla liberazione, i soldati russi hanno iniziato a fornire aiuti umanitari ai civili rimasti: distribuzione di cibo, acqua, medicinali ed evacuazioni volontarie verso aree più sicure. Parallelamente, i genieri sono impegnati nelle operazioni di sminamento. La presa di Seversk non è un episodio isolato. Putin ha parlato di “buona dinamica” e di piena iniziativa strategica nelle regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporozhie. Nel solo ultimo mese, le forze russe hanno conquistato decine di insediamenti, compresi snodi logistici cruciali come Kupiansk e Krasnoarmeisk (Pokrovsk). Ora l’asse di avanzata punta chiaramente verso Slaviansk e Kramatorsk, cardini della presenza militare ucraina nel Donbass.
La battaglia di Seversk, dunque, non è solo la conquista di una città: è l’indicatore di un equilibrio che si sta spostando con costanza, e potrebbe preludere alle prossime mosse decisive sul fronte settentrionale del Donbass.
LA NOTIZIA CHE HAI LETTO FA PARTE DELLE "TRE PRINCIPALI NOTIZIE DELLA SETTIMANA" - LA NEWSLETTER CHE OGNI SABATO ALLE 7.00 DEL MATTINO ARRIVA NELLE EMAIL DEI NOSTRI ABBONATI.
SCOPRI COME ABBONARTI A L'ANTIDIPLOMATICO E SOSTENERE LA NOSTRA LUNGA MARCIA
CLICCA QUI
La crisi tra Stati Uniti e Venezuela ha subito un’accelerazione senza precedenti dopo il sequestro (leggi furto), da parte delle forze armate statunitensi, di un petroliera venezuelana nelle acque caraibiche. Caracas definisce l’episodio un atto di “pirateria internazionale” e un attacco diretto alla propria sovranità energetica, denunciando che Washington utilizza la narrativa della lotta al narcotraffico come semplice copertura per appropriarsi del petrolio venezuelano. Il presidente Nicolás Maduro ha accusato gli Stati Uniti di aver portato a termine un’operazione militare contro una nave civile, senza alcuna base giuridica e in violazione del diritto internazionale. Il governo venezuelano denuncia che l’episodio conferma la reale finalità dell’aggressione statunitense: non la difesa dei diritti umani né la lotta alle droghe, ma il controllo delle immense risorse energetiche del paese.
Un’accusa corroborata dal fatto che la stessa ONU e la DEA statunitense indicano che oltre l’80% del narcotraffico verso gli USA utilizza la rotta del Pacifico, non quella caraibica. La condanna non arriva solo dai tradizionali alleati di Caracas. Cina e Russia hanno denunciato l’operazione come una palese violazione delle regole del commercio internazionale e della libertà di navigazione. Pechino ha respinto come illegittime le sanzioni unilaterali USA contro petroliere anche di bandiera hongkonghese, ricordando che solo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può imporre misure restrittive. Mosca ha richiesto pubblicamente chiarimenti sulle motivazioni e sulle prove che avrebbero giustificato l’abbordaggio. Anche Messico, Brasile e Colombia hanno espresso preoccupazione per l'escalation militare statunitense nel Caribe, dove Washington mantiene da agosto un imponente dispositivo navale, formalmente inquadrato nella lotta al narcotraffico. Secondo fonti regionali, tuttavia, l’attività si è tradotta in bombardamenti contro imbarcazioni sospette, con decine di morti e senza evidenze che si trattasse realmente di traffici illeciti.
Parallelamente, Caracas ha presentato una denuncia formale all’Organizzazione Marittima Internazionale, sottolineando che l’attacco contro una petroliera impegnata nel trasporto di greggio costituisce una minaccia diretta alla libertà di navigazione e mira a sabotare il commercio energetico venezuelano. Il governo parla ormai apertamente di “strategia di cambio di regime” mirata a destabilizzare il paese per appropriarsi dei suoi giacimenti di petrolio e gas. Mentre cresce il sostegno diplomatico a favore di Caracas, Washington continua a minimizzare la portata dell’evento.
Tuttavia, l’episodio segna un precedente grave: per la prima volta una potenza occidentale ricorre apertamente alla forza militare per sequestrare risorse energetiche altrui, inaugurando quella che diversi osservatori definiscono una nuova fase imperialista nel Mar dei Caraibi. Il messaggio venezuelano, oggi rilanciato da Mosca, Pechino e da una parte crescente dell’America Latina, è chiaro: non si tratta di narcotraffico né di sicurezza regionale, ma di una disputa globale sulle risorse strategiche in un mondo sempre più multipolare.
LA NOTIZIA CHE HAI LETTO FA PARTE DELLE "TRE PRINCIPALI NOTIZIE DELLA SETTIMANA" - LA NEWSLETTER CHE OGNI SABATO ALLE 7.00 DEL MATTINO ARRIVA NELLE EMAIL DEI NOSTRI ABBONATI.
SCOPRI COME ABBONARTI A L'ANTIDIPLOMATICO E SOSTENERE LA NOSTRA LUNGA MARCIA
CLICCA QUI
di Fabrizio Verde
Il Consiglio dell'Unione Europea ha compiuto oggi un salto nel buio, trasformando un'azione di coercizione economica in un vero e proprio atto di esproprio perpetuo. Con la scusa di colpire il Cremlino, i governi europei, guidati da una Commissione bellicista, hanno deciso di congelare per sempre 210 miliardi di euro di riserve russe. Non è più una sanzione, è la nazionalizzazione di ricchezza altrui. Una linea rossa del diritto internazionale e della sovranità statale è stata oltrepassata, in un clima di hybris collettiva che ignora i gravi pericoli di questa escalation.
Bruxelles parla di "segnale chiaro" a Mosca. In realtà, lancia un messaggio palese a tutto il mondo: i beni detenuti in Europa non sono più al sicuro. Se domani le relazioni diplomatiche si inaspriscono, qualsiasi paese, con qualsiasi governo, può vedersi privatizzato il proprio patrimonio sovrano per decisione politica di una maggioranza. La fiducia nell'euro e nel sistema finanziario europeo, già traballante, riceve un colpo mortale. Quale paese emergente, quale potenza asiatica o del Golfo, si fiderà ancora di depositare le proprie riserve in un sistema che le sequestra a comando?
La retorica della "giusta causa ucraina" serve a coprire l'abisso giuridico ed etico di questa decisione. Si tratta di un furto. Punto. Lo dice non solo Vladimir Putin, ma anche il buon senso giuridico: confiscare beni di uno Stato sovrano senza una sentenza di un tribunale internazionale competente è arbitrario e pericoloso. L'Europa, che si vanta di essere culla del diritto romano e dello stato di diritto, si trasforma nell'esattore armato di una giustizia sommaria. I timori del Belgio, che teme ritorsioni legali, sono solo l'assaggio delle tempeste che verranno.
Mosca ha già avvertito: prepara contromisure. E non si tratta di semplici ritorsioni diplomatiche. La Russia ha gli strumenti per colpire gli interessi economici europei ancora presenti nel suo territorio, per destabilizzare mercati già fragili, per stringere alleanze con chi, da Pechino a Ryad, guarda con orrore a questa deriva predatoria dell'Occidente. L'Europa si sta giocando gli ultimi brandelli della sua residua autonomia strategica, legandosi ancor più al carro di chi da tempo spinge per questa via estrema.
E per che cosa? Per finanziare un conflitto senza fine? I 140 miliardi del "prestito di riparazione" di cui blatera la von der Leyen sono una goccia nel deserto dei bisogni e delle diffuse ruberie ucraine. Servono a coprire le spese militari, ad alimentare la macchina da guerra e ulteriore crruzione nel regime di Kiev. L'Europa, invece di lavorare per una soluzione diplomatica, sceglie di diventare parte finanziaria attiva del conflitto, scavandosi la fossa della propria sicurezza economica futura.
Questa decisione non indebolisce Putin. Conferma invece la visione di un Occidente rapace e senza principi, cementa il sostegno interno della Russia e giustifica qualsiasi rappresaglia. L'unica cosa che indebolisce, irrimediabilmente, è il prestigio, l'affidabilità e la stabilità del progetto europeo (quanto ne rimaneva). È l'atto di un'Europa guerrafondaia, incosciente e moralmente cieca, che per un vantaggio propagandistico immediato sta ipotecando il futuro dei suoi cittadini, esponendoli a rischi finanziari e geopolitici di portata incalcolabile. Un autogol storico.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 19:12:00 GMT

C’è stato un tempo in cui la crisi greca sanguinava come una ferita aperta, visibile a occhio nudo.
Le immagini delle piazze in rivolta, gli anziani in lacrime fuori dalle banche, le borse in picchiata, le dichiarazioni della politica, i titoli dei giornali, i commenti nei talk show. Un'intera società sotto attacco, chiamata a rispondere. Una reazione incendiaria impossibile da nascondere.
Certo, era anche tutto pesantemente inquinato da una narrazione farsesca, orientata a mistificare la realtà per assolvere cause e mandanti. Ma – quantomeno – la crisi economica più devastante della giovane storia dell'Unione Europea, era qualcosa di tangibile, concreto. Qualcosa che esisteva.
Oggi quella stagione è passata. E la crisi greca – ufficialmente finita – ha lasciato il palcoscenico della storia contemporanea nascondendosi dietro le quinte della vita quotidiana. Diventando l'equivalente del gatto di Schrödinger: viva e morta contemporaneamente. Un fenomeno che esiste soltanto se lo osservi. Non devasta più con l'evidenza della sciagura collettiva, ma lavora in silenzio come un nido di termiti. Si insinua nei muri, nelle case, fino a corroderne le fondamenta dall'interno.
Una nuova crisi invisibile che non è più delle banche e dei mercati, ma che ha colonizzato le città, i quartieri e i suoi abitanti, facendosi austerità urbana.
Il punto di osservazione è Atene, città che ho attraversato molte volte, non da turista ma da testimone. Fino a creare con essa un legame speciale. Fino a sentirmi quasi come a casa. Città in cui, negli anni, ho costruito legami autentici e amicizie sincere: relazioni intese, discorsi seri, chiacchierate spensierate, serate indimenticabili, incontri casuali, passeggiate notturne in solitaria. Città che ho visto evolversi, sprofondare e – per certi versi – rinascere sotto nuove vesti. E mentre la osservavo cambiare si trasformava, paradossalmente, in qualcosa che già conoscevo: un fenomeno a cui assistevo in diretta anche altrove, in Italia.
La tesi di fondo di questo lavoro nasce da tale constatazione: non viviamo più nel tempo della crisi transitoria, destinata a concludersi con l'avvento di un nuovo ciclo economico favorevole. Ma in un'epoca in cui la crisi si è fatta sistema, in cui le profonde ferite che produce non sono emergenze ma nuova normalità. Una fase storica che vede imporsi un nuovo modello economico e di sviluppo, in cui il turismo e la precarietà sembrano operare come una sorta di welfare capovolto. Un dispositivo che ho definito welfare surrogato e, nella terza parte del libro, provo a delinearne il funzionamento.
Un cambiamento radicale che svuota i quartieri, disgrega le comunità, recide i legami personali, fagocita la memoria. E trasforma il diritto a vivere la città e le relazioni umane in pianta stabile, in un privilegio per pochi.
Per tale ragione ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare un passaggio di fase che non è un fenomeno esclusivamente greco, per nominare ciò che accade e non abituarmi al silenzio. E l'ho fatto per il tramite di vicende solo apparentemente scollegate: pignoramenti, aste, sfratti, turistificazione, rigenerazione urbana. Tutte parti di un unico meccanismo, intrinseco al modello neoliberista. Non casi esemplari, non eccezioni, ma epifanie. Luoghi e vite in cui la crisi si manifesta, rendendosi visibile proprio mentre cerca di nascondersi. Il lettore non ceda quindi all'apparenza, perché questo non è semplicemente un libro sulla Grecia. È un libro sull'Europa del Sud.
I luoghi che ho raccontato sono frammenti di Atene: case, strade, quartieri e persone in carne e ossa. Sono realtà e metafora al tempo stesso. Lo specchio in cui si riflette il destino di tante città mediterranee. L'esito ultimo di un processo che – a velocità variabili – è già in moto anche altrove: a Napoli, Siviglia, Marsiglia. Come anche a Bari, Catania, Palermo.
Per testimoniare questa mutazione profonda e rendere al meglio ciò che ho osservato e raccolto sul campo (indagine diretta, conversazioni informali, interviste), ho sentito il bisogno di cambiare stile e registro. Di una scrittura in grado di descrivere e al tempo stesso narrare, immergersi nel dettaglio, evocare immagini e atmosfere. Di restituire le voci autentiche di chi è definitivamente sparito dai radar della denuncia sociale, condannato a sopravvivere senza far rumore.
A volte ho utilizzato immagini forti e passaggi lirici, ben sapendo di assumermi un grande rischio. Il dolore può infatti trasformarsi in trauma porn, il lirismo diventare estetizzazione, trasformando la denuncia in formula di stile e la lotta in coreografia. Ne sono consapevole. Ciononostante, è un rischio che ho scelto comunque di correre, perché ciò a cui assistiamo oggi non si racconta più soltanto con la rabbia. Se con Memorandum, quindi, scrivevo un bollettino, oggi redigo un inventario. Non della crisi, ma del dopo. Di ciò che non si racconta più, di ciò che si è mimetizzato per farsi sistema e metodo di governo su larga scala.
Pertanto, Turisti a casa nostra, non è un reportage. E non è nemmeno un saggio narrativo. Ha l'ambizione di essere una mescolanza di tutto ciò: descrizione, racconto, narrazione, approfondimento e analisi tutto insieme. Un ibrido di cui ho tentato di lasciare una traccia minima nell'indice, offrendo al lettore una lente per interpretare le diverse sezioni.
Alcune pagine nascono con l'ambizione di avere portata generale, in modo che il lettore possa riconoscervi le stesse dinamiche della propria città, del proprio quartiere. Altre le ho immaginate per accompagnarsi a fotografie, musiche, installazioni e – perché no – camminate urbane.
Il desiderio ultimo di questo lavoro, infatti, è andare oltre il testo stesso, diventando parte di un progetto più ampio: visivo, sonoro, performativo. Non per decorare lo scritto, ma per restituire un'esperienza che la lingua, da sola, non riesce più a contenere. Non c'è una trama. Ogni capitolo è come una porta aperta su una stanza diversa dello stesso edificio che va in pezzi. Non ci sono eroi. Solo le voci di chi resiste, soltanto perché non ha ancora finito di crollare. E non c'è neanche un finale. C'è una città svuotata che continua a parlare a quanti hanno ancora voglia di ascoltare, senza illudersi. Questo libro è per loro.
PER SOSTENERE IL NOSTRO PROGETTO EDITORIALE ACQUISTALO DAL NOSTRO ECOMMERCE A QUESTO LINK: 
Lavrov accusa l’Occidente di voler “saccheggiare” la Russia per prolungare il conflitto in Ucraina, facendo dei beni russi congelati l’ultima leva finanziaria a sostegno di Kiev. Il ministro degli Esteri sostiene che Mosca è pronta a reagire a qualunque misura ostile, dalla possibile confisca degli asset russi allo schieramento di contingenti europei sul fronte ucraino.
Intervenendo al Consiglio della Federazione, Lavrov afferma che le capitali europee mirano a mettere le mani su capitali, riserve auree e valutarie russe perché non dispongono più di altri strumenti per sostenere militarmente ed economicamente l’Ucraina. L’uso dei fondi bloccati come garanzia per nuovi prestiti a Kiev viene definito una sorta di “rapina” travestita da meccanismo di riparazioni, in contrasto con i principi del diritto internazionale e delle regole del commercio globale.
Nel mirino del ministro c’è soprattutto il progetto di Bruxelles di far fruttare gli asset russi immobilizzati nelle giurisdizioni occidentali per finanziare un fondo destinato alla ricostruzione e allo sforzo bellico ucraino. A suo giudizio, un simile schema poggia su basi legali deboli e metterebbe a rischio la credibilità finanziaria dell’eurozona, ragione per cui alcuni governi UE e diversi partner esterni al blocco mostrano cautela o aperta contrarietà.
Lavrov parla infine di “cecità politica” dell’Unione Europea, accusata di inseguire l’obiettivo irrealistico di infliggere una “sconfitta strategica” alla Russia mentre, sul terreno, le forze ucraine subiscono nuovi rovesci. Nella sua interpretazione, i leader europei si rifiutano di riconoscere che il loro “protetto” non è in grado di cambiare l’esito della guerra e preferiscono imboccare la strada di misure sempre più radicali, inclusa l’appropriazione dei beni russi, pur di non ammettere il fallimento della strategia adottata.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 18:33:00 GMT
di Giorgio Cremaschi
di Alessandro Orsini*
di Paolo Desogus*
di Jeffrey Sachs - Common Dreams
La recente Strategia per la Sicurezza Nazionale (SSN) del 2025 rilasciata dal Presidente Donald Trump si presenta come un progetto per un rinnovato vigore statunitense. È pericolosamente sbagliata in quattro modi.
In primo luogo, la SSN è ancorata alla grandiosità: la convinzione che gli Stati Uniti godano di una supremazia ineguagliata in ogni dimensione chiave del potere. Secondo, si basa su una visione del mondo spiccatamente machiavellica, trattando le altre nazioni come strumenti da manipolare a vantaggio USA. Terzo, poggia su un nazionalismo ingenuo che respinge il diritto e le istituzioni internazionali come vincoli alla sovranità statunitense, anziché riconoscerli come quadri che rafforzano la sicurezza sia degli USA che globale.
In quarto luogo, segnala una brutalità nell'uso che Trump fa della CIA e delle forze militari. A pochi giorni dalla pubblicazione della SSN, gli Stati Uniti hanno sfacciatamente sequestrato in alto mare una petroliera carica di petrolio venezuelano, con la debole giustificazione che la nave aveva precedentemente violato le sanzioni statunitensi contro l'Iran.
Il sequestro non è stata una misura difensiva per scongiurare una minaccia imminente. Né è minimamente legale sequestrare navi in alto mare a causa di sanzioni unilaterali statunitensi. Solo il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha tale autorità. Invece, il sequestro è un atto illegale progettato per forzare un cambio di regime in Venezuela. Segue la dichiarazione di Trump di aver ordinato alla CIA di condurre operazioni coperte all'interno del Venezuela per destabilizzare il paese.
La sicurezza USA non sarà rafforzata comportandosi da bullo. Sarà indebolita strutturalmente, moralmente e strategicamente. Una grande potenza che spaventa i suoi alleati, costringe i suoi vicini e ignora le regole internazionali alla fine si isola.
La SSN, in altre parole, non è solo un esercizio di hybris sulla carta. Sta rapidamente diventando pratica sfacciata.
Un barlume di realismo, poi una ricaduta nella hybris
A essere onesti, la SSN contiene momenti di un realismo lungamente atteso. Implicitamente concede che gli Stati Uniti non possono e non dovrebbero tentare di dominare il mondo intero, e riconosce correttamente che alcuni alleati hanno trascinato Washington in costose guerre che non erano nei veri interessi degli Stati Uniti. Inoltre, si tira indietro - almeno retoricamente - da una crociata totalizzante tra grandi potenze. La strategia rifiuta la fantasia che gli Stati Uniti possano o debbano imporre un ordine politico universale.
Ma la modestia è di breve durata. La SSN riafferma rapidamente che gli USA possiedono "l'economia unica più grande e innovativa del mondo", "il sistema finanziario più avanzato del mondo" e "il settore tecnologico più avanzato e redditizio del mondo", tutti sostenuti da "l'esercito più potente e capace del mondo". Queste affermazioni servono non semplicemente come dichiarazioni patriottiche, ma come giustificazione per usare il predominio per imporre condizioni agli altri. Paesi più piccoli, sembra, sopporteranno il peso di questa hybris, poiché gli USA non possono sconfiggere le altre grandi potenze, non da ultimo perché dotate di armi nucleari.
Machiavellismo spudorato nella dottrina
La grandiosità della SSN è saldata a un machiavellismo spudorato. La domanda che si pone non è come gli Stati Uniti e gli altri paesi possano cooperare per un beneficio reciproco, ma come la leva USA - sui mercati, la finanza, la tecnologia e la sicurezza - possa essere applicata per ottenere il massimo delle concessioni da altre nazioni.
Questo è più pronunciato nella sezione della SSN dedicata all'emisfero occidentale, che dichiara un "Corollario Trump" alla Dottrina Monroe. La SSN afferma che gli Stati Uniti assicureranno che l'America Latina "rimanga libera da incursioni straniere ostili o proprietà di asset chiave", e che alleanze e aiuti saranno condizionati allo "smantellamento di influenze esterne avversarie". Quella "influenza" si riferisce chiaramente agli investimenti, alle infrastrutture e ai prestiti cinesi.
La SSN è esplicita: gli accordi degli USA con paesi "che dipendono maggiormente da noi e su cui quindi abbiamo più leva" devono sfociare in contratti in esclusiva per aziende statunitensi. La politica USA dovrebbe "fare ogni sforzo per estromettere le compagnie straniere" che costruiscono infrastrutture nella regione, e gli Stati Uniti dovrebbero rimodellare le istituzioni multilaterali di sviluppo, come la Banca Mondiale, in modo che "servano gli interessi statunitensi".
Ai governi latinoamericani, molti dei quali commerciano estesamente sia con gli Stati Uniti che con la Cina, viene sostanzialmente detto: dovete trattare con noi, non con la Cina, o affrontare le conseguenze.
Una tale strategia è ingenua. La Cina è il principale partner commerciale per la maggior parte del mondo, inclusi molti paesi dell'emisfero occidentale. Gli Stati Uniti non saranno in grado di costringere le nazioni latinoamericane a espellere le aziende cinesi, ma danneggeranno gravemente la propria diplomazia nel tentativo.
Brutalità così sfacciata da allarmare persino gli alleati più stretti
La SSN proclama una dottrina di "sovranità e rispetto", ma il suo comportamento ha già ridotto quel principio a sovranità per gli USA, vulnerabilità per tutti gli altri. Ciò che rende la dottrina emergente ancora più straordinaria è che ora spaventa non solo i piccoli Stati dell'America Latina, ma persino i più stretti alleati USA in Europa.
In uno sviluppo notevole, la Danimarca - uno dei partner NATO più leali degli Stati Uniti - ha apertamente dichiarato gli USA una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale danese. I pianificatori della difesa danese hanno affermato pubblicamente che non si può dare per scontato che Washington, sotto Trump, rispetti la sovranità del Regno di Danimarca sulla Groenlandia, e che un tentativo coercitivo statunitense di impadronirsi dell'isola è un'eventualità a cui la Danimarca deve pensare.
Questo è sorprendente sotto diversi aspetti. La Groenlandia ospita già la base aerea statunitense di Thule ed è saldamente all'interno del sistema di sicurezza occidentale. La Danimarca non è antiamericana, né cerca di provocare Washington. Sta semplicemente reagendo razionalmente a un mondo in cui gli Stati Uniti hanno iniziato a comportarsi in modo imprevedibile, persino verso i propri presunti amici.
Il fatto che Copenaghen si senta obbligata a contemplare misure difensive contro Washington è estremamente significativo. Suggerisce che la legittimità dell'architettura di sicurezza guidata dagli USA si stia erodendo dall'interno. Se persino la Danimarca crede di doversi proteggere dagli Stati Uniti, il problema non è più solo la vulnerabilità dell'America Latina. È una crisi sistemica di fiducia tra le nazioni che una volta vedevano gli USA come garanti della stabilità ma ora li considerano un possibile o probabile aggressore.
In breve, la SSN sembra convogliare l'energia precedentemente dedicata al confronto tra grandi potenze nel bullismo verso Stati più piccoli. Se gli USA sembrano un po' meno inclini a lanciare guerre da mille miliardi di dollari all'estero, sono propensi a utilizzare come armi sanzioni, coercizione finanziaria, sequestro di beni e furti in alto mare.
Il Pilastro Mancante: Legge, Reciprocità e Decenza
Forse la lacuna più profonda della SSN è ciò che omette: un impegno per il diritto internazionale, la reciprocità e la decenza fondamentale come basi della sicurezza USA.
La SSN considera le strutture di governance globale come ostacoli all'azione statunitense. Respinge la cooperazione climatica come "ideologia", anzi una "bufala" secondo il recente discorso di Trump all'ONU. Minimizza la Carta delle Nazioni Unite e immagina le istituzioni internazionali principalmente come strumenti da piegare alle preferenze statunitensi. Eppure, sono proprio i quadri giuridici, i trattati e le regole prevedibili che storicamente hanno protetto gli interessi USA.
I padri fondatori degli Stati Uniti lo capirono chiaramente. Dopo la Guerra d'Indipendenza americana, tredici Stati da poco sovrani adottarono presto una costituzione per mettere in comune poteri chiave - in materia di tassazione, difesa e diplomazia - non per indebolire la sovranità degli Stati, ma per salvaguardarla creando il governo federale USA. La politica estera del governo degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra fece lo stesso tramite l'ONU, le istituzioni di Bretton Woods, l'Organizzazione Mondiale del Commercio e gli accordi sul controllo degli armamenti.
La SSN di Trump ora inverte quella logica. Tratta la libertà di coercire gli altri come l'essenza della sovranità. Da quella prospettiva, il sequestro della petroliera venezuelana e le preoccupazioni della Danimarca sono manifestazioni della nuova politica.
Atene, Melo e Washington
Tale hybris si ritorcerà contro gli Stati Uniti. Lo storico greco antico Tucidide riporta che quando l’imperiale Atene si confrontò con la piccola isola di Melo nel 416 a.C., gli ateniesi dichiararono che “i forti fanno ciò che possono e i deboli subiscono ciò che devono”. Eppure, l’hybris ateniese fu anche la sua rovina. Dodici anni dopo, nel 404 a.C., Atene cadde per mano di Sparta. L’arroganza ateniese, l’eccessiva ambizione e il disprezzo per gli Stati più piccoli contribuirono a cementare l’alleanza che alla fine la sconfisse.
La SSN del 2025 parla un linguaggio simile di arroganza. È una dottrina del potere sopra la legge, della coercizione sopra il consenso, del dominio sopra la diplomazia. La sicurezza USA non sarà rafforzata comportandosi da bullo. Sarà indebolita strutturalmente, moralmente e strategicamente. Una grande potenza che spaventa i suoi alleati, maltratta i suoi vicini e ignora le regole internazionali alla fine si isola.
La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dovrebbe basarsi su premesse del tutto diverse: l’accettazione di un mondo plurale; il riconoscimento che la sovranità viene rafforzata, non diminuita, attraverso il diritto internazionale; la consapevolezza che la cooperazione globale su clima, salute e tecnologia è indispensabile; e la comprensione che l’influenza globale degli USA dipende più dalla persuasione che dalla coercizione.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 16:29:00 GMT