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L'altra faccia della guerra e l'altro volto di Zelensky - Ucraina e Libia: due facce della stessa guerra e la Profezia di Gheddafi - Libia 2011, i crimini impuniti della Nato - Il sanguinoso conflitto in Iraq che pone l'occidente sotto accusa - Pillole di storia dell'Ucraina
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Fra le nuove proposte dell’Europarlamento che riguardano il Gigabit Infrastructure Act c’è anche la richiesta di considerare le tower company come operatori di telecomunicazioni a tutti gli effetti, anche in termini di semplificazioni e permessi. In altre parole, le tower company sono considerate a tutti gli effetti alla stregua di operatori in fibra nella necessità di accelerare l’ottenimento dei permessi per l’installazione di nuovi impianti 5G.
Nella proposta dell’Europarlamento (scarica qui il documento) si legge nero su bianco quanto segue:
“Il relatore è favorevole all’inclusione dei gestori degli impianti associati (società delle torri) nel presente regolamento – si legge nel rapporto – Dal momento che giocheranno un ruolo fondamentale nella diffusione del wireless ad alta velocità reti di comunicazione elettronica soprattutto nelle zone rurali e scarsamente popolate o nei trasporti corridoi, le società delle torri dovrebbero poter beneficiare di procedure rapide di concessione delle autorizzazioni, simili a quelli della fibra. Per garantire la continuità dei servizi e ridurre al minimo le interruzioni, il rapporto raccomanda di proteggere le società torri da potenziali comportamenti speculativi garantendo quei proprietari di terreni, dove è già installata una torre o per i quali è già stata rilasciata un’autorizzazione concessa, negozierà a condizioni eque e ragionevoli con la società della torre. Per quanto riguarda l’obbligo di garantire un accesso equo e ragionevole agli operatori, la relazione suggerisce che le linee guida dovrebbero considerare il modello di business specifico e le circostanze del settore delle torri”.
Leggi anche: 5G e fibra, nuove regole Ue per accelerare i lavori. Tower company diventano operatori di rete
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Gli eurodeputati del comitato Industria, Ricerca ed Energia (ITRE) hanno votato a favore della relazione della rumena Alin Mituța (Renew Europe) sul Gigabit Infrastructure Act (48 voti a favore, uno contrario e 5 astenuti) (vedi EUROPE B13251A13).
Il mandato per i negoziati con il Consiglio Ue è stato anch’esso approvato dallo stesso comitato ITRE.
Il testo (scarica qui il documento) e il mandato a negoziare saranno messi in votazione alla prossima plenaria del Parlamento Ue nella sessione di ottobre.
Leggi anche: Gigabit Infrastructure Act, cosa dice il Regolamento Ue per ridurre i costi di installazione della fibra e del 5G
“Nel mondo di oggi, l’accesso a Internet ad alta velocità è una necessità e persino un diritto: il diritto alla connettività. L’obiettivo di questo atto è garantire che, entro il 2030, tutte le famiglie dell’Ue abbiano accesso alle reti Gigabit fisse e che tutte le aree popolate, comprese le aree rurali, abbiano una copertura 5G in modo che nessuno venga lasciato indietro”, ha commentato Mituța.
A tal fine, il compromesso raggiunto dai deputati il 12 settembre scorso comprende una serie di disposizioni volte a semplificare e accelerare le procedure per la concessione dei permessi per le infrastrutture, concedendo agli Stati membri solo 15 giorni per verificare che una richiesta di autorizzazione sia completamente documentata. Avrebbero quindi 2 mesi per esaminare le domande di autorizzazione.
La proposta iniziale della Commissione era di 4 mesi. Tuttavia, questo termine di due mesi può essere prorogato di un mese in casi “eccezionali e debitamente giustificati”. In assenza di risposta entro tale termine verrà concessa l’autorizzazione tacita (silenzio assenso). Alcuni Stati membri possono prevedere esenzioni qualora tale disposizione sia contraria alla legislazione nazionale.
Il testo conferma inoltre la volontà del Parlamento europeo di concentrarsi sulla riduzione del divario digitale esistente tra le aree urbane e quelle rurali. Sono previste disposizioni specifiche affinché gli obblighi di accesso alle infrastrutture di rete ospitanti siano estesi agli edifici commerciali in aree con scarsa copertura e dove non sono disponibili edifici pubblici per ospitare tali infrastrutture.
“Ci concentriamo sulle persone che vivono nelle zone rurali e remote e premiamo il lavoro pionieristico dei comuni che hanno svolto lavori preparatori per lo sviluppo delle reti in fibra ottica. Non devono restare a guardare”, ha commentato Angelika Winzig (PPE, austriaca).
Il compromesso comprende anche una serie di misure per facilitare l’accesso alle infrastrutture esistenti, come tetti, edifici e facciate. Inoltre, si prevede che le infrastrutture esistenti come pali, installazioni di antenne, torri e condotti saranno condivise tra gli operatori per ridurre al minimo i lavori di ingegneria civile. Nella relazione adottata, i deputati hanno incluso nel campo di applicazione anche le società di tralicci.
Nella sua proposta legislativa di febbraio (vedi EUROPA B13128A9), la Commissione Europea ha posto l’accento sulla condivisione delle infrastrutture, affermando che questa sarebbe una leva per ridurre i costi di installazione delle reti a banda larga, dato che le infrastrutture fisiche sottostanti – come condotte e tralicci – rappresenta il 70% dei costi di implementazione della rete.
Infine, i deputati hanno introdotto nel testo anche una disposizione volta ad abolire le tariffe per gli utenti finali per le chiamate e gli SMS all’interno dell’UE. Vogliono che queste disposizioni siano adottate prima che le norme attuali, che limitano le chiamate intra-UE a 19 centesimi al minuto e 6 centesimi per gli Sms, scadano nel maggio 2024. Una misura contro la quale si sono sollevate le telco che vogliono mantenere questa fonte di extra ricavi anche in futuro.
I negoziati interistituzionali potranno iniziare non appena anche il Consiglio dell’UE avrà adottato la sua posizione.
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Enel ha perfezionato in data odierna tramite la sua controllata al 100% Enel Green Power (EGP) la cessione del 50% delle due società che possiedono tutte le attività dedicate alle rinnovabili del Gruppo in Australia, nello specifico Enel Green Power Australia (EGPA) ed Enel Green Power Australia Trust, attualmente interamente possedute da EGP, a INPEX Corporation, a seguito dell’adempimento di tutte le condizioni previste dall’accordo di vendita firmato il 13 luglio 2023. In linea con il suddetto accordo, INPEX ha versato un corrispettivo totale di circa 142 milioni di euro, equivalente a 426 milioni di euro di enterprise value, riferito al 100%.
L’operazione nel suo complesso ha generato un impatto positivo sull’EBITDA del Gruppo Enel per circa 95 milioni di euro, oltre a un atteso effetto positivo sull’indebitamento netto consolidato del Gruppo previsto per circa 142 milioni di euro. Tale importo non include circa 203 milioni di euro di indebitamento netto deconsolidati nel 2022, in quanto EGPA era già stata classificata come “held for sale“.
L’operazione è in linea con l’attuale Piano Strategico di Enel, che prevede la realizzazione di partnership in alcuni business e aree geografiche per incrementare la creazione di valore.
Con il perfezionamento dell’operazione, si prevede che EGP e INPEX gestiranno congiuntamente EGPA, supervisionando l’attuale portafoglio di generazione da fonti rinnovabili di quest’ultima e continuando a sviluppare la sua pipeline di progetti, allo scopo di ottenere un incremento della capacità installata di EGPA. In questo modo, EGPA continuerà a guidare la transizione energetica in corso in Australia, accelerando il suo contributo al raggiungimento dell’obiettivo Net Zero del Paese.
EGPA attualmente gestisce 3 impianti fotovoltaici per un totale di 310 MW di capacità installata gross, oltre a un progetto eolico di 76 MW e a un progetto solare di 93 MW in costruzione. EGPA sta inoltre sviluppando un significativo portafoglio di progetti eolici, solari, di storage e ibridi in tutta l’Australia, oltre a espandere le proprie attività in soluzioni innovative nell’ambito delle sue attività di retail e trading.
Enel Green Power, all’interno del Gruppo Enel, è dedicata allo sviluppo e all’esercizio di impianti di energia rinnovabile in tutto il mondo ed è presente in Europa, nelle Americhe, in Africa, Asia e Oceania. Leader mondiale nell’energia pulita, con una capacità totale di circa 60 GW1 e un mix di generazione che comprende eolico, solare, geotermico e idroelettrico, oltre a impianti di accumulo, Enel Green Power è in prima linea nell’integrazione di tecnologie innovative negli impianti di energia rinnovabile.
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“La piattaforma nazionale di Telemedicina sarà attiva tra dicembre e gli inizi di gennaio prossimo e interagirà con le 21 piattaforme regionali”, ha detto a Key4biz Giuseppe Sajeva, Director of PNT Special Projects di Engineering, la società guidata da Maximo Ibarra, che gestisce la progettazione e realizzazione in RTI con Almaviva della Piattaforma Nazionale per la Telemedicina (PNT), l’infrastruttura tecnologica che dovrà governare il decollo delle prestazioni sanitarie online: Televisita, Teleconsulto, Teleassistenza, Telemonitoraggio. Sajeva è intervenuto in occasione della giornata di Alta Formazione “Telemedicina e PNRR: dalla progettazione alla realizzazione” di Assinter Academy presso la Rome Business School.
Ecco le videointerviste anche a: M. Cammarota (Assinter), G. Siccardi (AGENAS), M. Mangia (Rome Business School), M. Moruzzi (Assinter Academy) e Massimo Di Gennaro (SORESA).
In sede di Conferenza-Stato-Regioni è stato dato il via libera al decreto che prevede investimenti per 750 milioni per la Telemedicina per raggiunge nell’erogazione dei servizi almeno 200mila persone.
Le Regioni e le Province autonome hanno già adottato dei Piani Operativi che definiscono il proprio fabbisogno di servizi minimi di telemedicina e quindi il numero delle persone da assistere.
Ad Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari, andranno 50 milioni in qualità di soggetto attuatore dell’investimento e alle Regioni e alle Province autonome saranno stanziate risorse per 432.049.248 da ripartire in base al fabbisogno dei servizi minimi di telemedicina, vincolate all’acquisto sulla base delle gare fatte dalle Regioni capofila (Lombardia per servizi minimi di telemedicina e Puglia per postazioni di lavoro) riferite ai fabbisogni.
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Secondo un’indagine appena realizzata da Amazon Web Services (AWS), le telco sono alquanto interessate a salire sul carro dell’AI generativa. Interesse che in alcuni casi si traduce già in utilizzo vero e proprio.
In sintesi, la metà delle telco intervistate è in fase di approccio concreto all’AI generativa entro i prossimi due anni, mentre il 19% la sta già usando.
In generale, tutte le telco hanno individuato il valore potenziale dell’AI generativa per il business. Metà delle 102 telco intervistate nel quadro dell’indagine ha in cantiere l’adozione di servizi e applicazioni basati sull’AI.
Sulla base del feedback dei dirigenti senior delle società di telecomunicazioni in Nord America, Europa occidentale e Asia Pacifico, l’adozione è stata relativamente rapida e ad ampio raggio, considerando che la febbre GenAI ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo solo alla fine dello scorso anno, quando ChatGPT è stato rilasciato. Secondo AWS, il 19% delle società di telecomunicazioni ha implementato, o è in procinto di implementare, un caso d’uso GenAI, anche se questo varia a seconda della regione, con il 21% degli intervistati in Nord America già attivo con applicazioni GenAI e solo il 16% in Asia Pacifico (vedere il grafico sopra, che suggerisce anche che una percentuale crescente dei budget IT delle società di telecomunicazioni sarà destinata ai casi d’uso GenAI).
Ma quella cifra media del 19% è destinata a crescere rapidamente, con l’adozione prevista di casi d’uso che raggiungerà il 34% entro un anno e il 48% entro due anni.
Il caso d’uso GenAI più ampiamente diffuso attualmente è il chatbot del cliente che è pervasivo (anche se molto variabile in termini di qualità). Dal sondaggio è emerso che il 41% degli intervistati ritiene che GenAI consentirà nuove funzionalità, il 23% non ne è ancora sicuro (neutrale) e il 36% non vede attualmente il valore incrementale di GenAI.
In termini di ambiti delle telecomunicazioni in cui è probabile che GenAI venga maggiormente utilizzato, il servizio clienti e l’IT sembrano i più promettenti. In termini di casi d’uso dei clienti, il 92% di coloro che hanno risposto alle domande su quel particolare dominio ha affermato che GenAI è in fase di implementazione o valutazione e che è molto probabile che venga implementato per le applicazioni chatbot dei clienti, mentre il 75% lo considera utile per i dipendenti guidati assistenza in termini di gestione della conoscenza e risoluzione dei problemi.
Nel settore IT, l’82% sta già implementando o prevede di implementare strumenti GenAI per la generazione, il debug e il test automatizzati del codice, mentre il 79% li considera utili per l’assistenza guidata ai dipendenti e il 77% per la documentazione automatizzata del codice.
Le aspettative non sono così elevate nel dominio della rete: qui, il caso d’uso più probabile è l’assistenza guidata ai dipendenti per l’installazione, la risoluzione dei problemi e la manutenzione, con un punteggio del 62%, mentre solo il 55% prevede di utilizzare GenAI per la progettazione generativa di percorsi/reti e configurazione di rete. Il punteggio più alto nel dominio del marketing e del prodotto è stato ottenuto per la generazione di contenuti, con un punteggio del 78%.
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Dopo il via libera arrivato dal cancelliere tedesco Olaf Scholz al regolamento sulla gestione delle crisi è l’Italia a frenare sull’intesa chiave per la finalizzazione del Patto sulla migrazione e l’asilo. La proposta di compromesso avanzata dagli spagnoli ha convinto Berlino ma, evidentemente, non ancora Giorgia Meloni, e in un punto: quello che esclude i salvataggi delle Ong da situazioni di strumentalizzazione della migrazione da parte dei paesi terzi rischia di trovare l’opposizione del Governo. Lo scontro con la Germania sulle attività delle organizzazioni non governative resta altissimo: Palazzo Chigi si è detta “sorpresa” che, proprio mentre a Bruxelles era in corso il vertice decisivo per l’ok al Patto sui migranti, nel Mediterraneo navigavano 7 navi gestite dalle ong tedesche. “È una coincidenza? Cosa c’è dietro? C’è un interesse elettorale? Di altro tipo?”, ha sottolineato Antonio Tajani. La frenata di Roma ha spento l’entusiasmo che si respirava dalle parti della presidenza di turno Ue detenuta dalla Spagna.
Ursula von der Leyen, da Spalato, aveva chiesto che ci fosse l’intesa in giornata e al Consiglio Affari Interni di Bruxelles sia la Commissione che il Ministro dell’Interno iberico Fernando Grande-Marlaska attendevano l’accordo politico tra i 27. Subito dopo, una riunione dei rappresentanti permanenti avrebbe formalizzato l’approvazione del testo del Patto sui migranti. Nella sessione della riunione dedicata al dossier la tedesca Nancy Faeser, seguendo le istruzioni di Scholz, ha scandito che Berlino “accetta la proposta di compromesso spagnola”; dopo di lei, Polonia e Ungheria hanno ribadito la loro contrarietà. L’Italia è rimasta in silenzio: il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è intervenuto nella prima parte dell’incontro, dedicata alla dimensione esterna e al Memorandum con la Tunisia e poco dopo ha lasciato in anticipo la riunione, diretto a Palermo dove ha incontrato i suoi omologhi di Libia e Tunisia. Alla fine al Consiglio Affari Interni salta l’intesa. La commissaria Ylva Johansson e il ministro spagnolo, a microfoni aperti, non hanno puntato il dito contro l’Italia, si sono detti ottimisti e soddisfatti dei passi avanti fatti, scandendo che “non ci sono grandi ostacoli” all’intesa, attesa “nei prossimi giorni”. L’impressione, però, è che solo un chiarimento tra Scholz e Meloni al vertice di Granada della settimana prossima potrà sbloccare lo stallo.
Un beneficio in busta paga fino a 120 euro in più al mese per i redditi medio-bassi: potrebbe essere questo l’effetto combinato del taglio del cuneo fiscale e della nuova Irpef a tre aliquote che il Governo punta a inserire in manovra, una doppia mossa destinata ad assorbire praticamente tutti i 14 miliardi del tesoretto ricavato in deficit con la Nadef; è una direzione che la stessa premier Giorgia Meloni rivendica come una sua “scelta politica”. L’altro pilastro sono le famiglie, soprattutto quelle più numerose: il rilancio della natalità è per il Governo una priorità, così nella prossima manovra verrà tradotta in “misure concrete più strutturali” annuncia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, sottolineando che “la denominazione del ministero di cui è titolare Roccella non è un’etichetta ma un impegno per tutto il Governo”. Sul tavolo c’è già un nuovo intervento sull’assegno unico, che nella prima legge di bilancio è stato aumentato per il primo figlio e poi dal terzo figlio in poi fino a tre anni e successivamente anche in modo forfettario e strutturale per le famiglie numerose.
“Altrettanto faremo in questa nuova finanziaria”, annuncia la Ministra: “In particolare l’intervento sull’assegno unico sarà focalizzato sul terzo figlio, mentre per il secondo è allo studio un pacchetto di altre misure più articolato”. Si studiano anche una serie di altre misure, dagli aiuti con le famiglie con tre figli, che potrebbero passare attraverso un azzeramento dell’Irpef per i nuclei più numerosi, alle agevolazioni per chi assume le mamme. L’altro pilastro della manovra sarà la conferma anche per il 2024 del taglio del cuneo fiscale già in vigore da luglio (7 punti in meno per i redditi fino a 25mila euro e 6 per quelli fino a 35mila), che il Governo punta ad associare alla rimodulazione dell’Irpef da 4 a 3 aliquote. Si partirà dai redditi più bassi, accorpando i primi due scaglioni con un’unica aliquota al 23%. I calcoli sono ancora in corso, ma l’obiettivo è “agire in modo congiunto”, spiega il viceministro dell’Economia Maurizio Leo che stima “un vantaggio mensile di circa 120 euro”. Una doppia mossa necessaria, per evitare che i benefici del taglio del cuneo vengano poi erosi dalle tasse.
La Lega alza i toni nella maggioranza, Giorgia Meloni rivendica di aver fin qui “concentrato le risorse sui redditi medio bassi” mentre con cadenza quotidiana Matteo Salvini rilancia lo stanziamento per il Ponte sullo Stretto. I due piani non sono tecnicamente inconciliabili, ma non è chiaro ancora quanto spazio finanziario sarà dedicato al collegamento fra Sicilia e Calabria in una cornice che al momento la maggioranza stima attorno ai 20 miliardi. Nel calcolo per le coperture sono inclusi i 14 in deficit portati in dote dalla Nadef e i 2 che i ministeri hanno il mandato imperativo di tagliare. “Con la Nadef si certifica che la propaganda del Governo è finita da un pezzo”, attacca il leader del M5S Giuseppe Conte; per Elly Schlein il centrodestra “non riuscirà a mantenere le promesse che ha fatto”. La principale di Salvini è proprio il Ponte: alla luce anche della freddezza con cui gli alleati in questi giorni ne parlano, c’è da scommettere che su questo tema si giocherà una delle partite più calde della manovra. Giancarlo Giorgetti ha confermato che un primo stanziamento ci sarà, “connesso all’effettivo allestimento dei cantieri”. Ma la sua entità ancora non è chiara.
Per avviare i lavori basterebbero un centinaio di milioni in spesa corrente, il resto dovrebbe rientrare nel capitolo investimenti. Una fonte di Governo riferisce che alla fine sarà il titolare del Mef a decidere come procedere, visto che l’accordo fin qui era di utilizzare parte dei Fondi per lo sviluppo e la coesione di Sicilia e Calabria e poi risorse nazionali. Giorgetti ha ribadito ai Ministri la necessità che tutti partecipino ai tagli previsti dalla spending review attesa per il 10 settembre: solo tre ministeri avrebbero rispettato quella scadenza, gli altri hanno una ventina di giorni di tempo, altrimenti, ha chiarito il Ministro, quando sarà l’ora sarà lui a procedere al posto loro, con l’obiettivo di risparmiare 2 miliardi di euro nel 2024. “Mi avete fatto richieste per 82 miliardi”, ha inoltre contestato la premier ai ministri, evidenziando la sproporzione fra i desiderata e le risorse disponibili, poche e da indirizzare con attenzione. Il messaggio è quello di puntare a soluzioni concrete senza inseguire il consenso.
Prende vita il Patto antinflazione, con 32 associazioni e oltre 20mila punti vendita aderenti in tutto il territorio nazionale. L’intesa, siglata a Palazzo Chigi dalla premier Giorgia Meloni, dai ministri Adolfo Urso e Francesco Lollobrigida, riunisce imprese della distribuzione e industrie dei beni di largo consumo per offrire ai consumatori un paniere di beni a prezzi calmierati. Un “carrello della spesa tricolore”, al via da domenica, ispirato a una logica di mutualità tra istituzioni e tessuto produttivo, come ha sottolineato la premier. “Questa è un’iniziativa che mi rende orgogliosa, il segnale che questa Nazione è ancora in grado di tenersi per mano lavorando per lo stesso obiettivo: non c’è provvedimento, Governo o persona che possa davvero risolvere il problema se poi la Nazione non ti dà una mano”. Dal 1° ottobre al 31 dicembre i negozi che hanno deciso di aderire al Patto proporranno quindi una serie prodotti a prezzi scontati o bloccati, determinati dalle aziende e dalle catene distributive. Le adesioni starebbero continuando ad arrivare e, secondo le stime delle sigle, i punti vendita che aderiranno al Patto, alla fine, dovrebbero essere tra i 20 mila e i 25 mila.
Secondo le stime dei consumatori, i risparmi generati per i cittadini potrebbero essere fino a 4 miliardi, anche se, ha avvertito Assoutenti, sono ancora troppe le incognite che pesano sul protocollo firmato a palazzo Chigi, a partire dal ruolo dell’industria. In ogni caso, il messaggio che arriva, secondo il Governo, è “potentissimo”: “Troppo spesso ci siamo comportati come fossimo delle monadi, come se dalle scelte di ciascuno di noi non dipendesse anche il destino di tutti gli altri”, ha ribadito la Meloni. Ma questo Governo “sa ascoltare” e “ha l’umiltà di chiedere una mano quando deve affrontare situazioni complesse come quella nella quale ci troviamo”. Entusiasta anche il ministro Adolfo Urso, principale promotore dell’intesa: l’unità d’intenti alla base del trimestre “è un modello da perseguire in ogni contesto ed è la forza dell’Italia, che tutti gli altri attori europei avvertono. È un passo decisivo nella strategia che il Governo si è dato sin da inizio legislatura”.
La Commissione Ue non si esprime sulla Nadef e dà appuntamento al 21 novembre per un parere ufficiale sul Documento programmatico di bilancio che l’Italia dovrà presentare entro il 15 ottobre a Bruxelles. C’è da dire che la revisione al rialzo delle attese sul deficit italiano per il 2024, passato al 4,3% rispetto al 3,7% indicato in aprile, o le proiezioni sul debito non sembrerebbero una sorpresa per Palazzo Berlaymont. La Commissione Ue ha seguito passo passo la discussione politica a Roma sulla Nadef e si tende a ricordare che nelle raccomandazioni date in primavera all’Italia, e approvate dal Consiglio in estate, non c’era una indicazione sul deficit in termini nominali. Nessun numero per il disavanzo scritto a penna rossa per l’Italia, salvo quello previsto dai Trattati del limite del 3% del deficit sul Pil. Ma con la clausola di salvaguardia attiva dall’inizio della pandemia le regole del Patto sono di fatto sospese e lo resteranno fino alla fine dell’anno. Quello che la Commissione guarderà nel Dpb dell’Italia sarà soprattutto il rispetto della raccomandazione che chiede “una politica di bilancio prudente”, che limiti all’1,3% l’aumento della spesa primaria netta nel 2024. Entro il 15 ottobre andrà presentato il Dpb, ha detto la portavoce della Commissione Ue Veerle Nuyts; valuteremo “la conformità di questi piani con i pertinenti requisiti fiscali, comprese le raccomandazioni specifiche per Paese” e “pubblicheremo quindi il nostro parere” il 21 novembre.
“Ovviamente siamo in contatto con tutti gli Stati membri, inclusa l’Italia, nel corso dell’anno nell’ambito del ciclo del semestre europeo” per il coordinamento delle politiche economiche, ha aggiunto la portavoce. Che in merito alle parole del ministro Giancarlo Giorgetti (“Bruxelles comprenderà la situazione”) si è limitata a dire: “Non commentiamo i commenti”. Anche molti osservatori tendono a scommettere su una certa benevolenza della Commissione Ue verso l’Italia: in vista delle elezioni europee del prossimo anno e del rinnovo delle cariche istituzionali Ue la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen, per ottenere un secondo mandato, avrà bisogno dell’appoggio di Giorgia Meloni sia in Consiglio e sia soprattutto in qualità di leader del partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (Ecr). Sul fronte della riforma del Patto di Stabilità e crescita, intanto, sembra muoversi ancora poco, anche se all’Ecofin di Santiago gli spagnoli alla presidenza di turno dell’Ue hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo dando per possibile, oltre che auspicabile, un’intesa entro fine anno. Lunedì 2 e martedì 3 il tema potrebbe arrivare sul tavolo del Comitato economico e finanziario che si riunirà a Madrid.
Il Guardasigilli Carlo Nordio lo aveva annunciato a febbraio e ora la maggioranza passa dalle parole ai fatti dando il via alla Camera all’ennesima riforma della prescrizione, che diventerebbe la quinta negli ultimi 18 anni. Ora la maggioranza, con il sostegno di Azione e IV, si appresta a modificarla nuovamente, tornando alla disciplina introdotta con l’ex Cirielli, la legge voluta dal governo Berlusconi. “Come se fossimo in un gigantesco Gioco dell’oca” ironizza il capogruppo del Pd in Commissione Giustizia Federico Gianassi “vogliono tornare alla casella di partenza”. E il via alla riforma lo si dà in Commissione Giustizia della Camera, presieduta da Ciro Maschio (FdI), adottando come testo base la proposta di legge che ha come primo firmatario Pietro Pittalis (FdI). Il testo, come spiegano lo stesso Pittalis e uno dei relatori Andrea Pellicini (FdI), “punta a tornare alla prescrizione sostanziale”, superando di fatto le riforme Bonafede e Cartabia bloccano la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, tornando a tutti gli effetti all’ex Cirielli. Tale provvedimento supera il sistema dell’improcedibilità dell’azione penale per decorso dei termini di durata massima dei giudizi d’impugnazione. Ma abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del PNRR, si osserva nelle opposizioni, “sarebbe un vero suicidio”.
Visto che la legge Cartabia del 2021, alla quale si deve la riforma della prescrizione e l’introduzione dell’improcedibilità, è un provvedimento adottato nell’ambito del PNRR, “sotto la lente di Bruxelles”. “Lo Stato così facendo rinuncia a celebrare i processi”, commenta il leader M5S Giuseppe Conte che annuncia l’opposizione del Movimento. Ciro Maschio, però, butta acqua sul fuoco osservando che il 9 ottobre scadrà il termine per gli emendamenti ed entro tale data “tutti, maggioranza e opposizione, avranno modo di presentare ognuno le proprie proposte, che saranno senz’altro ascoltate”. Pittalis, intanto, esprime soddisfazione “per il risultato conseguito”. Soddisfatto è anche l’altro relatore, Enrico Costa (Azione), visto che è stato proprio lui a proporre di adottare la pdl Pittalis come testo base. L’Aula della Camera, intanto, ha approvato con 164 voti favorevoli e 68 contrari, il decreto omnibus che contiene anche norme sulle intercettazioni aggiungendo un nuovo tassello alla riforma della giustizia targata Giorgia Meloni.
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Tra gli obiettivi Ue, uno dei più pressanti è quello che riguarda la cosiddetta “digital decade initiative”, una serie di misure e interventi volti a favorire la trasformazione digitale a tutti i livelli entro questo decennio, fino ad arrivare a un utilizzo delle tecnologie ICT quotidiano per tutti. In questo senso un punto di partenza è il rapporto di Eurostat «Digitalisation in Europe – 2023 edition», da poco reso disponibile.
La pubblicazione di Eurostat, che analizza da vicino la trasformazione digitale europea, fornisce diversi dati preziosi per valutare questo preciso momento storico, dal punto di vista dei cambiamenti del mondo in cui ogni europeo vive e lavora: il tutto con l’obiettivo di aiutare almeno l’80% dei cittadini Ue ad avere competenze digitali entro il 2030 (nel 2021 la percentuale era del 54%). Uno dei grandi temi è senz’altro un digital divide che si muove sui binari della disparità di genere (gli uomini superano ancora di molto le donne in termini di lauree in ICT e occupazione nel settore), delle differenze sociali e di quelle anagrafiche, ma vale appena la pena di notare che questo passaggio epocale non può in alcun modo riguardare solo una parte, per quanto consistente, dei cittadini: deve contribuire a migliorare la vita di tutti.
La trasformazione digitale non riguarda, ovviamente, solo i privati, ma passa sopratutto dalle imprese, sia dal punto di vista della formazione (nel 2022, il 22% delle aziende Ue ha fornito formazione ICT al proprio personale dipendente) sia da quello dell’adozione delle nuove tecnologie. Per misurare quest’ultima variabile è stato elaborato un apposito indice, il DII o Digital Intensity Index, che monitora l’adozione in 12 tecnologie digitali diverse; nel 2022, il 70% delle imprese ha raggiunto almeno un livello di intensità digitale di base. Un elemento cruciale riguarda la dimensione delle aziende: per esempio, nel 2021 il 72% delle grandi imprese ha acquistato servizi legati al cloud computing, contro il 40% delle PMI (che, com’è noto, costituiscono una parte rilevantissima del tessuto industriale italiano). Insomma, grande è bello, almeno quando si parla di tecnologie digitali che richiedono un workflow molto strutturato e ingenti investimenti da effettuare in ricerca e sviluppo: uno svantaggio competitivo con cui l’Italia – che in altri tempi aveva costruito la sua fortuna industriale proprio su questa frammentazione – continua a fare i conti, e a cui andrà trovata una soluzione anche attraverso fusioni e acquisizioni.
Uno degli aspetti in cui Internet sta influenzando di più la vita dei cittadini europei è senz’altro quello dell’E-Government, e con l’aumento dei servizi a cui si può accedere tramite SPID o CIE anche gli italiani cominciano ad accorgersene. Secondo il report di Eurostat, il 90% delle persone nell’Unione Europea ha utilizzato internet negli ultimi tre mesi del 2022, e il 42% delle persone che l’hanno fatto nei precedenti 12 mesi lo ha utilizzato per ottenere informazioni dai siti web delle autorità pubbliche. Tutto questo a pochi giorni dai dati dell’Agenzia per l’Italia digitale e dell’Istat, effettuata dal Centro Studi Enti Locali (Csel) per Adnkronos, che ha mostrato in Italia a oggi siano state erogate identità digitali pari a 36 milioni (il quadruplo di quelle attive nell’agosto del 2020), e siano state effettuate nel 2023 257.495.757 transazioni tramite PagoPa (nel 2021 erano state 163.635.088). Eppure oltre metà degli italiani è costretta ad affidarsi a intermediari per accedere ai servizi digitali messi a disposizione dalle amministrazioni pubbliche, mancando anche delle competenze digitali di base. Questo dato allarmante viene influenzato, oltre che dall’età (tra i 65 e i 74 anni solo il 17,7% ha tali competenze, contro il 61,7% di chi ha tra 20 e 24 anni), dalla regione di appartenenza e dalle dimensione del centro abitato in cui si vive: se nel Lazio i cittadini digitalmente alfabetizzati sono il 52,9%, in Calabria la percentuale è di quasi venti punti più bassa, al 33,8%. In media, le competenze riguardano il 40,7% di chi risiede in un paese con meno di duemila abitanti e il 54,1% di chi invece vive in una grande città.
E poi c’è, in posizione privilegiata, la questione dello shopping online, e il rapporto mostra bene come la comodità dell’acquisto direttamente dal proprio PC o ancora di più dallo smartphone, a costo zero (oltre ai pochi euro del canone mensile della telefonia mobile, come mostrano le offerte messe a confronto su SOSTariffe.it), sia il volano più importante per una transizione digitale di successo. Nel 2022, il 75% degli abitanti dell’Unione Europea ha infatti acquistato od ordinato beni o servizi online: nel 2012, dieci anni prima, la percentuale era pari al 55%. Questa crescita impressionante non significa però che tutto sia rose e fiori: la pandemia e i problemi logistici che ne sono seguiti fanno ancora avvertire i loro effetti, e il 33% degli acquirenti online l’hanno scorso ha detto di aver incontrato problemi, come una velocità di consegna più lenta del previsto (anche se c’è da dire che siamo abituati molto bene, con un delivery spesso inferiore alle ventiquattr’ore) e la ricezione di beni danneggiati o errati. Ma va da sé che più si ordina più si rischia che qualcosa, prima o poi, vada storto, e che ci sia la possibilità di intasare i meccanismi di distribuzione.
Due ultime note dal rapporto arrivano per l’Internet of Things, sempre più pervasivo (con il 72% degli utenti internet che ha utilizzato dispositivi o sistemi connessi a internet nel 2022) e la sicurezza (il 22% delle aziende UE che ha sperimentato incidenti di sicurezza ICT nel 2022, portando a una crescente enfasi sulle misure, pratiche e procedure di sicurezza per prevenire incidenti e assicurare l’integrità, la disponibilità e la riservatezza dei dati e dei sistemi). Ormai non c’è quasi aspetto della vita quotidiana e lavorativa di un cittadino europeo che, in varia misura, non sia influenzato dalla trasformazione digitale, ma non per questo le sfide mancano, anzi: il 2030 è dietro l’angolo.
Fonti:
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Gli effetti della crisi energetica dello scorso anno continuano a farsi sentire sulle tasche degli italiani. Nonostante i valori record dei prezzi di luce e gas registrati nel 2022 sembrano essere ormai superati, le tariffe applicate alle bollette si mantengono alte e, in un contesto di stabilità del mercato, si traducono in bollette pesanti, soprattutto per chi è nel regime di maggior tutela. Analizzando i dati raccolti dall’Osservatorio di Segugio.it si notano in particolare due aspetti su cui vale la pena fermarsi a riflettere.
Innanzitutto, il caro bollette, seppure generalizzato, presenta delle forti differenze a livello regionale e, in secondo luogo, il risparmio garantito dal mercato libero è netto. Scegliendo le offerte luce e le offerte gas migliori, infatti, si risparmiano in media ben 686 euro all’anno. Per valutare quanto è possibile risparmiare sulle utenze domestiche si può usare il comparatore di SOStariffe.it. Si tratta di uno strumento gratuito e intuitivo da usare, che mette a confronto le tariffe di più fornitori luce e gas e permette di avere una stima affidabile dei possibili risparmi, tenendo conto dei propri consumi e delle abitudini di utilizzo dell’energia elettrica e del gas.
La regione italiana che spende di più per la bolletta elettrica in regime tutelato è la Sardegna, con una spesa media di 1.467 euro. Questo dato è in parte giustificato dal fatto che la distribuzione del gas metano in Sardegna è ancora limitata e che molte famiglie utilizzano l’energia elettrica anche per sopperire all’assenza del gas.
La seconda regione nella classifica della spesa più alta in regime tutelato per il mercato dell’energia elettrica è il Lazio, con una spesa media di 1.437 euro. Considerando che la spesa media in Italia per chi è nel regime tutelato è di 1.388 euro, ci si può fare un’idea di quanto le utenze siano care in queste regioni. Per le utenze luce che sono passate al mercato libero la regione che ha la spesa più elevata è di nuovo la Sardegna, con 978 euro. Segue il Veneto, con una spesa media di 969 euro.
La situazione è leggermente diversa per quanto riguarda la spesa per la bolletta del gas. La regione che spende di più in regime tutelato è la Valle d’Aosta, con un esborso di 1.657 euro all’anno, seguita dalla Calabria, con 1.609 euro. Nel mercato libero lo scenario cambia: la regione più cara è la Calabria, seguita dalla Valle d’Aosta. A cambiare sono anche i valori relativi alla spesa, che scendono, rispettivamente, a 1.375 euro e a 1.341 euro.
La regione che spende di meno per l’energia elettrica nel mercato tutelato è la Valle d’Aosta, con una spesa media annua di 1.304 euro. Seguono il Trentino-Alto Adige, con 1.334 euro, e la Liguria, con 1.336 euro.
Nel mercato libero della luce, invece, il valore di spesa più basso si registra in Liguria, con una spesa media annua di 900 euro. Al secondo posto si posiziona la Basilicata, con 914 euro, e al terzo posto la Calabria, con 918 euro.
Per quanto riguarda il mercato tutelato del gas, invece, la spesa regionale è più bassa in Liguria, pari a 1.169 euro. Le regioni che seguono sono più staccate: in Lazio, la regione che si trova al secondo posto, si spendono in media 1.333 euro e in Basilicata, la regione al terzo posto, 1.363 euro.
Considerando i dati relativi al mercato libero si nota come la spesa media si abbassi di molto. La Liguria si conferma la regione con le bollette del gas più basse, con 990 euro. Al secondo posto si piazza il Trentino-Alto Adige, con 1.117 euro, e al terzo posto si conferma la Basilicata, con 1.126 euro.
Per abbassare il costo delle bollette luce e gas la prima cosa da fare è ridurre i consumi. Usare l’elettricità e il gas solo quando necessario aiuta a tenere bassi i costi e permette di controllare meglio la spesa per le bollette. Le rilevazioni dell’Osservatorio di Segugio.it ci dicono che tra il settembre 2022 e il settembre 2023 i consumi di energia elettrica in Italia sono scesi di circa l’8%, mentre i consumi di gas sono aumentati del 12%.
Oltre a consumare luce e gas in maniera oculata, si può risparmiare scegliendo di passare dal mercato tutelato al mercato libero. Per chi è già passato al mercato libero può essere conveniente cambiare fornitore e scegliere quello con le tariffe più competitive. Le migliori offerte del mercato libero per chi ha un’utenza luce e gas a settembre 2023 garantiscono, in media, un risparmio annuo di 686 euro, quasi cinque volte quanto si riusciva a risparmiare solo un anno fa.
Se a settembre 2022 il mercato libero garantiva un risparmio medio a livello regionale compreso tra 56 euro e 147 euro, a settembre 2023 il dato medio del risparmio a livello regionale va da un minimo di 488 euro a un massimo di 747 euro all’anno. Questi valori mostrano come sia più conveniente che mai considerare il passaggio al mercato libero e confrontare le offerte dei diversi operatori per riuscire a trovare quella che assicura il massimo livello di risparmio.
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Stefano Rolando in un mini saggio dedicato al tema “25 luglio-8 settembre 1943. Il potere esplode come una bomba[1]” anticipato sul numero di settembre di Mondoperaio riprende e approfondisce il tema della discussione su quella che nell’occhiello definisce la ” maggiore crisi identitaria dell’Italia contemporanea”. Riprendendo il paradigma delle molte verità sulle vicende della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo oggetto di studio da parte di Emilio Gentile Rolando propone “Quattro idee sulla natura del otere nel fascismo” prima di esaminare “Il concatenarsi dei fatti” in quei 45 giorni e considerare “La storia ancora non univoca, dal 25 luglio del ‘43 al 25 aprile del ‘45”, ovvero come “ancora oggi collocare la verifica di una interpretazione storica che riguarda la fase finale, di tramonto e sconfitta del fascismo italiano”. Rolando considera “Decisiva l’analisi dell’8 settembre” prima di concrentarsi su come “La frattura 1943-1945” viene percepita dall’attuale governo Meloni: “Sull’asse 25 luglio-8 settembre – per giunta nell’ottantesimo – è in gioco il giudizio etico-politico delle ragioni di valorialità della continuità del regime fascista oltre il suo naturale perimetro storico e contro l’interesse nazionale” scrive Rolando prima di riservare il paragrafo finale all’epilogo di una personalità come quella di “Benito Mussolini e la Repubblica Sociale Italiana” che “senza orgoglio, senza obiettivi strategici, senza una speranza per sé stesso, consapevole del senso unico imboccato subendo ulteriormente il ricatto nazista, […] scende nel girone infernale della sudditanza e consegna ad un falso sé la responsabilità di una guerra civile che lui stesso aveva il potere di evitare senza forse dovere ancora entrare – per i suoi stessi fedeli – nella irrevocabilità del ‘male assoluto'”.
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Spesso, nella scrittura giornalistica o saggistica, quando si vuole alludere ad una verità complessa, sfaccettata, con apparenze e immanenze in continua contraddizione, si fa riferimento a generi narrativi che contengono elementi archetipici.
Un caso diffuso è quello di Rashomon, film del 1950 di Akira Kurosawa, che il produttore non voleva nemmeno promuovere e che finì per caso (grazie all’italiana Giuliana Stramigioli, allora docente di italiano a Tokyo) alla Biennale di Venezia, vincendo il Leone d’oro (e poi anche l’Oscar). Un caso – più noto agli italiani, malgrado l’autore abbia un suo posto nel Novecento europeo – è quello di Uno, nessuno e centomila, ultimo lavoro di sintesi intellettuale e civile di Luigi Pirandello, iniziato nel 1909 ma concluso in volume nel 1926, che l’autore definì “il romanzo della scomposizione della vita”.
Non casualmente, lo storico Emilio Gentile con il suo 25 luglio 1943[2] mette al centro del “Prologo” il riferimento a Rashomon. Per riferirsi al paradigma delle molte verità sulle vicende della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo, stando ad un rapporto esplicito e implicito, intenzionale e allusivo, attivato e subito, dichiarato e negato, tra i suoi protagonisti per quanto i fatti e le dichiarazioni nell’immediato e in seguito hanno permesso di intendere.
E insieme, non casualmente – se è consentito mettersi in questa scia, in condizioni di evidente minoranza scientifica – concludendo un mio lavoro di lunga e lenta stesura dedicato all’8 settembre 1943 (45 giorni dopo quel 25 luglio, consegnato di recente all’editore, per gli 80 anni di questo evento), ho fatto ricorso alla metafora pirandelliana non tanto nel senso delle “molte verità” dei fatti, ma nel senso del carattere confuso delle molteplici personalità messe in campo soprattutto dal principale protagonista di quei fatti. Cioè Benito Mussolini, considerato in grave e contraddittorio rapporto con i destini della Nazione.
Questi 45 giorni – una transizione veloce per la sua traiettoria oggettiva ma immensa per i contenuti impliciti che hanno costituito la maggiore svolta identitaria nazionale del Novecento – mettono tra loro in relazione conflittuale quattro concezioni del potere che, appunto, la prima metà del secolo scorso ha sviluppato in tutta la sua fragorosa e drammatica evoluzione.
La prima concezione è costituita dalla forma e dalla sostanza del potere – quello creato e stabilizzato dopo il trauma “rivoluzionario” del ’22 e la sua riduttiva evoluzione a “regime” – che potremmo considerare proprio di una dimensione autarchica della Nazione, che trova il suo ultimo posto nella civiltà colonialista per pretendere di stare al tavolo dei grandi ma che nessuno considera “potenza alla pari”. Creando così quello spazio intermedio tra grandi e piccole potenze che fa dell’Italia un Paese che si accontenta di una collocazione autonoma a copertura dei suoi numeri (modesto PIL, alta emigrazione, forti disuguaglianze), collocazione comunque sempre sostenuta dalle sue narrative propagandistiche.
La seconda concezione riguarda l’evoluzione del potere nella internazionalizzazione conflittuale della scena europea. Ed è prodotta dalla accelerazione della riscossa tedesca rispetto alle condizioni della pace di Versailles, concepita dal nazismo con una accentuazione dell’organizzazione militare e di polizia tesa a rifare i conti con le “potenze” vincitrici della prima guerra mondiale e il loro schema di potere (che comprende, strampalata invenzione, anche il sistema ebraico). In quello schema l’Italia avrebbe dovuto essere tra i nemici d’origine, ma grazie alla filiazione del nazismo dal fascismo viene considerata un alleato subordinato, idoneo ad una copertura dei limiti mediterranei dell’influenza tedesca.
La terza concezione si incardina tra il 1942 e il 1943 e riguarda il potere nella degradazione dell’andamento del conflitto bellico, in cui l’arroganza presuntuosa dei pieni poteri sia civili che militari che Mussolini assume scegliendo – nell’accreditamento del blitz Krieg – di accodarsi al presunto vincitore “gettando sul tavolo la sua manciata di morti” nel fronte meridionale e mediterraneo dell’Europa – si rivela un rischio politico andato oltre la gestibilità che mette alle corde la credibilità interna e internazionale del regime.
Il quarto snodo rappresenta la parte terminale di quel lungo ciclo: il potere nella caduta della forza negoziale delle istituzioni italiane di fronte alla crescente “tenaglia” rappresentata dai tedeschi (il 19 luglio Hitler, informato della manovra di deposizione di Mussolini, incontra lo stesso Mussolini a Feltre) e dagli anglo-americani. Tenuto conto dello sbarco americano in Sicilia avvenuto il 10 luglio del 1943 e tenuto conto del canale vaticano che Mussolini aveva aperto per trattare riservatamente con gli alleati (ancora troppo vago il ruolo dei russi, che tuttavia contano nelle linee di influenza del sud-est della geopolitica del tempo).
Da molti anni si è ben colta la convergenza di questi quattro fiumi carsici del rapporto tra potere, istituzioni e destini nazionali in un evento che appartiene non all’agenda tipica delle “svolte” della storia, svolte costituite dalle battaglie in armi, vinte o perse sul campo (l’ultima, che ancora risuonava nella coscienza italiana, era la Caporetto del 24 ottobre 1917).
Ma alle battaglie più curiali, in cui le penne stilografiche sostituiscono lame e moschetti e in cui si avanza e si indietreggia a colpi di ordini del giorno.
Ci si riferisce – come è ben evidente – alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo in cui prenderanno corpo tutte e quattro le forze emergenziali di questi processi infiammati. Ma dentro la cornice di una grande ambiguità, rappresentata dal fatto che il presidente di quel Gran Consiglio (che non era il “governo”, malgrado suoi sei ministri tra i membri; e che si limitava ad affiancare il quadro istituzionale) era il duce, che aveva il potere di convocarlo, di definirne l’ordine del giorno, di contraddire in evidente coerenza antidemocratica il suo andamento, di dichiararlo esaurito o terminato.
Mussolini si limiterà a convocare e togliere la seduta. Interverrà tre volte, con toni tesi. Non ricorrerà – come Giulio Cesare alle Idi di Marzo – ai suoi poteri di difesa personale, al di là di qualche contorcimento delle seconde e delle terze file. Il capo del fascismo è in prossimità dei suoi sessant’anni.
Ne fa cenno lui stesso – scrive Gentile[3] – per adombrare la possibilità di “chiudere questa bella avventura che è stata la mia vita”, ma proprio intervenendo in quel Gran Consiglio un passo dopo si trincera dietro la dichiarazione: “la mia fiducia nella vittoria della Germania e nostra è oggi intatta”).
Questo carattere auto-limitato, trattenuto, spinto dalla storia più che dal carattere volitivo, di chi ancora nel 1943, a 21 anni dalla marcia su Roma, rappresentava un “potere in apparenza assoluto”, diventa così la chiave interpretativa che Emilio Gentile mette al servizio di carte lungamente esaminate e riesaminate nel corso della sua opera di studioso.
Insieme a quella di tanti altri che hanno concorso a formare quello scaffale che va sotto il nome di “lungo viaggio dalla dittatura alla democrazia”.
Il 25 luglio Mussolini, dopo i venti minuti di colloquio con il re Vittorio Emanuele III a Villa Savoia, alle 17.20 è arrestato dai carabinieri.
Il 23 settembre – due mesi dopo – si costituisce la Repubblica Sociale italiana, che fino ad inoltrato 1944 arriva fino a ben sotto Roma e quindi riguarda due terzi dell’Italia, poi riducendosi al nord per la progressiva risalita degli anglo-americani e la liberazione del territorio.
Di mezzo (tra luglio e settembre), prima la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso (da parte del commando delle SS guidato da Otto Skorzeny) poi il nuovo incontro con Hitler a Rastenburg per le intese essenziali sulla immediata ricostruzione nel centro-nord Italia di uno Stato repubblicano che ricomprendeva il regime fascista con il presidio militare e di polizia dei nazisti.
Il 3 settembre a Cassibile (Siracusa) il generale Castellano, plenipotenziario del nuovo capo del governo italiano Pietro Badoglio, firma con gli anglo-americani l’armistizio.
La notizia viene embargata per cinque giorni per mettere a fuoco una linea di condotta rispetto all’inevitabile reazione tedesca, embargo interrotto la mattina dell’8 settembre dalle comunicazioni del generale Eisenhower da Radio Algeri che costringono il maresciallo Badoglio a pubbliche comunicazioni nel tardo pomeriggio, comunicazioni note come il “proclama di Badoglio” in cui si reitera l’’espressione già contenuta in una prima dichiarazione al momento della nomina: “la guerra continua”.
Il proclama non spiega né con chi, né contro chi.
Come è stato ricordato, anche in recenti rievocazioni mediatiche,
“il cambio di governo non fu accompagnato da una dichiarazione di resa”[4].
Lo spiega la Cancelleria del Terzo Reich che il 9 mattina con una nota furibonda esige la consegna delle armi ai tedeschi stessi di qualunque reparto militare italiano, pena il diritto dei reparti germanici di passare per le armi i “traditori”.
In Italia lo sbandamento generalizzato delle forze armate si risolse in un sostanziale “tutti a casa”. All’estero (Grecia, Balcani, Africa) l’impossibilità di movimentare truppe, aprì le porte a 800 mila arresti e traduzione in campi di concentramento di militari italiani da parte tedesca, con gravissimi eccidi (a Cefalonia con 15 mila morti) ma anche con coraggiose azioni di intere compagnie italiane che si assunsero la responsabilità di trasferirsi in montagna in condizioni “resistenziali” contro i tedeschi.
I fatti, riassunti così in questa ventina di righe, si condensano in un lampo drammatico che tuttavia si profilò per quei lunghissimi 45 giorni, in cui l’Italia fascista del “Vincere! E vinceremo” si spezzava in due, consegnata dal sud al centro all’avanzata degli anglo-americani e al nord all’occupazione nazista, con una crisi di tenuta e di ruolo di ogni istituzione, da quelle locali al Quirinale (di mezzo anche la fuga dei Savoia da Roma, da poco bombardata, verso Brindisi). Ma con logiche politiche che si andavano formando nelle due parti, ormai separate e in conflitto, del Paese.
Al centro-sud il riemergere dei partiti democratici in condizione di negoziare con gli anglo-americani il processo di liberazione nazionale che porterà due anni dopo alla riunificazione nazionale indipendente e alla Costituente.
Al nord l’antica condizione di servaggio, pre-risorgimentale, con il fascismo fallito a svolgere compiti di polizia, di concorso all’attuazione delle leggi razziali e con bande di repressione dei movimenti di resistenza; ma con trecentomila giovani in rappresentanza di molteplici idealità politiche che si batterono per due anni per restituire internazionalmente l’onore agli italiani.
E in questo schematico giudizio storico – che, salvo la letteratura filofascista, appartiene a quasi tutte le correnti di opinione che si riconosceranno nelle parti elettive della Costituente – che si deve ancora oggi collocare la verifica di una interpretazione storica che riguarda la fase finale, di tramonto e sconfitta del fascismo italiano.
Una lettura sostiene l’inevitabilità del posizionamento di orgoglio di un Paese che non era più nelle condizioni di condurre con successo le sue operazioni militari ma che avrebbe dovuto mantenere fedeltà di alleanza con la Germania e reagire alla devastante dissoluzione del quadro istituzionale, in una linea di continuità del “nazionalismo” politico che il fascismo aveva consolidato e che la Repubblica di Salò avrebbe voluto mantenere come visione di identità politica.
Anche se storici e giuristi sostanzialmente concordano con la definizione di “Stato fantoccio”, la “visione repubblichina” si è più volte dipanata attorno al principio del “male minore” per l’Italia che comportava l’accoglienza del ricatto nazista (“altrimenti faremo dell’Italia peggio della Polonia”, avrebbe detto Hitler a Mussolini appena liberato dalle SS).
Un’altra lettura considera le scelte e l’andamento della guerra come una sequenza di errori, dalla posizione filo-nazista delle alleanze alla gestione di imprese militari per le quali la propaganda non era sufficiente a creare condizioni tecniche di fronteggiamento, fino all’emergere di un’esigenza superiore dell’interesse nazionale per arrivare ad un armistizio per preservare le città, la popolazione e gli stessi soldati dalla catastrofe.
Esigenza prima assunta dalla maggioranza stessa dei membri del Gran Consiglio (con il passaggio da 6 a 19 voti favorevoli all’odg Grandi che in quella seduta chiedevano a Mussolini di rinunciare alla suprema responsabilità militare della Nazione restituendo quella responsabilità al re), ma poi anche a reparti militari in intesa con la Corona, per esautorare completamente il duce e creare un governo di transizione defascistizzato.
L’analisi che Emilio Gentile esprime nelle oltre trecento pagine del suo 25 luglio 1943, come brevemente anticipato prima (e come focalizzato nella intervista concessa a Walter Veltroni sul Corriere della Sera per lanciare la riedizione del saggio[5]) si muove attorno alla comprovazione storica (testimonianze, memorialistica, interviste che spostano fino agli anni Ottanta la discussione tra queste due parti che si contrapposero con le armi dal 1943 al 1945 e poi fino ad oggi con un andirivieni di rigurgiti e negazionismi) è quella della inclinazione personale di Mussolini di “scendere dal treno della storia”.
Di più: percepire la parabola della guerra, dopo il tentativo tra il 1939 e il 1940 di non schierarsi apertamente, poi con il convincimento di una soluzione “rapida” dell’inevitabile conflitto, come una sconfitta personale.
La domanda che va formulata oggi a tutti coloro che sostengono l’aspetto onorevole e coraggioso dello schieramento filo-nazista dei repubblichini e dell’ingaggio nella guerra civile per debellare l’altra tesi dell’onore e del coraggio degli italiani, riguardante i partigiani, è insomma questa: dove sta l’interesse della nazione, nel momento in cui Mussolini concede alla storia la sua uscita di scena e che resta invece in scena solo perché il ricatto generale di Hitler diventa insostenibile per sé, per i gerarchi, per i gruppi dirigenti, per la nomenclatura, insomma per tutti coloro che pensano che la partita non sia ancora da considerarsi finita?
Si allunga anche in questo frangente la reiterata e dolente riflessione storiografica sull’8 settembre, nel cui lungo percorso di analisi primeggia la ricostruzione pubblicata nel 1993 da Elena Aga Rossi, allieva di Renzo De Felice, che fissò nel titolo stesso del suo testo lo spartiacque drammatico del Novecento “Una nazione allo sbando”[7].
Nelle cinque pagine della Lettura (Corriere della Sera del 20 agosto), animate da Antonio Cairoti[8], interviene con altri studiosi con approfondimenti che sono parte della trama qui brevemente accennata.
La condotta di governo seguita da Pietro Badoglio:
“Disastrosa. Non fu dato agli Alleati il contributo promesso all’armistizio. Si rifiutò l’opportunità di avere il sostegno di una divisione americana aviotrasportata. Si cercò, senza riuscirci, di ingannare i tedeschi”.
Unità nazionale e orientamento dei soldati italiani;
“Si spezzarono certamente il consenso e l’unità nazionale. Ma la maggioranza dei militari rimasero fedeli al giuramento ai Savoia e lo dimostra il comportamento dei 600 mila militari internati, che rifiutarono di tornare in patria per non aderire alla Repubblica Sociale Italiana”.
Perché Mussolini accetta l’imposizione di mettersi a capo della Repubblica Sociale Italiana:
“Sembrò accettare di essersi messo da parte quando scrisse la lettera a Badoglio dopo il 25 luglio. L’impressione è che si considerasse un uomo finito. Le foto della sua liberazione dimostrano che non era affatto contento per l’arrivo dei tedeschi sul Gran Sasso. Ma Hitler usò nei suoi confronti minacce e blandizie. De Felice sostenne che lo fece per salvare il salvabile. Se avesse rifiutato sarebbe rimasto nelle mani dei tedeschi e Hitler avrebbe messo al suo posto Farinacci. Per Mussolini una cosa inaccettabile”.
“La frattura fascisti-antifascisti non si è mai davvero ricomposta. È un problema che riguarda l’identità italiana che non siamo ancora riusciti a risolvere”.
Domande legittime
Ci siamo dunque arrivati a questo quesito, qui in un breve articolo ma anche in tante altre occasioni di confronti tra studiosi ed esponenti del quadro politico, a fronte di un inventario sia dei punti acquisiti del dibattito storiografico, sia degli “spunti” – non moltissimi, ma visibili – di ciò che è emerso nell’occasione di questo “ottantesimo”.
Questa domanda sottende la linea di confronto che, anche su queste pagine, abbiamo sostenuto dal settembre del 2022 a proposito del governo Meloni. Cioè, un governo che ha fatto mutare l’equilibrio dal centro-destra della seconda repubblica a un destra-centro in cui il traino e la regia è assunta da un partito che mantiene nel simbolo la continuità simbolica post-fascista. Un partito nato reattivamente al partito di AN che, sdoganato e portato al governo dal leader della coalizione Berlusconi, in cambio dichiarò il fascismo “male assoluto”.
Questa discontinuità, unita a coerenza di posizioni fino a tutto il governo Draghi, ha costruito sulla progressiva debolezza di Forza Italia e della Lega un mutamento sostanziale di baricentro e un forte cambiamento nell’occupazione dei posti di potere.
Le ambiguità narrative di Giorgia Meloni hanno avuto confutazioni e conferme in entrambi i casi con argomenti veri.
Da un lato la ripetuta spiegazione ufficiale della sua estraneità sostanziale al fascismo, perché generazionalmente fuori da quella storia e da implicazioni familiari.
E dall’altra parte la radice dei sentimenti di appartenenza della premier Meloni stessa e del gruppo dirigente prevalente di cui si circonda, nel vissuto contestativo al sistema dei partiti dell’arco costituzionale, però da una posizione orgogliosa del segnale simbolico di continuità morale con il fascismo.
In forza di questo dilemma non sciolto, la domanda appare legittima. Forse anche di più rispetto al contesto dell’anniversario del 25 aprile, alla fine tortuosamente aggirato.
Sull’asse 25 luglio-8 settembre – per giunta nell’ottantesimo – è in gioco il giudizio etico-politico delle ragioni di valorialità della continuità del regime fascista oltre il suo naturale perimetro storico e contro l’interesse nazionale[9]. Anche se questo arco di date non costituisce vincolo (come il 25 aprile o il 2 giugno) per indurre il governo o la premier a fare dichiarazioni.
Comunque questo appare il punto focale circa quasi tutti i dibattiti che si vanno ripetendo per un continuato tentativo di parte governativa di “riscrivere la storia”.
Ci prova infatti anche il ministro della Protezione civile, ex governatore della Sicilia, Nello Musumeci, da sempre in formazioni politiche post-fasciste, che ridisegna gli anglo-americani come “nemici, invasori, terroristi” ed elogia (attribuendo l’elogio al popolo siciliano) il “contegno disciplinato dei nazisti”[10].
Per arrivare a profilare una risposta, questa è la griglia di metodo che ispira la linea di scrittura di questo articolo.
Lo scopo è di discutere anche usando i paradigmi superiori di analisi (appunto, l’interesse nazionale) invocati di solito per contrastare l’avversario non per porsi criticamente di fronte alla realtà e alla storia. Discutere per esempio anche l’impostazione – in questo caso intesa come “linea di governo” – che Giorgia Meloni attribuisce alla valutazione storica del fascismo in ordine alle implicazioni con l’evoluzione politica italiana.
La sua “lettera al Corriere” in occasione del 25 aprile[11] sfugge da un’icastica e definitiva presa di posizione. Utilizza il “sì, ma” come metodo di analisi.
Dunque, ammette, rifiuta, riammette, distingue, eccetera.
Ci sono alcuni periodi che la tengono legata alla versione costituzionale corrente (“Il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”).
Ma la preoccupazione fondamentale è sempre quella di recuperare la maggiore legittimità possibile per gli italiani collocati – dal passato al presente – nella “parte sbagliata della storia”:
“Capisco quale sia l’obiettivo di quanti, in preparazione di questa giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma molto hanno a che fare con la politica. È usare la categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico: una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto”.
La diaspora interpretativa di protagonisti e testimoni è proseguita almeno per trent’anni dopo la guerra attraverso la contradditoria memorialistica. Ora – trenta anni dopo – riprende su territori più scivolosi ma a volte anche meno scientifici. Dunque, porre la questione alla “storia contemporanea” di fare ordine nelle montagne russe della materia, cosa sempre utile, ora è doverosa. Chi qui scrive non assume responsabilità scientifica propriamente storica, ma piuttosto quella dell’analista del dibattito pubblico che ha componenti politologiche, mediologiche, sociologiche, storiche e di filosofia politica.
Questo richiede – per la discussione invocata – di non eludere la metodologia della ricostruzione storica a fronte di fonti possibilmente inquinate (ovvero auto-corrette). Chiede – come qui si è pur un po’ sbrigativamente provato a fare – di connettere intimamente il 25 luglio con l’8 settembre[12].
Chiede di avere presente, in ogni circostanza, nella complessità dei fatti di quei 45 giorni, la citata tenaglia (tedeschi e anglo-americani) come la forzante storica dell’annientamento identitario italiano[13].
Chiede di tenere in considerazione – nei limiti di una generale esposizione psicologica del ruolo dei principali protagonisti tra loro segnati da storie interpersonali complesse[14]– l’evoluzione comportamentale del rapporto di Mussolini con la realtà e con il copione a cui l’autoritarismo ventennale lo aveva abituato.
Chiede, alla fine di queste accortezze, di riconoscere il tema dell’interesse nazionale nel rapporto tra fascismo, guerra e guerra civile come ambito di indagine prevalente per l’aggiornamento della valutazione storica[15].
Per questo si è cominciato con il paradigma Rashomon (le molte verità) e si finisce con Uno, nessuno e centomila (cioè, le sfaccettature di una personalità).
Anche se il racconto attorno alla figura di Vitangelo Moscarda, salvo il tema che una psicologia disturbata e quella di un dittatore assediato possono avere in comune l’idea di distruggere le molte immagini che gli altri vedono di sé, pensando al Mussolini tre volte più anziano del personaggio pirandelliano e mille volte più esposto nella vicenda umana e pubblica, non consente altro che allusioni generali in cui il titolo dell’opera conta forse più della trama.
Emilio Gentile sintetizza così il paradigma Rashomon:
“Fu una temeraria impresa di patrioti, come sostenne Grandi, una subdola congiura di traditori, come sostenne Mussolini, o un suicidio, consapevole o involontario, di un regime, come sostenne Badoglio?”[16]
Complessa e dibattuta anche la questione della scomposizione delle personalità, con al centro l’epilogo della storia personale del duce. Ma che ci restituisce una figura in una dinamica che prende forma in tutti gli accertamenti storici. Mussolini rientra nel film o nel viaggio della sua storia da cui si è fatto prendere dalla sensata debolezza di voler scendere, proprio perché l’interesse nazionale che ha sorretto il suo massimalismo giovanile, che ha sorretto la sua volontà di riorganizzare la vita pubblica dopo lo sconquasso della prima guerra, che ha persino sorretto la sua visione di sostituire sogni imperiali alle disagiate virtù della democrazia, è uscito dal quadro degli obiettivi raggiungibili. Ed è quindi senza orgoglio, senza obiettivi strategici, senza una speranza per sé stesso, consapevole del senso unico imboccato subendo ulteriormente il ricatto nazista, che scende nel girone infernale della sudditanza e consegna ad un falso sé la responsabilità di una guerra civile che lui stesso aveva il potere di evitare senza forse dovere ancora entrare – per i suoi stessi fedeli – nella irrevocabilità del ‘male assoluto’.
[1] Testo pubblicato sul n. 9/settembre 2023 della rivista Mondoperaio. Cf https://stefanorolando.it/?p=8105.
[2] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, edito da Laterza nel 2018 riproposto in volume dal Corriere della Sera in questo 2023.
[3] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, op. cit. alla nota 2, p. 141, con la pubblicazione di una parte del primo dei tre interventi pronunciati da Mussolini in quella seduta.
[4] Lo scrive, tra gli altri, lo storico Nicola Labanca, “Così il proclama di Badoglio scatenò 45 giorni di caos”, Domani, 7 agosto 2023.
[5] Walter Veltroni, «Sul 25 luglio troppe bugie». Intervista a Emilio Gentile, sul suo saggio con il «Corriere» (Corriere della Sera, 15 luglio2023). Tra le affermazioni dello storico:
“Lui si sente un uomo finito. In primo luogo, perché vede il Paese catastroficamente devastato dalle sue assurde ambizioni belliche, ma anche perché, forse, era da tempo convinto che, quando un duce perde il carisma e resta isolato può decidere la propria eutanasia politica”.
[6] Questo breve paragrafo, contenuto nell’ultima versione di scrittura, non ha trovato posto nella versione impaginata e pubblicata.
[7] Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna, Il Mulino 1993.
[8]“8 settembre, l’Italia è spezzata. Conversazione di Antonio Cairoti con Elena Aga Rossi, Filippo Focardi e Alessandra Tarquini”, La Lettura (allegata al Corriere della Sera, 20 agosto 2023).
[9] Agli occhi di chi scrive, questo argomento resta ancora terreno di discussione aperto in un campo in cui valgono anche alcuni degli argomenti messi in campo da Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, quando avverte “Opposizione sveglia! Non si batte più Meloni con il modello 25 aprile” (17 luglio 2023) esplicitando nell’occhiello l’argomento: “Meloni è cambiata, l’opposizione no: è ferma al passato”. Interessanti e accettabili alcune argomentazioni, ma il cambiamento non è su tutto e il “passato” non è l’unico obiettivo delle perplessità e delle critiche.
[10] Così fa sintesi Marco Patucchi, su La Repubblica del 10 agosto 2023, recensendo La Sicilia bombardata, Rubbettino editore) di Nello Musumeci.
[11] La versione integrale sul sito del Governo: https://www.governo.it/it/articolo/anniversario-della-liberazione-la-lettera-del-presidente-meloni-al-corriere-della-sera.
[12] Tra i contributi giornalistici più organici e ampi sul punto, la serie di articoli su La Repubblica tra le due date nell’80°anniversario di Ezio Mauro, editorialista e già direttore del quotidiano, sul tema “La caduta. Cronache della fine del fascismo” (luglio e agosto 2023).
[13] Nelle pagine di Emilio Gentile, ampio spazio è dedicato alle figure comprimarie. In cui Dino Grandi resta impigliato nella sua lunga storia di adulatore e di figura con ambiguità, mentre la maggiore percezione lucida della “tenaglia” appartiene agli interventi di Giuseppe Bottai.
[14] Un caso per tutti, legato a questo tratto di storia, la vicenda di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, già suo ministro degli Esteri, che il duce (ormai ex) manda alla fucilazione dopo il processo di Verona a carico dei firmatari dell’ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio.
[15] In un’analisi delle vicende del 25 luglio scritta in occasione del recente anniversario (“Tra il 25 luglio e 8 settembre, ottanta anni dopo. Banco di prova importante anche per l’Italia di oggi”, Democrazia Futura III (2) aprile-giugno 2023, pp. 755-758, testo anticipato dal magazine online Key4biz – https://www.key4biz.it/democrazia-futura-tra-il-25-luglio-e-8-settembre-ottanta-anni-dopo/454734/) avevo aggiunto, in proposito, questa annotazione:
“L’immediata dissoluzione del partito fascista all’atto dell’arresto di Mussolini e della sua sostituzione al governo con il maresciallo Pietro Badoglio, a dimostrazione del danno sempre in agguato per gli interessi nazionali delle forme di eccesso di leaderismo”.
[16] Emilio Gentile, 25 luglio 1943, op. cit. p. 23.
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C’è grande attenzione intorno agli scivoloni e ai vuoti mentali dell’attuale Presidente americano, Joe Biden. Pure i suoi sostenitori, i Democratici, ritengono—a forte maggioranza, secondo sondaggi—che non ce la faccia più, anche se lui insiste sull’idea di correre per la presidenza nel 2024. Ad ora, i due presunti candidati, Biden e Trump, pareggiano—43% a testa—in termini di popolarità elettorale. Se resta tutto così, la scelta per gli elettori sarà tra l’inaccettabile (Trump) e l’inabile (Biden).
Tra i loro 46 presidenti, gli americani hanno avuto schiavisti (Buchanan), ubriaconi (Grant), semplici incapaci (Andrew Johnson), ex-boia (Cleveland) e patologicamente obesi (Taft). Una volta non importava: non si vedevano, non si sentivano. Oggi invece il Presidente degli Stati Uniti è tra le persone più in vista del pianeta, soggetto a una sorta di continua sorveglianza ogni volta che esce dalla Casa Bianca.
Perlopiù, la ‘cortesia giornalistica’ perdona e getta via le foto col dito nel naso, ma una caduta sulla scala di un aereo finisce in prima pagina. Poi, possono succedere cose talmente strabilianti da non poter essere soppresse.
Tra questi disastri presidenziali c’è un episodio del 1992, quando il Presidente George H. W. Bush (Bush ‘padre’), durante una visita di stato in Giappone, vomitò ampiamente addosso al Primo Ministro giapponese Kiichi Miyazawa tra la seconda e la terza portata di un formale banchetto protocollare. Ciò alla presenza di 130 diplomatici, nonché di una folta rappresentanza di giornalisti giapponesi e di corrispondenti esteri. In seguito si attribuì l’incidente a una gastroenterite acuta.
Bush fu Repubblicano. Semplice equità richiede di ricordare un altro incidente assurdo che coinvolse un presidente Dem, Jimmy Carter, aggredito nel 1979 da un coniglietto ‘inferocito’ mentre lui, in barca, pescava in un piccolo fiume. In quell’occasione il presidente aveva cercato un po’ di tranquillità. Il suo staff non era distante, ma dalla riva non poté intervenire. Carter tentò timidamente di respingere la creatura con una pagaia. Il coniglio, dopo un po’, si stufò del gioco e tornò a riva.
Di fatto non successe praticamente niente: senonché i testimoni, rientrati alla Casa Bianca, raccontarono il fatto ai colleghi in sede. Questi, sapendo che i conigli non sono tendenzialmente delle bestie acquatiche, non ci credettero. Così, saltò fuori la prova, una foto fatta sul posto da uno dei presenti. Qualcuno parlò e la cosa finì sui giornali—con titolazione sul genere de “L’attacco del coniglio assassino”…
Carter era considerato un brav’uomo, ma non un Presidente ‘forte’. Così, l’opposizione ebbe buon gioco a usare l’incidente come prova della sua presunta debolezza. Alcuni commentatori arrivarono ad asserire che la poca risoluzione dimostrata davanti al coniglio avesse perfino incoraggiato i Sovietici a invadere l’Afghanistan qualche mese dopo…
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Al mattino tempo stabile su tutte le regioni con prevalenza di cieli sereni o con qualche velatura in transito. Al pomeriggio non sono previste variazioni di rilievo con cieli soleggiati e locali addensamenti sulle Alpi. In serata si rinnovano condizioni di tempo stabile con nuvolosità alta in transito.
Giornata stabile sulle regioni centrali con cieli per lo più soleggiati sia al mattino che durante le ore pomeridiane. In serata non sono previste variazioni con tempo asciutto su tutti i settori.
Tempo stabile al mattino su tutte le regioni con cieli del tutto soleggiati. Al pomeriggio instabilità in aumento con isolati rovesci tra Calabria e Sicilia orientale, stabile altrove con cieli sereni. In serata tempo in miglioramento con ampie schiarite, salvo residui addensamenti tra Calabria e Sicilia.
Minime stazionarie o in calo al centro-sud, stabili o in rialzo al nord. Massime stazionarie o in aumento su tutta la penisola.
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Tassa su Internet (fair share) ritirata, non sono approdati in Aula gli emendamenti che proponevano l’introduzione di un contributo delle Big tech alle nuove reti Tlc.
Chiamate e Sms intra-Ue, le telco contro la proposta di abolizione dei costi aggiuntivi. La prossima battaglia delle telco Ue potrebbe riguardare non più l’introduzione di una tassa su Internet, ma la difesa delle tariffe extra per le comunicazioni intra-UE.
USA, rubate 60 mila email dal Dipartimento di Stato. Hacker cinesi? Il cyber attacco ha preso di mira principalmente le strategie diplomatiche americane nell’area dell’Indo-Pacifico.
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Non sono stati approvati in Commissione entrambi gli emendamenti al Dl Asset per l’introduzione di una contribuzione a carico delle Big Tech, la cosiddetta tassa su Internet (o fair share), per finanziare l’adeguamento delle reti di Tlc alla crescita del traffico dati e per l’implementazione di infrastrutture di nuova generazione, nonché per la sicurezza delle reti.
Ieri le Commissioni riunite Ambiente e Industria del Senato hanno concluso l’esame del Dl Asset terminando la votazione degli emendamenti presentati dalle forse politiche. Il testo, così come modificato dalle Commissioni, è andato oggi in Aula senza la presenza del tema fair share. Durante l’esame l’emendamento 26.0.3 a firma dei senatori Damiani e Gasparri risulta ritirato mentre quello della senatrice Fregolent risulta respinto o decaduto. Oggi sul Dl Asset è stata posta la fiducia.
In buona sostanza, gli emendamenti proponevano l’introduzione di una tassa su Internet per le Big Tech responsabili di almeno il 5% del traffico dati e con l’esclusione dei fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici e i concessionari radiofonici che operano in Italia.
Nel frattempo, l’emendamento Gasparri-Damiani 26.0.3 è stato convertito in Ordine del Giorno e riproposto come atto di indirizzo al Governo. Se ne riparlerà eventualmente più avanti.
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La prossima battaglia delle telco Ue potrebbe riguardare non più l’introduzione di una tassa su Internet, ma la difesa delle tariffe extra per le comunicazioni intra-UE. Si tratta delle chiamate e gli SMS inviati a qualcuno che vive in un altro paese dell’UE, che i legislatori hanno scelto di mettere all’ordine del giorno nell’ambito delle discussioni sulla nuova legge sulle telecomunicazioni, che mira a consentire uno sviluppo più rapido ed economico delle reti.
Poiché gli attuali massimali per le tariffe addebitate dagli operatori sono destinati a scadere il prossimo anno, i legislatori della commissione industria del Parlamento hanno deciso di prendere in mano la questione e introdurre un nuovo articolo che abolisce del tutto le maggiorazioni. La nuova disposizione dovrebbe essere approvata nella sessione plenaria della prossima settimana.
“Nel mondo di oggi, l’accesso a Internet ad alta velocità è una necessità e persino un diritto: il diritto alla connettività. L’obiettivo di questo atto è garantire che, entro il 2030, tutte le famiglie dell’UE abbiano accesso alle reti Gigabit fisse e che tutte le aree popolate, comprese le aree rurali, abbiano una copertura 5G in modo che nessuno venga lasciato indietro. Lo facciamo riducendo la burocrazia, semplificando le procedure e accelerando il processo di concessione delle autorizzazioni in modo che gli operatori diventino più competitivi nell’implementazione di queste reti”, ha affermato il relatore Alin Mituța (Renew, RO).
“I deputati hanno compiuto un passo coraggioso votando a favore dell’eliminazione di tutti i costi aggiuntivi per le comunicazioni intra-UE, a beneficio dei nostri cittadini e del nostro mercato unico, poiché questa legislazione è la nostra ultima possibilità di agire in tempo per evitare un aumento dei costi accuse” ha aggiunto.
in un momento in cui la industry si trova in una situazione disastrosa.
Ma gli operatori non sono contenti. Le telco sostengono che questa materia non ha nulla a che fare con la legge sulle infrastrutture Gigabit (Gigabit infrastructure act) e per di più minerebbe una fonte di reddito L’iniziativa della commissione industria del Parlamento ha messo d’accordo, fatto inusuale, le principali associazioni di settore: ETNO, gli operatori alternativi dell’ECTA e GSMA.
In una dichiarazione congiunta pubblicata mercoledì, gli operatori hanno esortato i politici a rimanere concentrati sull’implementazione della rete per questo atto legislativo. “L’inclusione di disposizioni ingiustificate e non correlate sui bandi intra-UE non corrisponde allo scopo e allo spirito di questa legge”, hanno scritto, sostenendo che “è contrario agli obiettivi di questa proposta di ridurre i costi del settore e per stimolare gli investimenti”.
“Sta danneggiando economicamente quegli stessi player riducendo ingiustificatamente le loro entrate e dovrebbe quindi essere respinto”, hanno aggiunto.
Secondo gli operatori, che citano dati del BEREC, il prezzo medio per le chiamate mobili intra-UE è ben al di sotto dei limiti di salvaguardia di 0,19 EUR/minuto e 0,06 EUR/SMS per gli SMS intra-UE e continua a diminuire di circa il 12-15% all’anno.
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Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha comunicato in un briefing al Senato che durante la scorsa estate sono state rubate 60 mila email da caselle di posta elettronica non classificate.
I responsabili, a detta della segretaria al Commercio, Gina Raimondo, sono stati degli hacker cinesi presumibilmente sponsorizzati da Pechino.
L’attacco è stato classificato come di “alto profilo”.
La breccia è stata individuata negli account di una decina di dipendenti. Tra gli obiettivi anche il Dipartimento del Commercio guidato dalla Raimondo.
Durante una riunione a Capitol Hill, un membro dello staff del senatore Eric Schmitt ha rivelato ulteriori dettagli rispetto alle prime notizie date alla stampa nei mesi scorsi.
Secondo quanto riportato da politico.com, i funzionari di Stato, tra cui il responsabile della comunicazione Kelly Fletcher, hanno specificato che il cyber attacco è stato rivolto principalmente alle strategie diplomatiche americane nell’area dell’Indo-Pacifico: “nove account violati su dieci lavoravano su questo”.
Fletcher ha inoltre spiegato che tra le informazioni più sensibili sottratte ve ne erano diverse relative all’Europa, in particolare ai dossier su cui lavorano Washington e Bruxelles.
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La spesa in Intelligenza Artificiale (IA) crescerà in tutta l’area dell’Asia e del Pacifico fino a raggiungere i 78,4 miliardi di dollari entro il 2027, secondo nuove stime IDC. La spinta agli investimenti proverrà principalmente da alcuni settori chiave, come banche e finanza, manifatturiero, retail e telecomunicazioni, ma anche i servizi professionali.
Considerando le tecnologie software, gli hardware e i sistemi incentrati sull’IA, si legge nel Report, il tasso medio di crescita annuo stimato dal rapporto per il periodo 2023-2027 potrebbe raggiungere il +25,5%.
L’investimento in algoritmi basati sull’intelligenza artificiale garantisce transazioni sicure e anticipa le esigenze dei clienti, aiutando a restringere la migliore opzione disponibile e a prendere una decisione migliore, il tutto contribuendo a un ambiente bancario affidabile e senza interruzioni.
Il settore della vendita al dettaglio sta già adesso sfruttando l’intelligenza artificiale per trasformare il modo in cui i clienti interagiscono con i prodotti e servizi.
“La maggior parte delle organizzazioni nell’area Asia/Pacifico ha iniziato a investire nell’intelligenza artificiale generativa o sta esplorando il suo potenziale già durante quest’anno“, ha afferma Vinayaka Venkatesh, analista senior di mercato, spesa IT Guide, approfondimenti e analisi sui clienti di IDC.
“Alcune delle sfide principali che devono affrontare le organizzazioni sono l’affidabilità, la privacy, la sicurezza, il copyright e la ricerca di un partner commerciale adatto”, ha aggiunto Venkatesh.
L’IA generativa in particolare, come le celebri ChatGPT e Dall-E, è destinata ad espandersi come mercato di ulteriori 3 miliardi di dollari di valore entro il 2027, con un tasso di crescita medio annuo dell’85% (Cagr 2023-2027).
La Cina da sola vale la metà dell’intero volume di spesa in IA a livello continentale, con quasi 38,4 miliardi di dollari nel periodo considerato, con un Vagr del 25% circa. Seguono l’India, l’Australia e la Corea.
Il Giappone da solo si stima investirà, secondo lo studio, non meno di 12 miliardi di dollari, con un Cagr del 25%, soprattutto nei settori dell’automazione industriale e della data analisys basata su soluzioni IA.
Allargando lo sguardo su scala mondiale, sempre IDC si attende una spesa che passerà dai 154 miliardi di dollari di fine 2023 ai 300 miliardi di dollari entro il 2026.
Gli Stati Uniti rappresenteranno la quota maggiore di questo mercato, circa il 50%, segue l’Europa occidentale, con circa un 20% e un Cagr del +30%. Chiude il podio sempre la Cina, con un tasso di crescita medio annuo del +20%.
L’Italia sta cercando di posizionarsi in questo scacchiere e il sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione, Alessio Butti, ha dichiarato: “Sull’intelligenza artificiale stiamo predisponendo una nuova strategia, io sto nominando un pool di esperti che dovrà elaborare una strategia almeno quinquennale sulla quale poter lavorare. Siamo al fianco della piccola e media impresa perché l’Italia in questo ha un’eccellenza, come ce l’ha nella rete universitaria. Lì si fa la ricerca e il governo intende sostenere questa ricerca”.
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Il Consiglio dei ministri ha approvato la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2023. La Nadef predisposta dal Governo tiene in considerazione la complessa situazione economica internazionale, l’impatto della politica monetaria restrittiva con l’aumento dei tassi d’interesse e le conseguenze della guerra in Ucraina. Il quadro di finanza pubblica riflette un’impostazione prudente, con una revisione delle stime di crescita per il 2023-2024 a causa del rallentamento dell’economia in corso. Tale rallentamento e l’andamento dell’inflazione richiedono tuttavia una politica di sostegno ai redditi reali delle famiglie, in particolare quelle con redditi più bassi. Anche grazie alla conferma del taglio del cuneo fiscale sul lavoro, la pressione fiscale per il 2024 è prevista in riduzione; resta in ogni caso confermato l’obiettivo di ridurla in maniera più decisa nel corso della legislatura. Gli interventi previsti dal disegno di legge di bilancio che il Governo intende presentare riflettono tale impostazione: conferma del taglio al cuneo fiscale sul lavoro anche nel 2024, sostegno alle famiglie e alla genitorialità, prosecuzione dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego, conferma degli investimenti pubblici con priorità a quelli del PNRR, rifinanziamento delle politiche invariate.
Sebbene l’indebitamento netto in rapporto al PIL venga rivisto al rialzo in particolare nel 2024, l’aggiustamento strutturale prefigurato e l’andamento dell’aggregato di spesa di riferimento sono in linea con la Raccomandazione del Consiglio Ue e con le future regole di bilancio dell’Ue. Incisive saranno le misure per il contenimento della spesa pubblica. Per quanto riguarda il profilo del debito, si osserva che in particolare i bonus edilizi comportano un sostanziale incremento del fabbisogno pubblico nel corso della legislatura; ciononostante, la programmazione dei saldi di bilancio e gli sforzi di valorizzazione e successiva parziale privatizzazione di alcuni asset pubblici consentiranno di conseguire un profilo moderatamente discendente del rapporto debito/PIL lungo l’arco temporale della Nadef. Successivamente, il saldo di finanza pubblica conseguito a fine periodo e il venire meno degli effetti negativi sul saldo di cassa dovuti al Superbonus consentiranno di ottenere una discesa del rapporto debito/PIL, con l’obiettivo di tornare ai livelli precrisi entro la fine del decennio. Il saldo di bilancio sconta l’incremento dello stock di debito pubblico conseguente agli interventi di scostamento adottati nel periodo pandemico.
Per quanto riguarda il quadro complessivo, la crescita del PIL è stimata allo 0,8% nel 2023, all’1,2% nel 2024 e, rispettivamente, all’1,4% e all’1% nel 2025 e nel 2026. Riguardo agli obiettivi di indebitamento netto in rapporto al PIL, il documento indica un deficit tendenziale a legislazione vigente del 5,2% nel 2023, del 3,6% nel 2024, del 3,4 nel 2025 e del 3,1% nel 2026. Nello scenario programmatico il deficit è del 5,3% nel 2023 e del 4,3% nel 2024. Riguardo alle proiezioni per il 2025 e il 2026 il documento prevede rispettivamente il 3,6% e il 2,9%. Il rapporto debito pubblico/PIL per il 2024 è previsto al 140,1%. Il tasso di disoccupazione è previsto in riduzione al 7,3% nel 2024 (dal 7,6% previsto per il 2023).
“Rendiamo più veloci le espulsioni degli immigrati irregolari pericolosi, introduciamo la piena tutela per tutte le donne e manteniamo quella per i minori ma con le nuove regole non sarà più possibile mentire sull’età reale”. Sintetizza così la premier Giorgia Meloni il decreto su immigrazione e sicurezza approvato ieri dal Cdm. Hanno illustrato il provvedimento il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e quello della Giustizia Carlo Nordio. Sui minori stranieri non accompagnati, ha sottolineato il primo, “non deroghiamo alle tutele. Semplicemente viene previsto che in caso di rilevante afflusso e indisponibilità di strutture, il prefetto possa disporre la permanenza provvisoria per un periodo non superiore a 90 giorni” nei centri ordinari, ma “non vengono meno le tutele ed il trattamento differenziato”. Previsti controlli antropometrici per determinare l’età. Nordio, da parte sua, ha segnalato l’inadeguatezza delle leggi vigenti: “La prima normativa sulla disciplina dell’immigrazione è la legge Turco Napolitano. Abbiamo assistito ad un fallimento normativo negli ultimi 25 anni, interveniamo ora in modo efficace”.
“Questo decreto viene fatto nel rispetto della normativa internazionale europea e direi anche dell’etica. Anzi sui minori c’è una maggiorazione di tutele nei loro confronti”. Il decreto permette anche l’espulsione degli stranieri con permesso di soggiorno lungo da parte del Ministro dell’Interno e del prefetto, nonché quella di chi “in modo strumentale”, presenta una nuova domanda di asilo mentre sta per essere rimpatriato. Queste misure, è convinto Piantedosi, “faranno crescere il numero di persone che verranno allontanate dall’Italia, già cresciuto quest’anno del 20-30%”. Nel provvedimento c’è poi l’aumento di 400 unità del contingente militare impegnato nell’operazione Strade sicure: verrà utilizzato a presidio delle stazioni ferroviarie ed il loro impiego, ha precisato Piantedosi, sarà “non più solo statico, ma anche dinamico per esercitare al meglio la funzione operativa e di deterrenza”. Esulta il vicepremier Matteo Salvini: “Meno criminalità e violenza, più controlli e sicurezza: avanti così”; per il ministro della Difesa Guido Crosetto “questa decisione testimonia l’impegno a fornire risposte concrete alle esigenze del Paese”. Critiche, oltre che dall’opposizione, arrivano dalla Cei.
Dopo che ieri il Governo ha posto la questione di fiducia, l’Assemblea della Camera tornerà a riunirsi alle 11.00 per le votazioni del decreto per il contrasto agli incendi boschivi, per il recupero dalle tossicodipendenze e sul personale della magistratura e della Pubblica amministrazione. A seguire dibatterà sul decreto sulle disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonché in materia di immigrazione.
Per quanto riguarda le Commissioni, la Giustizia esaminerà le pdl il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica. Dibatterà sulle pdl sulle disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici, sulle pdl per la prescrizione del reato e, con l’Agricoltura e sullo schema di decreto legislativo per l’introduzione di un meccanismo sanzionatorio sotto forma di riduzione dei pagamenti ai beneficiari degli aiuti della politica agricola comune. La Difesa si confronterà sullo schema di decreto legislativo per la revisione dello strumento militare, sulla risoluzione sul programma soldato sicuro e sulle pdl per il conferimento della medaglia d’oro al valor militare alla memoria al personale delle Forze armate e di polizia caduto a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.
La Cultura esaminerà lo schema di decreto ministeriale per la definizione dei requisiti e degli standard minimi per il riconoscimento e l’accreditamento degli istituti tecnologici superiori (ITS Academy) e sulla risoluzione per la tutela delle mura delle città bastionate. La Ambiente proseguirà le audizioni sulle pdl per la gestione delle emergenze di rilievo nazionale e per la disciplina organica degli interventi di ricostruzione nei territori colpiti da eventi emergenziali di rilievo nazionale ed esaminerà lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per il conferimento dell’incarico di Commissario straordinario degli interventi infrastrutturali. Ascolterà i rappresentanti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) sulle questioni riguardanti il fenomeno del bradisismo e del rischio sismico nei Campi Flegrei.
La Attività Produttive esaminerà il ddl per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy e il ddl di delega al Governo per la revisione del sistema degli incentivi alle imprese e disposizioni di semplificazione delle relative procedure nonché in materia di termini di delega per la semplificazione dei controlli sulle attività economiche. La Lavoro delibererà un’indagine conoscitiva sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e mondo del lavoro, con particolare riferimento agli impatti che l’IA generativa può avere sul mercato del lavoro, esaminerà le pdl per la conservazione del posto di lavoro e i permessi retribuiti per esami e cure mediche in favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche, invalidanti e croniche.
La Affari Sociali, con l’Agricoltura, svolgerà delle audizioni ed esaminerà la pdl relativa al divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati. Riprenderà, poi, il confronto sulle pdl per la prevenzione e la lotta contro il virus dell’immunodeficienza umana (HIV), la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), il papilloma virus umano (HPV) e le infezioni e malattie a trasmissione sessuale, sullo schema di decreto legislativo sui medicinali veterinari e sullo schema di decreto legislativo per la riqualificazione dei servizi pubblici per l’inclusione e l’accessibilità. Infine si confronterà sulla risoluzione per l’accessibilità ai servizi sanitari per le persone con disabilità e sulla risoluzione per la sicurezza delle cure e dei pazienti. La Agricoltura esaminerà le pdl sulla castanicoltura, la pdl per il riconoscimento della figura dell’agricoltore custode e la pdl per la tutela e la valorizzazione dell’agricoltura contadina. Infine, la Politiche dell’Ue si confronterà sulla legge di delegazione europea 2022-2023.
L’Assemblea del Senato tornerà a riunirsi alle 10 per l’esame del decreto sulla tutela degli utenti, in materia di attività economiche e finanziarie e investimenti strategici, il cosiddetto decreto asset.
Per quanto riguarda le Commissioni, la Affari Costituzionali, con la Giustizia, svolgerà delle audizioni sul decreto per il contrasto al disagio giovanile e alla criminalità minorile. La Esteri e Difesa incontrerà una delegazione del Consiglio generale degli italiani all’estero (CGIE). La Politiche dell’Ue dibatterà sugli aspetti istituzionali della strategia commerciale dell’Unione europea. La Ambiente e Lavori pubblici esaminerà il ddl sulla rigenerazione urbana, il ddl sul reddito energetico e lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per il conferimento dell’incarico di Commissario straordinario per la realizzazione degli interventi infrastrutturali. La Affari Sociali e Lavoro dibatterà sul ddl per la protezione dei soggetti malati di celiachia e per la prevenzione e l’informazione in merito alla malattia celiaca e sulla proposta di nomina del professor Rocco Domenico Alfonso Bellantone a Presidente dell’Istituto superiore di sanità.
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Un balzo senza precedenti negli investimenti per la transizione energetica da far partire obbligatoriamente dal 2030, pena il fallimento nel mantenere l’aumento della temperatura terrestre sotto la soglia di 1,5 gradi. È questa l’indicazione dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) che, nell’ultimo aggiornamento della NetZero Roadmap, ha specificato che il consumo di petrolio, gas e carbone deve ridursi di un quarto rispetto ad oggi. Per farlo la produzione di rinnovabili deve triplicare in sette anni per avviarci al traguardo definitivo: far crollare l’uso delle fonti fossili al 2050, -80%. Come al solito l’ambizione è alta, forse troppo, e per una parte della comunità scientifica l’obiettivo di 1,5 gradi non è più raggiungibile.
Il grafico in apertura mostra gli investimenti mondiali nel settore energetico. Gli investimenti, pubblici e privati, sono divisi tra investimenti in energie pulite e fossili. Il risultato è che dopo l’anno della pandemia, il 2020, gli investimenti in energie fossili sono sempre aumentati, a un ritmo inferiore rispetto agli investimenti in energie rinnovabili certo, ma ogni aumento ci allontana dall’obiettivo principale, decretare la fine dell’era del fossile. Per la precisione tra il 2021 e il 2023 gli investimenti in energie pulite sono cresciuti del 24% rispetto al 15% di aumento degli investimenti in energie fossili.
Il fatto è che il 90% degli investimenti in energie rinnovabili sono effettuati dalla Cina e dalle economie avanzate. Significa che c’è solo una parte del mondo che “spinge” verso un’economia più pulita, l’altra parte del mondo continua a puntare sulle energie “sporche”. Le ragioni sono di natura economica, i Paesi emergenti hanno ancora bisogno di carbone e petrolio per essere competitivi e crescere. Il caso più esemplare è quello dell’East African Crude Oil Pipeline Project (EACOP), l’oleodotto ancora in costruzione contestato per le sue molteplici criticità ambientali ma d’indubbio valore per i Paesi dell’Africa orientale, che trasporterà il petrolio prodotto dai giacimenti petroliferi del Lago Alberto in Uganda al porto di Tanga in Tanzania, dove il greggio sarà poi venduto ai mercati mondiali. Il costo del progetto EACOP è di 3,5 miliardi di dollari.
In effetti gli investimenti nella filiera del carbone dovrebbe crescere alla fine del 2023 del 10% e sono già ora superiori a quelli del periodo pre-pandemico. E’ vero che la tendenza è al ribasso, ma nel 2022 sono stati approvati, per esempio, approvati nuovi impianti a carbone per 40GW, il numero più alto dal 2016.
E il paradosso è che quasi tutti questi impianti a carbone inquinanti sono stati approvati dalla Cina. Quindi da una parte il Paese asiatico è tra quelli che decide i maggiori investimenti in energie rinnovabili e dall’altra è anche quello che continua a programmare impianti a carbone. Guardiamo i dati. Nel 2023 i miliardi investiti nelle energie pulite sono stati 1.740 rispetto ai 1.050 investiti in energie fossili. L’anno prima i numeri sono stati rispettivamente: 1.617 e 1.002.
Il 2022 è stato un anno straordinariamente redditizio per molte aziende produttrici di combustibili fossili: hanno visto i ricavi aumentare vertiginosamente grazie all’aumento dei prezzi dei combustibili. L’utile netto derivante dalle vendite di combustibili fossili è più che raddoppiato rispetto alla media degli ultimi anni, con i produttori globali di petrolio e gas che hanno visto i profitti salire di circa 4mila miliardi di dollari.
Anche per questo l’offerta di combustibili fossili aumenterà di oltre il 6% nel 2023, raggiungendo i 950 dollari. miliardi. La quota maggiore di questo totale sarà destinata al petrolio e al gas upstream (esplorazione, sviluppo e estrazione delle risorse petrolifere) dove si prevede che gli investimenti aumenteranno del 7% nel 2023 fino a superare i 500 miliardi di dollari, riportando questo indicatore complessivo ai livelli del 2019. Ma solo le grandi compagnie petrolifere nazionali del Medio Oriente spenderanno molto di più nel 2023 rispetto al 2022.
Ma sono sufficienti gli investimenti che il mondo sta facendo per l’energia rinnovabile? Beh, mettiamola così. Nel 2015 nel corso dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico (COP21 – Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite) il mondo si è dato come obiettivo quello di limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Bene: per raggiungere quell’obiettivo secondo la Iea sarebbero necessari circa 1,2 trilioni di dollari cumulati fino al 2030 nella produzione di energia pulita.
I dati si riferiscono al 2023
Fonte: Iea
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Salta, per le imprese rientranti nel Perimetro di sicurezza cibernetica nazionale e per i loro fornitori, che intendano acquisire, a qualsiasi titolo, beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione di servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G, l’obbligo di effettuare la comunicazione al Centro di valutazione e certificazione nazionale (Cvcn) del Mimit con la valutazione del rischio associato.
Lo prevede un emendamento al dl Asset di Fratelli d’Italia, approvato dalle commissioni Ambiente e Industria al Senato.
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Poste Italiane ottiene la prestigiosa medaglia di platino di EcoVadis, che valuta la sostenibilità delle imprese lungo la catena di fornitura, e migliora ulteriormente la posizione dalla medaglia Gold dello scorso anno collocandosi entro l’1% delle migliori aziende valutate dal team di esperti internazionali.
“Il passaggio dalla medaglia d’oro alla medaglia di platino nella graduatoria EcoVadis testimonia il continuo progresso aziendale nel raggiungimento degli obiettivi del Piano Strategico ESG – ha commentato l’Amministratore Delegato di Poste Italiane, Matteo Del Fante – Il rating di EcoVadis è un nuovo tassello del percorso di Poste Italiane, che si colloca al massimo livello del rating globale per la responsabilità sociale d’impresa lungo la catena di fornitura”.
“Siamo impegnati quotidianamente a trovare soluzioni innovative e sostenibili per i nostri partner italiani e internazionali, in linea con gli obiettivi aziendali – ha affermato Giuseppe Lasco, Condirettore Generale di Poste Italiane – continueremo a lavorare per essere un punto di riferimento sempre più rappresentativo per il Paese nell’ambito ESG”.
EcoVadis è fra le più accreditate piattaforme di rating sulla sostenibilità delle imprese a livello internazionale ed ha finora espresso valutazioni su 100mila aziende. La medaglia premia le aziende che hanno completato il processo di valutazione EcoVadis e hanno dimostrato di possedere un sistema di gestione solido che risponde ai criteri di sostenibilità secondo quanto indicato nella metodologia EcoVadis.
La metodologia si basa su standard internazionali di sostenibilità, tra cui la Global Reporting Initiative, il Global Compact delle Nazioni Unite e la ISO 26000, coprendo oltre 200 aree di interesse ESG per circa 175 Paesi. Il modello di valutazione, presidiato da un comitato scientifico internazionale, si basa su standard riconosciuti a livello mondiale e consiste nel misurare la performance di ventuno indicatori, in relazione a 4 macro-ambiti, quest’ultimi valutati con un punteggio finale da 0 a 100: Ambiente, Pratiche Lavorative e Diritti Umani, Etica e Acquisti Sostenibili.
La leadership nel rating EcoVadis si aggiunge ad altri numerosi riconoscimenti ottenuti da Poste Italiane, che è presente nei più prestigiosi indici di sostenibilità internazionali, tra cui l’indice MIB ESG di Borsa Italiana, primo posto fra le Blue Chip, il Dow Jones Indices per il quarto anno consecutivo, Euronext Vigeo-Eiris Indices, Integrated Governance Index (IGI), Euronext Equileap Gender Equality Eurozone 100, FTSE4Good, Bloomberg Gender-Equality Index, Stoxx Global ESG Leaders. A questi, si aggiungono, inoltre, i rating da parte di importanti agenzie internazionali, come la “AA” da parte di MSCI, l’“A-” da parte di CDP e il “Top 5% S&P Global Esg Score 2022” del Sustainability Yearbook 2023. Il Gruppo, inoltre, ha ottenuto un ESG Risk Rating pari a 13,7 (Low risk) da parte di Sustainalytics ed è stato riconosciuto come top ESG performer su un panel che conta oltre 15.000 aziende valutate a livello mondiale, ottenendo il riconoscimento di “2023 Industry Top-Rated”.
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Prendendo spunto da un lato dai risultati delle recenti elezioni spagnole, dall’altro dalla scomparsa di due figure apicali nella storia della sinistra comunista come Giorgio Napolitano e Mario Tronti, Michele Mezza propone una riflessione su “Come aggiornare il patrimonio culturale della sinistra di fronte alle trasformazioni in atto nella società in un lungo articolo per Democrazia futura “Dall’operaismo sociale un contributo per una sinistra del mulino digitale”. Mezza, a conclusione dell’articolo aderisce alle tesi del cosiddetto ‘accelerazionismo tecnologico’ “che contesta al capitale – scrive Mezza – la guida naturale dei processi informatici. Un filone che idealmente riprende la linea di pensiero di Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di ‘Innovare l’innovazione’ […] Una visione che può sembrare eccentrica – aggiunge lo studioso nolano – per chi ancora pensa che da questo processo di automatizzazione dobbiamo difenderci rallentandolo, ma che diventa l’unica via di uscita in una fase storica in cui proprio i rapporti di produzione ci portano a contendere al capitale la sua esclusiva sovranità sulla conduzione della riformulazione di tutte le relazioni sociali mediante appunto la mediazione digitale. Questa forma di orientamento del pensiero – conclude Mezza – è diventata oggi la modalità dominante nel configurare le attività in ogni campo delle relazioni umane. Ed è per questo che diventa discriminante per qualsiasi proposta politica che abbia l’ambizione di proporsi come alternativa, se non proprio antagonistica, al modello capitalistico, di comprenderne la struttura e praticarne il controllo”.
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Il presente è perseguitato dalle rovine del passato, scriveva Walter Benjamin parlando della filosofia di Theodor Wiesengrund Adorno nella sua Opera incompiuta I “Passages” di Parigi. Una visione che si attaglia perfettamente all’attuale dibattito a sinistra, ancora schiacciato su quelle che Zygmunt Baumann ha chiamato Retrotopia, ossia un culto del passato indotto dall’incapacità di comprendere il presente.
La scomparsa di due componenti del Pantheon della tradizione progressista, apparentemente cosi distanti fra loro, come il presidente emerito, nonché nume tutelare della componente migliorista della storia comunista italiana Giorgio Napolitano, e Mario Tronti, fondatore e maestro di quell’operaismo politico che carsicamente ha attraversato mezzo secolo di contorsioni ideologiche del movimento del lavoro, hanno offerto l’occasione per riprendere in chiave non nostalgica una rivisitazione di temi e svolte politiche che sono all’origine di quel rischio di estinzione che vive oggi proprio il campo culturale dei due scomparsi. Un elemento che ci permette poi di agganciarci anche alla più stretta attualità, sono le recenti elezioni spagnole che rendono più evidente l’insufficienza dei luoghi comuni sui limiti della sinistra.
Ragionando su questi aspetti potremmo forse avvicinarsi ad uno scenario in cui individuare e provare senza scrupolo a inquadrare quanto è ancora vivo delle culture di sinistra i e facendo però un inventario di quanto sia irrimediabilmente morto.
Dico subito che il voto spagnolo mi sembra una indiscutibile dimostrazione di come oggi, nel gorgo di una modernità che pare costantemente escluderla dal campo governativo, costringa appunto la sinistra a ripensarsi nella sua struttura e, soprattutto, nella sua capacità di rappresentanza e radicamento sociale.
A scanso di equivoci, premetto che non penso minimamente ad un ritorno, messianicamente sollecitato da più parti, a pratiche ed esperienze “più popolari” dei partiti che nascono, e rischiano di morire, come espressione tradizionale del movimento del lavoro.
Invece vedo come unica possibilità di ripresa del protagonismo politico di quel mondo un cambio copernicano della base sociale e di quel corredo di esperienze organizzative che ha contraddistinto la storia delle realtà di matrice operaia per poter arrivare ad un’adeguata proposta politica e culturale capace concretamente di proporsi come alternativa al modello tecno finanziario imposto dal mercato.
Una trasformazione genetica di riferimenti e rappresentanze, che porti ad una motivata e consapevole immersione nei nuovi ceti professionali e tecnologici.
Una proiezione in queste aree dei nuovi produttori di valore e di senso, due termini che si sovrappongono e coincidono nell’economia immateriale, che, proprio sulla base di quanto è accaduto in Spagna, diventa possibile articolando e diversificando l’offerta politica a sinistra, con una valorizzazione nel conflitto digitale di componenti più radicali nella contesa sulla programmazione e gestione dei modelli di calcolo.
Su questo aspetto proverò a ragionare, cioè sul fatto di come una sinistra cosiddetta accelerazionista, che avremo meglio modo di definire più avanti, possa contrapporsi al dominio proprietario dei sistemi digitali che tendono a rimuovere ogni attrito sociale, più di chi invece si trincera in una diffidenza nostalgica e in una velleità di partiti di opinione indifferenziata.
Inizio osservando come, a Madrid ma anche nel resto d’Europa a cominciare dal nostro paese, sia tramontata ormai ogni ambizione di partito della nazione o di vocazione maggioritaria della componente moderata della sinistra, il PSOE in Spagna il PD in Italia, ma anche la SPD in Germania e perfino a quanto sembra i laburisti in Inghilterra, che si deve atteggiare, proprio per la necessità di completarsi con realtà più radicali, a rappresentare una parte della società, e non più indistintamente il suo insieme.
La parzialità e combinazione di rappresentanze socialmente identificatemi appare come conseguenza di una collocazione in un sistema economico e culturale che scompone le funzioni sociali, uniformandone i comportamenti, mediante un dominio ideologico di quella che la Scuola di Francoforte aveva chiamato “l’industria culturale” ed oggi è l’infosfera digitale.
Il tratto distintivo di questa rinnovata realtà politica, a me pare proprio il livello di rappresentatività sociale, meglio ancora territoriale, che ha contraddistinto la dinamica della sinistra spagnola a cui credo sia utile guardare con attenzione.
Il voto iberico mostra l’efficacia di una strategia che riecheggia lo slogan militaresco, ripreso poi da Mao: marciare divisi e colpire uniti.
Infatti decisivo è risultato, nella resistenza ad una chiara deriva conservatrice in atto, sia la composizione e distribuzione dei bacini elettorali dei due principali partiti – i socialisti al governo più radicalizzati rispetto al ruolo amministrativo, e l’alleanza di Sumar, che recupera le esperienze di matrice movimentista e comunista, fortemente identificata da un’origine locale, diciamo pure di regionalismo per usare un termine più italiano- sia l’affermarsi di una identità sociale degli stessi gruppi dirigenti, che appaiono fortemente segnati da caratteristiche territoriali se non addirittura etniche.
E’ stato proprio una domanda di diversità e specifica rappresentanza ad aver premiato le diversificate sinistre spagnole. Soprattutto nella ancora potentemente attraversate da ansie di indipendentismo, come appunto la Catalogna e i Baschi. In questi territori surriscaldati da decenni di movimentismo autonomistico proprio la necessità di radicarsi nelle diverse nicchie locali per competere con i gruppi indipendentisti nella rappresentanza molecolare di ceti e gruppi sociali a spinto le diverse sinistra ad assumere direttamente la guida di rivendicazioni e interessi nelle metropoli. Una scelta che ha permesso a queste formazioni di resistere e persino rilanciarsi nella sfida con le forze conservatrici.
L’aspro confronto fra istituzioni centrali ed indipendentismo, che è arrivato a fasi non marginali di lotta frontale, in alcuni casi come ricordiamo addirittura armata, ha costretto socialisti e le diverse anime radicali ad immergersi nei territori contesi guadagnandosi il mandato e la partecipazione di larghi strati della popolazione.
In particolare nelle città la contrapposizione con Podemos ha costretto proprio le formazioni della sinistra meno governativa a cercare linguaggi e temi che potessero parlare direttamente a ceti professionali e tecnici che avevano manifestato chiaramente il loro disagio con il voto appunto a Podemos.
Riflesso di questa nuova adesione a sinistra dei ceti metropolitani, o comunque di componenti che si stavano perdendo, favorendo lo scarrocciamento a destra anche di città come Madrid e Siviglia, è la capacità emersa di contrastare, nelle strettoie immateriali della nuova economia digitale, le immancabili scorrerie di cosiddetta guerra ibrida.
Parliamo di quel gorgo comunicativo, in cui centri di pianificazione di guerriglia comunicativa, attraverso l’accondiscendenza delle grandi piattaforme, scompongono e profilano milioni di persone, per poi raggiungerle con canali capillari di sovversione ideologica, che la destra riesce ad indirizzare in maniera più lineare sulla cresta del populismo aggressivo. Si tratta di fenomeni che stanno alterando significativamente l’equilibrio istituzionale, permettendo a forze elitarie di interferire e alterare il senso comune di intere comunità nazionali.
Anche su questo punto, l’esperienza spagnola ci offre esempi utili e concreti per vaccinare una comunità dal contagio di Cambrige Analytica, termine che identifica ormai il sistema che ha influenzato l’elezione di Donald Trump alle presidenziali americane del 2016, con una massiccia campagna di conquista e suggestione dell’elettorato degli stati più contendibili.
Quell’esempio è stato un manifesto per la sobillazione populista che si è ripetuta in Francia e anche nel nostro paese nelle elezioni del 2018, dove si saldò l’alleanza fra populismo di destra e di sinistra, come spiegò uno degli architetti della mobilitazione informativa, Steve Bannon.
In Spagna abbiamo visto invece come proprio il radicamento territoriale delle formazioni più immerse nel territorio, o delle componenti più di richiamo per i ceti delle culture comunicative delle grandi città, come si è rivelata l’alleanza Sumar, hanno potuto contrastare la campagna di terrorismo comunicativo che la destra spagnola aveva imbastito, riproducendo appunto lo schema di Cambridge Analytica.
In sostanza mi pare di poter dire che in Spagna la sinistra ha tenuto perché si è esteso il fronte politico, allargando a sinistra e non al centro lo spettro delle alleanze, ed estendendo così la capacità di rappresentanza sociale e territoriale, proprio in virtù di una maggiore articolazione organizzativa e relazione con consistenti aree sociali e territoriali, e non di un’artificiosa centralizzazione.
Questa lunga premessa sul voto spagnolo ci aiuta a mettere a fuoco un nodo che da tempo rimane sotto pelle, ossia quale debba essere oggi il riferimento sociale di una sinistra che si pone l’obbiettivo di una trasformazione delle relazioni sociali e quello geo politico a livello nazionale ed internazionale.
Meglio ancora, sull’abbrivio delle celebrazioni delle biografie di Giorgio Napolitano e Mario Tronti, mi pongo come tema da affrontare ineludibilmente il dato di quali ispirazioni e finalità debba avere un partito che abbia ambizioni di governo e che si contrapponga ad una destra oscurantista e totalitaria nella nuova società liquida, in cui ridisegnare strategie e ingegnerie organizzative che possano catturare bisogni ed interessi del tutto inediti rispetto alla tradizione di pace e lavoro.
Diciamo sinteticamente una nuova idea di sinistra che sia conseguenza di una nuova idea di società dove il lavoro sia sostituito come matrice dal sapere e dalle sue applicazioni tecnologiche.
Un tema che ci riporta, tornando in Italia, alle cause di un naufragio che vede da decenni la sinistra radicale sempre più ridotta ai minimi termini, e dove il vertice del Partito Democratico continua, fra mille contorsioni e disagi che si scaricano ed esauriscono nella ormai tradizionale cerimonia degli addii del segretario di turno, a limitarsi a pura testimonianza, sempre con un’aura “nuovista” per esercitare funzioni di bandiera, sia quando è stato al governo sia oggi quando è chiamato a gestire un’opposizione alla maggioranza di destra di Giorgia Meloni.
Le biografie di Giorgio Napolitano e Mario Tronti, nella loro convergenza di merito sulla scorciatoia politicista per reagire ad una complessità sociale che sfugge a schemi ed accademie ci portano ad un dibattito che incombe da decenni fra autonomia del politico e potenza della rappresentanza sociale.
Un dualismo mai affrontato esplicitamente se non in lontani tornei retorici nelle ovattate stanze del PCI degli anni Sessanta ci porta ad uno snodo rimasto impolverato negli anfratti delle scorie dell’egemonismo di Botteghe Oscure.
Mi riferisco a quella stagione dell’operaismo macchinistico italiano, che con Quaderni Rossi, siamo nel 1962, l’anno topico della mancata modernizzazione italiana, sia industriale che politica. Quel gruppo di intellettuali di matrice socialista che aggregò i primi irregolari comunisti guidati da un profetico Raniero Panzieri riuscì a guardare nella pancia delle trasformazioni del capitalismo atlantico, in una sorta di aggiornamento della lettura di Americanismo e fordismo di Antonio Gramsci.
Un lavoro con strumenti del tutto inediti, aborriti dalla tradizione politicista del tempo, come la sociologia e l’inchiesta territoriale di Romano Alquati, riuscendo a forgiare segmenti di una cultura autonoma che si confrontasse alla pari con il neocapitalismo del suo tempo sui processi di innovazione della fabbrica, e che poi riuscì, con la intuizioni sulla fabbrica sociale e il rifiuto del lavoro dipendente come nuovo luogo del conflitto post fordista, a cogliere profeticamente l’evoluzione del macchinismo produttivo in automatizzazione dei comportamenti e dei desideri, prefigurando quella che sarebbe divenuta due decenni dopo la smaterializzazione delle attività della nostra vita.
So bene che sto riesumando un corpo del reato, perché queste elaborazioni furono inquinate e forzate da deliranti derive insurrezionaliste e pratiche di violenza diffusa. Ma separare il grano dal loglio è un precetto evangelico che oggi, dopo tanti anni, potremmo fare senza il rischio di trovarci contigui ad un terrorismo.
Quelle esperienze, svilite e criminalizzate da insulse e velleitarie ambizioni guerrigliere dei teorici che le avevano elaborate, tenacemente riemergono, sempre ammantate da odori sulfurei e luci luciferine, come è capitato dopo la scomparsa di Mario Tronti, nel lungo flusso di rievocazioni e discussioni circa la valutazione della sua testimonianza nella storia della sinistra italiana, a partire proprio sul contributo, che in più di mezzo secolo il grande filosofo della politica ci ha regalato.
Un dibattito purtroppo poi spentosi per mancanza di interpreti.
Sorprendentemente ritroviamo in questo ambiente del tutto irriducibile alla sua figura proprio Giorgio Napolitano in uno dei momenti di massima sintesi fra il teorico e il dirigente politico che imprime un colpo di barra al suo partito.
Siamo nell’anno più drammaticamente decisivo dell’ultimo scorcio dello scorso secolo il mitico 1977. Un anno fatidico, in cui inizia a sbriciolarsi l’intero insediamento sociale del partito uscito trionfante dalle elezioni appena un anno prima, con l’austerità di Berlinguer che tenta di contenere l’assedio da parte di figure sociali sconosciute, che logorano la rappresentatività comunista, da una parte, e i ceti proprietari che premono per una politica di sacrifici, dall’altra, che possa finanziare la ripresa economica senza scalfire i profitti.
Ed è anche l’anno della cacciata di Lama dall’università a opera di un movimento fortemente infiltrato da aree della sovversione armata, che pensa di poter minacciare i partiti di massa, mentre, sul versante culturale, si affacciano le prime teorie che annunciano una sostituzione della materialità manifatturiera con una nuova economia ancora indecifrabile e impalpabile, dove desideri e immaginario sostituiscono bisogni e identità.
Ce ne sarebbe d’avanzo per capire che è la società, e non la politica, il luogo dove ricostruire analisi e legami, dando nuova forma a un partito che invece assomiglia troppo a un mondo che sta tramontando. Al contrario, lo sbandamento di quel tempo viene usato per rinserrarsi nella cittadella delle istituzioni, rafforzando la separazione fra decisione e rappresentanza. Napolitano, per irrobustire questa linea, compie una nuova acrobazia fra destra e sinistra e coopta il filone più politicista degli operaisti, i quali – sconsolati per l’inconcludenza del miraggio della centralità di una “razza rude e pagana” destinata a conquistare il mondo, e che invece affonda nella cassa integrazione – hanno un rigurgito neo-leninista e scelgono appunto l’autonomia del politico, riverniciando a sinistra una teoria nata a destra, dai filosofi del conservatorismo tedesco, e che in Italia arriva dalle letture di Carl Schmitt attraverso un sulfureo Gianfranco Miglio, che sarà poi un mallevadore della Lega prima maniera.
Ma torniamo all’incontro con gli operaisti pentiti nelle vie nebbiose e affumicate dai lacrimogeni di una Padova assediata dal teppismo intimidatorio dell’autonomia operaia che mostrava cosa fosse la seconda società di cui i sociologi parlavano allora.
E’ proprio il futuro compito e anglofono presidente confermato Giorgio Napolitano, leader allora della destra del partito , e come tale designato dalla segreteria a dare il benvenuto ad una schiera di prestigiosi intellettuali – da Mario Tronti a Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa e Aris Accornero – che scelgono di organizzare un convegno proprio nella città messa a ferro e fuoco dalle scorrerie dell’altro filone operaista, quello dell’economia dei desideri e dell’operaio sociale, che si rivelerà il più vicino all’evoluzione tecnologica futura, orientato da quel Toni Negri che verrà poi arrestato due anni dopo dal giudice Pietro Calogero, nel famoso processo sull’inchiesta del 7 aprile 1979, o magari anche in onore dei passati giovanili del loro interlocutore comunista, che nella città completò il liceo nell’ultimo anno della guerra.
Il punto di convergenza fra il diavolo (i cattivi maestri dell’estremismo sindacale come solo qualche mese prima li aveva definiti l’Unità) e l’acqua santa (l’esponente più deciso a scolorare l’identità antagonistica che ancora aveva il PCI) è lo sganciamento da ogni richiamo e ubbia sociale, in polemica fontale con l’allora egemone concezione del sindacato come soggetto politico. Marciare divisi ma colpire uniti: la strategia di subordinazione di ogni movimento alla decisione politica gli viene confezionata e ratificata proprio dai professori operaisti che tagliano il nodo gordiano del rapporto fabbrica-società, attribuendo allo Stato un’imprevista “autonomia” rispetto alla società.
Per questo diavolo e acqua santa all’unisono chiedono di rivalutare l’azione politica rispetto a quella rivendicativa e di riguadagnare il terreno dello Stato dove il “partito operaio” (anch’esso “relativamente” autonomo rispetto alla classe di riferimento) poteva sancire a livello istituzionale le conquiste delle lotte di fabbrica. Una svolta che segnerà tutta la storia finale del PCI, stringendo progressivamente Enrico Berlinguer nell’angolo di un’alternativa che aveva sbocco solo con un’intesa parlamentare con il PSI di Bettino Craxi.
Sulla scia di quell’incontro si stabilizza la strategia di un progressivo distanziamento fra ambito politico e processo sociale. Proprio nel momento in cui era la società che stava partorendo un nuovo mondo, in cui l’automatizzazione della e prima e del pensiero dopo avrebbe riclassificato ogni traccia di politica senza rappresentanza e reso impensabile una rappresentanza senza conflitto.
Per rendere non inutilmente ideologico o troppo cifrato il confronto, si tratta di concentrarci attorno a due visioni della relazione fra strategia politica e rappresentanza sociale che vengono simboleggiate da due personalità, tutte iscritte nel filone dell’operaismo italiano degli anni Sessanta: appunto l’asse che per semplificazione definisco Napolitano/o Tronti e la nebulosa simboleggiata dalla figura di Toni Negri.
Il primo nucleo teorico che coglie certo con una lucidità esclusiva il ruolo del sistema manifatturiero come radice antropologica, prima ancora che politica, e reagisce al disfacimento di quella potente infrastruttura rifugiandosi in una artificiosa centralità della direzione politica come palliativo alla vedovanza dell’operaio massa, il secondo invece che, al netto delle ossessioni militaresche, coglie un’evoluzione molecolare degli interpreti del conflitto sociale nella transizione fra lavoro e sapere, assumendo come bussola propria l’aderenza alle necessità e bisogni delle nuove figure che il capitale cognitivo produce.
La visione su cui convergono Napolitano e Tronti costeggerà, come sappiamo, la sinistra tradizionale in nome di un moderno Principe che ripari il vulnus del disfacimento del soggetto storico, quella classe operaia a cui fideisticamente era affidato ogni speranza.
Il secondo approccio dove convergono le suggestioni dei francofortesi e le nuove elaborazioni dello strutturalismo francese di Gilles Deleuze e Félix Guattarì insieme alla straordinaria spallata teorica di Michel Foucault, che invece constata come la transizione del capitalismo della sorveglianza, diremmo oggi con Shoshana Zuboff, ci propone un luogo inedito di presidio e resistenza che è appunto il comunitarismo e la interattività sociale che i centri tecnologici non possono aggirare, e dove sogni e desideri sono il terreno di scontro.
Sinteticamente potremmo dire, stressando inevitabilmente concetti complessi in uno slogan che racchiude la parabola marxista dei due interpreti: da Il Capitale ai Grundrisse. Geopoliticamente. Dall’Italia alla Spagna.
Un dualismo che dalle galassie ideologiche e libresche diventa immediatamente concreto, irrompendo sulla scena elettorale, e mutando equilibri e tendenze globali.
Proprio l’autore di Operai e capitale, nella sua apparente marginalità fu il maestro di una lettura marxista di Nicolò Machiavelli come matrice di una visione politica competitiva, non distante dalla concezione togliattiana, in cui, come scrisse proprio Mario Tronti nella sua principale opera
“è la direzione politica che determina la forma della lotta di classe e non viceversa”.
A ben vedere questa logica è la vera matrice della deriva illuminista ed autoritaria del cosiddetto socialismo realizzato. Una percezione che rende indispensabile – come alibi morale e supporto di consenso – il protagonismo del ceto manifatturiero, la “rude classe pagana degli operai” come scriveva Tronti, che il Principe maneggia e manipola per contrapporsi alla potenza avversaria della proprietà. Senza questa base sociale geneticamente disposta ad una disciplina politica mutuata dalla fabbrica nulla più si tiene e arriva il pessimismo cosmico trontiano: nulla salus extra ecclesiam.
Invece il filone della cosiddetta fabbrica sociale, che Negri orientò con le sue opere, fra cui la trilogia Imperium, da cui dobbiamo sempre strappare le ultime cinquanta pagine di predicazione maniacale di una violenza puramente totemica nella sua funzione di approdo salvifico per l’autore, ci fornisce strumenti più attuali per negoziare i processi di automatizzazione informatica, che rendono il destino delle persone, a cominciare dai settori professionali anche più alti e privilegiati “materia di manipolazione e asservimento”.
Il luogo dello scontro scrive Negri insieme a Michel Hardt nel suo Commonwealth[1]
“è proprio la macchina algoritmica che diventa motore di comunità antagonistica alla proprietà”.
Partire da questo dualismo e assumere la contrapposizione con la proprietà, e non con un generico destino delle macchine, significa dare forma ad una nuova teoria socialista che possa governare, come scriveva Marx nei Grundrisse
la dinamica conflittuale sapere/potere che occupa un posto centrale nella spiegazione della tendenza all’aumento della composizione organica e tecnica del capitale.
E ancora
In tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti assegnano rango ed influenza a tutti gli altri[2].
L’algoritmo[3] è una produzione – di senso, di valore, di linguaggio – che assegna rango e influenza a tutte le altre, a cominciare dalla lotta politica. Nessuna lacrima per l’assenza della classe rude e pagana ma grande ambizione a parlare ai nuovi produttori.
Cosa pretendere di più da un testo del 1858? Con un gramsciano pessimismo della ragione ma recuperando un antico ottimismo della volontà oggi ci appaiono spazi e opportunità oggettive per classificare domande di presenza e di rappresentanza politica deluse. Certo bisogna avere il coraggio di navigare in mare aperto, riconoscendo la diversa valenza che le aree sociali stanno assumendo.
Bisogna avere il coraggio di chiudere ogni nostalgico ritorno all’eden berlingueriano.
Quella stagione deve la sua ricchezza e valore all’essere figlia esclusiva e datata di un tempo che si è del tutto esaurito. Niente di quella esperienza ci può parlare se non l’audacia con cui, allora, si cercò di forzare apparenze e tradizioni, rompendo compatibilità e continuismi.
Certo Il compromesso storico era comunque figlio della svolta di Salerno e del togliattismo, perché elemento di continuità che congiungeva il PCI alla grande tradizione sovietista era appunto la base sociale e la centralità del lavoro: la fabbrica come modello comportamentale che veniva esportato nella società.
Oggi si è del tutto sbriciolato quell’edificio, e il mulino che macina, per tornare a Marx, è quello digitale che ci darà una società completamente diversa dal precedente mulino a vapore esattamente come questo ha soppiantato ogni categoria e strumento politico del mulino ad acqua che dava la società feudale.
Porre oggi il tema di una vera Rifondazione, con la r minuscola per carità, della sinistra significa, in chiave globale, guardando al mondo, porsi il tema di giocare con il capitalismo la parte dello sviluppo e della gratificazione di miliardi di individui.
In questa chiave proprio quanto sta accadendo in Spagna, ma anche i pur deboli segnali di quanto serpeggia in Italia, ci spinge a rendere più audace la riflessione recuperando quel filone di accelerazionismo tecnologico, di cui abbiamo già accennato, che contesta al capitale la guida naturale dei processi informatici. Un filone che idealmente riprende la linea di pensiero di Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di “Innovare l’innovazione”.
Come scrive Matteo Pasquinelli, uno degli autori del manifesto accelerazionista, nel saggio Gli Algoritmi del capitale, che ha curato per Ombre Corte:
laddove i tecno utopisti sostengono che l’accelerazione della tecnologia automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi[4].
Una visione che può sembrare eccentrica per chi ancora pensa che da questo processo di automatizzazione dobbiamo difenderci rallentandolo, ma che diventa l’unica via di uscita in una fase storica in cui proprio i rapporti di produzione ci portano a contendere al capitale la sua esclusiva sovranità sulla conduzione della riformulazione di tutte le relazioni sociali mediante appunto la mediazione digitale.
Questa forma di orientamento del pensiero è diventata oggi la modalità dominante nel configurare le attività in ogni campo delle relazioni umane. Ed è per questo che diventa discriminante per qualsiasi proposta politica che abbia l’ambizione di proporsi come alternativa, se non proprio antagonistica, al modello capitalistico, di comprenderne la struttura e praticarne il controllo.
[1]Michel Hardt, Toni Negri, Commonwealth, Cambridge Massachussets, Harvard University Press, 2009, 448 p. Traduzione italiana: Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, 427 p.
[2] Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1957-1858). Traduzione italiana: Grundrissee, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Milano, PGreco editore, 2012. Volume 1: XXXII-762 p. Volume 2. XIII, 764-1364 [Il passo è tratto dal Volume 1 alla p. 32].
[3] Vedi in questo stesso numero nel glossario finale l voce curata da Michele Mezza, “Algoritmi”, anticipata su Key4biz il 20 settembre 2023. Cf.https://www.key4biz.it/democrazia-futura-algoritmi/460032/.
[4] Matteo Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Verona, Ombre Corte, 2014, 187 p.
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo la precisazione del produttore Emanuele Nespeca all’articolo di Angelo Zaccone Teodosi Nasce ‘Itaca’, nuova associazione di produttori cinematografici indipendenti pubblicato su Key4biz il 27 settembre 27 settembre 2023.
Spett.le Redazione di Key4biz,
con la presente chiedo di fare una precisazione all’articolo intitolato “nasce itaca nuova associazione di produttori cinematografici indipendenti” del dott. Angelo Zaccone Teodosi.
Ero presente alla iniziativa, ma senza aver mai pensato di venire meno al mio ruolo di Presidente CNA Cinema e Audiovisivo Toscana, associazione che ho contribuito a far nascere e a cui sono iscritto.
Sono passato per salutare alcuni amici e ho volentieri dato la mia disponibilità al dialogo tra colleghi e associazioni, vista l’esperienza acquisita negli anni anche in campo sindacale, avendo contribuito a fondare e guidare l’associazione AGPC – Associazione Giovani Produttori Cinematografici, insieme a Martha Capello, per poi subito dopo aver fatto un percorso in ANICA e successivamente aver intrapreso la costituzione di CNA Cinema e Audiovisivo.
Non ho iscritto la mia persona o la mia società alla associazione ITA.C.A., augurandole comunque un buon viaggio in un settore complesso e che richiede un tempo di studio per divincolarsi non solo tra le normative vigenti, ma anche nella complessità di un lavoro che può sembrare industriale ma che deve tenere conto anche di esigenze artistiche e di racconto della memoria. Progetti che oggi potrebbero apparire insignificanti possono domani diventare veicolo di conoscenza di costume, di cronaca e di arte.
In questo momento complicato di trasformazione e passaggio, non è mia intenzione lasciare la mia attuale associazione, così come iscrivermi ad altre. Sono anzi sempre più convinto del ruolo fondamentale che ha giocato in questi anni la CNA nel dibattito politico a sostegno del settore, contribuendo alla nascita di nuove realtà produttive e sostenendo colleghi che hanno trovato la forza di imporre il proprio lavoro a livello territoriale e nazionale.
Detto questo ammiro le persone che vogliono fare associazionismo sindacale, perché come ho raccontato spesso nella mia carriera ho dedicato sempre spazio alla protezione di un settore che amo profondamente. Così come mi piace il dialogo che non ho mai rifiutato verso tutti i miei colleghi, da qualunque associazione venga.
Vi prego di voler pubblicare questa mia precisazione.
Gentile Dottor Nespeca, anche se mi picco di essere preciso anche nei miei resoconti giornalistici, non pretendo un confronto alla moviola rispetto alla videoregistrazione dell’evento di ieri mercoledì 27 a Roma di presentazione dell’iniziativa di lancio dell’associazione Itaca, ma ricordo con assoluta chiarezza contenuto e forma e tono del Suo intervento. Ho semplicemente registrato la Sua “adesione” all’iniziativa. Ovvero l’apprezzamento per la fondazione di una nuova realtà di associazionismo sindacale datoriale. In ogni caso, ho chiesto ai colleghi della redazione di “Key4biz” di modificare il paragrafo da Lei “incriminato” nel senso che segue. La ringrazio per l’attenzione. Buon lavoro e buona giornata. Cordiali saluti, Angelo Zaccone Teodosi (curatore della rubrica IsICult per “Key4biz”).
nuova versione del paragrafo dell’articolo:
Il produttore Emanuele Nespeca ha manifestato apprezzamento per l’iniziativa, ovvero per l’estensione del pluralismo associativo-sindacale tra imprenditori del settore, ricordando di essere stato tra i fondatori, nel 2007, di un’altra associazione di produttori indipendenti, la cui voce si è andata però affievolendo nel corso degli anni: si tratta dell’Agpci – Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti (che a suo tempo aderì all’Agis, “in contrapposizione” rispetto all’Anica), presieduta da Marina Marzotto, divenuta poi Agici, ovvero Associazione Generale Industrie Cine-Audiovisive Indipendenti. Nespeca è peraltro anche Presidente della sezione Toscana di Cna Cinema e Audiovisivo.
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Salvatore Sechi risponde a Franco Lo Piparo che definisce Su Il Foglio di oggi il presidente emerito un socialista liberale in un articolo “Da Gramsci a Napolitano: un comunista può essere anche un riformista?”. Lo storico contemporaneo chiarisce “Perché né il pensatore sardo né l’uomo delle istituzioni non possono essere considerati socialisti liberali non avendo mai voltato le spalle ai miti e alle illusioni del comunismo realizzato”.
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Giorgio Napolitano fu un socialista liberale (altra cosa è il liberalsocialismo) come la sarebbe stato Antonio Gramsci?
Questa opinione è stata riproposta da uno studioso che non si è mai piegato al clima limaccioso del conformismo dominante non di rado tra gi intellettuali comunisti, come Franco Lo Piparo su Il Foglio, ma non mi pare accettabile[1].
Antonio Gramsci non è stato mai un sostenitore della cultura politica del liberalismo, cioè della divisione dei poteri, dello Stato di diritto, di un sistema di controlli sull’esercizio dei poteri, eccetera.
Antonio Gramsci si è limitato nel primo dopoguerra e fino al 1918 a sostenere la possibilità di una modernizzazione (o riforma che dirsi voglia) del capitalismo.
Già nel 1914 aveva aderito alla campagna anti-protezionista di Gaetano Salvemini e di un nucleo di economisti liberisti (come Attilio Cabiati, Antonio De Viti de Marco, Edoardo Giretti, eccetera) che si avvalsero per un certo periodo del consenso di un economista autorevole e di prestigio come Luigi Einaudi.
Gramsci riteneva che una riforma in senso libero concorrenziale del capitalismo avrebbe potuto determinare un aumento dell’occupazione e dei salari, oltre a innescare uno sviluppo economico tale da imporre, a chi sosteneva un’alternativa socialista, un livello di analisi e di proposte operative (cioè di governo del mercato e in generale dell’economia) molto avanzato.
Questa stagione fondata sulla riformabilità del capitalismo dura fino al tentativo da parte del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson di creare una sorta di programma internazionale su queste basi.
Ma dopo la conquista del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi e di Lenin, Gramsci diventa vittima consenziente del comunismo. Che non sia un liberale, come ha cercato di sostenere Lo Piparo, lo dimostra l’atteggiamento di fronte alla decisione di Lenin nel gennaio 1918 di sciogliere l’Assemblea Costituente perché i bolscevichi non vi detenevano la maggioranza. Fu un colpo di mano che segnerà la vocazione, ma anche la lunga prassi dispotica, dei comunisti russi e di quanti in Europa, in Asia, in America latina riusciranno a impadronirsi del potere. Alla ‘dittatura del proletariato’ , allora inaugurata, non rinunceranno mai più.
Gramsci di fronte a questo plateale colpo di mano di Lenin su un organo socialista torinese, Il Grido del Popolo, scrisse due articoli (nel gennaio e nel luglio 1918) di comprensione e di giustificazione.
In primo luogo per dire che l’Assemblea costituente era un ferrovecchio della concezione liberale borghese della rappresentanza, quindi una ben misera cosa rispetto al sistema rappresentativo che si organizzava attraverso i Soviet. In secondo luogo, sostenendo che la sospensione dei suoi poteri (cioè lo scioglimento) era un atto provvisorio, che non poteva essere interpretata come una regola del comportamento dei bolscevichi per l’avvenire, cioè una ‘dittatura perpetua’.
In terzo luogo, per sostenere che i bolscevichi non erano dei giacobini, cioè che, essendo una minoranza, si servivano di azioni violente come quella del gennaio 1918 per esercitare la supremazia, cioè i poteri della maggioranza. Infatti, diceva Gramsci, non avevano bisogno di queste soluzioni di supplenza e di autoritarismo perché in Russia l’attuale minoranza bolscevica sarebbe destinata a
“diventare maggioranza assoluta, se non la totalità dei cittadini”.
La realtà storica sarà l’opposto.
Il bolscevismo aveva impresso al comunismo governante il suo carattere permanente di regime oppressivo e discriminatorio. Gramsci se ne renderà conto negli anni Trenta, quando descriverà quello che in origine aveva amato chiamare ‘lo Stato operaio’ come una variante nate del neo-bonapartismo. Ma non arriverà a essere un apostata del comunismo, cioè a diventare un liberaldemocratico.
Lo è stato Giorgio Napolitano?
Non solo egli ha applaudito un’operazione reazionaria come quella sovietica di mandare nel 1956 l’Armata rossa a piegare la resistenza ungherese al dispotismo comunista.
Se ne pentirà furtivamente andando a chiedere scusa ad un esponente socialista come Antonio Giolitti. Aveva avuto il coraggio -contro Stalin e contro Togliatti – di stare dalla parte di chi si era rivoltato contro l’oppressione sovietica.
Purtroppo Napolitano non volle, e non seppe, fare una battaglia politica dentro il Pci contro la proposta di Berlinguer di opporre all’esperienza del comunismo e a quella della socialdemocrazia, messe disinvoltamente sullo stesso piano, una “terza via”.
E’ rimasta una sfinge, un’espressione della volontà del segretario del Pci di non riconoscere il fallimento storico, in tutte le parti del mondo, del modello comunista di conquista e di governo. Era la persistenza dell’esecrazione che delle esperienze socialdemocratiche alla fine degli anni Venti avevano fatto Stalin e il Comintern.
Lo stesso Partito Democratico (Pd), e ancora oggi Elly Schlein, ha conservato questa sorta di demonizzazione verso governi che hanno preferito le riforme alla rivoluzione, rispettando i percorsi istituzionali della liberal-democrazia.
Da questo punto di vista neanche Giorgio Napolitano, al pari di Antonio Gramsci, ha voluto voltare le spalle ai miti e alle illusioni, alle spaventose crudeltà e agli eccidi, del comunismo realizzato.
Un vero riformista non può evitare di essere anti-comunista.
[1] Il foglio, 28 settembre 2023. Si veda anche Stefano Folli, “Giorgio Napolitano, un liberale tra le file del Pci. Colto e convinto europeista. Ritratto di un presidente rimasto leale al partito conservando la ragion critica”, La Repubblica, 23 settembre 2023
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Al mattino tempo stabile su tutte le regioni con prevalenza di cieli sereni o con al più qualche velatura in transito. Al pomeriggio nessuna variazione con cieli soleggiati e qualche velatura al Nord-Est. In serata si rinnovano condizioni di tempo stabile con cieli sereni o poco nuvolosi.
Giornata stabile sulle regioni centrali con cieli per lo più soleggiati sia al mattino che durante le ore pomeridiane. In serata non sono previste variazioni con tempo asciutto su tutti i settori assenza prevalente di nuvolosità.
Tempo stabile al mattino su tutte le regioni con cieli sereni o poco nuvolosi. Al pomeriggio instabilità in aumento con acquazzoni e temporali in sviluppo tra Calabria e Sicilia orientale, stabile altrove con cieli soleggiati. In serata tempo in miglioramento con ampie schiarite, salvo residui fenomeni sulla Sicilia.
Minime stazionarie su tutta l’Italia, massime stabili o in lieve rialzo al Centro-Nord ed in lieve diminuzione al Sud e sulle Isole Maggiori.
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