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Cronaca a cura di Redazione Cronaca
Filmava le figlie minorenni della convivente con microtelecamere nascoste in casa: arrestato installatore di sistemi di sicurezza

Filmava le figlie della convivente, anche minorenni, attraverso microtelecamere nascoste in casa, durante momenti di vita quotidiana, e acquisiva filmati dalle videocamere di case altrui che lui stesso aveva installato. Per questa ragione un installatore di sistemi di sicurezza è stato arrestato in flagranza per il reato di interferenze illecite nella vita privata dai Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando di Trieste. All’uomo è stato contestato anche il reato di detenzione di materiale pedopornografico e per questo l’autorità giudiziaria ne ha disposto l’allontanamento da casa.

L’uomo ha frantumato in più parti il proprio telefono cellulare per evitare che finisse nelle mani dei Carabinieri ma gli specialisti dell’Arma sono riusciti a recuperare integralmente il contenuto del dispositivo. Il telefono cellulare era stato infatti sequestrato insieme con un hard disk e altri supporti informatici nel corso di una perquisizione in casa disposta dall’autorità giudiziaria. Le analisi forensi hanno rinvenuto numerose fotografie, accuratamente archiviate e catalogate, riferite alle figlie della convivente, minorenni. Le foto erano classificate per anno e nominativo. E’ emerso, inoltre, che l’uomo, elettricista e installatore di sistemi di videosorveglianza, aveva scaricato sul proprio smartphone diverse applicazioni che gli permettevano di accedere da remoto, e senza consenso, ai sistemi di videosorveglianza che lui stesso aveva installato nelle abitazioni dei clienti, visualizzando e scaricando immagini in tempo reale. Le vittime sono state informate immediatamente e hanno presentato denuncia. Le indagini sono scattate dopo che, nel mese di settembre, una donna, residente in provincia di Udine, si era rivolta ai Carabinieri dopo aver rinvenuto, sul telefono cellulare del proprio convivente, alcune fotografie che ritraevano le sue figlie senza abiti. La segnalazione ha attivato un’attività investigativa da parte dei militari della Sezione “Cyber” del Nucleo Investigativo di Trieste. Le indagini proseguono per accertare eventuali ulteriori responsabilità e verificare l’eventuale coinvolgimento di altre vittime.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 08:14:21 +0000
Cronaca a cura di Redazione Cronaca
Torino, maxi-perquisizione nella sede del centro sociale Askatasuna. Il sindacato di Polizia: “Pronti allo sgomberoâ€

La Digos di Torino e i reparti operativi della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di finanza hanno avviato all’alba una perquisizione nella sede del centro sociale Askatasuna, uno stabile in corso Regina Margherita occupato dal 1996. Setacciate anche le abitazioni di alcuni militanti del centro e membri dei collettivi studenteschi. L’operazione, a quanto si apprende, è stata disposta nell’ambito dell’indagine sugli assalti alla sede di Leonardo, alle Officine grandi riparazioni (un famoso centro culturale torinese) e alla redazione del quotidiano La Stampa, avvenuti durante manifestazioni pro-Palestina nelle scorse settimane e mesi.

Il centro sociale è oggetto dalla primavera 2025 di un patto di collaborazione tra il Comune e un comitato di garanzia che prevede la gestione. da parte degli attivisti, del piano terra dello stabile. All’arrivo, però, la Digos ha riferito di aver trovato sei attivisti tra il quinto e il sesto piano, il che, si sostiene, potrebbe costituire una violazione dell’accordo. Di fronte al centro sociale si sono radunate una trentina di persone in solidarietà, tenute a distanza dalle forze dell’ordine che cinturano l’edificio con numerosi uomini. Il tratto di strada interessato è stato chiuso e la viabilità è stata deviata. Sui social i militanti parlano di “ingente dispiegamento di mezzi di polizia, camionette e idranti: ancora non è chiara l’entità dell’operazione, chi può ci raggiunga”, scrivono, sottolineando che “non si esclude un possibile sgombero“.

Che l’operazione possa portare allo sgombero lo conferma una nota del sindacato di polizia Coisp: “Quanto sta accadendo in queste ore ad Askatasuna a Torino non è una semplice perquisizione: lo Stato ha deciso di passare all’azione in modo deciso e concreto”, afferma il segretario Domenico Pianese. “A seguito dell’indegno assalto alla redazione de La Stampa e delle gravi violenze che hanno caratterizzato alcune delle manifestazioni degli ultimi mesi, ieri sono stati inviati in rinforzo a Torino oltre trecento poliziotti dei reparti mobili per sostenere l’azione delle forze dell’ordine sul posto. Non si tratta solo di una perquisizione dei locali e delle abitazioni: le autorità competenti sono pronte ad attuare lo sgombero dello stabile occupato, se necessario, per ristabilire legalità e ordine in una situazione che ha superato ogni limite tollerabile”, aggiunge.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 08:10:16 +0000
Mondo a cura di Redazione Esteri
Trump: “Ho ereditato un disastro, ma ora l’America è tornata. Avremo un boom economico mai vistoâ€

Dal pulpito della Diplomatic Room Donald Trump difende le sue politiche economiche e punta il dito contro il suo predecessore: “Ho ereditato un disastro” dall’amministrazione Biden, ma ora “l’America è tornata”. Parlando agli americani per meno di 20 minuti, il capo della Casa Bianca non si è soffermato sulla politica estera, limitandosi solo a un accenno a Gaza, in osservanza al principio cardine stabilito dalla Nuova dottrina strategica: ora l’azione politica subordina ogni impegno internazionale al rafforzamento diretto dell’economia e della stabilità interna americana.

“Ho risolto otto guerre. Ho risolto la guerra a Gaza portando la pace in Medio Oriente per la prima volta in anni”, ha detto senza mai elencare quali sarebbero gli altri sette conflitti né nominare l’Ucraina o il Venezuela. Il suo discorso si è concentrato nell’attaccare i democratici – “è colpa loro” – e nell’elencare i suoi “successi, dal “confine più sicuro della storia” al “calo veloce dei prezzi” passando per “salari che crescono più dell’inflazione”. Tutto questo – ha sottolineato – solo in 11 mesi. “Sto sistemando le cose, avremo un boom economico mai visto prima“, ha assicurato nel tentativo di placare i malumori crescenti di fronte a un caro vita che non molla la presa e un mercato del lavoro che mostra segnali di crescente debolezza. Il tasso di disoccupazione è infatti salito in novembre al 4,6%, ai massimi dal 2021, e l’inflazione si mantiene saldamente sopra il target della Fed del 2%. Proprio sul fronte della banca centrale, Trump ha ribadito che a breve ci sarà un nuovo presidente che “crede in tassi di interesse bassi“.

“Mi batto per gli americani, e abbiamo già raggiunto grandi risultati”, ha sottolineato apparendo arrabbiato e frustrato. Trump ha quindi annunciato un ‘warrior dividend’, un dividendo del guerriero, da 1.776 dollari per i militari. “Gli assegni sono già stati spediti, arriveranno per Natale”, ha spiegato invitando gli americani ad avere pazienza perché il prossimo anno i risultati delle sue politiche saranno più evidenti, soprattutto sul fronte delle tasse. Alcuni risultati della sua azione sono però già “evidenti”: grazie ai dazi, che “sono la mia parola preferita”, sono arrivati negli Stati Uniti già “18.000 miliardi” di investimenti. Ed è solo l’inizio. “Un anno fa eravamo un paese morto. Ora – ha osservato – facciamo invidia al mondo

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:56:08 +0000
Politica a cura di Agenzia Vista Alexander Jakhnagiev
Bignami alle opposizioni: “Vi vergognate di essere italianiâ€. Bagarre alla Camera e urla ironiche: “Foti, Foti†– Video

“Voi vi vergognate di essere italiani e occidentaliâ€. Lo ha detto Galeazzo Bignami, capogruppo di FdI, rivolgendosi all’opposizione, durante il suo intervento nell’aula della Camera. “Andate in giro per il Medio Oriente e dite che è per rispetto che mettete il velo. Non è rispetto. Rispetto è quello che ha mostrato Giorgia Meloni senza mettersi veli e burqa. La vostra è sottomissioneâ€. L’intervento infuocato di Bignami ha scatenato la bagarre a Montecitorio, ieri. Dalle opposizioni, soprattutto dal Pd, le urla ironiche dirette ai banchi di FdI: “Foti, Foti”. Vale a dire: era meglio il capogruppo di prima, Tommaso Foti, attuale ministro per gli Affari europei.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:55:42 +0000
Mondo a cura di Roberta Zunini
Cisgiordania, la banca dei semi palestinese rischia di perdere tutto dopo il raid di Israele del luglio scorso

Non viene risparmiato alcun tipo di sopruso ai contadini palestinesi. La filiale canadese della National Farmers Union, l’organizzazione formata da migliaia di piccoli e medi agricoltori degli Stati Uniti, Canada e Regno Unito, ha denunciato la situazione in cui versa tuttora la banca dei semi palestinese dopo l’attacco deliberato dell’esercito israeliano alla fine dello scorso luglio. Da allora la sede, che si trova a Hebron, nella Cisgiordania occupata, è inutilizzabile e gli agronomi che vi lavoravano sono ogni giorno più preoccupati perchè la maggior parte delle sementi autoctone custodita, se non verrà presto curata, sarà irrimediabilmente compromessa.

Il 31 luglio 2025, l’esercito israeliano, utilizzando addirittura i bulldozer aveva devastato l’istituto dei semi tradizionali palestinesi e le infrastrutture appartenenti all’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo (UWAC), una associazione di agricoltori palestinesi membro del movimento globale La Via Campesina. La banca ospitava oltre 70 varietà di semi locali, tra cui pomodori, cetrioli, melanzane e zucchine, molti dei quali non si trovano più altrove in Palestina. Questi semi sono resilienti ai cambiamenti climatici grazie al loro adattamento all’ambiente locale.

“Come agricoltori abbiamo una profonda consapevolezza dell’importanza dei semi per la sovranità alimentare e la sopravvivenza di un popolo. Per generazioni, gli agricoltori palestinesi hanno accuratamente selezionato e conservato questi semi per le loro caratteristiche specifiche e la capacità di adattarsi continuamente alle condizioni mutevoli del terreno in generale. I semi conservati dagli agricoltori palestinesi sono il fondamento del loro sistema alimentare e sono stati adattati localmente nel corso del tempo con fatica e dedizioneâ€, ha sottolineato in un documento la National Farmers Union.

La banca è stata istituita nel 2003 per preservare le varietà più resistenti di colture locali, quelle particolarmente resilienti alle malattie e alle intemperie. Al suo interno si trovano alcune varietà di pomodori, cetrioli, melanzane, zucchine e altri semi raccolti da aziende agricole in Cisgiordania e Gaza. Nel 2021, Israele aveva definito la UAWC un gruppo terroristico, una definizione che né l’ONU né l’UE hanno approvato, e ne aveva chiuso l’ufficio centrale a Ramallah. “La distruzione è stata effettuata senza preavviso, sotto protezione militare”, ha affermato il gruppo in una nota. “Distruggere una banca dei semi nazionale è un atto di cancellazione volto a recidere i legami generazionali tra gli agricoltori e la loro terra”.

L’UWAC conservava semi cruciali per la sopravvivenza non solo fisica ma anche culturale dei palestinesi. La decisione mirata di cancellare l’UWAC è la conseguenza della politica del governo Netanyahu che da mesi permette, o meglio, spinge i coloni, protetti dai soldati, a distruggere gli uliveti e i raccolti, e persino a uccidere i palestinesi – come accaduto ieri con l’assassinio di un ragazzo freddato da un colpo di pistola alla testa- a guardia delle proprie coltivazioni. La società palestinese, di cui gli agricoltori sono una categoria dirimente, è sempre più impotente di fronte a questa strategia mirata ad annientarla.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:26:05 +0000
Cronaca a cura di Alessandro Mantovani
Cisgiordania, resistenza o terrorismo? Tre palestinesi rischiano fino a 12 anni di carcere (a L’Aquila)

Dove comincia il terrorismo e dove finisce la resistenza, magari disperata ma legittima, ai coloni che occupano illegalmente la Cisgiordania con violenza crescente? Sono davvero come i civili che vivono entro i confini di Israele, questi coloni spesso armati fino ai denti? Nel silenzio generale, venerdì 19 dicembre, la Corte d’assise de L’Aquila deve decidere su un processo che chiede di rispondere a queste e ad altre domande fastidiose, ma purtroppo ineludibili. Perché in Palestina l’occupazione va avanti, anzi Israele vuole colonizzare almeno in parte anche Gaza e qualcuno probabilmente resisterà. Anche con le armi. Anche se a noi non piace.

La Procura distrettuale aquilana, sulla base di indagini della polizia, ha chiesto la bellezza di dodici anni di reclusione per l’imputato principale, Anan Kamal Afiff Yaeesh, 38 anni. È un dirigente della Brigata di Tulkarem che in qualche modo fa capo alle Brigate dei Martiri di Al Aqsa e dunque appartiene almeno culturalmente al mondo di Fatah, il partito nazionalista laico che fu di Yasser Arafat e oggi esprime il moderato presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas detto Abu Mazen, ospite qualche giorno fa ad Atreju, anzi presentato in pompa magna da Giorgia Meloni che pure guida un governo sempre più legato a Israele. Non è Hamas, è Fatah. Anche se l’Anp si tiene a distanza dalle brigate.

Non è un frate francescano, Yaeesh. È un combattente e non lo nega. Porta nella carne proiettili israeliani, ha fatto anni di galera, ha subito torture. Da giovanissimo è stato nel corpo di guardia di Arafat, il leader che nel 1993 firmò gli accordi di Oslo con i quali l’Olp riconosceva Israele e che oggi buona parte dei palestinesi più giovani ritengono un mezzo tradimento. Perché dicevano “due popoli due Stati†ma lo Stato di Palestina non c’è ancora. Yaeesh da lì è scappato nel 2013, è stato in Norvegia dove gli hanno dato e poi revocato la protezione umanitaria perché Israele chiedeva l’estradizione, quindi nel 2017 è venuto in Italia e nel 2023 è stato in Giordania, dove ha fatto sei mesi carcere è poi è tornato a L’Aquila, con un permesso di protezione speciale ora sospeso. Per gli altri due imputati, i palestinesi Ali Saji Ribi Irar di 29 anni e Monsour Doghmosh di 30 che pure risiedono a L’Aquila, la pm Roberta D’Avolio ha chiesto rispettivamente nove e sette anni. La Procura non ha ritenuto di dover concedere attenuanti dovute al contesto di un’occupazione illegale.

Nei capi d’accusa non c’è una sola goccia di sangue. Yaesh, Irar e Doghmosh sono accusati di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale, articolo 270 bis del nostro codice penale, reato di pericolo presunto. Il sangue non è necessario per condannarli, è sufficiente che abbiano “programmato†azioni terroristiche. Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono tra le le organizzazioni riconosciute come “terroristiche†dall’Unione europea, questo da solo non basta ma conta. Ci sono poi le chat su Telegram dalle quali emerge che Yaesh e i suoi raccoglievano soldi per la Brigata di Tulkarem e per altre brigate, nell’ordine di qualche decine di migliaia di euro nel 2023; che senz’altro Yaeesh parlava con i suoi compagni e i capi delle Brigate di Al Aqsa laggiù anche dell’acquisto di “fucili†e di “ferroâ€, di “gruppi suicidi†e “martirioâ€; che forse progettava un attacco in un insediamento di coloni ortodossi, Avney Hefetz, duemila abitanti, a due passi da Tulkarem, protetto da filo spinato e da un distaccamento militare.

“Preparavano un’autobombaâ€, questa era l’ipotesi iniziale, per quanto l’esplosione di autobombe non sia modalità tipica della resistenza armata in Cisgiordania, tanto che poi nel processo l’autobomba è sparita. Comunque non è esplosa. Dagli atti sembra chiaro che cercavano solo una macchina. “Questa volta Avney Hefetz deve essere popolataâ€, si legge in una chat, frase che dimostrerebbe l’intenzione di colpire i civili e non solo i militari. Ma quello è un insediamento protetto, infatti in un altro messaggio Yaeesh scriveva: “Se riesci a entrare con un po’ di fortuna, sarà molto eccellenteâ€. C’è una strada sola, presidiata da militari e uomini armati come l’unico ingresso, come ha spiegato al processo un esperto di quei luoghi, il professor Francesco Chiodelli che insegna Geografia al Politecnico di Torino.

Nel nostro Paese non finisce certamente in galera chi collabora direttamente o indirettamente con il governo israeliano. I numeri di Gaza li conoscono tutti, quasi 70 mila morti in due anni tra cui decine di migliaia di donne e bambini. In Cisgiordania, dove non c’è Hamas, l’Onu dal 7 ottobre 2023 al 13 novembre scorso ha registrato 1.017 vittime palestinesi, compresi 221 minori, a fronte di 59 israeliani uccisi tra civili e militari.

L’attacco a Avney Hefez, dove ovviamente ci sono anche bambini, non è mai avvenuto, tutt’al più dagli atti emerge la condivisione di comunicati che rivendicano attacchi contro militari israeliani, per esempio ad Azzun, non lontano da Qalqilya, nel novembre 2023. Solo in un caso, nella requisitoria scritta, la pm indica come “verosimile†che si tratti di un’azione a Khermesh dove è stato ucciso un colono nel maggio 2023. “Verosimileâ€. Finché gli obiettivi sono militari, entro certi limiti, il diritto di resistenza è pacifico per il diritto italiano. Come per l’attentato di via Rasella del marzo 1944 contro le truppe tedesche che occupavano Roma.

La vicenda è iniziata nel gennaio 2024 quando Yaeesh è stato arrestato dalla polizia perché Israele voleva l’estradizione. I giudici hanno deciso che non può essere estradato, con tutta evidenza rischia la tortura, ora forse pure la pena di morte e comunque trattamenti che esporrebbero l’Italia davanti alla Corte europea dei diritti umani. Però al momento dell’arresto gli hanno preso i telefoni, la polizia ha analizzato le chat, i giudici hanno deciso di tenerlo in carcere e hanno fatto arrestare anche gli altri due. Con il via libera della Cassazione (sentenza 32712/2024) che ha confermato l’accusa di terrorismo.

Qualche giorno dopo la sentenza della Suprema Corte, il 19 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia, in un parere richiesto dall’Assemblea generale dell’Onu, ha ribadito con fermezza l’assoluta illegalità dell’azione dei coloni che espandono gli insediamenti in Cisgiordania. Per questo l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore di Yaeesh, ha chiesto alla Corte d’assise presieduta dal giudice Giuseppe Romano Gargarella di dichiarare il non luogo a procedere. “Lo Stato Italia – sostiene il legale di Yaeesh – non può processare gli odierni imputati per azioni compiute nella Cisgiordania illegalmente occupata da Israele, per azioni condotte in danno della potenza occupante, ovvero in danno di quegli stessi militari, coloni e insediamenti la cui presenza è stata qualificata dalla Corte internazionale di giustizia come una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto all’autodeterminazione dei popoli (…). Diversamente opinando, l’Italia starebbe sostanzialmente cooperando con Israele al mantenimento della situazione creata nei Territori palestinesi occupatiâ€. Il non luogo a procedere sarebbe un modo elegante per trarsi di impaccio, la conduzione del dibattimento però è sembrata andare in altra direzione.

Il processo è stato difficile, gli imputati l’hanno seguito da remoto dalle carceri di Terni e Melfi. I testimoni della difesa sono stati quasi tutti esclusi, compresa la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese che senz’altro avrebbe qualcosa da dire sull’occupazione della Cisgiordania. Dall’altra parte, invece, pur avendo escluso gli atti e i verbali di provenienza israeliana, la Corte ha ammesso non un ambasciatore ma una funzionaria dell’ambasciata israeliana a Parigi, intervenuta in videoconferenza con tanto di bandiera con la Stella di David dietro le spalle, per ribadire che Avney Hefetz è un insediamento civile. Ci mancherebbe, bastava Google Earth.

Dei giornali nazionali solo il manifesto si è occupato del processo, alcune reti di solidarietà si muovono per Anan Yaeesh sui social e hanno manifestato a L’Aquila e a Melfi. Piace il palestinese che soffre, se invece si difende o peggio attacca diventa antipatico, meglio guardare da un’altra parte. Una rivista giuridica importante, Sistema Penale, ha pubblicato però lo scorso agosto una nota critica sulla sentenza della Cassazione: “Se la decisione ha il merito di affermare in più occasioni il carattere illegittimo dell’occupazione israeliana, le conclusioni della Corte non sembrano tenere conto di tale illegittimità in almeno due rilevanti passaggi. In primo luogo, i giudici hanno considerato l’azione posta in essere all’interno del Territorio palestinese occupato come un attacco diretto contro Israele, estendendo in modo discutibile la nozione di ‘Stato estero’ fino a ricomprendere territori non riconosciuti (…). In secondo luogo, la Corte ha omesso di considerare la possibilità che l’azione fosse espressione di una forma di resistenza legittima all’occupazione, funzionale all’esercizio del diritto all’autodeterminazioneâ€, scrivono tra l’altro Maria Crippa e Lavinia Parsi.

Le questioni giuridiche sono molto rilevanti, a partire dalla definizione di terrorismo internazionale introdotta dopo l’11 settembre 2001 e allargata ancora con la legge Alfano del 2015, che obiettivamente discrimina i palestinesi. “È terrorismo se l’azione mette in pericolo la sicurezza di uno Stato estero – osserva l’avvocato Rossi Albertini –. E quindi, in nessun caso, un israeliano appartenente ad una associazione terroristica finalizzata a colpire i palestinesi potrebbe essere processato in Italia perché, secondo l’interpretazione fornita dalla Cassazione in questo processo, i palestinesi non hanno uno Stato riconosciuto dall’Onu e nemmeno dall’Italiaâ€, a differenza di 152 Stati membri dell’Onu su 193, tra i quali da settembre troviamo anche Francia e Regno Unito.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:23:55 +0000
Fatto Football Club a cura di Cristiano Vella
Direttamente dal Kenya arriva una delle esultanze più assurde della storia: tutti temevano il peggio | Domeniche Bestiali

Il pallone non è sempre rose e fiori, a volte può diventare tedioso, può stancare. E nelle Domeniche Bestiali è giusto che questa cosa si manifesti, mostrando la solita genialità/rusticità nel farlo ovviamente. Può stancare stare seduti in panchina per tanto tempo, ad esempio, talmente tanto da rendere difficile raggiungere il bagno. Può stancare l’essere costretti a fare la raccolta differenziata e può stancare anche il ricordo di un odiatissimo ex. E allora ecco che le Domeniche Bestiali si attrezzano per esorcizzare, a pane e mortadella, questi demoni.

ADUK-WOW
L’eroe di giornata è senza dubbio Ebenezer Adukwaw, calciatore ghanese che già meriterebbe di essere in questa rubrica, sotto Natale, solo per il nome. Ma Ebenezer, attaccante del Gor Mahia, squadra del campionato kenyota, ha fatto di più: nell’ultimo incontro di campionato ha fatto gol e per esultare è andato verso il bordo campo cominciando lentamente a slacciarsi i pantaloncini. A quel punto, mentre ormai tutti (e pure voi che leggete) temevano il peggio, il calciatore ha allargato l’elastico, ci ha calato dentro il pallone e ha cominciato a camminare con quel bagaglio un po’ ingombrante. Chissà se il messaggio era volto a celebrare il proprio carattere o a manifestare stanchezza per qualcosa.

QUANDO SCAPPA
Sì, quando scappa, scappa. Non ci si può fare nulla e servirebbe un po’ di comprensione. Quella che non ha avuto l’arbitro per Piero Rezzano del Levanto Calcio, Promozione Liguria, squalificato per quattro giornate perché: “Al 19′ st, mentre si trovava a bordo campo per effettuare il riscaldamento, urinava in campo e alla notifica del provvedimento di espulsione rivolgeva al ddg e al AA1 un’espressione ingiuriosaâ€.

FANTASIA
Eh già, nelle Domeniche Bestiali non manca: improvvisare uno spogliatoio in un vecchio bus, rendere guardalinee l’anziano magazziniere o attaccante quello che si crede effettivamente attaccante della squadra di III Categoria. E i ragazzini ne mostrano anche per esorcizzare il fantasma degli odiati ex, come quel bambino di Newcastle che dovendo fare la parte del topo nella recita scolastica (presumibilmente “Lo Schiaccianociâ€) ha ben pensato di indossare oltre a una maschera da ratto la maglia del Liverpool di Isak, con nome e numero sul davanti per essere chiari.

DIFFERENZIATA
È importante, quanto più si differenzia più si è virtuosi. Altrimenti si rischia qualcosa di brutto, come una multa da 400 euro e la squalifica del campo per 2 giornate, come accaduto al Gaeta Juniores: “Perché al termine della gara propri sostenitori tiravano in direzione dell’arbitro bottiglie di plastica, alluminio e vetro, raggiungendolo alla testa ed al corpoâ€.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:08:45 +0000
Diritti a cura di Francesca Fulghesu
Emilia Romagna, quando la salute si cura come in Amazzonia: ecco il primo master per “agenti di comunitàâ€

Manaus, nord del Brasile: la porta per l’Amazzonia, la riva sinistra del Rio Negro. Un’equipe medica locale ogni giorno guada il fiume e raggiunge le popolazioni. Qui piccoli centri urbani e villaggi si succedono, i popoli indigeni vivono tra acqua e foresta. Il fiume è un’autostrada su cui sfrecciano le barche di medicina di base. A bordo, gli agenti di salute comunitaria diffondono nel territorio le tecniche di cura. Figure ibride accorciano le distanze tra paziente e istituzioni. Professionisti del territorio integrano medicina tradizionale e saperi locali. A Parma, circa 9000 km a est di Manaus, il primo master in Salute Collettiva d’Italia cerca di fare altrettanto. “In ogni territorio esistono gli invisibili, gli esclusi, e sono le istituzioni a doverli raggiungereâ€, spiega la sociologa e direttrice del master Vincenza Pellegrino. “Con un approccio anti-coloniale che riconosca la pluralità della curaâ€.

In Emilia la sanità guarda all’Amazzonia

In Emilia-Romagna non ci sono comunità indigene isolate. Non c’è la più grande foresta tropicale del mondo. Non ci sono le “barchette mediche†e il grande affluente amazzonico. Ma presto, proprio come in Brasile, ci saranno gli agenti di comunità: “Antropologi, infermieri, psichiatri: sulla loro formazione pregressa il master innesta l’idea di una cura negozialeâ€, racconta Jacopo Gibertini, filosofo iscritto alla prima edizione. “Che il paziente abbia fatto auto-diagnosi con un chatbot o si voglia curare anche con erbe e preghiere non ci deve far sentire minacciati: i sanitari possono accogliere il suo sentire e uscirne arricchitiâ€. È un processo in cui pazienti, caregiver, istituzioni e associazioni del territorio collaborano attivamente. La cura, così, diventa un dialogo. Per impararlo, molti iscritti tra novembre e dicembre sono andati per la prima volta in Brasile, dove il sistema sanitario è pubblico proprio su modello di quello italiano.

Prevenzione, una scelta anche economica

Tornati in Italia, ognuno di loro ha portato nuove conoscenze nelle istituzioni del proprio territorio. C’è chi insegna all’Università, chi lavora nelle asl, chi opera nelle associazioni locali. “Sono pratiche di prossimità che si sviluppano anche nei luoghi di salute già esistentiâ€, specifica Pellegrino. L’idea è che un investimento nella tecnologia lieve, cioè il saper fare collettivo coordinato dallo stato pubblico, sia meno costoso rispetto “allo sviluppo infinito delle biotecnologie e alla cura del problema solo una volta divenuto acutoâ€. Per questo, in un contesto di sottofinanziamento strutturale del sistema sanitario nazionale e di crisi diffusa, operatori orientati alle cause e non solo alle conseguenze dei malesseri “sono una risposta preventiva anche dal punto di vista economicoâ€.

In Italia migliaia di persone arrivano ogni anno via mare. Sono uomini, donne e bambini che nel viaggio perdono tutto. Parenti, affetti, parte della propria identità. Spesso, anche la speranza. Arrivano provati dalla fame e dalla sete, feriti dal sole e dalle violenze della rotta. “Una cura che non consideri che il Mediterraneo è un dispositivo violento non può funzionareâ€, spiega la sociologa. “Se non si concettualizza cosa sia la migrazione, si rischia di dare diagnosi individuali di dissociazione a persone che in realtà stanno reagendo ad ingiustizie storiche e ad esperienze traumatiche collettiveâ€. Comprendendo la natura collettiva e storica dei fenomeni, la medicina si può rivolgere alle cause dell’‘ammalamento’ e non limitarsi a ridurre i danni.

Il master: medicina e scienze sociali per rafforzare il welfare

È ciò che fanno Maria Inglese, medico psichiatra e psicoterapeuta dell’Ausl di Parma, e Lucrezia Travella, antropologa dell’Università Bicocca di Milano, entrambe iscritte alla prima edizione del master. Insieme conducono un progetto di etnopsichiatria che si occupa di rendere evidenti le discriminazioni razziali e le differenze etniche nel contesto della salute mentale. Anche in questo caso le formazioni biomediche si integrano alle scienze sociali, considerando la persona nella sua interezza e nel suo contesto. Il lavoro si sviluppa nelle realtà già esistenti a Parma, dagli ospedali alle cliniche fino alle associazioni come Ciac, realtà impegnata nell’inclusione sociale per le persone migranti che ha ospitato gli operatori e le operatrici del master.

Così il sistema sanitario, secondo gli iscritti, si cambia da dentro. Pellegrino, che ha fondato il master e dirigerà anche la seconda edizione, ne è convinta: “L’Italia è già ricca di posti pubblici in cui ancora si sogna uno stato sociale forte. Bisogna solo legittimarliâ€. Gli operatori di comunità collaborano con questi luoghi, ascoltano le storie di chi li abita e li anima, lavorano e studiano al loro interno. Perché “una cura meno oppressiva, più lenta e più negoziale, fa sentire meglio sia i lavoratori, sia gli utentiâ€. Nel primo anno il master ha selezionato otto sedi residenziali, e intende proseguire in questa direzione. Con l’idea che la formazione e la pratica della cura non avvengono solo nelle aule universitarie, ma sono immerse nei contesti reali, a contatto con le problematiche quotidiane, i conflitti sociali e i saperi locali, inclusi quelli ancestrali ed ecologici. In Brasile come in Italia.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:08:06 +0000
Cronaca a cura di Elisabetta Ambrosi
Check-up, test continui, farmaci senza regole: quando la prevenzione è eccessiva e porta al “consumismo sanitarioâ€

Esami a ripetizione, check-up continui, test genetici, integratori e farmaci a go-go. Oggi è diffusissima la convinzione – alimentata da influencer e persone note che invitano genericamente a “fare la prevenzione†– che sommando controlli a controlli si possa evitare qualunque malattia. Specie avendo soldi da spendere. La realtà, invece, è del tutto diversa e la spiega il medico e giornalista Roberta Villa nel libro “Cattiva prevenzione. I pericoli del consumismo sanitario†(Chiare Lettere). La cattiva prevenzione consiste in pratiche dubbie, inefficaci o addirittura pericolose, offerte ai cittadini sfruttandone la paura di ammalarsi. “Si tende a pensareâ€, spiega l’autrice, “che maggiore è la quantità di denaro che il singolo o il sistema è disposto a spendere, migliore sarà il risultato. Fino a un certo punto è così, ma una volta garantite le prestazioni necessarie o utili, la correlazione tra investimenti e qualità non continua a produrre valore in maniera lineareâ€.

Il problema principale, nota Roberta Villa, sta nel fatto che per fare bene la prevenzione occorre una capacità inedita di valutare probabilità e rischi. Non solo non esistono risposte sicure al 100% – né si può inseguire il rischio zero – ma ci sono costi umani, strutturali ed economici da mettere sul piatto, visto che le risorse non sono infinite. La prevenzione varia a seconda dell’età, ma anche dei paesi e dei sistemi sanitari. È dunque fondamentale stabilire delle priorità, agendo sui fattori modificabili e accettando che esistano fattori immodificabili – geni, età, sesso, etc – di fronte a cui la prevenzione poco può fare. Anzi, la prevenzione può essere anche dannosa, come nel caso delle Tac inutili che, a differenza delle risonanze magnetiche, espongono a una importante dose di radiazioni. Anche l’ansia continua di tenere sempre d’occhio l’organismo può compromettere il benessere.

La prevenzione serve se esiste la cura

Il libro analizza le criticità sia delle cosiddette “sovradiagnosiâ€, ovvero quando si diagnostica una condizione che non provocherà disturbi o morte; sia dei “sovratrattamentiâ€, ovvero quando ad esempio si trattano aggressivamente forme tumorali “indolentiâ€, come i carcinomi duttali in sito al seno, piccoli noduli polmonari o della prostata, sottoponendo persone a cure impegnative con effetti indesiderati. Ma il principio cardine su cui dovrebbe basarsi la prevenzione e gli screening di massa è uno: è utile fare esami il cui esito ci permetta di intervenire per migliorare la qualità o la durata della vita della persona. Da questo punto di vista, è realmente utile, ad esempio, la diagnosi precoce dell’Alzheimer se poi non ci sono terapie per curarle? Inoltre, tutte le prestazioni che non migliorano davvero la durata o la qualità di vita di chi vi si sottopone sottraggono risorse a chi ne ha bisogno. Anche quelle pagate privatamente.

Ma allora quali sono i controlli davvero necessari? Paradossalmente, spiega Roberta Villa, si contano sulle dita di una mano e sono previsti dagli screening oncologici: quello contro il tumore al seno e alla cervice uterina per le donne, contro il tumore al colon-retto per entrambi i sessi. Se i primi due hanno percentuali di adesione ormai importanti, lo screening per il tumore al colon-retto resta la cenerentola del paese (una persona su tre, peggio al centrosud). Su questo fronte occorre dunque agire, mentre non serve anticipare ad esempio la mammografia o sottoporre tutte le donne giovani a screening ecografico, a parte quelle con familiarità.

Scan total body, inutili e dannose

L’autrice analizza le molteplici richieste di nuova prevenzione, spiegando che, ad esempio, sottoporre tutta la popolazione ad uno screening per il temibile tumore al pancreas non sarebbe utile – tranne se si è a rischio – perché questo tumore evolve così rapidamente che ci vorrebbero più controlli all’anno. Anche lo screening al polmone con la TC a spirale dà benefici solo per grandi fumatori. Alcuni dubbi sono espressi sui possibili screening di massa ai bambini per il diabete e la celiachia, mentre un giudizio positivo viene dato per le vaccinazioni, come contro l’epatite B o il papilloma-virus (HPV), che fanno parte della prevenzione “buonaâ€. Più discutibile sotto alcuni aspetti l’introduzione dell’ecg per tutti i bambini che fanno sport (non riconosce abbastanza il rischio di morte improvvisa, mentre allontana molti dallo sport), mentre per gli adulti l’autrice analizza gli aspetti critici di un’estensione di massa dell’ecografia dei tronchi sovraortici o dell’ecografia transvaginale per le donne, se non per chi è a rischio. Stesso discorso per il dosaggio del PSA, l’antigene prostatico specifico, che ormai si vorrebbe estendere a tutti gli uomini, andando a ingigantire il numero delle sovradiagnosi.

Non manca una parte dedicata ai test genetici fai da te, messi sotto accusa per alcuni aspetti così come anche l’utilizzo ossessivo di smart watch o di sensori per la misurazione continuazione della glicemia. Forti dubbi sono infine espressi sui check-up annuali – come le scansioni total body – tanto sponsorizzati dai vip, inutili e persino dannosi ai sani (indotti magari a ignorare sintomi successivi), mentre risultano ben più cruciali nel trovare metastasi nascoste in pazienti oncologici.

In generale, conclude l’autrice, sarebbe auspicabile agire sugli elementi che prevengono o ritardano tutte le malattie: obesità, inattività fisica, fumo, alcol, scarsa istruzione e socializzazione, ma anche un ambiente malato. Senza dimenticare che il consumismo sanitario è a sua volta causa dell’inquinamento, in termini di emissioni (5% di quelle globali), rifiuti speciali, inquinamento di aria e acqua, consumo di energia e produzione di plastica. Molto meglio intervenire su questi aspetti che moltiplicare esami costosi, ansiogeni e soprattutto non necessari.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:07:54 +0000
Diritti a cura di Renato La Cara
Milano, chiude l’ultimo centro pubblico di incontro per il decadimento cognitivo. L’appello delle famiglie

Dopo averli ridotti da quattro a uno solo, il Comune di Milano si prepara a chiudere anche l’ultimo Centro Incontro rimasto attivo: quello di via Cenisio. Dal primo gennaio 2026 scomparirà così il servizio comunale gratuito dedicato alle persone con decadimento cognitivo lieve-moderato, nell’ambito di una riorganizzazione che Palazzo Marino definisce una “ricalibrazione delle risorseâ€. Una decisione che allarma i familiari caregiver degli utenti, che chiedono all’amministrazione di non smantellare un presidio pubblico considerato essenziale e di riconoscerne il valore per la comunità.

“Chiediamo al Comune di Milano di non chiudere il Centro Incontro di via Cenisio a partire dal 1 gennaio 2026 – spiegano a ilfattoquotidiano.it i familiari caregiver di una decina circa di utenti – ma di valorizzarne la funzione e di valutare l’estensione del modello sul territorio milanese, come previsto dal progetto inizialeâ€. I centri incontro sono una rete pubblica di supporto gratuita che, da quasi un decennio, incoraggia la domiciliarità, stimola le capacità cognitive e motorie residue oltre a offrire supporto psicologico sempre gratuito e qualificato per i caregiver secondo un protocollo scientifico validato. “Sono l’unico servizio esistente pensato specificamente per persone che vivono condizioni di media disabilità psicomotoria, rappresentando una sorta di primo livello per le persone con diagnosi di decadimento cognitivo lieve-moderato, situazione intermedia che anticipa condizioni ben più gravi di adulti che poi vengono trasferiti nei centri diurni per un’assistenza più complessaâ€, spiegano i familiari caregiver. Queste strutture pubbliche costituiscono la soluzione intermedia tra la presa in carico totalizzante della persona con demenza presso ricoveri (RSA) o altri interventi per fasi più avanzate della patologia (CDI) e la possibilità di far loro ancora vivere le potenzialità residue. Offrono una serie di servizi che prevedono la realizzazione di azioni mirate per le persone con decadimento cognitivo (stimolazione cognitiva, stimolazione neuro motoria, attività ricreative specializzate per la tipologia di utenza) e per i caregiver (interventi informativi e psicoeducativi, gruppi tra pari, partecipazione alla programmazione delle attività).

“Non esistono finanziamenti dedicati né dalla Regione né dallo Stato”

Contattato da ilfattoquotidiano.it per un commento il Comune di Milano conferma la chiusura ma precisa che “l’attività del Centro Incontro rientra all’interno di una più ampia evoluzione del modello di intervento che riguarda il decadimento cognitivo che prevede una ricalibrazione delle risorse verso strumenti utili a rispondere a una platea più ampia di persone: si stima che siano 30mila le persone con decadimento cognitivo in città, a fronte di un’utenza dei Centi Incontro che si limita a poche decineâ€. Ma che fine faranno quindi le persone, in maggioranza anziani, che fino al 31 dicembre di quest’anno usufruiscono delle attività della sede? Il Comune meneghino non lo esplicita ma afferma che “la destinazione delle risorse comunali avviene attraverso il lavoro della Rete cittadina Alzheimer e Decadimento Cognitivo di Milano, che ha individuato come prioritari il progetto Memoria Comune, il rafforzamento dei Centri di Psicologia per l’Anziano e l’Alzheimer (CPAA), uno per Municipio, che garantiscono orientamento, accompagnamento e sostegno psicologico anche ai caregiver e il sostegno alle iniziative territoriali degli enti del terzo settore attraverso l’erogazione di contributiâ€. L’amministrazione guidata dal sindaco Giuseppe Sala aggiunge che “parallelamente, il Comune è impegnato in modo diffuso su azioni di prevenzione primariaâ€. La chiusura ci sarà ma in vista di un progetto più ampio, garantiscono dal Comune. “Non esistono finanziamenti dedicati e continuativi da parte dello Stato e della Regione Lombardiaâ€, dichiara Palazzo Marino, “non solo per questo specifico servizio, ma, più in generale, per i servizi comunali dedicati al decadimento cognitivo, che, intervenendo su una patologia, dovrebbero vedere coinvolti il sistema sanitario. In questo quadroâ€, conclude, “la riorganizzazione in corso va quindi letta come una riallocazione responsabile delle risorseâ€.

I caregiver familiari: “Siamo molto preoccupati per il futuro dei nostri cari”

Di fronte a queste parole i familiari caregiver dei frequentatori del Centro commentano al Fatto.it che “siamo molto preoccupati per le dichiarazioni rilasciate dall’amministrazione comunale e soprattutto spaventati dal futuro dei nostri parenti in condizione di fragilità evidente e in via di peggioramento se non adeguatamente assistititi dagli operatori professionisti del Centro sia dell’area neuromotoria che degli specialisti della psicomotricitàâ€. Il tutto è iniziato nell’autunno 2023, quando le famiglie dei partecipanti sono state informate che era in corso una riorganizzazione del sistema e quindi i quattro Centri Incontro allora esistenti presso i Municipi 4 – 6 – 7 – 9 dovevano essere progressivamente chiusi. Con diversi affidamenti, il Comune ha garantito il servizio fino ad oggi, ma con una riduzione ed accorpamento graduali delle sedi: da quattro ad una. E dal 1 gennaio sarà chiusa anche l’ultima e unica sede. Gli utenti di via Cenisio si recano in sede tre mattine la settimana (lunedì, mercoledì e venerdi) dalle 9.30 alle 13 circa accompagnati dai rispettivi assistenti personali. “E’ un modello che risponde a dei criteri internazionali scientificamente validati, che dimostrano che per avere efficacia, anche per motivi di sicurezza di queste persone, il numero dei partecipanti deve essere un massimo di 15 utenti, perché superato tale cifra non è più funzionale rispetto ai risultati che si vogliono ottenereâ€, spiega Elena Ruzzolini, figlia di Renato, 94enne e frequentatore della struttura. Il Centro resta l’unica realtà gratuita del Comune di Milano che offre un supporto oltre ai pazienti anche ai caregiver familiari, ad esempio il mercoledì c’è la cosiddetta “condivisa†dove i familiari caregiver si ritrovano con una psicologa per un gruppo protetto di mutuo aiuto. L’efficacia di questo modello di intervento è stata verificata dal progetto Europeo JPND Meeting Dem e successivamente dallo studio di “user evaluation”. Tant’è che questo specifico servizio si è diffuso in tutto il mondo.

Le testimonianze dei parenti delle persone che frequentano il Centro Incontro

Quando anche l’unico Centro esistente chiuderà le persone fragili che lo frequentano saranno costrette a modificare la propria routine, a rinunciare ad una importante comfort zone, e vedersi dirottate verso eventuali soluzioni adatte a stadi più avanzati della malattia, che probabilmente purtroppo raggiungerebbero più velocemente. “Viene meno l’unico punto di riferimento per le famiglie e si contraddirebbe l’impegno di Milano come città inclusiva e solidaleâ€, denunciano i parenti degli utenti.

“Per mia mamma vuol dire perdere la possibilità di conoscere e socializzare con altre persone che hanno le sue stesse difficoltà. Questo vale anche per noi caregiver il non avere più uno spazio di confronto e di conforto ci costringe ad affrontare la malattia dei nostri cari in solitudine†dice a ilfattoquotidiano.it Monica. “La chiusura per i pazienti vuol dire rimanere soli e per noi caregiver significa perdere i momenti d’informazione e formazione ad esempio su come si gestisce l’Alzheimer, su come si affronta lo stressâ€, aggiunge Maria Rosaria, moglie di Gaetano che sta avendo grandi benefici dalla frequenza. Una nuora di un utente sottolinea che non avere più la sede è “come chiudere una porta sulla comunità: i nostri cari restano senza il calore della condivisione. Senza questo spazio, si indebolisce la solidarietà e si spegne la possibilità di costruire legami nuovi e vitaliâ€. E termina dicendo che “resta forte il nostro impegno a difendere la dignità e la voce di chi ha bisogno, perché nessuno venga lasciato indietroâ€.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:07:42 +0000
Giustizia a cura di Alan Scifo
Ravanusa, a quattro anni dalla strage 36 famiglie ancora senza casa. E i lavori promessi nel 2024 non sono mai iniziati

Il Natale a Ravanusa è sempre amaro da quel dicembre di quattro anni fa. La ferita dell’esplosione che portò alla morte di nove persone – dieci, se si considera il piccolo che sarebbe dovuto nascere dopo pochi giorni – è ancora visibile. Da quell’11 dicembre del 2021 è ancora tutto transennato, tutto fermo, come gli orologi rotti dal boato che ha devastato la cittadina dell’Agrigentino. A innescarlo una fuga di gas – dovuta a una saldatura fatta male di un tubo sotterraneo – che ha riempito una casa disabitata, facendo saltare in aria le palazzine del quartiere. Dopo quattro anni e tante promesse di ricostruzione, le 36 famiglie sfollate continuano a vivere in affitto – pagato dal Comune tramite la Protezione civile – o in alloggi di fortuna, in attesa di un futuro ancora poco chiaro. Il progetto di ricostruzione, che doveva portare alla costruzione di nuove case per gli oltre cento sfollati e i loro parenti, non è mai stato finanziato: 24 milioni sono rimasti impigliati nelle pieghe della burocrazia, lasciando le famiglie senza un tetto sopra la testa.

Così l’amministrazione guidata da Salvatore Pitrola ha deciso di presentare all’assessorato regionale alle Infrastrutture un nuovo progetto che unisce riqualificazione e ricordo: “Abbiamo partecipato a un avviso regionale e ho chiesto una mano a progettisti, architetti e ingegneri della mia città che hanno risposto positivamente”, spiega il sindaco. “Più di 34 persone hanno dato la loro disponibilità dando vita al Progetto di comunità, che prevede riqualificazione di vecchie abitazioni per dare una nuova casa agli sfollati, un parco urbano e un cine teatro. Vogliamo sollecitare le istituzioni, perché le famiglie sono stancheâ€. Tra gli sfollati, infatti, c’è profonda disillusione: l’ultima promessa di inizio lavori era stata fatta dalla giunta regionale guidata da Renato Schifani in occasione del terzo anniversario dalla strage, cioè un anno esatto fa. Il cantiere sarebbe dovuto partire “entro fine meseâ€, ma ancora non si è mosso nulla.

Se la ricostruzione procede a rilento, anche la vicenda giudiziaria non è da meno: lo scorso maggio la Procura ha chiesto l’archiviazione per i dieci dirigenti di Italgas indagati. Su di loro e sui tecnici di una società minore, incaricata dei lavori nella rete, sarebbe ricaduta la responsabilità del danno provocato da una saldatura fatta male, con una perdita che poteva essere riparata. Questo però non è mai avvenuto, nonostante le diverse segnalazioni dei cittadini che da tempo lamentavano uno strano odore di gas. Quest’anno le famiglie hanno deciso di ricordare i loro cari in silenzio, per una vicenda che dopo il clamore iniziale – fu citata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno del 2021 – sembra spegnersi pian piano, mentre le istituzioni promettono e non realizzano.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:07:27 +0000
Politica a cura di Danilo Lupo
L’Università del Salento si spacca su Eka, la società dell’ex golden boy di Emiliano: gli intrecci con gli uomini dell’ateneo

L’Università del Salento si spacca su Eka, l’azienda fondata dal golden boy di Emiliano, Alessandro Delli Noci, e gestita da Maurizio Laforgia, figlio dell’ex rettore Domenico, azienda che ha percepito 6,5 milioni di euro di fondi pubblici negli ultimi anni, anche dalla Regione Puglia. Entrambi sono indagati per corruzione e anche questo ha infiammato la discussione nel senato accademico. Eka è del tutto estranea all’inchiesta giudiziaria ma è anche grazie agli atti di indagine che emergono gli interessi, spesso in conflitto, tra pubblico e privato.

Il 10% dell’ateneo, l’assessore e il giro d’affari

Tutto ruota intorno al 10% di Eka detenuto fin dal 2010 dall’Università del Salento mentre la quota di maggioranza è detenuta da Amema, una srl di cui era socio Alessandro Delli Noci, e che tornerà più avanti in questa storia. La quota del 10% in mano all’ateneo fa di Eka uno spin-off universitario, cioè una società partecipata da un ente di ricerca pubblica. Una condizione redditizia perché assicura una premialità nei bandi pubblici: più punti, più fondi. È anche così che la società è cresciuta a passi da gigante. L’anno da tenere d’occhio è il 2020: quell’anno il fondatore Delli Noci (che nel frattempo ha dismesso le sue quote, vendendole a un consigliere comunale di area) diventa l’assessore allo Sviluppo economico nella giunta di Michele Emiliano. Il 2020 è anche l’anno in cui Eka decolla: il giro d’affari si triplica nel giro di quattro anni passando dai 3 milioni del bilancio 2020 agli 8,6 milioni del bilancio 2024; così come cresce il patrimonio netto, da 2,3 milioni a 4,4 milioni; e l’utile annuo che passa da 315mila euro a 520mila euro.

I sindacati al senato accademico: “Inchiesta interna”

Nel 2020 però succede anche che l’Università del Salento delibera la vendita della sua quota. È un atto dovuto: il regolamento interno fissa in sei anni la permanenza massima in uno spin-off, dopo di che si può derogare per un massimo di cinque anni. Ma anche un danno potenziale per la società, che così perderebbe la vantaggiosa qualifica di spin-off universitario. Peccato che a quella delibera non sia seguito alcun atto concreto per cinque anni, fino a venerdì scorso. Come mai l’Università del Salento ha derogato a un obbligo normativo per un lustro, con enormi vantaggi per la società fondata dall’ex assessore regionale e amministrata dal figlio dell’ex rettore? È quello che si sono chiesti i sindacati dell’ateneo salentino: Anief, Flc-Cgil e Snals/Confsal in una nota hanno parlato di “profonda preoccupazione per le vicende portate alla luce nei giorni scorsi dalle inchieste giornalistiche e da alcune segnalazioni interne” e hanno chiesto “che possa essere fatta completa luce su questa oscura pagina dell’Ateneo salentino” auspicando che il senato accademico “non si limiti alla sola vendita della quota di partecipazione, ma si faccia promotore di una inchiesta interna approfondita sull’intera gestione dello spin-off, chiarendo chi ha la responsabilità dell’inerzia amministrativa”.

Lo scontro sul progetto Hint

È in questo clima teso che si arriva alla seduta del senato accademico di venerdì scorso. Maria Antonietta Aiello, che da pochi mesi è la prima rettrice dell’Università del Salento, ha difeso l’operato dell’ateneo, assicurando “la piena aderenza ai principi di legalità e il rispetto delle procedure seguite per il mantenimento temporaneo delle partecipazioni”. E i cinque anni in cui l’Università del Salento aveva deliberato la vendita della quota di Eka ma poi non aveva agito? “Non un atto di favore ma un atto dovuto”, ha affermato Aiello. “L’uscita da una compagine societaria che ha ottenuto e gestisce finanziamenti pubblici potrebbe causare il blocco o la revoca dei fondi, recando un danno diretto anche alla ricerca”. Ecco il punto cruciale: Eka e Università del Salento hanno avuto un progetto in comune e sciogliere la società poteva portare alla revoca dei finanziamenti con un danno anche alle casse pubbliche. Il progetto in questione si chiama Hint, attiene alla telemedicina e il suo coordinatore scientifico è il professor Angelo Corallo: è Hint il chiodo a cui è rimasta appesa la partecipazione dell’Università dentro Eka fino al 2025. Ed è anche il punto su cui è nato lo scontro in senato accademico: secondo Luigi Melica, direttore del dipartimento di Giurisprudenza e autore dell’esposto che ha messo in moto le polemiche, le attività di Hint sarebbero terminate nel 2021; secondo la rettrice Aiello invece i pagamenti si sono protratti fino al 2025. Difficile dire chi abbia ragione tra Aiello e Melica.

I legami tra Hint e Amema

Una cosa è certa: Eka non è mai citata tra i partner del progetto Hint. Né nelle determine regionali né tanto meno nei bilanci di Eka: nei documenti dal 2020 al 2025, sono citati tutti i progetti nazionali e regionali a cui lo spin-off ha partecipato. Hint però non è mai menzionato, come se Eka non vi avesse mai avuto niente a che fare. Dai bilanci emerge invece un altro tipo di legame: Angelo Corallo, il professore che è responsabile di Hint, compare nel bilancio 2022 come “advisor scientifico” dell’amministratore Maurizio Laforgia e nel bilancio 2024 come rappresentante di Amema, cioè la srl che ha in pancia la maggioranza di Eka. Una coincidenza strabiliante. A parlare di Corallo, in realtà, era stato lo stesso amministratore di Eka, Maurizio Laforgia, nel suo interrogatorio davanti al gip: “Noi abbiamo costituito una nostra holding” le sue parole a verbale “che si chiamava AMEMA perché erano le iniziali nostre, dei nostri amici: Alessandro (Delli Noci, ndr), Maurizio (Laforgia, ndr), Enza, Marco, e Angelo Corallo, un professore che è con noi fin dall’inizio”. Uno strano corto circuito: il coordinatore scientifico di Hint, il progetto universitario a cui sono appesi gli interessi di Eka, è in rapporti di affari con la stessa Eka. Difficile distinguere dove inizi il ruolo pubblico e dove cominci l’interesse privato. Ma non è finita qui.

Chi stabilirà il valore? Il prof vicino a Delli Noci

Lo scontro in senato accademico tra la rettrice Aiello e il professor Melica culmina con l’abbandono dell’aula da parte di otto componenti dell’organo, che avrebbero voluto una inchiesta interna per chiarire i punti oscuri. I componenti rimasti votano per la vendita della partecipazione dell’Università. Ma quanto vale quel 10%? Per valutare il valore della quota, il Senato accademico nomina una commissione di cui è coordinatore Antonio Del Prete. Non un professore qualunque: è il delegato alle partecipate della rettrice Aiello. E, sui circa 500 docenti di ruolo di cui l’Università del Salento dispone, è anche l’unico che era stato delegato in un altro spin-off fondato e amministrato direttamente da Alessandro Delli Noci, Advantech, in società con Amema. E Del Prete, come aveva spiegato ancora Maurizio Laforgia nel suo interrogatorio al gip, era stato molto di più: un sodale politico di Delli Noci e Laforgia, componente dell’associazione che ha supportato la scalata dell’ex assessore alla Regione Puglia, che aveva anche finanziato con donazioni private. Oggi quel professore è l’uomo che deve valutare quanto valga la quota dell’Università del Salento in Eka cioè quanto sia il vantaggio per le casse pubbliche e il costo per i bilanci privati. “Non vedo il problema”, commenta Del Prete, che conferma tutte le attività fin qui descritte. “Non mi sento in conflitto di interessi e d’altronde saremo in tre a svolgere questo compito: io, insieme ai miei colleghi, farò gli interessi dell’Università come ho sempre fatto”. Nessun reato, è bene ribadirlo, è al momento ipotizzato in questa vicenda; nella quale però la divisione tra pubblico e privato è labile e il confine tra politico, imprenditoriale e universitario è quasi impossibile da distinguere.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:07:14 +0000
Diritti a cura di Franz Baraggino
“Pratiche illegali alla Questura di Triesteâ€. Quando ad alimentare il “degrado†dei migranti è il Viminale

Alla Questura di Trieste i tempi delle richieste d’asilo si allungano tra discrezionalità e pratiche che violano la legge. A sostenerlo sono diverse realtà e associazioni che assistono i richiedenti della rotta balcanica, raccogliendo testimonianze ma soprattutto evidenze. Tante da farci un rapporto intitolato “Accesso negato” e appena presentato alla stampa per descrivere il sistema che comprimendo i diritti condanna le persone a quel “degrado” che l’amministrazione di centrodestra lamenta e il Viminale dice di combattere. E invece sembra alimentare. Altro che “accogliere in maniera dignitosa chi arriva”, come ha rivendicato ieri la responsabile Immigrazione di Fratelli d’Italia, Sara Kelany, parlando di Lampedusa. “Per noi è un orgoglio aver accudito migranti in arrivo e abbiamo velocizzato le procedure di trasferimento, che avvengono in 24/48 ore e abbiamo raddoppiato i posti nel centro, da 300 a 600”. A Trieste basterebbe molto, molto meno.

Il diritto di chiedere asilo è un diritto umano fondamentale sancito dalla Dichiarazione universale dei Diritti umani, disciplinato dalla Convenzione ONU sui Rifugiati del 1951 e garantito dalla Costituzione italiana come dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. E’ la premessa del rapporto alla denuncia di una serie di pratiche che, solo nel 2025, hanno riguardato oltre 1.400 persone e allungato una procedura, quella della registrazione delle domande d’asilo, che per legge va risolta in pochi giorni e invece richiede fino a due mesi, impedendo di fatto l’accesso all’accoglienza. Pratiche che contrastano con la normativa vigente ma anche con l’ormai noto Patto Ue su migrazione e asilo, quello che dovrebbe risolvere la questione dei centri in Albania. Talmente atteso dal governo Meloni che l’Italia riesce a violarlo prima ancora che sia operativo. Contrariamente alla normativa, si legge infatti nel rapporto, i funzionari della Questura condizionerebbero la registrazione delle domande d’asilo al possesso di documenti o addirittura del cellulare. “Ho mostrato il telefono che la polizia serba mi aveva rotto durante il viaggio: mi hanno detto di ripararlo e di tornare col cellulare funzionante”, racconta una delle testimonianze raccolte in un video. “Ho provato a farlo riparare, ma non era possibile. La riposta? O porti il telefono o vai via”.

Altri vengono rinviati ad altre questure o invitati a raggiungere altri Paesi, il tutto in modo informale, senza mettere nulla per iscritto e senza avviare la procedura per individuare lo Stato Ue eventualmente competente a esaminare la domanda d’asilo. Una palese violazione della normativa europea, ribadita anche nel nuovo regolamento Ue sulla gestione dell’asilo (2024/1351). C’è addirittura chi entra in Questura per registrare la sua domanda e se ne esce con l’ordine di lasciare l’Italia. Pratica che lo scorso 20 novembre il Tribunale di Trieste ha censurato perché “non emerge una chiara giustificazione giuridica per la decisione assunta dalla Questura”, ordinando l’immediata registrazione della richiesta d’asilo. Così, delle decine di persone richiedenti (tra le 70 e le 140 al giorno) che si presentano nelle primissime ore del mattino, “solo una dozzina al giorno riescono ad accedere fisicamente all’Ufficio; tuttavia, spesso circa la metà non riesce a formalizzare la domanda di asilo neppure dopo l’ingresso”, si legge nel rapporto. Chi è costretto a tornare l’indomani e rimettersi in fila non matura alcuna priorità. E’ così i tempi si allungano, fino a 60 giorni.

Scritto da International Rescue Committee Italia, No Name Kitchen, Consorzio Italiano di Solidarietà, Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute ApS e Diaconia Valdese (col supporto di GOAP e Linea d’Ombra), il rapporto denuncia anche l’assenza di tutela e accesso prioritario per i casi di vulnerabilità. Spesso “lasciando le persone in attesa per ore o costringendole ad allontanarsi”, nonostante le evidenti condizioni di salute. Paradossale, visto che il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno ha dedicato un Vademecum alla presa in carico delle persone vulnerabili. Del resto, prima ancora di denunciare, nel 2025 le associazioni hanno inviato 34 segnalazioni collettive e 416 PEC individuali, per un totale di 1.494 persone segnalate, compresi i casi di vulnerabilità. Il risultato? “Non vengono prese in considerazione dalla Questura”. Così anche i più fragili rimangono all’addiaccio, accampati nei magazzini abbandonati del Porto Vecchio, tra condizioni igienico sanitarie al limite e il freddo che a inizio dicembre ha ucciso Hichem Billal Magoura, un algerino di 32 anni.

Meglio gli sgomberi del Porto Vecchio. L’ultimo ai primi di dicembre, col trasferimento di una parte delle persone verso altre regioni, ma solo una parte. Complice l’imbuto in Questura, due settimane è tutto come prima. Secondo le associazioni che hanno firmato il rapporto, ad oggi sono almeno 200 le persone che dormono in strada, che si vedono rinviare l’appuntamento in Questura per formalizzare la domanda, ancora e ancora. Che provano a rivolgersi agli uffici di Gorizia o al commissariato di Monfalcone. Senza per questo riuscire a togliersi dalla strada. Oltre a chiedere la cessazione immediata delle pratiche illegittime, il report raccomanda di potenziare la registrazione delle domande di asilo, rafforzare la presa in carico delle persone vulnerabili, applicare correttamente le procedure su tratta e minori non accompagnati, spesso “allontanati senza nemmeno attivare le procedure formali di accertamento socio-sanitario previste dalla legge”, migliorare la trasparenza informativa e istituire un tavolo tecnico permanente. Sempre che i problemi si vogliano risolvere. Il Fatto ha provato a chiederlo al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che però al momento non rilascia dichiarazioni sulla situazione triestina. Quanto al Questore, per ora non intende commentare.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:07:00 +0000
Mondo a cura di Paolo Dimalio
Von der Leyen dice di prepararsi alla guerra ibrida, ma arriva tardi: è in corso da 15 anni. “Tutti usano l’arma cyberâ€

Ursula von der Leyen mette in guardia gli europei: prepararsi alla guerra ibrida, un mix di attacchi informatici, sabotaggi alle infrastrutture critiche, disinformazione, droni per violare i confini. Ma il monito è arrivato a tempo scaduto. Secondo molti esperti il conflitto è in corso da almeno 15 anni tra Russia, Cina, Usa e Gran Bretagna. Si fa ma non si dice: è la regola non scritta, infranta dall’Occidente che la proclama a giorni alterni. Certo la guerra in Ucraina ha sostenuto l’escalation, ma nelle ultime settimane la retorica bellicista si è inasprita. A dare il là, il 1 dicembre sulle pagine del Financial Times, è l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone: contro la guerra ibrida di Mosca non si escludono “attacchi preventiviâ€, ha annunciato il presidente del Comitato militare Nato.

Il capo dei servizi inglesi: “Attacchi russi appena al di sotto della soglia di guerra”

Il 15 dicembre, anche il capo dei servizi segreti inglesi ha dichiarato guerra, ibrida s’intende, alla Russia. Per la prima volta. al vertice dell’intelligence di sua Maestà siede una donna, Blaise Metreweli. “La Russia ci sta mettendo alla prova nella zona grigia con tattiche che sono appena al di sotto della soglia di guerra – ha dichiarato la numero 1 dell’MI6 – . È importante comprendere i loro tentativi di intimidazione, allarmismo e manipolazione, perché ci riguardano tuttiâ€. Non è chiaro se ad allarmare la popolazione sia più la guerra ibrida di Putin o gli annunci delle autorità politiche e militari occidentali. I capi di stato Maggiore di Londra e Parigi hanno entrambi esortato la Nazione ad accettare il rischio “di mandare i figli a morire in guerraâ€. L’ufficiale francese, Fabien Mandon, ha lanciato il monito il 21 novembre. Ieri è stato il turno dell’inglese Sir Richard Knighton. Quest’ultimo ha sottolineato anche la minaccia cyber dal Cremlino: “Ogni giorno il Regno Unito è oggetto di una serie di attacchi informatici da parte della Russia e sappiamo che gli agenti russi cercano di compiere sabotaggi, e hanno ucciso sulle nostre costeâ€.

“La linea del fronte è ovunque”

Toni che riecheggiano le parole di Metreweli, nel suo primo discorso pubblico: “Continuiamo tutti ad affrontare la minaccia di una Russia aggressiva, espansionista e revisionista (…) Sto parlando di attacchi informatici alle infrastrutture critiche. Droni che sorvolano aeroporti e basi. Attività aggressiva nei nostri mari, sopra e sotto le onde. Incendi e sabotaggi sponsorizzati dallo Stato. Operazioni di propaganda e di influenza che aprono e sfruttano le fratture all’interno delle societàâ€. Insomma, l’intero arsenale della guerra ibrida. Tutte le frecce in faretra condividono un aspetto, decisivo: è difficilissimo, sul filo dell’impossibile, attribuire con certezza la responsabilità degli attacchi. Ma le autorità europee non hanno dubbi. I servizi inglesi sono pronti a rispondere alla Russia, ha assicurato Il capo dell’intelligence britannica, “finché Putin non sarà costretto a cambiare i suoi calcoliâ€. Non esiste alternativa e nessuno può sottrarsi, nella visione dei servizi inglesi: “Tutti nella società devono comprendere davvero il mondo in cui viviamo: un mondo in cui i terroristi complottano contro di noi, dove i nostri nemici seminano paura, ci intimidiscono e ci manipolano, e dove la prima linea è ovunque. Online, nelle nostre strade, nelle nostre catene di approvvigionamento, nelle menti e sugli schermi dei nostri cittadiniâ€. Una società già in guerra, in ogni suo aspetto, ma senza soldati e linee del fronte. Perché “la prima linea è ovunqueâ€, per dirla con Metreweli. Il 4 dicembre Londra ha imposto sanzioni contro l’intero servizio segreto russo (Gru) e 11 agenti del Cremlino. Secondo il governo inglese, l’intelligence di Mosca cerca “regolarmente” di condurre operazioni ibride.

Trump nomina a capo dell’Us Cyber Command Joshua M. Rudd

La stessa accusa è giunta dall’altra sponda dell’atlantico. Il 9 dicembre la Cisa (Cybersecurity and Infrastructure Security Agency) ha diramato un comunicato per avvisare: “Gli hacktivisti filo-russi conducono attacchi opportunistici contro le infrastrutture critiche statunitensi e globaliâ€. Anche gli esperti informatici per la sicurezza di Amazon hanno denunciato attacchi cyber contro aziende energetiche occidentali, nel 2025, senza risparmiare reti elettriche e telecomunicazioni. Le organizzazioni colpite sarebbero almeno dieci, ma la campagna criminale era iniziata nel 2021. Il colpevole? Secondo CJ Moses, CISO di Amazon Integrated Security, il collettivo criminale APT44 (noto come Sandworm) considerato ufficialmente dagli Usa “il braccio†cyber del Cremlino.

Intanto, dopo mesi con il vertice decapitato, ieri Donald Trump ha nominato il nuovo capo della National Security Agency (l’agenzia di intelligence) e dell’Us Cyber Command. I due ruoli chiave erano rimasti vacanti da aprile. Se il senato confermerà la scelta della Casa bianca, a guidare i “cyber soldati” americani sarà il tenente-generale Joshua M. Rudd, vice capo del Comando Indo-Pacifico.

L’esperto: “Guerra ibrida in corso da 15 anni”

Michele Colajanni è stupito dal lessico bellicista, ma la guerra ibrida per lui non è una novità. “La conducono soprattutto Russia e Cina, ma è scontato che almeno Stati Uniti e Gran Bretagna – i più “ibridi’ in Occidente – abbiano sferrato colpiâ€. Evidenze non ce ne sono, per due motivi. Il primo: l’attacco cyber lascia poche o nessuna traccia. Il secondo: se la Russia incassa un attacco informatico, non è detto che la notizia arrivi sulla stampa e l’episodio può morire nel silenzio. In Occidente, invece, ogni colpo russo rimbalza sui media. Anche per questo, Colajanni ha pochi dubbi: “Da anni Usa e Gran Bretagna stipendiano migliaia di cyber soldati, è la via annunciata per l’Italia dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Washinghton e Londra, cosa li pagano a fare gli informatici con l’elmetto?â€. Secondo Colajanni, “la guerra ibrida si fa ma non si minaccia”. Tutto l’opposto dell’Europa.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:04:58 +0000
Mondo a cura di Sabrina Provenzani
Altro che investimenti etici: ecco come alcuni fondi sostenibili europei finanziavano l’industria delle armi

Immaginate di investire i vostri risparmi in un fondo etico, convinti di contribuire a un futuro più verde, alla transizione energetica e al rispetto dei diritti umani. Scegliete quel prodotto finanziario proprio perché i gestori vi garantiscono che esclude settori controversi in contrasto con i vostri valori pacifisti. Salvo scoprire che parte del vostro denaro finisce a finanziare produttori di droni da combattimento, missili a lungo raggio o componenti per bombe usate attivamente in zone di guerra, come Gaza. Una clamorosa inchiesta internazionale, coordinata da VoxEUROPE e pubblicata da El País in Spagna, IRPI Media in Italia e Mediapart in Francia, documenta per la prima volta in modo sistematico come la Commissione europea abbia reso compatibile il settore della difesa e la finanza sostenibile.

L’indagine si basa sull’analisi incrociata di 3.037 fondi ESG, quelli venduti come ‘sostenibili’; dataset finanziari forniti dal London Stock Exchange Group; documenti interni dell’UE ottenuti tramite richieste di accesso agli atti e interviste a esperti del settore. Il cuore del meccanismo che ha permesso questo “sdoganamento” è il Regolamento europeo sulla trasparenza della finanza sostenibile (SFDR), entrato in vigore nel 2021. Progettato originariamente per orientare i capitali verso attività ecologicamente responsabili, il regolamento è rimasto volutamente “neutrale†sui settori economici ammissibili.

Questo vuoto normativo ha creato un varco sfruttato, come dimostra l’inchiesta, dalla lobby ASD (Associazione europea per l’aerospazio, la sicurezza e la difesa). Già nell’ottobre 2021, l’ASD diffondeva documenti interni che promuovevano lo slogan “Non c’è sostenibilità senza sicurezzaâ€, dando il via a una campagna di pressione e incontri a porte chiuse su alti funzionari della Commissione. Risultato: l’esclusione delle armi convenzionali dalle “controindicazioni principaliâ€. Di fatto, il regolatore ha stabilito che solo le armi esplicitamente bandite dalle convenzioni internazionali, come le mine antipersona, le munizioni a grappolo e le armi chimiche o biologiche, siano da escludere da un investimento etico. Tutto il resto, carri armati, droni armati, caccia, sistemi missilistici, è stato ‘riabilitato’, e i gestori di quei fondi hanno potuto includerlo senza doverne giustificare, o comunicare, l’impatto negativo.

L’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022, ha fornito il pretesto geopolitico perfetto per accelerare questa normalizzazione. La Commissione ha emanato una serie di comunicazioni che invitavano a mobilitare fondi privati per la difesa, dichiarandola pienamente compatibile con gli obiettivi ESG, fino a riconoscerla ufficialmente come settore “strategico†nel 2023. Questo percorso di legittimazione è culminato nella revisione dell’SFDR del novembre 2025 e nel Forum sugli investimenti industriali nel settore della difesa dell’Ue, dalla Commissione il 27 novembre 2024 a Bruxelles. Nelle slides, ottenute in esclusiva, relatori istituzionali di alto profilo come Anne Fort, vice capo di gabinetto del commissario alla Difesa Andrius Kubilius, dichiara che “il quadro finanziario sostenibile dell’Ue non impone alcuna limitazione al finanziamento del settore della difesaâ€e Joanna Sikora-Wittnebel, Responsabile della finanza sostenibile alla Direzione Generale per la Stabilità finanziaria, che l’ “Sfdr è neutrale dal punto di vista settoriale†.

Anche grazie a questo sdoganamento, tra il 2021 e il 2025 gli investimenti in azioni di 118 società del comparto difesa da parte di fondi “verdi†sono passati da 14,5 a 49,8 miliardi di euro. Circa 25 miliardi sono finiti nelle casse di 27 aziende europee, con in testa la francese Safran (5,6 miliardi) e la tedesca Rheinmetall (4 miliardi), seguite da Thales, Airbus, Bae Systems e Rolls Royce. Fra i beneficiari, al 10 posto, anche l’italiana Leonardo, impresa partecipata dallo Stato, che avrebbe attratto ingenti capitali sostenibili nonostante il suo coinvolgimento in scenari bellici.

Nel novembre 2021 Alessandro Profumo, allora amministratore delegato di Leonardo, incontra Timo Pesonen, direttore generale per l’industria della difesa e lo spazio della Commissione europea e, scrive VoxEUROPE, ‘mostra preoccupazione per il fatto che l’industria della difesa sia esclusa dalla tassonomia dell’Ue per le attività sostenibiliâ€.

Poi c’è il flusso di denaro che dall’Europa “verde” finisce direttamente a finanziare la guerra a Gaza attraverso l’azienda israeliana Elbit Systems. VoxEUROPE rivela che 23 milioni di euro, provenienti da 25 diversi fondi sostenibili europei gestiti da giganti della finanza mondiale, sono stati investiti nell’azienda israeliana, che produce i droni attivi a Gaza. Secondo Iain Overton, direttore dell’ONG inglese Action on Armed Violence che monitora la violenza armata sulla Striscia e il suo impatto sui civili, questi investimenti rivelano “una catena probatoria di responsabilità morale. La distanza tra un investimento etico e un attacco a Gaza è più diretta e più tracciabile di quanto l’industria vorrebbe ammettere”.

Mentre il mercato globale della difesa esplode, toccando i 3.000 miliardi di euro (il doppio rispetto al 2021), milioni di piccoli risparmiatori europei restano all’oscuro di come vengono impiegati i loro soldi. Esperti sentiti dagli Autori dell’inchiesta, come Nicola Koch del Sustainable Finance Observatory, denunciano una totale mancanza di trasparenza, mentre Attiya Waris, relatrice ONU su diritti umani e finanza, ricorda che “non esiste sostenibilità senza pace”. Per Armin Baranes della Fondazione Finanza Etica la UE, all’insaputa dei suoi cittadini, ha deliberatamente operato un “greenwashing istituzionale” paragonabile a vendere “bistecche vegetariane fatte di carneâ€.

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:04:43 +0000
Mondo a cura di Gianni Rosini
Nato e Gran Bretagna parlano di guerra imminente con la Russia. L’Alleanza spende in armi 10 volte più di Mosca (e l’Ue più del doppio)

Mentre Washington, Mosca e Kiev manifestano soddisfazione per gli ultimi colloqui di pace sull’Ucraina, in Europa si continua a parlare di guerra. Non di quella che da quasi quattro anni sta martoriando la popolazione civile ucraina, ma quella che verrà. Almeno secondo loro. L’11 dicembre è stato il segretario generale della Nato, Mark Rutte, a dichiarare che “noi siamo il prossimo obiettivo della Russia e siamo già in pericolo“. L’ex primo ministro olandese si è contraddistinto, da quando è salito alla guida dell’Alleanza, per le dichiarazioni roboanti e, in alcuni casi, allarmiste. “La pace è finita“, ha poi ribadito Ursula von der Leyen. Lo pensa anche il capo di Stato maggiore della Difesa britannico, Richard Knighton, che rivolgendosi direttamente alla popolazione ha detto: “Le famiglie devono essere pronte a mandare i loro figli e le loro figlie in guerra contro la Russia”. Una guerra che, aggiunge sempre Rutte, potrebbe scoppiare entro i prossimi cinque anni, nonostante Mosca ribadisca ad ogni occasione di non avere mire espansionistiche in territorio Nato.

Il disimpegno americano, però, spaventa gli alleati ed è per questo che gli Stati membri si sono impegnati non solo a raggiungere la quota del 2% del Pil in spese nella Difesa nel 2025, ma ad alzare questa percentuale al 5% (il 3,5% destinato alle spese militari tradizionali, mentre l’1,5% in sicurezza allargata che include cybersicurezza, infrastrutture e mobilità militare) entro il 2035. Per capire quanto, ad oggi, la Russia e i suoi alleati rappresentino una minaccia per l’Europa non resta quindi che quantificare le spese militari dei due blocchi.

Il fronte occidentale

Il grosso della spesa del blocco Nato riguarda naturalmente gli Stati Uniti. Il 17 dicembre il Senato ha approvato in via definitiva, in attesa della firma finale del presidente Donald Trump, il National Defense Authorization Act (NDAA), la legge federale americana che stabilisce la spesa futura per la Difesa. Per il 2026 quella degli States si conferma in linea col 2025, con 900 miliardi di dollari contro gli 895 dell’anno precedente, circa 765 miliardi di euro. Anche l’Unione europea fa segnare un trend in salita: nel 2025 la spesa per la Difesa è aumentata dell’11%, con 381 miliardi di euro che superano i 344 del 2024. Una tendenza che non conoscerà un’inversione nei prossimi anni, visto che la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha lanciato il suo piano di riarmo, che adesso si chiama Preserving Peace, che nel 2035 potrebbe aver raggiunto un costo totale effettivo di 6.800 miliardi di euro. E alcuni Paesi si sono già adeguati: la Germania, ad esempio, ha stanziato 850 miliardi per il suo piano di riarmo.

Già sommando le spese 2025 di Stati Uniti e Unione europea, la cifra totale raggiunge quota 1.141 miliardi. Se si vuol allargare lo sguardo alla Nato, ecco che devono essere tenuti in considerazione almeno gli altri tre attori principali all’interno dell’Alleanza: Regno Unito, Turchia e Canada. Londra vanta una spesa militare decisamente alta per gli standard europei, dato che nel 2025 ha deciso di investire 68 miliardi di euro nel comparto della Difesa. Istanbul, che, va detto, non sembra prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di uno scontro armato con la Russia, partner importante per il Paese del presidente Recep Tayyip ErdoÄŸan, nel 2025 ha speso 33,4 miliardi e prevede un aumento del 33% per il 2026, per un totale di oltre 43 miliardi. Ottawa, infine, ha contribuito con 21 miliardi. Solo con questi tre Paesi in più, il totale sale a 1.263 miliardi di euro.

Il fronte orientale

La cifra investita dal blocco Nato è quasi 10 volte superiore a quella della Russia. Mosca nel 2025 ha investito 142 miliardi di euro nell’industria della Difesa e secondo il Carnegie Russia Eurasia Center di Berlino questa cifra sembra addirittura destinata a calare nel 2026, non si sa se per una previsione di fine conflitto o altro. Con una sproporzione del genere, pensare a un attacco russo su suolo Nato appare molto difficile. Anche ipotizzando un disimpegno totale di Stati Uniti e Turchia dallo scontro con Mosca, i Paesi rimanenti varrebbero comunque 465 miliardi di investimenti all’anno in Difesa, più del triplo della Federazione. Certo, stiamo parlando di Stati che non conoscono una guerra sul loro suolo da decenni, ma allo stesso tempo la Russia viene da quasi quattro anni di conflitto nel quale ha sacrificato un enorme quantità di mezzi, energie (anche economiche) e perso centinaia di migliaia di soldati.

È possibile ipotizzare che Vladimir Putin, o chi per lui, possa godere addirittura dell’appoggio militare della Cina, il più grande esercito al mondo? La storia della Repubblica Popolare, più aggressiva in campo economico che militare, dice il contrario. Anche tenendo conto che l’unico dossier che potrebbe portarla a impugnare le armi sembra quello di Taiwan. Ma se, per assurdo, questa alleanza militare dovesse nascere, stiamo parlando di una potenza che nel 2024 ha speso 230 miliardi di euro nella Difesa e ha annunciato, per il 2025, un aumento del 7% che porterebbe il totale a 246 miliardi totali. Alcuni osservatori sostengono, però, che la spesa reale potrebbe far registrare un balzo in avanti del 40%, fino a 322 miliardi. Ecco, solo unendo questa cifra a quella della Russia si può raggiungere quella di una Nato privata di Stati Uniti e Turchia, con la Russia che godrebbe di una netta superiorità nel campo degli ordigni nucleari. Resta da capire se questa ipotesi rientri nel campo della realtà o della fantasia.

X: @GianniRosini

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Data articolo:Thu, 18 Dec 2025 07:04:28 +0000

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