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La nuova instant survey “La mobilità dell’altra Italiaâ€, realizzata da Areté, mette in luce con chiarezza una realtà spesso trascurata: nelle città italiane di medie dimensioni l’auto resta il mezzo dominante, più per necessità che per scelta. L’indagine, condotta su un campione rappresentativo di dieci province sotto i 250.000 abitanti, evidenzia infatti un forte squilibrio tra trasporto privato e offerta pubblica.
Il 67% degli intervistati utilizza abitualmente l’auto per i propri spostamenti quotidiani, mentre solo il 12% ricorre ai mezzi pubblici e altrettanti riescono a muoversi principalmente a piedi. La micro-mobilità , tra monopattini e biciclette tradizionali o elettriche, si ferma complessivamente all’8%. A determinare la scelta dell’auto è soprattutto la ricerca di rapidità (54% delle risposte) e la percezione diffusa di un trasporto pubblico inadeguato: solo un cittadino su tre si dichiara soddisfatto del servizio.
Interessante il dato sulle restrizioni ambientali: il 60% degli intervistati si dice favorevole al bando dei veicoli diesel Euro 5 nei centri cittadini. A motivare il sì sono soprattutto il miglioramento della qualità dell’aria, l’esigenza di rispettare i parametri europei e la speranza di un traffico più fluido nelle aree centrali. Chi è contrario teme invece costi elevati per le famiglie e dubita dell’efficacia reale del provvedimento.
Sul fronte del futuro, emerge una cauta evoluzione: il 50% ritiene che l’auto resterà comunque il mezzo principale, ma aumenta la fiducia nei trasporti pubblici, indicati dal 24% come opzione preferita negli anni a venire. Segnali di crescita arrivano anche dalla mobilità dolce: l’uso combinato di bici ed e-bike, oggi al 5%, potrebbe quasi raddoppiare.
Secondo Massimo Ghenzer, presidente di Areté, il quadro delineato racconta un’Italia diversa dalle grandi metropoli, dove l’auto rimane centrale per mancanza di alternative davvero efficienti. Servizi come car sharing e car pooling restano marginali, ma la domanda di un trasporto pubblico più affidabile è forte: una condizione necessaria per ridurre realmente la dipendenza dall’automobile e aprire la strada a una mobilità più equilibrata.
L'articolo Trasporto pubblico inadeguato e micro-mobilità al palo, l’auto resta regina della provincia italiana proviene da Il Fatto Quotidiano.
Alle 12 di giovedì 11 dicembre torna Millenium Live con Roberto Festa, Fabrizoo D’Esposito e Mario Portanova. “Trump, Putin, Netanyahu e gli altri. Ma Dio è davvero con loro?”
L'articolo Trump, Putin, Netanyahu e gli altri. Ma Dio è davvero con loro? Millennium Live con Fabrizio D’Esposito e Roberto Festa proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Fed taglia i tassi di interesse per la terza volta nel corso del 2025. E fa scendere il costo del denaro di un quarto di punto in una forchetta fra il 3,50% e il 3,75%, ai minimi degli ultimi tre anni. Ancora non abbastanza per Donald Trump, che ha di nuovo criticato la decisione a suo avviso insufficiente: “Avrebbe potuto essere più grande”. Da quando ha avviato il suo ciclo di tagli nel settembre 2024, la Fed ha ridotto il costo denaro sei volte (la prima è stato un maxi taglio da mezzo punti, tutte le successive da 25 punti base). Ma per il 2026 la banca centrale stima solo una riduzione dei tassi di 25 punti base, in deciso rallentamento rispetto agli ultimi anni.
La decisione ha spaccato il board. A favore di un taglio hanno votato in nove, mentre tre per la prima volta dal 2019 hanno votato contro. Due infatti avrebbero preferito lo status quo, mentre uno (Stephen Miran nominato da Donald Trump) voleva una riduzione più pesante di 50 punti base. Che la Fed fosse spaccata su come procedere, complice anche la carenza di dati dovuta allo shutdown, era emerso chiaramente nelle ultime settimane. Le colombe del Federal open market committee, preoccupate dall’indebolimento del mercato del lavoro, l’hanno alla fine spuntata sui falchi che puntavano quantomeno allo status quo vista la corsa dei prezzi. Secondo le nuove previsioni della Fed l’inflazione è attesa restare saldamente sopra il 2% per i prossimi anni. La crescita è però prevista accelerare il prossimo anno al 2,3%, in rialzo rispetto all’1,8% stimato in settembre.
Anche se Trump continua a minimizzare il problema dell’”affordability” definendolo una “bufala” dei democratici, la maggior parte degli americani – stando agli ultimi sondaggi – lamenta un caro-vita che non dà tregua e che potrebbe peggiorare ulteriormente qualora non fosse raggiunto in Congresso un accordo per l’estensione dei sussidi all’Obamacare. L’inflazione è uno dei motivi di preoccupazione della Fed: gli effetti dei dazi iniziano a farsi sentire sui prezzi e le prospettive delle tariffe non sono chiare in attesa della decisione della Corte Suprema sulla loro legalità . Una loro abolizione potrebbe causare un peggioramento dei conti pubblici americani, facendo venire a mancare le entrate per pagare il taglio delle tasse voluto da Trump e per ridurre il debito e il deficit.
Come se queste incertezze non bastassero, la Fed si è trovata a decidere anche sullo sfondo della corsa a sostituire Powell, il cui mandato scade nel maggio del 2026. Trump avrebbe deciso chi nominare ma la partita non è ancora chiusa. Il presidente e il segretario al Tesoro, Scott Bessent, stanno infatti tenendo un ultimo giro di colloqui per confrontare il favorito Kevin Hassett con altri tre pretendenti, incluso l’ex governatore della Fed Kevin Warsh. Il consigliere economico della Casa Bianca è in pole position ma i mercati lo guardano con scetticismo temendo che sia troppo allineato con Trump e che quindi rischi di politicizzare la Fed. Il presidente dovrebbe annunciare la sua scelta agli inizi del prossimo anno rendendo ancora più in salita gli ultimi mesi di Powell.
L'articolo La Fed taglia i tassi di un quarto di punto ma il board si spacca. E Trump attacca di nuovo: “Troppo poco” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Malore per il maestro Riccardo Chailly mentre, mercoledì 12 dicembre, dirigeva la seconda rappresentazione di “Una lady Macbeth del distretto di Mcensk†al Teatro alla Scala. Dopo il secondo intervallo dell’opera che il 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione lirica del Teatro milanese con grande successo di pubblico, la rappresentazione è stata interrotta. Il coordinatore artistico del teatro, Paolo Gavazzeni, è salito sul palcoscenico e ha spiegato al pubblico la situazione. Il direttore è stato ricoverato in codice giallo all’ospedale Monzino.
Settantadue anni, alla sua ultima stagione come direttore musicale ma con ancora tanti progetti in futuro con il teatro e con il festival di Lucerna di cui sarà alla guida fino al 2028, Chailly ha mostrato qualche segno di “stanchezza” agli orchestrali e già al primo intervallo, che è durato una decina di minuti più del previsto, era girata la voce che non si sentisse bene. Poi però il direttore, che ha da tempo un problema cardiaco che tiene sotto controllo, ha deciso di proseguire per i cinquanta minuti successivi fino al secondo intervallo.
Velocemente è tramontata l’idea di far terminare l’opera al maestro suggeritore e così il coordinatore artistico ha annunciato al pubblico che per la complessità dell’opera e soprattutto “per rispetto del maestro Chailly” il teatro aveva deciso di interrompere la rappresentazione. Nel frattempo alla Scala sono arrivate ambulanza e automedica a prestare i primi soccorsi e a portare il maestro in ospedale.
Lo scorso febbraio, per motivi di salute, Chailly, che è direttore musicale della Scala dal 2015, non aveva partecipato alla tournée della Filarmonica della Scala ed era stato sostituito da Lorenzo Viotti e nel 2023 aveva dovuto rinunciare al concerto inaugurale del Festival di Lucerna a causa di una operazione dopo un malore.
L'articolo Malore alla Scala mentre dirige “Lady Macbeth”: portato via il maestro Riccardo Chailly tra gli applausi dei loggionisti proviene da Il Fatto Quotidiano.
Lo scandalo urbanistica a Milano continua ad allargarsi. L’ultimo capitolo riguarda il sequestro preventivo del cantiere Unico-Brera disposto dal gip di Milano, Mattia Fiorentini, e iniziato nella mattinata di giovedì. La Guardia di Finanza ha eseguito il provvedimento nella centralissima via Anfiteatro 7, dove si sarebbe dovuto nascere il progetto dei costruttori Carlo e Stefano Rusconi. Un progetto simile ad altri già finiti sotto sequestro: la trasformazione di due ruderi settecenteschi di 5 e 3 piani, demoliti nel 2006, in una torre di 11 piani per oltre 34 metri, 27 appartamenti e 45 abitanti potenziali. Sono 27 gli indagati per abusi edilizi, lottizzazione abusiva e falso fra imprenditori, architetti, ex componenti della commissione per il paesaggio e funzionari comunali.
Tra coloro finiti nel registro degli indagati ci sono anche Marco Emilio Cerri, ex componente della commissione per il paesaggio stato destinatario di un’interdittiva per falso a marzo nell’inchiesta che ha portato all’arresto per corruzione e depistaggio dell’ex direttore dello Sportello unico edilizia, Giovanni Oggioni, anche lui tra i 27 sotto inchiesta per Unico-Brera. Ci sono poi i costruttori Rusconi, anche loro a giudizio per la Torre Milano di via Stresa, Franco Zinna, Andrea Viaroli, l’ex urbanistica Carla Barone, il notaio Fabio Gaspare Pantè, l’ex presidente della commissione per il Paesaggio, Marco Stanislao Prusiki, ed ex componenti fra cui Alessandro Scandurra, messo ai domiciliari e liberato in estate per assenza di gravi indizi nell’ambito delle indagini per corruzione sul “sistema Milano”.
Il processo di autorizzazione è simile a quello di molti altri palazzi finiti nelle inchieste dei pm meneghini. I lavori avrebbero dovuto completarsi quest’anno e sono stati autorizzati con una Scia, la Segnalazione certificata di inizio attività , come “ristrutturazione edilizia” nel 2019 e, successivamente, con un’altra segnalazione certificata di inizio attività in variante nel 2023. Ma su quell’area di edifici da ristrutturare, secondo la Procura, non ce n’erano più da quando i due ruderi erano stati definitivamente demoliti. Trattasi quindi di “un’area libera” perché demolita oltre 10 anni prima dell’avvio dei lavori, argomento su cui nelle scorse settimane i pm hanno incassato il via libera del Consiglio di Stato che ha stabilito fra i limiti della ristrutturazione la “contestualità ” fra abbattimento e ricostruzione scrivendo come non si possa “ritenere” che da una “demolizione” esista una “sorta di ‘credito volumetrico’ che il proprietario può spendere in ogni epoca”.
Il progetto della torre, che visivamente si appoggia a un condominio di corso Garibaldi, aveva scatenato le proteste dei residenti con ricorsi a Tar Lombardia e Consiglio di Stato che però avevano visto uscire vittoriosi il Comune di Milano e i costruttori. I pm Paolo Filippini, Marina Petruzzella e Mauro Clerici approfondiscono il tema delle aree di proprietà pubbliche che tra 2007 e 2008 sono state inserite nei Piani di Alienazione e Valorizzazione del Comune (due fondi chiamati Milano 1 e Milano 2) e aggiudicati a BNP Paribas che a sua volta le ha cedute ai privati dopo essersi fatta rilasciare i pareri dalla commissione per il paesaggio. Pubblico sarebbe stato in origine il piccolissimo lotto di circa 400 metri quadrati in via Anfiteatro che collega corso Garibaldi all’Arena civica di Milano e al Parco Sempione su cui oggi insiste l’edificio costruito con un indice edificatorio di oltre 9 metri cubi per metro quadrato. Numeri che per la Procura avrebbero fatto scattare l’obbligo di piano attuativo per ‘tarare’ i servizi pubblici da realizzare in base ai nuovi abitanti. Così non è stato, però, con la tesi che l’intervento “non genera fabbisogno di nuove dotazioni” di servizi e quindi, di conseguenza, nemmeno il pagamento delle monetizzazioni, la voce più consistente degli oneri di urbanizzazione.
Il “prezzo di partenza” degli appartamenti sequestrati è di 660.000 euro, con “incrementi in base alla dimensione, all’affaccio e al piano, servizi e amenities inclusi”, si legge sul sito dell’iniziativa immobiliare. L’edificio, quasi completato, prevede la realizzazione e vendita di un bilocale, 2 trilocali, un appartamento su più livelli e 23 monolocali definiti modello “Unico”. Tra le contestazioni della Procura di Milano ci sarebbe anche la destinazione dell’area: il piccolo lotto su cui insistevano i due ruderi era stato acquisito dal Comune a prezzo di esproprio nel 1980 nell’ambito degli allora Piani di zona. Nel 2005 l’amministrazione lo avrebbe destinato a un progetto di “risanamento conservativo” per 9 case popolari all’interno di una disciplina che avrebbe vietato interventi senza piano attuativo o permesso convenzionato e messo dei limiti inderogabili di altezze, densità e standard minimi per la popolazione. Per i pm quelle regole sono ancora oggi in vigore perché sarebbero state mantenute nei successivi Piani di governo del territorio 2012 e 2020.
L'articolo Urbanistica a Milano, sequestrato anche il cantiere della torre Unico-Brera: 27 indagati proviene da Il Fatto Quotidiano.
Non tutti i club sono uguali, né soprattutto vogliono essere percepiti come tali. Per alcuni, affiancare allo sport una certa consapevolezza sociale rappresenta un marchio distintivo sviluppato e consolidato lungo tutta la loro storia. Ad esempio il Celtic, che sin dalla sua fondazione nel 1888 come sostegno a una comunità cattolica di Glasgow ai limiti dell’indigenza, ha sempre sostenuto un certo tipo di ideali. Come accade ancora oggi con il supporto alla causa palestinese, e in questa sede poco importa conoscere quali siano le reali motivazioni della scelta. Da società con un certo tipo di attenzione ci si aspetta sempre qualcosa in più rispetto al resto. Pertanto la partnership – che dura dal 2016 – con Dafabet, azienda di scommesse on-line con un elenco di crimini e violazioni di legge lungo un chilometro, fa logicamente storcere il naso a molti, nonostante Dafabet non sia sponsor solo del Celtic ma anche di altre società della Premier League inglese. Solo che chi fa la morale, poi non dovrebbe utilizzarne un’altra per i propri fini, né tanto meno nascondersi dietro un atteggiamento ignavo.
Dafabet è illegale in numerosi paesi asiatici, è stata condannata per frode, ha mandato sul lastrico decine di persone e, recentemente, una delle sue ultime reincarnazioni, attraverso un sito visibile nel Regno Unito, appartiene a un gruppo che convoglia denaro verso la Russia, addirittura mediante banche sanzionate per il loro finanziamento alla guerra in Ucraina. Dafabet è un misto tra una matrioska e il videogioco Whac-A-Mole, quello nel quale si doveva colpire la talpa che sbucava da uno dei buchi sullo schermo. Scompare e riappare nel web senza soluzione di continuità , nascosta dietro a una coltre di fumo in una sala di specchi. Basti pensare che il marchio era detenuto da diverse società , ciascuna dotata di una licenza per operare in determinati paesi: una con sede nell’Isola di Man con licenza di gioco offshore nelle Filippine; un’altra a Curacao con mercato nel Regno Unito, Australia e Unione Europea; una terza a Malta e operante in Spagna e Brasile. Si tratta di un ginepraio per il quale servirebbe un articolo solo per elencare tutte le diramazioni. Il concetto però è semplice: Dafabet è una società di gioco d’azzardo online, pratica vietata o fortemente limitata (ad esempio con il divieto di pubblicità ) in diversi paesi, che attraverso la sponsorizzazione di uno sport di ampio richiamo, aggira leggi e divieti pubblicitari piazzando il proprio nome su magliette, materiale promozionale e cartelloni pubblicitari negli stadi.
Creata da AsianLogic, una società fondata nel 2002 da tre cittadini di Hong Kong che rivestono posizioni chiave nel mondo dei casinò e del gioco d’azzardo (uno di questi, Tom Hall della Playtech, è stato condannato per profitti illeciti nell’ambito di una vendita di azioni di Betfair), Dafabet ha visto progressivamente crollare la propria reputazione (sul sito di recensioni TrustPilot oggi ha una media punti di 1.2 su 5) tra gli scommettitori. Conti chiusi subito dopo una vittoria dell’utente, somme congelate, richieste di prelievo cadute nel vuoto. Le vite di numerose persone rovinate con pochi clic. Senza contare i siti mirror e le scappatoie normative per eludere i blocchi, come accaduto in India quando, dopo essere stato classificato come sito fraudolento, ha continuato a operare attraverso un portale chiamato Dafanews che addirittura sponsorizzava squadre della Super League indiana. Oggi non è chiaro dove Dafabet.com possa operare legalmente, tra licenze scadute e un servizio clienti che rimanda a una non ben precisata società affiliata della Malesia, paese dove oltretutto il gioco d’azzardo online è illegale.
Come un virus, Dafabet viene bloccato da una parte e riappare in un altro punto. In tempi recenti AsianLogic, assieme a AsianBGE, ha cambiato nome, confluendo in un collettivo di aziende chiamato SportServe con sede a Malta. Dafabet è uno dei marchi inclusi nel pacchetto, e per il Regno Unito possiede una licenza con il nome commerciale VBet, marchio sanzionato in passato per riciclaggio di denaro e violazioni plurime delle leggi maltesi (fu condannato a pagare la più alta multa mai comminata dalla Financial Intelligence Analysis Unit di Malta, ovvero 733.160 euro). VBet appartiene al network dei fratelli armeni Vigen e Vahe Badalyan, titolari di una serie di società che spaziano dai casinò online ai cybersport, dalle criptovalute ai gioielli. Un impero che comprende una piattaforma di pagamento online linkato con, tra gli altri, la banca statale russa VTB Bank, soggetta a sanzioni finanziarie internazionali per aver contribuito a finanziare l’invasione dell’Ucraina; e a vari portali di gioco d’azzardo russi, tra cui quelli di proprietà del VK Group, azienda che fa capo a Gazprom, il cui CEO è il figlio del vice capo di gabinetto di Putin, Sergei Keriyenko, subentrato al padre dopo le sanzioni dell’Unione Europea. Lo scorso aprile VBet, sito gemello di Dafabet, si è visto congelare dalle autorità ucraine conti per 11 milioni di euro per evitare che il denaro prendesse la via della Russia.
L’insipienza delle società calcistiche, che non sono tenute a verificare la presenza del denaro proveniente dagli sponsor (e nemmeno sono stimolate a farlo, vista l’insaziabile fame di introiti sostanziosi), unita alla mancanza di controlli normativi per gli accordi di sponsorizzazione, creano un terreno fertile per la criminalità organizzata, fornendole una platea immensa, da sfruttare agganciandosi a marchi storici di portata globale. In Inghilterra si sta discutendo l’introduzione di un regolatore indipendente per gli accordi di sponsorizzazione. Nel frattempo, si continuerà con la doppia morale, o con nessuna morale.
L'articolo La doppia morale del Celtic: come sponsor la società di scommesse che ha mandato sul lastrico decine di persone proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tra Tarantino e la Disney Pixar. Sì, i confini delle Domeniche Bestiali sono così vasti che se si parlasse di cinema potresti metterci dentro di tutto. Una rustica bestialità tarantiniana, con un bombardamento approssimativo grazie ad “armi†agricole fino ad arrivare alle emozioni come nel film “Inside Outâ€, e ovviamente nelle Domeniche Bestiali quali possono essere le emozioni dominanti? Imbarazzo, in tantissimi toni diversi.
VOLANO GHIANDE
La gamma dei “lanci†dagli spalti al campo è ampia e nonostante questa sciagurata rubrica ormai abbia una certa età , va riconosciuta la propensione al rinnovamento. Come in Promozione Liguria, con la multa da 300 euro comminata al Santerenzina: “Per la condotta dei propri sostenitori i quali al 38′ st colpivano con alcune ghiande l’AA2 alla schiena e alla testa, senza provocare conseguenze lesiveâ€.
SAN SEVERO CITTÀ APERTA
Chi può dimenticare il capolavoro di Roberto Rossellini, primo capitolo della trilogia della guerra antifascista? Nessuno, tanto che a San Severo tentano di emularlo, almeno seguendone i concetti, lasciando aperto tutto: “La porta dello spogliatoio arbitrale presentava la serratura rotta sicché lo spogliatoio è rimasto aperto ed incustodito. La recinzione che separava i tifosi dagli spogliatoi risultava apertaâ€. Aperture che hanno fruttato una multa da cento euro per il San Severo Calcio 1922, che gioca in Promozione.
SLIPING BEAUTY
In India si sono spinti ancora oltre: il giocatore spagnolo Iker Guarrotxena è stato espulso… prima ancora di cominciare. Motivo: gli slip del colore sbagliato. La scena è stata questa: il guardalinee guarda l’intimo, l’arbitro guarda il guardalinee, il giocatore guarda nel vuoto, chiedendosi dove abbia sbagliato nella vita. Va a cambiarsi, ma dopo aver risposto all’arbitro in maniera volgare. Risultato: rosso diretto pre-fischio. Un traguardo storico: non era mai successo che la biancheria facesse più danni di un fallo da dietro.
I FIGLI SO PIEZZ E…
E poi c’è il momento “famiglia†che non ti aspetti: il calciatore Danilo in un’intervista post partita e il figlio di 6 anni. Il Flamengo campione in Libertadores ha appena vinto anche il campionato in Brasile. Ai microfoni delle tv ci va proprio l’ex capitano della Juventus, in quel clima di festa accompagnato dal figlioletto, che pensa bene in favor di microfono di prodursi in un “Io tifo Fluminenseâ€, squadra acerrima rivale del Flamengo. Imbarazzato Danilo gli tappa la bocca, e poi scrive sui social “Una settimana senza tv e videogameâ€.
L'articolo Il record di Guarrotxena: espulso prima del fischio d’inizio, tutta colpa degli slip del colore sbagliato | Domeniche Bestiali proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il caso di Lucia Pecoraro che ha ucciso la figlia con gravi disabilità Giuseppina Milone e poi si è tolta la vita con la stessa corda, mostra l’estrema solitudine e il fortissimo senso di smarrimento che devono affrontare ogni giorno i caregiver familiari. In Italia, tuttora, non esiste una legge che possa garantire diritti e dignità alle persone che assistono i propri familiari conviventi h24, sette giorni su sette, praticamente una vita complicatissima quasi in simbiosi. Nella prossima legge di Bilancio, ancora in via di approvazione, sono stanziate per i caregiver familiari conviventi prevalenti risorse economiche definite dalle associazioni “ampiamente insufficienti†e non vengono erogate nemmeno tutele previdenziali ai fini pensionistici oltre a non vedere riconosciuto la figura del del caregiver familiare convivente come un lavoratore a tutti gli effetti.
Gli omicidi-suicidi commessi in Italia da genitori caregiver di figli con disabilità sono un fenomeno drammatico e complesso. Secondo gli esperti, questi episodi sono spesso legati alla disperazione e all’isolamento dei caregiver, che si sentono schiacciati dalle responsabilità di cura e non vedono alternative. I caregiver familiari quasi sempre sono mamme over 40 che, in tantissimi casi da sole, devono curare il proprio familiare non autosufficiente. La Legge 112/2016, nota come “legge sul Dopo di noi”, prevede misure di assistenza e cura per le persone con disabilità grave ma non basta assolutamente.
Alcune associazioni, come Genitori Tosti in Tutti i Posti, stanno lavorando per promuovere in particolare il riconoscimento dei diritti dei caregiver delle persone con disabilità . “Quando pochi giorni prima che scoppiasse la pandemia di Covid andammo negli uffici del Ministero del Lavoro, bastò un attimo per far ammettere la complessità nel trovare risorse finanziarie adeguate per i e le caregiver familiari. Ma poi nulla venne approvato e i fatti di Corleone derivano anche da questo, sommandosi agli altri omicidi-suicidi causati dalla solitudine, dalla drammatica constatazione di non farcela piùâ€. A denunciarlo è Giovanni Barin, vicepresidente dell’APS Genitori Tosti. “Urge un completo cambio di rotta: mancano le tutele costituzionali, servono supporti, sostegni, sollievi e risorse economiche. I Progetti di vita sono ovunque una chimera. Soprattuttoâ€, continua Barin, “bisogna riconoscere i caregiver familiari come lavoratoriâ€.
È di queste ultime settimane la costituzione di un gruppo spontaneo di persone, movimenti e associazioni riunite nei Caregiver Familiari Uniti per chiedere la profonda revisione del ddl Locatelli, considerato dai diretti interessati “umiliante”. “Prenderemo la parola nelle maggiori piazze italiane in occasione dello sciopero del 12 dicembreâ€. A commentare l’ennesima tragedia familiare è anche Teresa Bellini, referente lombarda del Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità . “Non è la prima e purtroppo non sarà neanche l’ultima tragedia di questo tipoâ€, dice Bellini, “se non si agisce con un piano concreto e immediato di interventi strutturali a beneficio dei caregiver familiariâ€. Da madre caregiver di un figlio di 34 anni sottolinea che “la maggiore fragilità esiste laddove c’è un caregiver convivente e la convivenza senza sosta può portare a stati di burn out non gestibili perché si arriva all’estremo delle forze fisiche e mentaliâ€. Si tratta soprattutto di donne che assistono quasi h24 i propri figli con gravi disabilità intellettive, relazionali, comportamentali oltre che motorie e sensoriali. “L’abbandono e la visione disperante del Dopo di noi si uniscono a uno stato di impotenza e di paura paralizzante. I caregiver familiariâ€, aggiunge Bellini, “restano solitamente invisibili in un mondo che si gira da un’altra parte. Non sono degli eroi e non sono martiri ma persone i cui diritti non sono ancora stati riconosciuti e che hanno bisogno di aiuti concreti nel quotidiano in quanto vivono una condizione disumana di privazione continua. Non possiamo più aspettareâ€.
Contattata da ilfattoquotidiano.it Maria Spallino, caregiver familiare e presidentessa dell’Associazione Coordinamento Familiari CDD Milano, spiega che “a volte non basta un’intera comunità a sostenere una famiglia. Figuriamoci un genitore da solo. Noi genitori di persone con disabilità tendiamo a volte a isolarci convinti di farcela e iniziamo a chiedere aiuto solo quando abbiamo il fiato corto. Altro che ‘eroi’, come alcuni ci definiscono, siamo campioni di solitudine in un mondo distratto, indifferente, la cui impronta individualistica lascia ben poco spazio all’empatiaâ€. Una vita complicatissima sempre col fiato sul collo. “Attingiamo a tutta la forza che abbiamo sin dalla nascita di un figlio, ma con l’età ci tocca fare i conti con la nostra stessa fragilità . Giorno dopo giorno, il fantasma del ‘cosa ne sarà di lui/lei’ consuma anche il più ottimista fra noi. E spesso solo allora chiediamo aiuto e ci ritroviamo muti nel deserto socialeâ€. Non tutto negativo però secondo Spallino. “C’è un modo per superare la disperazione della solitudine: tendersi la mano, tutti insieme, fidarci e affidarci tessendo una solida rete di relazioni sin dall’inizio, fuori e dentro le associazioni, che ci faccia contare su un potente senso di appartenenza. Insieme è la soluzioneâ€, afferma. “Le leggi, i fondi, i servizi nascono anche grazie alla spinta ‘dal basso’, da istanze, bisogni, sollecitazioni di intere comunità . Non lasciamo che il silenzio e la solitudine spengano la vita nostra e dei nostri figliâ€.
Sull’episodio interviene anche Fabrizia Rondelli, madre di un ragazzo autistico e presidente dell’associazione milanese L’Ortica, premiata con l’Ambrogino d’Oro nel 2022. “Non c’è dignità nella morte ma è l’ultima spiaggia della disperazione quando non si trovano soluzioni e soprattutto quando non si è messi in condizione di trovarle purtroppoâ€, dice Rondelli. “Condanno profondamente l’episodio di Corleone in quanto reputo un omicidio senza giustificazione, ma nel cuore mi rendo conto che potrei essere anch’io a trovarmi nelle medesime situazioni (agire come Lucia, ndr)â€. Rondelli racconta che “sempre più spesso mi capita di sentire altri genitori caregiver che dicono che ‘se muoio porto con me anche mio figlio o mia figlia’†per il timore di lasciarli senza un’assistenza adeguata una volta scomparso il caregiver familiare convivente. Abbandono, isolamento sociale e paura per il futuro dei propri cari. Ecco una parte molto significativa della durissima vita dei caregiver familiari.
L'articolo “Noi caregiver non siamo eroi, ma campioni di solitudine. Il caso di Corleone? Siamo invisibili, lo Stato ci riconosca come lavoratori” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un sistema instabile e ancora in gran parte inaffidabile che tra meno di un mese dovrebbe gestire le attività più delicate delle indagini: le intercettazioni e le misure cautelari. Per il terzo anno di fila, all’avvicinarsi del 1° gennaio, tra i magistrati cresce il panico per la programmata estensione dell’obbligo di usare App, l’ormai famigerato software per il processo penale telematico sviluppato dal ministero della Giustizia, oggetto di continui crash e malfunzionamenti che paralizzano le attività di tribunali e procure. Già dal 1° aprile, almeno in teoria, App è diventato obbligatorio (dopo una disastrosa falsa partenza a gennaio) per depositare tutti gli atti dei processi di primo grado e per l’iscrizione delle notizie di reato, anche se in moltissimi uffici, viste le difficoltà pratiche, si è scelto di prorogare il “doppio binario” cartaceo-digitale. Con l’anno nuovo, però, il cronoprogramma prevederebbe l’estensione più temuta dalle toghe: il software dovrebbe essere usato anche per gli atti delle indagini preliminari, comprese le richieste di intercettazioni o di arresti avanzate dai pm e i relativi provvedimenti di autorizzazione del gip. Una prospettiva talmente rischiosa che lo stesso ministero guidato da Carlo Nordio ha già deciso di rinviare in parte la scadenza: una bozza di decreto inviato al Consiglio superiore della magistratura prevede il prolungamento fino al 30 giugno del “doppio binario” per le intercettazioni, mentre per le misure cautelari (custodia in carcere o ai domiciliari, sequestri e così via) la proroga è fissata al 31 marzo, ma riguarda solo le impugnazioni delle misure di fronte al Tribunale del Riesame, e non il procedimento “base” tra pm e gip.
Una toppa del tutto insufficiente secondo il Csm, che nel parere obbligatorio approvato nella seduta di mercoledì – relatori i consiglieri togati Roberto Fontana e Marco Bisogni – chiede al governo “un differimento temporale maggiore e, comunque, complessivo“: i termini proposti da Nordio, infatti, garantiscono un margine “troppo ristretto in considerazione dello stato assolutamente embrionale delle funzionalità di App finora sviluppate per gli slot delle intercettazioni e delle impugnazioni di competenza del Tribunale del Riesame. Va ricordato”, sottolineano i consiglieri, “che si tratta di attività processuali sottoposte a termini perentori, rispetto alle quali un men che perfetto funzionamento dell’applicativo, allo stato tutt’altro che da escludere, comporterebbe la perdita irrimediabile di elementi di prova (nel caso delle intercettazioni) o la decadenza da facoltà delle parti (nel caso delle impugnazioni)”. Per scendere nel concreto: se un pm trasmette un decreto urgente di intercettazione al gip e quello “scompare” dal sistema (come successo di recente in tutta Italia), il giudice non lo potrà convalidare in tempo e le prove raccolte saranno inutilizzabili. Un’ipotesi per niente astratta: il parere, pur riconoscendo i miglioramenti degli ultimi mesi, sottolinea che App presenta ancora “diverse criticità ”, in particolare “la frequente instabilità del sistema, che talvolta “rallenta†sensibilmente il suo funzionamento comunicando all’utente improvvisi messaggi di errore”. Inoltre, spesso “gli atti e i documenti trasmessi da un utente abilitato interno all’altro non risultano visibili al destinatario e sono necessari interventi tecnici ad hoc per rimediare ai “bug†dell’applicativo”.
La “gestione mista” delle misure cautelari, con la prima fase digitalizzata e le impugnazioni ancora consentite in cartaceo, secondo i consiglieri è invece una scelta “poco razionale sia da un punto di vista pratico sia da un punto di vista sistematico”, che rischia di avere effetti negativi “sugli uffici del gip e del pubblico ministero, con l’impossibilità di gestione unitaria del fascicolo digitale degli atti della misura cautelare e con conseguenti problematiche anche per la gestione tempestiva e la verifica delle scadenze“. Per questo si chiede a Nordio di “disporre un differimento complessivo” dell’obbligo di usare App per le misure cautelari: in questo modo, viene aggiunto, si potrebbe “effettuare una preliminare e progressiva sperimentazione del flusso”, limitata alle misure cautelari reali, cioè ai sequestri, “in modo da non incidere sulla libertà personale in caso di iniziali prevedibili malfunzionamenti del sistema”. Il parere critico è stato approvato con l’astensione dei “laici” di centrodestra, i membri eletti dal Parlamento su indicazione dei partiti di governo: in particolare, la consigliera in quota Lega Claudia Eccher (ex avvocata di Matteo Salvini) ha detto di non voler assecondare “atteggiamenti di resistenza” alla novità da parte delle toghe (un’argomentazione usata in passato anche da Nordio). Opposto il punto di vista dei consiglieri togati, cioè magistrati: persino il procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta (membro di diritto dell’organo) è intervenuto per sottolineare come, a suo modo di vedere, il Csm avrebbe dovuto essere ancora più netto nel segnalare l’inadeguatezza di App per gestire procedimenti così delicati.
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Secondo quanto riportato da Bild, il governo tedesco sta prendendo in considerazione la possibilità di trasferire alcuni migranti irregolari in centri di accoglienza e rimpatrio situati fuori dall’Unione europea, dopo che lunedì i ministri dell’Interno dei Paesi membri hanno approvato la posizione del Consiglio Ue per il negoziato col Parlamento sui Paesi sicuri e sul nuovo regolamento rimpatri. L’iter è ancora lungo e parecchi sono i nodi da sciogliere, anche sui cosiddetti “return hub”, centri di transito dove trasferire gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nel loro paese d’origine. Ma proprio su questo punto alcuni si portano avanti.
Berlino avrebbe già individuato i primi possibili Paesi partner, riferisce il quotidiano: Tunisia e Uganda. Una terza opzione considerata a livello esplorativo sarebbe un centro in Medio Oriente, ma al momento l’attenzione si concentrerebbe sull’Africa. Secondo Bild, la Germania starebbe valutando una collaborazione con l’Olanda nell’ambito del cosiddetto “modello Uganda”, dove Amsterdam pianifica una struttura destinata principalmente ai migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Per altre aree del mondo, riporta ancora Bild, il governo tedesco starebbe inoltre valutando ulteriori opzioni insieme ad altri Paesi Ue. Tra le ipotesi citate figurerebbe anche la regione curda nel nord dell’Iraq. Questo perché il Kurdistan iracheno sarebbe ritenuto un’area stabile sul piano politico ed economico e dunque potenziale destinazione per migranti provenienti da Iraq e Afghanistan.
Una portavoce del ministero degli Interni tedesco, interpellata il 9 dicembre da LaPresse, ha sottolineato che “durante i colloqui i ministri Ue hanno rilevato un interesse comune nello sviluppo di soluzioni innovative per la cooperazione con Paesi terzi, al fine di ridurre la migrazione irregolare”, discutendo anche la possibilità di attuarle “in un gruppo di Stati membri”. Berlino, ha aggiunto, “sta attualmente lavorando insieme a livello europeo sulle basi giuridiche necessarie nell’ambito del nuovo regolamento sui rimpatri”. Basi giuridiche che saranno al centro del dibattito col Parlamento Ue, dove non mancano perplessità anche sul nuovo concetto di Paese terzo sicuro proposto dalla Commissione e accolto dal Consiglio. La novità consentirebbe infatti di dichiarare inammissibili le domande di richiedenti transitati da Paesi terzi designati come sicuri, ma basterebbe anche un accordo tra il Paese e uno Stato membro a far scattare i trasferimenti dei richiedenti e delle loro domande.
A quanto risulta al Fatto, ad oggi il governo italiano non starebbe ancora lavorando a opzioni diverse dal progetto in Albania, certo che i regolamenti già approvati col nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, operativo il prossimo giugno, ma anche i dossier sui quali è in corso il negoziato Ue, sbloccheranno il protocollo azzoppato dalla normativa vigente, come sancito dalla Corte di giustizia europea lo scorso agosto nella sentenza che dà ragione ai giudici italiani. Ma non è detto che le iniziative degli altri Paesi Ue non potranno riguardarci in futuro, soprattutto se si parla di Tunisia. Che intanto, spiegano le fonti governative citate da Bild, rivestirebbe un ruolo chiave per Berlino. Il Paese è considerato il partner più affidabile del Maghreb e potrebbe accogliere migranti provenienti da Stati nordafricani come Algeria, Marocco e Tunisia stessa. Un interesse che, dicono le stesse fonti, ha a che fare coi tassi di criminalità . Secondo i dati dell’Ufficio federale di polizia criminale, nel 2024 quasi un terzo dei migranti sospettati di reati provenienti dal Maghreb risulta plurirecidivo, col reato principale rappresentato dai furti.
Ma la Tunisia continua a dire di non volersi prestare. A novembre il ministro degli Esteri tunisino Mohamed Ali Nafti ha ribadito che la Tunisia ha “ribadito ai suoi partner europei che non diventerà una zona di transito, di insediamento o di sbarco per migranti”. Il 27 novembre 2025, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione urgente in cui esprime grave preoccupazione per il deterioramento dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali in Tunisia. Sempre a novembre, Amnesty International ha pubblicato un’indagine che rileva come negli ultimi tre anni le politiche migratorie tunisine hanno ignorato sicurezza, dignità e vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Tra espulsioni che violano il principio di non respingimento, torture, maltrattamenti e violenze sessuali, dice il rapporto, “la Tunisia non è quindi né un luogo sicuro per lo sbarco né un ‘paese terzo sicuro’ per il trasferimento dei richiedenti asilo”. Intanto però la Commissione di Ursula von der Leyen ha inserito la Tunisia nella proposta della sua lista di Paesi d’origine sicuri per applicare ai tunisini l’esame sommario delle domande d’asilo, le cosiddette procedure accelerate che rendono più facile respingere la richiesta di protezione.
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“Lasciate che vi porti tra i campi della Palestina. La terra degli ulivi, dei campi di grano e dei profeti. Una terra che dovrebbe essere di pace, è diventata un luogo dove gli agricoltori della Cisgiordania vengono privati dei loro diritti, della loro acqua e del loro futuro”. Di fronte ai componenti della commissione Esteri e Difesa del Senato, presieduta dalla forzista Stefania Craxi, a prendere la parola è Ziad Anabtawi, Ceo e fondatore di Al’Ard Group, multinazionale di Nablus diventata negli anni sinonimo di eccellenza nell’attività di produzione e fornitura di prodotti agricoli e alimentari palestinesi di alta qualità , a partire dall’olio d’oliva, con una presenza capillare nei mercati locali e internazionali. “Esportiamo verso 22 Paesi in tutto il mondo. Nonostante le difficoltà dovute all’occupazione, siamo diventati una realtà di successo. Io ho sviluppato e continuato questa attività da mio padre. Ora i miei figli rappresentano la terza generazione in azienda”, racconta Anabtawi al Fattoquotidiano.it, al termine dell’audizione a Palazzo Madama. La replicherà a Montecitorio, ma il suo programma a Roma prevede anche incontri con parlamentari Pd, Avs e M5s. Ovvero, i gruppi d’opposizione che nei due anni di genocidio israeliano a Gaza hanno portato avanti in Parlamento le istanze palestinesi.
Roma è l’ultima tappa di un tour di advocacy per Anabtawi, che ha toccato sei capitali europee. Un viaggio alla quale ha preso parte una delegazione di imprenditori, ricercatori e professori, accompagnati da Oxfam, per sensibilizzare politica e opinione pubblica sugli effetti dell’occupazione nei Territori palestinesi occupati. L’organizzazione infatti ha lanciato una campagna per chiedere ai governi europei di sospendere il commercio con gli insediamenti dei coloni ( SI PUO’ ADERIRE A QUESTO LINK) “All’alba un contadino palestinese si sveglia per prendersi cura dei suoi ulivi. Ma sulla collina di fronte c’è un colono che lo guarda non come un vicino, ma come un ostacolo all’espansione”, racconta. Poi, al Fattoquotidiano.it spiega cosa significa oggi cercare di fare impresa in quelle terre: “Per i palestinesi la raccolta delle olive è come una festa: tutta la famiglia partecipa alla raccolta, sono momenti in cui si condivide vita e lavoro, si mangia e si passa il tempo assieme. Oggi sono 100mila le famiglie in Cisgiordania che si occupano di questa attività ”. Eppure, spiega, lavorare è diventata un’impresa, a causa delle violenze sistematiche dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi. “L’ultimo anno è stato un incubo: sono aumentate le restrizioni e il numero degli insediamenti illegali. I coloni confiscano le terre dei palestinesi, distruggono i terreni e i loro alberi da frutto, sradicano gli uliveti. E le aggressioni fisiche e gli atti di persecuzione sono ormai quotidiani”.
Tutte le forme di annessione sono vietate dalle norme del diritto internazionale, allo stesso modo come non è permesso il trasferimento da parte della potenza occupante di una parte della propria popolazione civile nel territorio che essa occupa. Ma da anni Israele non rispetta alcun vincolo di legge. Sono 700mila i coloni israeliani che vivono illegalmente in oltre 156 insediamenti e 250 “avamposti†in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Avamposti formati senza autorizzazione formale da parte del governo israeliano, ma con il suo tacito sostegno. E poi in seguito riconosciuti da Tel Aviv. Lo scorso maggio il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu ha deciso la la creazione di altri 22 insediamenti nella West Bank. Ma a questo si devono aggiungere anche muri e cancelli: oltre mille barriere, secondo l’Anp, erette dopo il 7 ottobre 2023, presidiate dai militari, che rendono impossibile la vita quotidiana dei palestinesi.
“In questo scenario di occupazione le olive del colono raggiungono liberamente i mercati internazionali e poi gli scaffali dei supermercati, mentre il raccolto del contadino rimane intrappolato dietro i posti di blocco. Sono un migliaio i check point in Cisgiordania, che rendono un’impresa la mobilità non soltanto delle persone, ma anche delle merci. Di fatto, è impossibile o quasi raggiungere il porto, per esportare il nostro prodotto all’estero. Senza dimenticare i costi proibitivi: possono volerci 2mila dollari per soli 200 chilometri, dalla fabbrica di Nablus al porto di Haifa. Mentre ce ne vogliono poco più, 3500 dollari, per la spedizione dei container da Haifa ad Amburgo, in Germania, dove il tragitto è però di oltre 3mila chilometri. Questa non è solo una tragedia umana; è un crimine economico“, sottolinea Anabtawi.
Eppure, nonostante le difficoltà , le vessazioni quotidiane e la lotta impari, “stiamo continuando a vendere i nostri prodotti, richiesti dal mercato internazionale”, rivendica con soddisfazione. Come una forma di resistenza. Servirebbe l’aiuto e la pressione dei governi mondiali ed europei. Ma se l’Unione europea continua ad applicare doppi standard (19 pacchetti di sanzioni alla Russia, nessuno contro Israele, tra veti incrociati e misure proposte a dir poco blande e inefficaci), anche diversi governi e Stati europei continuano a commerciare beni e servizi che finiscono per alimentare e legittimare l’occupazione, gli espropri illegali e le violenze dei coloni.
Per questo nelle scorse settimane è stata Oxfam a lanciare un appello ai governi europei e all’Unione europea affinché si interrompa il commercio con gli insediamenti israeliani in Cisgiordania: “Se fino ad oggi l’Europa non è riuscita ad avere un ruolo politico, speriamo recuperi almeno quella leadership smarrita attraverso la leva economica. L’Ue è il primo partner commerciale di Israele. L’Italia nel 2024 ha scambiato beni e servizi per oltre 4 miliardi di euro. Il nostro governo deve rispettare quanto richiesto dalla Corte di giustizia europea che ha già chiarito l’illegalità dell’occupazione. Serve adottare uno strumento legislativo per impedire relazioni commerciali con i territori occupati e l’adozione in Ue di sanzioni economiche. E chiediamo che in sede europea si sospenda l’accordo di associazione con Israeleâ€, rilancia al Fattoquotidiano.it Paolo Pezzati, di Oxfam Italia.
Ziad Anabtawi invece, nonostante l’immobilismo o quasi dell’Unione europea, rivendica: “L’Europa ha creato la democrazia, la rispetto molto e guardiamo come palestinesi alle sue pratiche di democrazia. Noi siamo in grado di costruire e sviluppare la nostra economia, ma abbiamo bisogno del supporto dell’Europa affinché si interrompa l’occupazione. Il sostegno dei popoli europei e dei giovani per le strade e nelle piazze è stato per noi cruciale, ha dato respiro a Gaza. Ora serve che la politica faccia la sua parte”, spiega. In audizione aveva invece ringraziato quegli Stati europei – tra i quali Spagna, Irlanda, Norvegia, fino alle ultime Francia e Gran Bretagna – che hanno già riconosciuto lo Stato di Palestina. Paesi tra i quali non figura però l’Italia, dato che il governo Meloni prima si è opposto, poi ha vincolato un eventuale riconoscimento a determinate ‘condizioni’, come l’esclusione di Hamas da qualunque ruolo nel futuro governo. Una strategia per prendere tempo e continuare a negare il riconoscimento, avevano attaccato le opposizioni. “Vorrei dire alla vostra presidente del Consiglio di ascoltare la voce che viene dalle strade italiane. Loro hanno già dato il loro sostegno, in modo chiaro. È soltanto una questione di tempo. I cambiamenti arriveranno“, si dice fiducioso. E ancora: “Israele non vuole la democrazia per il popolo palestinese. Sta soltanto ritardando l’unica soluzione possibile, quella dei due Stati. Penso che il governo Netanyahu stia agendo alla cieca, così come chi continua a supportarlo. Ma la giustizia è in arrivo. Non si può fermare”.
L'articolo “Le nostre olive intrappolate dietro i checkpoint, mentre quelle dei coloni israeliani arrivano nei supermercati di tutto il mondo”: il racconto dell’imprenditore palestinese proviene da Il Fatto Quotidiano.
“America is back”. “I prezzi stanno calando molto”. “Stiamo battendo l’inflazione che hanno creato” i democratici. “L’industria dell’acciaio è salva”. Donald Trump mercoledì ha iniziato dalla Pennsylvania un tour per gli Stati Uniti che secondo Axios dovrebbe continuare fino alle elezioni di midterm del prossimo anno. Obiettivo, convincere gli americani che il loro problema più sentito, la cosiddetta “affordability” – vale a dire il costo della vita fuori controllo – è una bufala. A dispetto di quel che dice il conto in banca. Vasto programma e segno di un nervosismo crescente alla Casa Bianca. Mentre l’Europa fa i conti con l’ufficializzazione del disprezzo trumpiano nei confronti dei suoi leader, sul fronte interno i sondaggi indicano infatti un consistente calo di fiducia nella gestione economica del tycoon. E molti analisti ritengono che le difficoltà dei Repubblicani alle elezioni di novembre siano state determinate proprio dalle preoccupazioni persistenti sull’inflazione.
Il punto è che, anche se l’economia statunitense continua a crescere a ritmi solidi grazie alla spinta dei maxi investimenti in infrastrutture per l‘intelligenza artificiale, milioni di famiglie continuano a fare i conti con scontrini della spesa, bollette e prezzi del pieno in aumento o stabili su livelli insostenibili. “I nostri prezzi stanno scendendo enormemente”, ha sostenuto il presidente parlando ai sostenitori in un casinò di Mount Pocono, contea che nel 2024 è tornata a votare per i repubblicani contribuendo a fargli riconquistare lo swing state e rientrare alla Casa Bianca. Ma a sostenere la tesi non c’è alcuna evidenza. Anzi, i numeri dicono l’esatto contrario: a settembre, ultimo dato disponibile, il tasso di inflazione su base annua è salito al 3% – altro che prezzi in calo – e l’indice alimentare del 3,1%. “Tutto sta aumentando”, conferma un pensionato sentito dal New York Times, che racconta di arrivare a fine mese insieme alla moglie solo grazie ai buoni sconto e scegliendo i prodotti meno costosi. Mentre una sarta racconta l’aumento choc delle zip cinesi che era solita comprare su Amazon: sono rincarate da 8-10 dollari al pezzo a 24,99. “Mi offende“, commenta, che Trump “dica che la crisi dell’affordability è una farsa. Probabilmente non ha mai pagato una bolletta dell’elettricità o comprato da mangiare”.
Tra l’altro la tesi che sul fronte dei prezzi alimentari la situazione sia sotto controllo cozza con l’annuncio arrivato dalla Casa Bianca solo il 6 dicembre, quando Trump ha ordinato al Dipartimento di Giustizia e alla Commissione federale per il Commercio di indagare sulla filiera alimentare per individuare potenziali cartelli sui prezzi e altri comportamenti che possano aumentare in maniera scorretta i costi di carne, semi e fertilizzanti. Principali indiziate, ovviamente, le aziende straniere colpevoli di “stritolare” famiglie e agricoltori.
Ma l’indicatore cruciale, nel Paese in cui suv e pick up sono i mezzi di trasporto più popolari, è il prezzo del pieno. Ora: come ha ricordato il presidente nell’intervista di martedì a Politico, durante la quale si è dato un voto “A+++++” in economia, sotto Biden i prezzi alla pompa erano saliti complice l’invasione russa dell’Ucraina fino a 5 dollari al gallone. Ben sopra la media attuale che è appena scesa poco sotto i 3 dollari. Ma il tycoon e il suo entourage non si accontentano della realtà e pur di abbellire il quadro e sostenere che la strategia del “drill, baby, drill” funziona ricorrono a dati palesemente falsi. Sostenendo – lo ha fatto Trump stesso riprendendo le parole dette alla Cbs dal numero uno del National Economic Council Kevin Hassett, probabile successore di Jerome Powell alla guida della Fed – che in diversi Stati le quotazioni sono “a 1,99 dollari al gallone”. Affermazione che non trova alcun riscontro nelle rilevazioni ufficiali disponibili online per tutti i cittadini.
A controprova del sostanziale disinteresse di Trump riguardo all’effettivo benessere dei consumatori c’è anche la mai abbandonata intenzione di smantellare il Consumer Financial Protection Bureau, organismo creato dopo la crisi del 2008 per vigilare su banche e finanziarie a tutela dei clienti. Nei giorni scorsi il suo ex direttore Richard Cordray su Substack ha ricordato che l’agenzia, finita nel mirino del (nel frattempo a sua volta soppresso) Doge di Musk e poi al centro di una guerra a colpi di carte bollate per evitarne l’abolizione, ha dovuto sospendere gran parte delle azioni contro società finanziarie accusate di abusi mentre il nuovo direttore facente funzioni Russell Vought fa di tutto per licenziare mille funzionari e “sabotare” il sistema che gestisce i reclami dei cittadini.
Intanto la minacciata – e in parte realizzata – guerra commerciale dichiarata durante il “Liberation day” è ben lungi dall’aver aperto la strada alla promessa età dell’oro caratterizzata da salari più alti e prosperità diffusa. Alcuni comparti stanno soffrendo pesanti danni, tanto da rendere necessari ingenti investimenti solo per risarcire chi ha subito perdite. Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha annunciato un pacchetto di aiuti da 12 miliardi per gli agricoltori, affossati dai costi crescenti di semi e fertilizzanti e dalla drastica riduzione dell’import di soia da parte della Cina prima che i due Paesi siglassero una tregua. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha parlato di “liquidità ponte” per superare un “periodo di aggiustamento” fino al manifestarsi dei benefici delle politiche trumpiane. Per ora, la descrizione più accurata è che gli introiti arrivati dall’aumento delle tariffe vengono impiegati per mettere una pezza ai problemi causati dalle tariffe stesse.
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La Palestina è stata nuovamente e volutamente cancellata dall’attenzione dei mezzi di comunicazione che sono fortemente controllati da governi e da interessi economici e finanziari. La mobilitazione mondiale dell’umanità contro il genocidio, la missione di pace della Global sumud flotilla, le piazze come fiumi in solidarietà nei confronti del popolo palestinese, avevano messo seriamente in difficoltà i governi occidentali, sempre più complici, anche sul piano giuridico, del genocidio messo in atto dal terrorismo di stato israeliano. Hanno cominciato ad avere tutti timore, da Trump a Meloni per passare alle varie cancellerie occidentali, che il vento straordinario di umanità e partecipazione li potesse travolgere.
All’inizio eravamo davvero in pochi a parlare di crimini di guerra e di genocidio, poi un poco alla volta la verità è stata, come sempre, rivoluzionaria. Hanno dovuto costruire, con Trump in testa, in fretta e furia una piattaforma di una pseudo pace imposta dall’alto, quindi ingiusta già solo per questo, che per ora è poco più di una fragile tregua, mentre Israele continua ad uccidere, massacrare, occupare, abusare. Un cessate il fuoco imposto alle parti dalle establishment mondiali per evitare che i popoli potessero prendere il sopravvento e scrivere la storia.
Pensavano di cancellare definitivamente la Palestina e si sono ritrovati un mondo sempre più palestinese. Merito soprattutto dell’eroica resistenza palestinese e del martirio di decine di migliaia di palestinesi.
Ma non vi può essere pace senza giustizia e verità e qui veniamo alle note assai dolenti perché, con la prevalenza sempre più della legge del più forte e della umiliazione del diritto internazionale, sarà sempre drammaticamente più difficile garantire giustizia ad un popolo che ha sofferto nella storia così tanto. La Palestina sarà ancora di più terra di conquista, non solo del progetto criminale sionista israeliano, che porta alla sua cancellazione, ma anche delle altre forze colonialiste che punteranno a lucrare enormi affari sulle macerie provocate dalle bombe e dai missili dello sterminio di massa.
Ecco anche come si muove l’economia capitalistica e liberista, soprattutto quando entra in crisi non congiunturale ma strutturale, con le guerre, il traffico d’armi, la distruzione, la ricostruzione, i domini, le occupazioni, il disegno di un nuovo ordine mondiale economico e politico fondato sulla paura e sulle oligarchie di finte democrazie sempre più solo formali ed apparenti ma che agiscono al di fuori del diritto internazionale. In Italia, poi, siamo al continuo tradimento della Costituzione, una sorta di recidiva reiterata con la garanzia però dell’impunità , dove l’art. 11 in cui la guerra è ripudiata viene preso a calci istituzionali ormai da anni.
La guerra è il peggiore fatto umano che la storia conosca, non sono mai i popoli a volerla, la subiscono, ma l’indifferenza ed il silenzio dei popoli può però diventare humus essenziale per gli interessi egoistici, affaristici, politici e criminali di governanti senza scrupoli.
Ci vorrebbe una grande mobilitazione contro le guerre, per la pace e la fratellanza universale, a sostegno dei popoli oppressi. Solo il risveglio delle coscienze e le mobilitazioni individuali e collettive spaventano il sistema. Rimuovere gli ostacoli alla pace ed attivare la sovranità popolare non è solo un diritto e nemmeno un dovere, è di più, è una missione costituzionale.
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Chernobyl è solo la punta dell’iceberg, il fantasma che evoca gli incubi del passato. Colpita a febbraio da un drone, la camicia d’acciaio costruita per impedire rilasci radioattivi ha bisogno di ulteriori lavori per scongiurare ogni tipo di fuga. Ma la situazione della centrale nucleare distrutta nell’incidente che nel 1986 terrorizzò il mondo non è la più preoccupante. Perché sotto il pelo dell’acqua tra continui blackout, colpi di artiglieria sempre più vicini e linee elettriche danneggiate la sicurezza degli impianti ucraini è sempre più “precaria“. Lo dice l’Agenzia internazionale per la sicurezza atomica nel suo ultimo rapporto.
La centrale di Zaporizhzhya, la più grande d’Europa, che sorge nel sud est del paese in una zona di combattimento attiva, è oggi il caso più grave tra i 5 impianti monitorati dall’Agenzia tra il 30 agosto e l’11 novembre 2025. Il 16 settembre gli ispettori hanno registrato “un considerevole bombardamento di artiglieria avvenuto a circa 400 metri dal deposito di gasolio esterno”. “Il 23 settembre 2025, la centrale ha subito la sua decima e più lunga perdita totale di energia esterna dall’inizio del conflitto a causa dei danni causati dalle attività militari a circa 1,5 km a nord-est” dell’impianto. I blackout in totale saranno 11, ma “questo evento ha dimostrato la situazione altamente precaria della sicurezza e della protezione dell’impianto e ha aumentato notevolmente il rischio di un incidente nucleare“, certifica l’Aiea al punto 30 del report GOV/2025/66 pubblicato il 20 novembre. Per i 30 giorni successivi la struttura ha funzionato solo grazie ai generatori diesel di emergenza, il che viola apertamente uno dei sette Pilastri della sicurezza nucleare: la disponibilità di alimentazione elettrica esterna stabile.
Non è l’unico. A Zaporizhzhya risultano compromessi tutti e sette i criteri utilizzati dall’agenzia per valutare la sicurezza di un impianto: dall’integrità fisica delle strutture, minacciata da attività militari e droni, alla funzionalità dei sistemi di sicurezza, sottoposti a stress continuo; dalla libertà operativa del personale che lavora in presenza di soldati armati, fino alla comunicazione con il regolatore. “La capacità dell’Agenzia di valutare in modo imparziale la sicurezza nucleare continua a essere limitata da restrizioni di accesso e informazioneâ€, dice l’Aiea, che riferisce inoltre di “frequenti esplosioni e colpi d’arma da fuoco sia all’interno sia all’esterno del perimetro del sitoâ€.
A Chernobyl, dove il reattore è fermo ma restano materiali altamente radioattivi, l’Aiea segnala danni al New Safe Confinement, la struttura ultimata nel 2016 che serve a evitare fughe radioattive colpita da un drone il 14 febbraio. “Nonostante le riparazioni temporanee, la funzione di confinamento resta compromessaâ€, dice il rapporto. E i bombardamenti continuano a moltiplicare i rischi: “Il 1° ottobre 2025 la sottostazione elettrica di Slavutych da 330 kV, situata a circa 40 km, è stata danneggiata (…), causando la disconnessione della linea elettrica che alimenta la maggior parte del sito” e un blackout di oltre tre ore dopo che “i due generatori diesel di emergenza non si sono avviati automaticamenteâ€. Qui risultano compromessi “in modo parziale o totale” cinque dei sette Pilastri, con un livello di allarme alto.
Alla centrale di South Ukraine, l’allarme è legato soprattutto alla minaccia aerea. Tra il 24 e il 25 settembre 2025 sono stati individuati 22 droni in prossimità dell’area. “Il personale Aiea ha udito colpi d’arma da fuoco ed esplosioni nelle immediate vicinanze del sitoâ€, riporta il documento. Un drone abbattuto ha creato “un cratere da impatto profondo 1 m e con una superficie di circa 2 m2” e danni a “una linea elettrica regionale da 150 kV che fornisce energia ausiliaria all’impianto”. Qui risultano tre Pilastri parzialmente compromessi, soprattutto quelli legati all’integrità esterna, alla sicurezza del personale e all’alimentazione elettrica.
Situazione simile, ma più stabile, a Rivne e Khmelnytskyi, nell’ovest del paese, le ultime due centrali con quella di South Ukraine a produrre elettricità . Le strutture nucleari sono intatte ma a Khmelnytskyi, “i danni subiti a causa delle attività militari del 30 ottobre 2025, che hanno compromesso la stabilità e l’affidabilità dell’approvvigionamento energetico e, di conseguenza, hanno potenzialmente influito negativamente sulla sicurezza nucleare della centrale”. E il futuro resta fosco perché i combattimenti si avvicinano di giorno in giorno: “Il personale dell’Agenzia ha notato che le attività militari si svolgevano molto più vicino alle centrali nucleari (…) rispetto a quanto osservato nei mesi precedenti“. Risultato: il rischio di incidente resta all’ordine del giorno.
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C’è un momento in cui capisci che sei cresciuto. Non è un’epifania, te ne accorgi dalle piccole cose, un lampione che si accende troppo tardi, una faccia stanca riflessa in un vetro, un’ombra che si allunga senza che te ne renda conto. Una lunghissima ombra – uno degli album italiani più interessanti fra quegli usciti in questo 2025 – di Andrea Laszlo De Simone comincia da qui, da quella consapevolezza che arriva quando il tempo non lo guardi più dall’alto ma lo subisci, come una marea lenta.
Dopo sei anni lontano dalle scene, lo schivo musicista torinese è tornato (e qui lo ribadiamo a chi gli fosse sfuggito) con un’opera che non si limita a essere un disco: è un film, un racconto visivo, una sorta di confessione filmata in differita. Ma più di tutto è una presa di coscienza sonora. Laszlo dà una forma riconoscibile alle proprie crepe. “È un progetto audiovisivo – racconta – in cui ho provato a portare alla luce i pensieri intrusivi, quelli che sono costantemente presenti dentro di noi anche quando stiamo pensando ad altro e che finiscono per proiettare lunghe ombre sulla nostra esistenzaâ€. I testi parlano da soli, e lo fanno sottovoce. Meglio. Laszlo scrive canzoni come si scrivono lettere che non si spediranno mai.
Composto da 17 brani, dentro c’è la tradizione cantautorale italiana e francese, ma anche lampi psichedelici, aperture sinfoniche, sussulti rock e anche un’eco beat. Chi già lo conosce non può ritrovarci una mappa tracciata a ritroso nella sua stessa discografia, da Le Règne animal fino a Ecce Homo. In Colpevole ammette tutto, senza cercare perdono: “Come brucia la nostra coda di pagliaâ€. In Quando si ferma a guardare il cortocircuito dell’amore, quello che cura e ferisce, che “parla, ride, piange†e ti guarisce solo a metà . Ogni brano è un fotogramma di una vita normale vista al microscopio, dove le emozioni diventano materia fisica, quasi tattile. C’è qualcosa di profondamente cinematografico in questo disco, e non solo perché è anche un film. Ogni canzone sembra una scena, ogni suono un’inquadratura. Neon è un corridoio vuoto illuminato male. Diffrazione e Spiragli sono pause che respirano, finestre aperte sul rumore della mente. Quando arriva Un momento migliore, con la sua confessione spogliata (“Forse ho mentito sempre o forse son troppo sinceroâ€), il tono si fa quasi testamentario: è la voce di chi non sa se sta chiedendo scusa o soltanto dicendo addio.
E poi ci sono i figli, la salvezza momentanea, l’unico motivo per restare. Per te è una dichiarazione disarmante di semplicità : “Tu sei per me come la neve bianca sulla cimaâ€. Nessuna posa, nessun sentimentalismo, solo una resa luminosa, come un padre che impara a respirare dentro la propria ombra. “Quando viene sera, proietto una lunghissima ombraâ€, canta alla fine. Ed è proprio quell’ombra – fragile, estesa, inevitabile – che rende quest’opera viva, col suo dialogo imperfetto, più sincero di qualunque confessione, in cui ci riconosciamo tutti.
Foto in evidenza tratta dalla pagina Instagram ufficiale
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di Claudio Pirola
Diventato nonno pochi giorni fa, con mia moglie (siciliana, io della provincia di Milano, sposati da 36 anni) abbiamo affrontato l’avventura di adottare due figli (uno proveniente in età già adulta dal Brasile, l’altro italiano con una forma di disabilità ) prima della nascita di un terzo figlio biologico.
Con fatiche e determinazione abbiamo cercato di offrir loro, in un contesto assai eterogeneo che per noi ha sempre rappresentato un valore arricchente, un impegno di grande respiro che potesse senza pregiudizi contribuire ad una crescita serena, favorendo un’educazione con punti di riferimento, mappe di conoscenza prima che obblighi e vincoli con la sola finalità di sostenerli per quanto possibile nel costruirsi un avvenire. Con grande senso di libertà e responsabilità , favorendo confronto, liberi da ogni pregiudizio.
Una vita normale, fondata su valori nei quali crediamo e lontanissima da quel Dio-Patria-Famiglia che una cultura basata evidentemente su valori ben diversi dai nostri vorrebbe inculcarci. Come se un Dio sempre più sbandierato – e lo dico da cattolico che pur non avendo mai fatto parte di movimenti ha tratto ispirazione in particolare dal cardinal Martini e da Papa Francesco – sia il lasciapassare per creare condizioni assolutorie o, peggio ancora, di salvaguardia di presunte tradizioni. E c’è da chiedersi perché personaggi che hanno il compito istituzionale di essere inclusivi, nel pieno rispetto dei valori della Carta Costituzionale, si debbano arrogare il diritto – peraltro da pulpiti di dubbia coerenza – di impartire lezioni di moralità .
In tale contesto appare non solo fuori luogo ma anche offensivo il proclama fatto da ultimo in Aula dall’on. Rossano Sasso, già sottosegretario all’Istruzione del “governo dei miglioriâ€, secondo cui il valore del ddl Valditara per la scuola trova fondamento appunto in Dio-Patria-Famiglia. Non è peraltro con l’oscurantismo basato sempre più su repressione anziché su confronto e dialogo atti ad interpretare i complessi cambiamenti in atto che si possano trovare soluzioni ai numerosi problemi legati all’istruzione e all’educazione, compresa quella sessuo-affettiva rispetto a cui vari Ministri della Repubblica hanno avuto parole dal mio punto di vista orripilanti in queste ultime settimane.
Anziché enunciare slogan risulterebbe più utile che i governanti si ponessero nella condizione di comprendere le ragioni per cui una famiglia vera fa sempre più fatica a formarsi e ad autosostenersi in un mondo dove il lavoro, la casa, le bollette, l’istruzione, l’assistenza medica sempre meno garantita dallo Stato, gli asili nido che mancano, gli stipendi proporzionalmente sempre più bassi, un vero piano casa che consideri i giovani studenti e non solo, i reiterati condoni che offendono chi paga le tasse e incentivano l’evasione, le mancate misure a fronte di una non più dilazionabile riconversione ecologica, il crescente incubo bellico a cui in particolare questo governo ci sta preparando rappresentano sempre più fattori di incertezza bloccanti.
E così l’Italia, un Paese sempre più anestetizzato in un contesto economico stagnante – se non fosse per i fondi Pnrr ormai alla fine che hanno dato ossigeno al Pil – non trova di meglio che discutere di “casa nel boscoâ€, referendum sulla giustizia sì/no (con reiterate spaccature una volta di più nella cosiddetta sinistra, come già avvenne per quello sull’art. 18), ddl Delrio, armi sì/no con contrasti sempre più evidenti all’interno dello stesso maggior partito di opposizione, dando l’idea che si è ben lontani dal potere costruire una vera alternativa di governo.
E non stupiamoci se poi tanti giovani perdono fiducia emigrando all’estero o sempre meno gente andrà a votare. In assenza di un Paese autorevole. Altro che sovranismo!
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