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Fatti a motore a cura di F. Q.
Dacia Sandero, la certezza dell’auto estera più amata dagli italiani

Una Sandero per tutti. Dacia continua a mantenere vivo l’interesse attorno al modello che si è arrampicato fino al primo posto delle vendite a privati in Europa nel 2024 e che in Italia è ancora la macchina estera più acquistata. Con la versione Streetway Journey il costruttore rumeno della galassia Renault propone anche un allestimento dall’anima urbana che parte da 13.950 euro, che quando è particolarmente ricco di dotazioni arriva a 16.800 euro.

Dacia fa sapere che “pur conservando lo spirito di essenzialità e concretezza†la variante offre di serie “dotazioni di grande livello, tra cui climatizzatore automatico, sensori parcheggio anteriori e posteriori con telecamera, allerta angolo cieco, sistema keyless, cerchi in lega da 16” e molto altroâ€. Il tutto per solo 1.000 euro in più rispetto alla versione Expression. Insomma, è un “alto di gamma†che va incontro alle esigenze dei clienti metropolitani così come la Stepway risponde alla domanda di quelli più “avventurosiâ€, sensibili al fascino dei crossover.

Tra gli altri equipaggiamenti, la Sandero Streetway Journey dispone anche dell’antenna shark al tetto, delle soglie battitacco, dei divisori per vano il bagagli e del supporto rimovibile per lo smartphone. A listino ci sono poi pacchetti che contribuiscono ad aumentare il tasso di personalizzazione del modello: il Techno (freno di stazionamento elettrico con sedile conducente regolabile in altezza e bracciolo anteriore con vano portaoggetti) e il Media Nav (sistema di navigazione con mirroring via cavo e 2 aggiornamenti gratuiti per 3 anni e mappa Europa Ovest).

Dacia offre questa versione con sei tinte di carrozzeria, due delle quali sono nuove: il verde Oxide e il grigio Scisto. Due, invece, le motorizzazioni (definite “efficienti e parsimonioseâ€) fra le quali optare: quella “convenzionale†TCe da 90 Cv e 160 Nm di coppia con l’unità da un litro e la trasmissione a variazione continua CVT a cinque rapporti e la declinazione Eco-G, ossia bifuel a benzina e Gpl di analoga potenza (la coppia arriva 170 Nm quando si viaggia a Gpl), ma con il cambio manuale che ha riscosso così tanto successo nel Belpaese.

Nel primo caso, la Dacia Sandero Streetway Journey arriva ai 175 km/h di velocità massima ed è accreditata di una percorrenza che arriva fino a 19,2 chilometri per litro, mentre nel secondo l’andatura di punta è compresa fra 177 e 174 (Gpl) orari con consumi che oscillano tra i 5,4 (benzina) e i 6,7 litri per 100 chilometri. Il prezzo è di 18.150 e di 16.800 euro. Nella gamma Sandero Streetway ci sono anche le unità SCe da 65 Cv e TCe da 90 con il cambio manuale.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 07:00:31 +0000
Fatti a motore a cura di F. Q.
Sistemi di assistenza e sicurezza? Con Dacia Sandero sono una priorità

Al passo con le richieste dei clienti, sempre più esigenti anche quando si tratta di Dacia, il marchio nato per essere low cost e poi evoluto in “best value for moneyâ€, il costruttore rumeno del gruppo Renault è naturalmente anche al passo con le norme. Nel caso specifico quelle del regolamento comunitario GSR2, acronimo di General Safety Regulation 2, che in tema di sicurezza ha fissato i nuovi parametri per i veicoli commercializzati in Europa e aggiorna i requisiti che debbono rispettare i veicoli venduti nell’Unione Europea anche a tutela degli altri utenti della strada, a cominciare da pedoni e ciclisti.

Dalla scorsa estate, anche sulla Dacia Sandero sono diventati di serie l’Event Data Recorder (EDR – in caso di incidente), il riconoscimento della segnaletica stradale con avviso di superamento del limite di velocità, il Lane Departure Warning, l’assistenza al mantenimento corsia, il monitoraggio dell’attenzione del conducente, i sensori di parcheggio posteriori e quelli di luminosità e di pioggia, la frenata automatica di emergenza che individua pedoni e ciclisti, il segnale stop di emergenza nonché il pulsante “My Safetyâ€, posizionato sul cruscotto, che permette di richiamare le preferenze degli ADAS (Advanced Driver Assistance Systems, ossia Sistemi Avanzati di Assistenza alla Guida) all’avvio dell’auto, con una semplice pressione.

Altre funzioni fanno già parte dell’equipaggiamento base, tipo Abs e Esp con assistenza alla partenza in salita, gli airbag a tendina, frontali laterali e passeggero e conducente. Il modello è anche predisposto per l’immobilizzazione in caso di superamento delle soglie di consumo di alcol, un dispositivo diventato nel frattempo obbligatorio (almeno in Italia) per chi è già stato multato per guida in stato di ebbrezza.

La scelta di Dacia è sempre stata quella di non imporre alcunché di superfluo ai propri clienti, evitando così anche inutili aggravi di peso che incidono negativamente sui costi di gestione, per garantire il miglior rapporto qualità – prezzo sul mercato.

Dispositivi ADAS a parte, anche la entry level della gamma Dacia dispone del cosiddetto Rescue Code, cioè il QR Code adesivo posizionato sul parabrezza e sul lunotto posteriore, mediante il quale è possibile consultare la scheda di soccorso del costruttore utilizzando la specifica App, naturalmente gratuita. Gli eventuali soccorritori, a cominciare dai vigili del fuoco, hanno accesso alle informazioni che servono per un intervento sicuro ed efficace.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 07:00:27 +0000
Fatti a motore a cura di F. Q.
Avventuroso o urbano, Dacia Sandero propone un look per ogni esigenza

Non solo un’auto essenziale al giusto prezzo, ma anche sempre più moderna e accattivante nelle linee. È così che Dacia ha rilanciato la Sandero, tra l’altro proposta nelle versioni Stepway e Streetway, cioè con caratteristiche ispirate al loro impiego, che sia più “avventuroso†o urbano. La terza generazione si distingue per la disponibilità del tetto apribile panoramico elettrico, una grande novità per la gamma quando era stata aggiornata, a partire dal 2021.

Entrambe le rivisitate varianti – una con i generosi passaruota e le classiche protezioni riservate ai Suv e l’altra più filante – garantiscono tre posti per gli adulti al posteriore con una panchetta ripiegabile (1/3-2/3 a seconda delle versioni) con 42 millimetri di spazio in più per le gambe di chi occupa i posti dietro e un bagagliaio la cui capacità è identica indipendentemente dal modello e dalla motorizzazione, ovvero sempre tra 410 e 1.455 litri.

A seconda dell’allestimento può disporre di un pianale modulare a doppio livello e si apre anche da remoto premendo un pulsante sulla chiave oppure ricorrendo al sistema Keyless Entry. Sul fronte dei vani portaoggetti, la capienza complessiva è aumentata del 10% e arriva a 21 litri con uno spazio di 1,4 litri ricavato anche sotto il bracciolo centrale. Per la Sandero, Dacia ha puntato su sellerie di qualità superiore (lo stesso cruscotto è stato arricchito con un inserto ricoperto di tessuto, non su tutti gli allestimenti), ma anche sul design e sulla forma dei nuovi sedili davanti per assicurare più comodità agli occupanti.

Sono nuovi anche i poggiatesta anteriori regolabili, che garantiscono più sostegno. Nel dettaglio, chi guida può impostare sia l’altezza del sedile (+/- 35 millimetri) sia quella del volante (+/- 2.1°), che è anche regolabile in profondità (+/- 25 mm). Tra le nuove soluzioni individuate per il posto del conducente ci sono il bracciolo singolo (quello centrale è a richiesta) e la leva del cambio accorciata per incrementare l’ergonomia.

La servoassistenza è elettrica per facilitare le manovre negli spazi stretti (particolarmente utile soprattutto quando si guida in città): rispetto alla precedente Sandero, gli esperti di Dacia hanno ufficializzato un 36% di fatica risparmiata. All’interno dell’abitacolo anche le bocchette dell’aria hanno beneficiato di una revisione stilistica. “Il miglioramento della qualità percepita associa l’utile al dilettevoleâ€, garantisce il costruttore. L’offerta estetica è stata integrata con i nuovi cerchi Flexwheel bitono su Sandero Streetway, Flexwheel bitono Dark su Sandero Stepway, mentre sul fronte cromatico ci sono tinte esclusive.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 07:00:08 +0000
Tennis a cura di Claudio Savino
“La finale di Parigi? Può restare nella testa a lungo. Ma Sinner potrà vendicarsi, spero a Wimbledonâ€: il pronostico di Luca Bottazzi

“Il favorito è Alcaraz, ma Sinner avrà la sua occasione per “vendicarsiâ€: nessuno ha la sua continuità. Mi auguro che l’italiano possa vincere il torneoâ€. A dirlo è il professor Luca Bottazzi, ex tennista numero 133 al mondo e oggi docente universitario e maestro di tennis, che a ilfattoquotidiano.it ha dato il suo pronostico sulla finale di Wimbledon – in programma domenica 13 luglio a partire dalle 17 – tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz. Per Bottazzi, dunque, lo spagnolo resta leggermente avanti alla vigilia, anche perché già vincitore dello Slam inglese negli ultimi due anni. Ma su una superficie come l’erba tutto può succedere e “la partita può sfuggire di mano in cinque minutiâ€. L’unica cosa certa, invece, è la superiorità dimostrata dai primi due tennisti della classifica mondiale rispetto agli altri giocatori del circuito: “Fanno un campionato a parte. Se il tennis è come navigare a mare aperto, gli altri ci riescono quando il vento è favorevole. Sinner e Alcaraz, invece, sono la tempesta che li spazza viaâ€.

Sinner e Alcaraz si contendono un altro titolo Slam, questa volta sull’erba di Wimbledon. La diversa superficie può andare incontro all’italiano o lo spagnolo resta comunque favorito?
Secondo me è ancora favorito Alcaraz perché a Wimbledon ha già vinto due volte. E lo è anche perché è successo quello che è successo a Parigi (la sconfitta di Sinner dopo due set di vantaggio, ndr): quella partita può rimanerti nella testa per molto tempo. Il gioco dello spagnolo sull’erba poi è migliore perché ha più soluzioni e più varietà, ha un tennis più verticale, mentre Sinner resta più ancorato sul fondo campo. Questi sono elementi che spostano il favore del pronostico su Alcaraz, ma Sinner è una macchina da guerra, nessuno ha la sua continuità. Avrà le sue occasioni perché è un campione e può “vendicarsi†di Parigi. Attenzione, poi, che su questa superficie c’è un solo precedente e lo ha vinto Sinner. Poi sull’erba la partita può sfuggirti in qualsiasi momento, bastano cinque minuti e ti ritrovi sotto di un set.

Un po’ come stava accadendo tra Sinner e Dimitrov agli ottavi.
Sì, perché questo è uno sport individuale, un cervello contro l’altro. Ci sono anche tutte le fragilità, da cui poi esce la vera forza del campione. Il problema è che viene veicolato male: continuano a mostrare il grande campione che vince e fa punti vincenti. Ma il tennis non è questo: Roger Federer raccontò di aver vinto solo il 54% dei punti in carriera, dimostrando che l’x factor non è vincere, ma saper sopportare il punto perso. I guai in una partita sono tanti e il campione deve saperli trasformare in un’occasione per migliorare. Lo stesso Sinner ha detto di aver scelto il tennis perché può sbagliare ed è vero perché il tennis ti insegna a doverti sempre rimettere in piedi. L’errore in sé è la grande bellezza di questo sport, ci sono più delusioni che soddisfazioni, lo vogliamo capire o no?

E infatti Sinner è riuscito a raggiungere la finale per la prima volta dopo diversi tentativi.
Sì, mi auguro che riesca anche a diventare il primo italiano a vincere Wimbledon, sarebbe straordinario. Poi, però, c’è l’altra faccia della medaglia: quando la cosa diventa commerciale, se non si alfabetizza la grande massa al tennis, una volta che il campione passa poi si sgonfia tutto. La vera sfida sarà questa, perché altrimenti diventa tutto come il superbowl, dove è rimasto lo show senza la partita. Anche alcuni addetti ai lavori propongono regole aberranti solo perché fanno i commercianti e vogliono ampliare la base a prescindere dalla conoscenza dello sport. È come quando si va a teatro a sentire l’opera: non si urla. Così anche nel tennis, che è uno sport in cui si sta in silenzio. Invece oggi è tutto lecito: a mio parere è una roba che deve finire sennò diventa tutto un luna park. Non roviniamo questo patrimonio secolare.

Tornando ora alla finale persa da Sinner a Parigi. Non sembra che quella sconfitta abbia intaccato le prestazioni dell’italiano, si aspettava che sarebbe riuscito ad arrivare in fondo anche ai Championships?
Onestamente sì, me lo aspettavo. Perché Sinner è un campione straordinario come lo è anche Alcaraz. Loro due fanno un campionato a parte, possono perdere nei tornei minori, ma negli Slam è molto difficile. Il torneo di Halle, dove ha perso con Bublik, era un work in progress: Sinner usa questi tornei per mettere minuti sulle gambe, ma non è importante vincere quel torneo quanto lo è invece vincere Wimbledon. Tanto è vero che il kazako vince in Germania e poi esce al primo turno a Londra, mentre Sinner è in finale.

L’italiano è alla sua quarta finale Slam consecutiva, ma continua a perdere contro Alcaraz. Come mai?
Perché Alcaraz cambia volto quando gioca contro Sinner. Solitamente, lo spagnolo è un giocatore di alti e bassi, tranne quando è con l’italiano, con cui trova continuità. I grandi campioni si tirano su l’uno con l’altro, è successo con Tilden e Lacoste, Borg e McEnroe, Federer e Nadal. E oggi con loro. Alcaraz, contro Sinner, si trasforma, mentre Sinner fa Sinner e infatti stava per vincere a Parigi, sulla superficie preferita da Alcaraz, poi è successo quello che è successo.

In effetti, loro due sembrano essere molto più avanti rispetto agli altri tennisti del circuito. C’è qualcuno, in questo momento, che potrebbe avere il potenziale per raggiungerli?
Non lo so. A Wimbledon, quest’anno, i “vecchiettiâ€, come Djokovic, Cilic e Dimitrov hanno dimostrato quanto quella generazione fosse competitiva. Oggi invece c’è Sinner, Alcaraz e poi il baratro. Sicuramente c’è chi ha il potenziale per farlo, perché Fritz se fa un punto in più con Alcaraz lo porta al quinto set in semifinale a Wimbledon. Il problema è che sono troppo poco giocatori rispetto a Sinner e Alcaraz. Il tennis è un po’ come navigare in mare aperto, ci riescono quando il vento è favorevole, ma quando c’è la tempesta vanno in difficoltà. Ecco, Sinner e Alcaraz sono la tempesta. Ci sono poi giocatori come Shelton che ha il servizio in slice e le giocate per essere efficace sull’erba, ma gioca da fondo campo e fa il colpitore. La scienza dimostra che se tieni la palla bassa sull’erba, i colpitori fanno fatica: “La palla colpita dalle corde vola colma d’effetto e rimbalza dalla parte di campo opposta restando bassa e togliendo velocitàâ€, lo diceva Galileo Galilei 400 anni fa. Sinner è giocatore perché sa che se resta solo dietro, l’altro lo sovrasta, lo stesso fa Alcaraz, che viene avanti e fa le volée corte come quelle che aveva Arthur Ashe. I più bravi sono coloro che sanno cambiare la profondità, giocando forte e poi facendo la corta con la finta. Sono loro che fanno la differenza. Oggi ce ne sono pochi perché restano più da fondo campo. Questi giganti di due metri, come può essere ad esempio Zverev, vanno a rete due volte, vengono passati e si “permalizzano†(si fossilizzano, ndr) a fondo campo. Ma che roba è?

In effetti, si è visto con Shelton, che ha incontrato non poche difficoltà contro un giocatore come Sonego.
Perché Sonego non ha le armi di Shelton, ma ha un cervello tennistico, sa stare in campo, è come un professore di tennis, mentre l’altro deve ancora imparare molto. Fisicamente, l’americano è come un giocatore Nba, poi però suda sette camicie per battere il tennista torinese perché quest’ultimo gli sta aggrappato e se non sta attento Shelton la perde pure.

Contro Sinner, invece, non c’è stata storia.
Sì, perché quando poi prende quelli più forti va in difficoltà. Anche se contro quel Sinner, che veniva da una partita choc contro Dimitrov, sull’erba, diciamo che Shelton non si è aiutato molto. Perché quello era un match in cui doveva aggredire Sinner per cercare di minare le sue certezze, doveva provare a sfruttare le fragilità che l’italiano avrebbe potuto avere dopo la partita precedente.

In vista della finale però Sinner ha recuperato le energie e sembra essere tornato al top. Che match si aspetta?
Mi aspetto una grande partita, ma non credo che possano superare le emozioni della finale del Roland Garros. È vero però che l’erba favorisce lo spettacolo perché si arriva più facilmente al tiebreak e al quinto set. Sarà una bella partita, questi ragazzi sono la dimostrazione che il tennis non muore mai. Ogni volta che un grande campione smette – com’è stato per Nadal, Federer, Sampras, Borg, McEnroe e altri – dicono che il tennis morirà. Ma non è vero: il tennis resta perché è molto più grande delle sue favolose leggende.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:59:53 +0000
Tennis a cura di Daniele Fiori
Sinner-Alcaraz a confronto: il percorso a Wimbledon, la classifica, gli Slam vinti e i precedenti

La finale più attesa di Wimbledon è realtà: Jannik Sinner e Carlos Alcaraz oggi domenica 13 luglio si sfidano sul Centrale dell’All England Club. Il tempio del tennis. Inizio alle ore 17 italiane, le 16 di Londra. Per il numero uno del mondo, Jannik Sinner, è l’occasione di prendersi una rivincita pesante dopo due sconfitte dolorose subite nel 2025, entrambe in finale: al Roland Garros e al Masters 1000 di Roma. Alcaraz, invece, sogna uno storico tris sull’erba londinese dopo i trionfi del 2023 e 2024. I due grandi campioni della nuova era del tennis si sono presi gli ultimi 6 Slam (dall’Australian 2024 in poi): questo sarà il settimo consecutivo a finire nelle mani di uno dei due cannibali.

La finale di Wimbledon 2025 sarà la 13esima sfida tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, il capitolo più prestigioso di una rivalità già epica. I precedenti pendono nettamente dalla parte dello spagnolo, che oltre ad essere in vantaggio con 8 vittorie su 12 match, è anche reduce da cinque successi consecutivi (escludendo il torneo amichevole Six Kings Grand Slam, vinto dall’azzurro). L’ultimo, inutile dirlo. è stato il più pesante: la vittoria a Parigi, dopo i tre match point a disposizione di Sinner. Ma sull’erba l’unico incrocio – Wimbledon 2022 – è stato vinto dall’italiano.

L’azzurro arriva alla sua prima finale a Wimbledon con grande fiducia, forte di un tennis devastante in semifinale contro Djokovic. Per il numero uno del mondo, è stata la prova perfetta per scacciare i dubbi sulle condizioni del suo gomito, dopo l’infortunio rimediato negli ottavi di finale contro Dimitrov. Messo il manicotto al braccio destro, il suo Wimbledon è ripreso come era iniziato: 3 a 0 già ai quarti contro Shelton. Fatto salvo l’incontro con il bulgaro, vinto per ritiro quando era sotto 2 a 0, Sinner non ha perso un set nel torneo. Alcaraz al contrario ha combattuto molto di più per arrivare in finale, a partire da un primo turno epico contro Fabio Fognini: cinque set di battaglia. Lo spagnolo ha faticato anche con Fritz in semifinale e con Rublev agli ottavi, senza tuttavia dare mai realmente la sensazione di poter soccombere. Alcaraz va a caccia del terzo titolo consecutivo a Wimbledon: solo Sinner può ancora fermarlo e prendersi il primo titolo a Wimbledon, il quarto Slam.

Sinner-Alcaraz, il percorso a Wimbledon

Carlos Alcaraz: giocate 16 ore e 33 minuti (5 set persi in totale)

Primo turno: Fognini in 4 ore e 37 (2 set persi)
Secondo turno: Tarvet in 2 ore e 17 (0)
Terzo turno: Struff in 2 ore e 25 (1)
Ottavi: Rublev in 2 ore e 44 (1)
Quarti di finale: Norrie in 1 ora e 39 (0)
Semifinale: Fritz in 2 ore e 51 (1)

Jannik Sinner: giocate 11 ore e 43 minuti (2 set persi in totale)

Primo turno: Nardi in 1 ora e 48 (0 set persi)
Secondo turno: Vukic in 1 ora e 40 (0)
Terzo turno: Martinez in 1 ora e 55 (0)
Ottavi: Dimitrov in 2 ore e 08 (2) – ritiro
Quarti di finale: Shelton in 2 ore e 19 (0)
Semifinale: Djokovic in 1 ora e 53 (0)

Sinner-Alcaraz, gli Slam vinti

Carlos Alcaraz: 5 Slam vinti
Us Open 2022
Wimbledon 2023
Roland Garros 2024
Wimbledon 2024
Roland Garros 2025

Jannik Sinner: 3 Slam vinti
Australian Open 2024
Us Open 204
Australian Open 2025

Sinner-Alcaraz, la classifica Atp

Jannik Sinner è in testa alla classifica Atp da 58 settimane consecutive. Carlos Alcaraz è stato numero 1 al mondo per 36 settimane complessive tra settembre 2022 e settembre 2023. Attualmente, Sinner ha 11330 nel ranking e Alcaraz insegue in seconda posizione con 8600. Lo spagnolo vincendo Wimbledon tornerebbe a 9300 punti, portandosi quindi a 2mila punti dalla vetta. In caso di vittoria dell’altoatesino, invece, il gap si allargherebbe a 3400 punti di differenza, con Sinner che salirebbe a 12030 punti.

Sinner-Alcaraz, tutti i precedenti

12. 2025 – Roland Garros, Finale – Terra rossa
Alcaraz b. Sinner 4-6, 6-7, 6-4, 7-6, 7-6

11. 2025 – Masters 1000 Roma, Finale – Terra rossa
Alcaraz b. Sinner 7-6, 6-1

10. 2024 – ATP 500 Pechino, Finale – Cemento

Alcaraz b. Sinner 6-7, 6-4, 7-6

9. 2024 – Roland Garros, Semifinale – Terra rossa
Alcaraz b. Sinner 2-6, 6-3, 3-6, 6-4, 6-3

8. 2024 – Masters 1000 Indian Wells, Semifinale – Cemento
Alcaraz b. Sinner 1-6, 6-3, 6-2

7. 2023 – ATP 500 Pechino, Semifinale – Cemento
Sinner b. Alcaraz 7-6, 6-1

6. 2023 – Masters 1000 Miami, Semifinale – Cemento
Sinner b. Alcaraz 6-7, 6-4, 6-2

5. 2023 – Masters 1000 Indian Wells, Semifinale – Cemento
Alcaraz b. Sinner 7-6, 6-3

4. 2022 – US Open, Quarti di finale – Cemento
Alcaraz b. Sinner 6-3, 6-7, 6-7, 7-5, 6-3

3. 2022 – ATP 250 Umago, Finale – Terra rossa
Sinner b. Alcaraz 6-7, 6-1, 6-1

2. 2022 – Wimbledon, Ottavi di finale – Erba
Sinner b. Alcaraz 6-1, 6-4, 6-7, 6-3

1. 2021 – Masters 1000 Parigi, R32 – Indoor
Alcaraz b. Sinner 7-6, 7-5

Finale Wimbledon, Sinner-Alcaraz: orario e dove vederla in tv

È la 13esima sfida tra i due, il capitolo più prestigioso di una rivalità già epica, che sta ridisegnando gli equilibri del tennis mondiale. Il Centrale di Wimbledon sarà teatro di un confronto tra due talenti generazionali, protagonisti di un duello che promette scintille e spettacolo. Non resta che sintonizzarsi: domenica, alle 17, Sinner-Alcaraz sarà visibile in diretta per gli abbonati Sky su Sky Sport Uno, Sky Sport Tennis (o in streaming su Sky Go) e anche per gli abbonati alla piattaforma NOW. Ma la finale di Wimbledon sarà visibile anche gratis in chiaro su TV8, con collegamento a partire dalle ore 16.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:59:42 +0000
Tennis a cura di Giacomo Corsetti
Wimbledon, la battaglia è nella mente: Sinner e il fardello psicologico contro Alcaraz. Dalla sua ha una dote speciale

Una battaglia psicologica prima che tecnica. La personalità prima della tattica. Tutto nell’ottica di ribaltare un trend che inizia ad avere un proprio peso. E certo non positivo. La prima finale in carriera di Jannik Sinner a Wimbledon racchiude al proprio interno qualcosa di inedito, che nelle passate sfide giocate contro Carlos Alcaraz non era mai stato preso in considerazione. O almeno, non fino a questo punto. D’altronde ogni possibile ombra di natura fisica è stata spazzata via tra quarti di finale e semifinale. Le due vittorie contro Ben Shelton e soprattutto Novak Djokovic hanno lasciato molti a bocca aperta. Prestazioni in cui si è visto il numero 1 del mondo al suo meglio. Proprio quella versione che servirà anche nell’ultimo atto contro il grande rivale spagnolo, che arriva con i gradi di bi-campione in carica. Le domande quindi, come detto, sono stavolta di altra tipologia. I fantasmi della finale del Roland Garros si ripresenteranno? Che peso avranno le ultime cinque sconfitte contro Alcaraz? Riuscirà Sinner ad andare oltre la pressione psicologica?

A Wimbledon l’azzurro, forse per la prima volta, si trova davanti a una sfida che appare soprattutto mentale, perché tennisticamente parlando ha già dimostrato di poter battere Alcaraz al Roland Garros sulla terra rossa (alla fine è mancato “solo†un punto), quindi è un fatto scontato che abbia ottime chance di trionfare nel torneo più prestigioso del mondo. La sua confidenza con l’erba londinese migliora partita dopo partita.

Le 5 sconfitte e i 3 match point

Sinner sul Center Court è chiamato quindi a scrollarsi di dosso un fardello subdolo e invisibile. A rovesciare quel filotto di cinque sconfitte consecutive iniziato dalla semifinale di Indian Wells 2024, e passato poi per Parigi, Pechino, Roma e ancora Parigi. L’ultimo successo contro lo spagnolo è datato Pechino 2023. Quasi due anni fa. Ma ancora più importante sarà non pensare a quei tre match point non sfruttati e che sono costati il Roland Garros. Una cicatrice, quest’ultima, forse in fase di quiescenza ma comunque presente, e che può tornare a farsi sentire in qualsiasi momento. Soprattutto, se anche a Londra, si dovesse ripresentare una situazione analoga a quella vissuta a Parigi tra il 5-3 e il 5-4 del quarto set. Alcaraz è diventato piano piano una sorta di tabù per il numero 1 del mondo. È l’unico che ha le contromisure per batterlo. Sta entrando lentamente sotto la pelle dell’azzurro. Ovviamente, dipenderà anche da come andrà l’andamento della partita. C’è solo un modo per far sparire tutto: vincere Wimbledon.

La dote speciale di Sinner

L’azzurro dovrà essere bravo ad andare oltre questa pressione psicologica. Far sì che le delusioni del passato diventino la benzina per attizzare il fuoco del riscatto. Ha la personalità, l’esperienza e anche il palmares per rovesciare l’inerzia attuale nella rivalità tra i due. Ma soprattutto, Sinner ha una dote speciale e non scontata: sa imparare dalle sconfitte. Tornare sempre più forte. È stato così contro Djokovic dopo le sconfitte a Wimbledon 2022 e nella finale delle Atp Finals 2023. È stato così dopo le prime delusioni contro Alcaraz allo US Open 2022 e nella semifinale di Indian Wells 2023. Un talento di cui è consapevole anche lo spagnolo, che infatti nell’intervista post vittoria contro Taylor Fritz ha dichiarato: “Credo che la finale di Parigi l’avrà reso ancora più forte, che avrà imparato dalle cose che pensa di aver fatto male dal punto di vista mentale e fisico, e che si presenterà ancora più forteâ€.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:59:27 +0000
Viaggi a cura di Giuliana Lomazzi
I 12 ristoranti vicino autostrada: dall’A1 all’A22, i locali a pochi minuti dai caselli per una sosta di qualità (e a prezzi più bassi dell’autogrill)

Dopo il report di Altroconsumo, pubblicato nei giorni scorsi dal FattoQuotidiano.it, molti viaggiatori saranno a caccia di alternative più economiche ai punti ristoro autostradali. A volte, basta uscire dal casello e fare qualche deviazione per scoprire posticini simpatici e rilassanti dove spezzare la monotonia dei lunghi viaggi in autostrada e ritemprarsi. I locali che vi proponiamo sono nei pressi dei caselli di alcune delle principali autostrade italiane, e comunque sono raggiungibili in non più di 20-30 minuti. Ecco la selezione di FqMagazine. In alcuni casi è richiesta la prenotazione: si consiglia di chiamare sempre prima del proprio arrivo.

Autosole

L’A1, il principale asse viario italiano, si snoda per oltre 700 km tra Milano e Napoli, toccando Bologna, Firenze e Roma.

Ristorante Laghi, Campogalliano (MO). A circa 15 minuti dall’uscita autostradale, il ristorante si affaccia sui Laghi Curiel, all’imbocco del Parco fluviale del Secchia. Gnocco fritto e crescentine, tortelli, lasagne, salumi e formaggi si gustano nel fresco giardino ombroso.

Ristorante il Colle, Barberino di Mugello (FI). Immediatamente all’uscita dell’autostrada, il locale offre prodotti freschi a base di ingredienti scelti: dal pane cotto nel forno a legna ai formaggi e salumi della bottega, dalla parmigiana alle lasagne della gastronomia. Ci sono anche una pizzeria e un ristorante, dove tra l’altro si possono gustare per esempio i tortelli mugellani ripieni di patate, carni alla brace, piatti vegani e vegetariani.

Hotel Ristorante Il Pino, Chiusi (SI). A 5 minuti dal casello Chiusi-Chianciano (più o meno a metà strada tra Firenze e Roma e a due passi dall’Umbria), si incontra questo locale a gestione familiare preceduto da un parcheggio ombroso e da una bella terrazza dove gustare le specialità locali fatte in casa: pici all’aglione o al ragù, tagliate di chianina…

Ristorante Rossodivino, Valmontone (RM). A poca distanza dal casello e dal Valmontone Outlet, propone piatti sfiziosi e originali come una moussaka rivisitata, gnocchi viola con gorgonzola e frutti di bosco, polpette all’amatriciana. Soufflé al fondente Blu. E per chiudere, soufflé al cioccolato o tiramisù.

Salerno-Reggio Calabria

Lunga oltre 400 km, l’A2 tocca Cosenza e Vibo Valentia e termina a Villa San Giovanni, da dove partono i traghetti per la Sicilia.

Agriturismo Valsirino, Lagonegro (PZ). Situato a una decina di km dal casello di Lagonegro Sud, nella valle delle rose selvatiche, la struttura offre prodotti propri come il caciocavallo podalico, ricotta fresca, formaggi di capra e pecora, peperoni cruschi. Ci sono antipasti in cocci di creta, pasta fresca e vari tipi di carne alla brace (cinghiale, vitello podolico, agnello, capretto, maialino nero selvatico). valsirino.it/index.html.

Bar Trattoria da Zio Pierino, Altomonte (CS). Il paese, che è tra i borghi più belli d’Italia, si trova vicino all’omonima uscita autostradale. La trattoria è il posto ideale per gustare specialità calabresi, come i tipici salumi accompagnati dalle crespelle, ciambelle lievitate e fritte che si sposano molto bene pure con la ricotta fresca. Ci sono anche i peperoni secchi fritti e le polpette di melanzane.

Serenissima

L’A4 collega Torino a Trieste (e da qui alla Croazia) passando per Milano e Venezia e tagliando orizzontalmente il Nord.

Trattoria da Resi, Trecate. A circa 15 minuti dal casello di Novara Est (dir. Milano) si incontra questa trattoria immersa nel parco del Ticino, poco distante. Gestita da 4 generazioni, propone panini gourmet con Black Angus (solo a pranzo) e piatti sfiziosi come il risotto con il persico, i paccheri con il Castelmagno, le empanadas vegetariane e non. Chiuso fino al 30 luglio.

Trattoria da Vanda, San Martino di Codroipo (UD). Per chi punta verso il mare croato, l’uscita di Latisana (tra Venezia e Trieste) permette di raggiungere in 15-20 minuti questa raffinata trattoria di campagna a conduzione familiare, non lontana dalla cinquecentesca Villa Manin. In estate le specialità friulane si mangiano fuori, nel déhors: salumi friulani, frico (tortino di patate e formaggio), spaghetti alle noci…

Agriturismo Ortaglia, San Martino della Battaglia (BS). Vicino al casello di Sirmione e alla Torre di San Martino della Battaglia (museo storico), l’agriturismo offre l’alternativa tra servizio da asporto (su prenotazione) e ai tavoli, che d’estate sono in giardino. Oltre a una tagliata molto tenera propone bigoli con ragù di anatra, casoncelli al bagoss e tortelli variamente farciti (anche vegetariani). E per chiudere, un goloso tris di dolci con la mitica sbrisolona.

Azzurra

L’A12 parte da Genova, costeggia per gran parte il mare e conduce fino a Roma.

Ristorante La Capannina Bocca di Magra (SP). A circa 15 minuti dall’uscita di Sarzana sull’A12, il ristorante dispone di tavoli in giardino, proprio davanti alla foce del Magra. Dai filetti alle tartare passando per zuppe e tortini, predominano i piatti di mare. Tra le alternative di terra, la pasta con fagiolini e patate.

Locanda Il Sigillo, Rosignano M. (LI). L’Osteria, ristorante a conduzione familiare, si trova in una dimora storica del centro di Rosignano. Tra le sue volte di mattoni propone piatti della tradizione toscana: crostini, panzanella croccante, pecorino di Pienza grigliato, gnudi (ravioli privi di sfoglia) con pecorino e pere, tortelli maremmani al ragù.

Adriatica

L’A14 parte da Bologna per raggiungere Taranto seguendo, come suggerisce il nome, la costa dell’Adriatico e toccando Rimini, Ancona, Pescara e Bari.

Locanda dei Casta, Fano (PU). A 2 km dal casello di Fano, si può mangiare in un bel giardino con i tavoli coperti da tovaglie a quadri. La gestione, che è familiare, propone piatti sfiziosi di mare e di terra, come arrosticini di pecora, spiedini di gamberi e calamari, o più semplici taglieri di salumi con piadina.

Da Biagio Restaurant, San Severo (FG). In mezzo agli ulivi, con una sala dotata di piscina, il ristorante-pizzeria è a soli 3 km dal casello di San Severo. I piatti sono quelli della tradizione pugliese e lasciano ampio spazio ai prodotti di mare.

Autobrennero

L’A22 parte da Modena e, passando per Mantova e Verona, porta a Vipiteno, al confine austriaco.

La Torre, Ravina (TN). A 5 minuti dal casello di Trento Sud, il primo Biergarten Forst del Trentino è ai piedi di una torre del XIV secolo, e dai suoi tavoli all’aperto regala magnifiche vedute sui vigneti e su Trento. Offre specialità tipiche tirolesi e trentine come stinco, ragù di selvaggina, spatzle bianchi con carne salada. Va da sé, innaffiati da birra.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:59:12 +0000
Lavoro a cura di Eleonora Lavaggi
“Paola. Ricordare non bastaâ€: il podcast che racconta la bracciante morta nei campi. E lo sfruttamento che resiste

Morì nel silenzio, sotto il sole nelle campagne di Andria. Si era alzata quando era ancora buio, aveva percorso 130 chilometri e stava lavorando per 27 euro all’acinellatura dell’uva. L’opinione pubblica non ne seppe nulla per giorni. Idem il sindacato. Era il 13 luglio 2015 quando Paola Clemente, bracciante di San Giorgio Jonico, nel Tarantino, morì di sfruttamento mentre “abbelliva” i grappoli destinati alla grande distribuzione.

Sono passati dieci anni e ora la sua storia è diventata un’inchiesta narrativa in quattro episodi, “Paola. Ricordare non basta”, per raccontare Clemente e la vita di chi, ancora oggi, lavora nei campi italiani in condizioni di precarietà, silenzio e diritti calpestati. Scritto da Susanna Bucci e Paolo Butturini, letto da Francesca De Martini e prodotto da Akuo e FLAI-CGIL, in collaborazione con Il Fatto Quotidiano, il podcast è da oggi disponibile sulle principali piattaforme.

ASCOLTA QUI

Ampio spazio è dedicato alle testimonianze dirette di chi oggi raccoglie frutta e verdura nei campi da sfruttato, offrendo un racconto corale e potente delle condizioni disumane ancora diffuse nell’agricoltura anche tra lavoratrici e lavoratori italiani. Nelle quattro puntate, ad accompagnare gli ascoltatori nel viaggio tra sfruttamento, rivendicazioni e diritti anche le voci di quattro tra giornalisti ed ex collaboratori storici del Fatto Quotidiano: Francesco Casula, Luisiana Gaita, Roberto Rotunno e Andrea Tundo.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:58:21 +0000
Mondo a cura di Gianni Rosini
Francesca Albanese sanzionata dagli Usa | Il paradosso? Dal nuovo Raìs della Siria al macellaio Duterte: ecco tutti i criminali risparmiati dalla Casa Bianca

Le sanzioni americane sono spesso considerate il discrimine per decidere chi debba essere considerato un “cattivo”, il metodo condiviso per dividere il mondo tra chi si comporta in maniera accettabile e chi, invece, deve essere condannato all’isolamento. In effetti, se si scorre la lista di coloro che negli anni sono stati colpiti da questo provvedimento, che di recente ha aggiunto anche il nome della relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, Francesca Albanese, si trovano soggetti tutt’altro che rispettabili, tra terroristi come Osama bin Laden, narcotrafficanti alla Joaquin El Chapo Guzmán, signori della guerra come Joseph Kony o dittatori sanguinari del calibro di Kim Jong-un.

Che terribile crimine ha commesso, quindi, Francesca Albanese per ritrovarsi in compagnia di questi soggetti? Dopo l’annuncio da parte del segretario di Stato americano, Marco Rubio, lei ha reagito con ironia: “È un record, sono la prima persona dell’Onu a cui è successo. Per cosa? Per aver denunciato un genocidio? Per aver documentato un sistema? Mi sanzionano, ma non mi hanno mai contestato i fatti”. E ha poi contrattaccato: “Le sanzioni funzioneranno solo se le persone saranno spaventate e smetteranno di impegnarsi. Voglio ricordare a tutti che il motivo per cui vengono imposte queste sanzioni è la ricerca della giustizia“.

Le ritorsioni contro la relatrice italiana racchiudono una verità importante, la stessa già affiorata dopo che lo stesso provvedimento aveva colpito o l’ex procuratrice capo della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, che indagava sui crimini americani e britannici in Afghanistan o i giudici della Cpi che hanno spiccato un mandato d’arresto nei confronti del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e del suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, con l’accusa di crimini di guerra: le sanzioni americane non colpiscono i cattivi del mondo, ma solo coloro che sono considerati dalla Casa Bianca nemici di Washington o dei suoi alleati. Per capirlo non si deve guardare ai nomi contenuti in questo speciale girone dell’inferno del XXI secolo. Al contrario, si devono cercare quelli di chi in quella lista non appare. Ecco qualche esempio.

Ahmad al-Shara’ aka Abu Muhammad al-Julani

Ahmad al-Shara’, conosciuto anche con il nome di battaglia di Abu Muhammad al-Julani

Se si cerca un esempio di come gli Stati Uniti ricorrano senza problemi al doppio standard, non c’è niente di più calzante, e pure recente, della storia del nuovo padrone della Siria, Ahmad al-Shara’. Giacca e cravatta, capello corto, barba curata, l’immagine che il 43enne siriano è stato abile a costruirsi non si discosta da quella di tanti altri leader arabi. Non serve però una memoria particolarmente lunga per ricordare che il nuovo capo del suo Paese, accolto nelle cancellerie europee e presentato dall’amministrazione Trump come un liberatore, per la maggior parte della sua vita è stato conosciuto come Abu Muhammad al-Julani, prima leader della costola siriana di al-Qaeda, Jabhat al-Nusra, e poi dell’organizzazione terroristica Hayat Tahrir al-Sham. Torture, attentati, uccisioni sommarie, persecuzioni: i gruppi da lui guidati o di cui ha fatto parte hanno versato litri di sangue siriano e iracheno per oltre 20 anni e si sono resi responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità. Lui stesso era finito nella lista dei terroristi degli Stati Uniti, colpito dalle sanzioni di Washington. Da quando ha però marciato su Damasco, mettendo fine al cinquantennale regime degli al-Assad, il giudizio su di lui è radicalmente cambiato e le sanzioni sono sparite. Tutto perdonato.

Hibatullah Akhundzada

Hibatullah Akhundzada, Amir al-Mu’minin (Guida Suprema) dei Talebani dell’Afghanistan

Lapidazioni delle donne, imposizione ferrea e violenta della Sharia, uccisioni sommarie, persecuzione delle minoranze etniche, attentati e omicidi: c’è tutto questo e molto altro nel curriculum dei Talebani, il gruppo che, dopo 20 anni di controllo occidentale dell’Afghanistan seguito all’invasione del 2001, ha ripreso il potere nel martoriato Paese asiatico. Dal 2016 c’è una figura oscura, enigmatica, costantemente fuori dai radar a guidare i miliziani col turbante che controllano Kabul: Hibatullah Akhundzada. Mai vero combattente ma membro fin dalle origini dell’organizzazione, l’attuale leader è stato giudice delle corti talebane che si occupavano di giudicare il rispetto della Sharia già durante il primo governo del 1996. Uno dei suoi figli è stato un attentatore suicida e a sostenere la sua ascesa alla guida del gruppo fu l’allora capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, successore di Osama bin Laden. Sebbene i Talebani siano oggetto di sanzioni come entità, nessun provvedimento diretto è stato preso dagli Usa nei confronti di colui che da quasi dieci anni ne è la Guida Suprema.

Khalifa Haftar

Il generale Khalifa Haftar, qui insieme a Vladimir Putin

Da dieci anni, ormai, è lui il padrone di Bengasi. Dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi, il generale e il suo Esercito di liberazione nazionale hanno più volte tentato di prendere in mano il ricco Paese nordafricano, anche marciando su Tripoli. Abile a creare fin da subito stretti legami internazionali, soprattutto con Russia, Egitto e Francia, è ormai il benvenuto nelle cancellerie europee. Con lui si deve parlare per cercare di pacificare la Libia, ma nessuna pressione, sotto forma di sanzioni, è mai stata esercitata da Stati Uniti o Unione europea. Eppure di accuse di crimini di guerra, anche da parte di organizzazioni come Amnesty International, durante le battaglie per la spartizione del Paese ne ha collezionate più di una, tra le quali ci sono uccisioni indiscriminate, tortura e varie violazioni dei diritti umani.

Rodrigo Duterte

L’ex presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte

Appena insediato promise che sarebbe diventato l’Hitler delle Filippine. Ma a essere perseguitato, stavolta, non sarebbe stato il popolo ebraico, bensì i tossicodipendenti. La sua “lotta alla droga” ha assunto fin da subito le sembianze di un massacro: nei suoi sei anni di presidenza, gli squadroni della morte hanno seminato il panico per le strade del Paese, marciando in cerca di tossicodipendenti da uccidere con esecuzioni sommarie. Secondo i procuratori della Corte Penale Internazionale furono oltre 30mila le persone giustiziate dalle sue squadracce, ben oltre le 6mila dichiarate dal governo filippino. Sanzioni americane? Nemmeno l’ombra.

Isaias Afewerki

Il presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki

Primo e unico presidente dell’Eritrea dal 1993, ha condotto il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo all’indipendenza del suo Paese dall’Etiopia. Sarebbe potuto diventare un eroe nazionale, ma fin da subito ha portato avanti una politica di militarizzazione coatta, sfruttando il conflitto con il vicino per giustificare violenze e repressione del dissenso interno, trasformando l’Eritrea nel Paese con la minore libertà di stampa al mondo, come confermato dall’ultimo rapporto pubblicato da Reporter Senza Frontiere. Per mantenere il potere nelle proprie mani, Afewerki ha sostenuto in funzione anti-etiope gruppi terroristici come al-Shabaab ed è stato più volte accusato di crimini contro l’umanità. L’avvio di nuovi colloqui con l’Etiopia nel 2018 ha dato all’allora amministrazione Trump l’opportunità di rimuovere il Paese dalla lista degli sponsor del terrorismo. Afewerki, comunque, non è mai stato sanzionato direttamente.

Omar al-Bashir

L’ex presidente del Sudan, Omar al-Bashir

Se si parla di di crimini in Sudan, non si può non citare il nome di Omar al-Bashir. Presidente per 30 anni del suo Paese, fino al 2019, dopo il golpe messo in atto da generale nel 1989, per prima cosa rese illegale qualsiasi tipo di opposizione, sciogliendo il Parlamento e mettendo il bavaglio alla stampa. Quando l’Assemblea venne riconvocata, la sua rielezione a presidente non è mai stata un reale problema e sarà rimosso solo da un altro colpo di Stato. Nel 2009 la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti per crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel Darfur. Era accusato di aver ideato e attuato un progetto di eliminazione di tre gruppi etnici: Fur, Masalit e Zaghawa con omicidi di massa, stupri e deportazioni. Il regime di al-Bashir è stato oggetto di sanzioni Usa, ma il presidente non è mai finito direttamente nella blacklist americana.

Abdel Fattah al-Sisi

Il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi

Ha messo fine dopo appena un anno al primo e unico governo democraticamente eletto dell’Egitto, nato dopo la destituzione del regime di Mubarak seguita alla Primavera Araba. Il generale Abdel Fattah al-Sisi ha usato i carri armati per rovesciare Mohamed Morsi, lo ha fatto incarcerare e ha dato inizio alla pesante repressione della Fratellanza Musulmana nel Paese. Migliaia di cittadini che sostenevano l’ex capo di Stato sono finiti in carcere, torturati, alcuni uccisi in circostanze oscure e altri costretti a fuggire dal Paese per salvarsi la vita. L’Egitto si è presto trasformato in uno Stato di polizia che ha violato sistematicamente i diritti umani. Cosa che, però, non ha creato particolari problemi etici ai Paesi occidentali che non hanno mai messo in discussione la partnership con uno Stato strategico, sia dal punto di vista geopolitico che economico. Nemmeno quando ha riconsegnato all’Italia il corpo massacrato e senza vita di Giulio Regeni. Non è un caso, quindi, che anche dagli Stati Uniti non siano mai arrivate sanzioni per il Raìs del Cairo.

Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e l’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant

Per loro parlano le cronache recenti. In un anno e mezzo di guerra, anche se l’ex ministro della Difesa è rimasto in carica fino a novembre 2024, Israele ha lanciato una sanguinosa campagna militare a Gaza nella quale sono state uccise più di 50mila persone, per la stragrande maggioranza civili, sono stati bombardati campi profughi, rifugi, ospedali, scuole, ong, sedi delle Nazioni Unite e soccorritori. Sono stati bloccati gli aiuti umanitari, è stata attuata una punizione collettiva del popolo palestinese, sono stati affamati donne e bambini, sono stati documentati arresti e uccisioni sommarie da parte delle Forze di Difesa israeliane.Per questo, la Corte Penale Internazionale ha ravvisato fondati motivi per accusare Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant di crimini contro l’umanità e crimini di guerra e spiccare un mandato d’arresto nei loro confronti. In questo caso gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni. Ma contro i giudici de L’Aia.

X: @GianniRosini

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:54:22 +0000
Blog a cura di Andrea D'Ambra
Un software, mille vite rovinate. La vergogna britannica del caso Horizon

Chi l’ha definito “il più grande errore giudiziario della storia inglese†non ha esagerato. Ma non è solo un errore: è una costruzione metodica, sistemica, protratta per anni. È l’orrore dell’amministrazione automatica che soppianta la giustizia umana.

Nel Regno Unito, tra il 1999 e il 2015, oltre 700 dipendenti degli uffici postali – i cosiddetti sub-postmasters – sono stati accusati e condannati per ammanchi di cassa che non avevano mai commesso. Le prove? Un unico testimone: un software difettoso, Horizon, fornito da Fujitsu.

Alcuni hanno pagato di tasca propria per coprire buchi inesistenti. Altri sono finiti in prigione. Altri ancora si sono tolti la vita.

Il Post Office sapeva. Fujitsu sapeva. I vertici ricevevano segnalazioni interne da anni. Ma hanno continuato a difendere Horizon come “infallibileâ€. E i magistrati britannici – lo si dica – si sono accontentati di questo: di un algoritmo. Il software registrava errori sistematici nei conti. Bastava quello per scatenare accuse di furto e truffa, senza alcun confronto coi dati reali. Alcuni accusati non capivano neppure cosa venisse contestato loro. Dovevano “fidarsi del sistemaâ€.

Il risultato?

  • Almeno 236 processi penali sulla base di errori informatici.
  • Più di 900 persone perseguitate.
  • Decine di famiglie rovinate.
  • 13 suicidi direttamente collegati al caso.

E per anni, nessuno ha chiesto scusa. Anzi: il Post Office ha continuato a opporsi alle richieste di revisione dei processi. Ha nascosto documenti. Ha mentito ai giudici. Ha lasciato che la verità venisse a galla solo grazie a un’inchiesta giornalistica e alla pressione pubblica.

Nel 2024 il governo britannico ha approvato una legge per annullare tutte le condanne fondate sul software Horizon. Ha promesso indennizzi fino a 600.000 sterline a testa. Troppo tardi. Alcune vittime sono morte prima ancora di vedere il proprio nome riabilitato.

Fujitsu? Ha chiesto scusa. Il Post Office? Anche. Ma nessuno è stato condannato. I dirigenti che hanno coperto tutto questo sono ancora liberi. Anzi: alcuni hanno fatto carriera.

Non è solo una storia inglese. È una storia che riguarda chiunque creda che un software possa sostituire l’equità. È un monito, soprattutto ora che anche in Italia si delega sempre più spesso al digitale, all’algoritmo, alla piattaforma.

Qui sotto il trailer della serie tv inglese “Mr Bates vs The Post Office” (2024) che ripercorre questa storia vera.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:05:14 +0000
Blog a cura di Michele Bazan Giordano
Albatross di Giulio Base è asfittico e soffocante, al di là delle dispute politiche

Giulio Base ha avuto coraggio a girare Albatross. E gli va riconosciuto. Sapeva che sarebbe stato attaccato. Non mi importano le prevedibili chiacchiere da salotto che il film ha scatenato e che, in certi casi, si avvicinano pericolosamente alla censura. Mi interessa invece la qualità o la non qualità di un film e mi sento di affermare che Albatross è un film asfittico, quasi soffocante per la sua povertà visiva.

Manca di un ampio respiro, è televisivo e privo di un minimo afflato cinematografico: ergo, la tragica vicenda del neofascista Almerigo Grilz, reporter di guerra triestino che, con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fondò nel 1983 l’agenzia di stampa che porta il nome del felice uccello urlatore dall’apertura d’ali più grande al mondo, metafora dell’immensità, viene invece resa dal regista con schemi tecnicamente stringati. Penso agli scontri del ’76, con due fazioni che si affrontano: da una parte i neofascisti, capeggiati da Grilz, già dirigente del Fronte della Gioventù, e dall’altra i post-sessantottini della sinistra il cui leader è Vito Ferrari, ispirato, pur con qualche licenza geo-cronologica, a Toni Capuozzo, ex giornalista di Lotta Continua e poi inviato di guerra, che ho avuto il piacere di conoscere a Sarajevo nel ’94.

Ebbene, si tratta di uno scontro da burletta: i due ‘capi’ si avvinghiano, sembra un incontro di lotta greco-romana, neppure gli occhiali si spostano dai loro nasi e lo stesso avviene per gli altri contendenti: sembra d’essere sul tatami di una palestra non in una piazza infuocata degli anni 70 (riguardatevi quelli girati da Bertolucci in The Dreamers…). Arriva ‘la madama’ e Grilz (interpretato da Francesco Centorame, in sala anche con Come fratelli di Antonio Padovan, innocente storiella di due papà single) viene impensabilmente (per chi ha vissuto quegli anni) aiutato a fuggire proprio dal suo rivale Ferrari-Capuozzo (Michele Favaro dall’aspetto di mite secchione).

Con una manovra alla Giulietta e Romeo l’uno, infatti, in nome di un improvviso attacco di amicizia virile, tende la mano all’altro per aiutarlo ad arrampicarsi su una scala, anche se Grilz viene comunque acciuffato dai poliziotti e rinchiuso al commissariato in una cella che pare quella dello sceriffo di un film western.

Ferrari-Capuozzo, invece, lavora a Radio Popolare Trieste. Ed ecco un flashback di una quarantina d’anni: Ferrari-Capuozzo (il sempre grande Giancarlo Giannini) lo ritroviamo in treno insieme con la commossa moglie (Gianna Paola Scaffidi) che da giovinetta (Linda Pani, ‘professoressa’ de L’Eredità su RaiUno), pur figlia di un giornalaio di sinistra, era stata la fidanzata di Grilz (c’è anche un tocco di telenovela…).

Giannini deve raggiungere Trieste per partecipare a una riunione fra giornalisti locali e decidere se conferire una targa a Grilz che è morto il 19 maggio 1987, a 34 anni, in Mozambico dov’è sepolto. E sarà il solo a dire sì. Spararono a Grilz mentre riprendeva uno scontro fra la Resistenza Nazionale del Mozambico, appoggiata dal Sudafrica e pare anche dalla Cia, al cui seguito era il reporter triestino, e i governativi di ispirazione socialista del Fronte di Liberazione che, allora suoi nemici e oggi al governo, hanno dimostrato più umanità degli italiani, dichiarando, pochi mesi fa: “Il governo mozambicano e italiano dovrebbero cercare insieme iniziative per non dimenticarlo”.

Le nefandezze commesse dal giovane Grilz neofascista non le dimentico, ma, nel contempo, la sua successiva attività di giornalista inviato in guerre di mezzo mondo e i suoi reportage acquistati dai maggiori network internazionali, comunque la si pensi, sono eccezionali.

Giulio Base è un bravo regista (e attore) dall’ottimo curriculum e certo ha fatto di meglio con alcuni dei suoi precedenti 14 film. Penso, ad esempio, a Bar Giuseppe o À la Recherche e, a proposito di Albatross, si è autodefinito “un partigiano della riconciliazione”. Dubito ci sia riuscito: basta dare un’occhiata ai titoli sia dei giornaloni della sinistra che dei giornaletti della destra. Albatross l’ha voluto il governo Meloni? Ovvio, anche un bambino delle elementari capirebbe che si tratta di un tentativo di revisionismo, ma questo non deve inficiare un’analisi filmica puntuale.

Patetiche le scene di guerra in Mozambico girate in Puglia: campi strettissimi, per evitare il rischio di inquadrare qualche masseria del foggiano. Si salvano solo alcune immagini di repertorio sui titoli di coda che meglio avrebbero funzionato nel corso del film.

La verità è che da tempo lo ‘specifico filmico’, come lo chiamavamo negli anni 70, poco interessa a buona parte della critica che preferisce i tavoli delle dispute ideologiche o le sterili e trite polemiche sul Tax Credit, quando ben sappiamo che, dall’articolo 28 in poi, è stato un profluvio di finanziamenti, con governi di sinistra e di destra, a film mai usciti in sala o ai quali, magari in agosto, hanno assistito soltanto i parenti del produttore. E pensare che Rossellini andava a cercarsi in giro da solo la pellicola per ultimare un capolavoro come Roma città aperta. Altro che Tax Credit.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:03:44 +0000
Blog a cura di Lorenzo Mazzoni
Palestina, Africa e Scandinavia in tre libri: storie di resistenza e affermazione

Gaza! Gaza! Gaza! Gli scrittori della Palestina scrivono ancora, di AA.VV. (Atmosphere Libri), è un’antologia potente e necessaria che offre uno spaccato vivido e toccante della vita, delle speranze e delle sofferenze della popolazione martoriata della Striscia di Gaza attraverso le voci dirette dei suoi scrittori. Lungi dall’essere un mero resoconto di eventi politici, il libro si configura come un atto di resistenza culturale e un’affermazione della resilienza umana di fronte a una realtà spesso inimmaginabile. La forza di questa raccolta risiede proprio nella sua coralità e nell’autenticità delle voci che la compongono.

Attraverso racconti, poesie e brevi saggi, gli scrittori palestinesi ci aprono le porte delle loro case, delle loro strade, dei loro cuori. Ci raccontano la quotidianità fatta di privazioni, la costante minaccia della violenza, ma anche la tenacia nel coltivare sogni, l’importanza dei legami familiari e comunitari, e un profondo attaccamento alla propria identità e alla propria terra. Il libro va oltre la narrazione unidimensionale del conflitto, offrendo un mosaico di umanità complesso e sfaccettato. Incontriamo personaggi che lottano per la sopravvivenza, che coltivano la speranza nonostante tutto, che si interrogano sul senso della vita in un contesto così difficile. Le loro storie sono intrise di dolore, certo, ma anche di amore, di ironia, di una sorprendente capacità di trovare bellezza anche nelle circostanze più ardue.

Gaza! Gaza! Gaza! Gli scrittori della Palestina scrivono ancora è un atto di resistenza in sé. Dare voce a scrittori provenienti da un territorio spesso marginalizzato e raccontato solo attraverso le lenti del conflitto è un modo potente per contrastare la narrazione dominante e per affermare l’esistenza di una ricchezza culturale e intellettuale che non può e non deve essere soffocata. La letteratura diventa qui uno strumento di testimonianza, di memoria e di speranza per il futuro.

La vita sessuale delle donne africane, di Nana Darkoa Sekyiamah (traduzione di Simona Garavelli; Garzanti), è un’opera coraggiosa e illuminante che squarcia il velo di silenzio e tabù che spesso avvolge la sessualità femminile nel continente africano. Attraverso una serie di interviste intime e profonde, Sekyiamah dà voce a donne provenienti da diverse nazioni e background, offrendo un panorama ricco e sfaccettato delle loro esperienze, desideri, paure e consapevolezze riguardo al sesso e al piacere. Il libro è un vero e proprio coro di voci femminili che, con onestà e vulnerabilità, condividono le proprie storie. Non si tratta di un’analisi sociologica distaccata, ma di un viaggio empatico attraverso le vite di donne che rivendicano il diritto di parlare apertamente della propria sessualità, spesso in contesti culturali e sociali che tendono a marginalizzare o reprimere il loro desiderio e la loro autonomia corporea.

Sekyiamah affronta temi cruciali come il piacere femminile, il matrimonio, le tradizioni culturali, la religione, l’identità di genere, l’HIV/AIDS, la violenza sessuale e il ruolo del corpo nella società africana contemporanea. Lungi dal presentare un quadro monolitico, il libro evidenzia la straordinaria diversità di esperienze e prospettive, sfidando stereotipi occidentali e africani sulla sessualità delle donne del continente La vita sessuale delle donne africane è un potente atto di empowerment. Dare spazio e legittimità alle voci di queste donne è un passo fondamentale verso la liberazione da narrazioni patriarcali e coloniali che hanno a lungo plasmato il discorso sulla sessualità in Africa.

Il libro incoraggia le donne africane a rivendicare il proprio piacere, a negoziare relazioni sane e appaganti e a sfidare le norme sociali oppressive. La scrittura di Sekyiamah è sensibile e rispettosa, capace di creare un’atmosfera di fiducia che permette alle intervistate di aprirsi con autenticità. La traduzione di Simona Garavelli restituisce con efficacia la ricchezza e la sfumatura delle diverse voci, rendendo la lettura fluida e coinvolgente.

I principi dello stagno Finn, di Lars Elling (traduzione di Andrea Romanzi; 21lettere), è un romanzo delicato e profondamente malinconico che si insinua lentamente nel cuore del lettore, lasciando dietro di sé un’eco di riflessione sulla solitudine, la perdita e la fragile bellezza dell’esistenza.

Il romanzo ci introduce nello stagno Finn e nel piccolo mondo che lo circonda, abitato da figure solitarie e spesso ai margini della società. Attraverso la lente di un narratore sensibile e osservatore, Elling dipinge un affresco fatto di silenzi, di gesti quotidiani ripetuti, di pensieri sussurrati e di un senso di incomunicabilità che pervade le vite dei personaggi. Non c’è una trama incalzante, ma piuttosto una lenta e progressiva immersione nelle loro interiorità, nelle loro ferite nascoste e nei loro tentativi, spesso goffi e maldestri, di trovare un senso in un mondo che sembra averli dimenticati. Elling ha un talento particolare nel trovare poesia e bellezza anche nelle pieghe più desolate dell’esistenza. Descrive con minuzia e delicatezza i paesaggi, gli oggetti, i piccoli rituali che scandiscono le giornate dei suoi personaggi, trasformando la solitudine, che inizialmente può apparire opprimente, in uno spazio di contemplazione e di silenziosa introspezione.

C’è una sorta di dignità silenziosa in questi individui che, pur nella loro fragilità, continuano a esistere e a cercare un proprio equilibrio. La voce narrante è un elemento fondamentale del romanzo. Empatica e mai giudicante, si avvicina ai personaggi con una profonda comprensione delle loro mancanze e delle loro aspirazioni. Lo stile di Elling è evocativo e lirico, capace di creare atmosfere rarefatte e di trasmettere al lettore le sfumature emotive dei protagonisti. Le frasi sono spesso brevi e incisive, cariche di un significato che va oltre le parole stesse.

I principi dello stagno Finn, di Lars Elling

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:02:49 +0000
Blog a cura di Antonio Leggieri
Gli americani sono ovunque e stanno gentrificando il turismo. Vedi l’Albania

Abbiamo un problema con l’America. Alcuni direbbero che in realtà, soprattutto in questo momento storico, i problemi sono più di uno. Io però mi occupo di viaggi, quindi mi concentro sul mio settore. Il problema – che io considero serio e senza, purtroppo, una soluzione in vista – è questo: il turismo americano sta facendo lievitare i prezzi di molte città in giro per il mondo.

Non c’è bisogno di essere economisti di Cambridge per capirne il motivo: nonostante un’inflazione galoppante che negli ultimi anni ha minato il loro potere d’acquisto, gli stipendi degli americani – soprattutto quelli di chi vive sulla West e sulla East Coast: parliamo di parecchie decine di milioni di persone – sono decisamente più alti degli stipendi percepiti da chi vive nei paesi che gli americani visitano ogni anno.

Questo differenziale determina un effetto definibile come “gentrificazione turisticaâ€: quando turisti provenienti da economie con redditi più alti, come quella statunitense, affollano determinate destinazioni, essi sono disposti a pagare prezzi più elevati per alloggi, ristoranti e servizi. Gli operatori locali, di conseguenza, alzano i prezzi per massimizzare i profitti, rendendo l’esperienza inaccessibile o meno sostenibile per i turisti provenienti da paesi con redditi medi più bassi e, in molti casi, persino per la popolazione locale.

Negli ultimi 15 anni ho visitato 60 Stati e ho avuto modo di constatare che gli americani sono ovunque. Prediligono però alcune destinazioni: il Messico, i Caraibi (il Costa Rica è una loro enclave), il Giappone, la Tailandia e molti paesi europei, tra cui Inghilterra, Spagna, Francia e Italia. Il nostro paese è nella top 3 delle preferenze degli yankee: gli aumenti del costo della vita in città come Milano, Roma e Venezia – quest’ultima monopolizzata di recente da Jeff Bezos e consorte – ne sono la testimonianza. Certo, non tutte le colpe sono riconducibili ai turisti americani e ai loro stipendi. Come sempre è la politica a essere la prima complice della turistificazione.

Nella città in cui vivo, Bologna, la sinistra al caviale si è resa protagonista di una serie di scelte che hanno chiuso le porte in faccia ai comuni cittadini e aperto portoni a investitori danarosi, il cui obiettivo è quello di rendere la città più appetibile, ma solo per chi la visita e spende in beni e servizi. Per dirla sempre con gli americani: Talk left, live right.

Ora però torniamo a noi. Temo che, nel giro di una manciata d’anni, un’altra destinazione – geograficamente molto vicina all’Italia – sarà destinata a finire nel calderone delle mete overturistiche. Sto parlando, per chi non l’avesse capito, dell’Albania. Le voci che si rincorrevano da tempo sull’interesse di Ivanka Trump e del marito Jared Kushner per l’isola di Saseno, nella baia di Valona, hanno infine trovato conferma. Secondo il Guardian, la figlia di Donald Trump e l’immobiliarista nato nel New Jersey hanno intenzione – una volta completata la bonifica dagli ordigni inesplosi: Saseno era usata nei decenni del regime come presidio militare – di trasformare l’isola in una nuova mecca del turismo ultra-lusso. L’investimento, un miliardo di dollari circa, andrà a sommarsi al portafoglio immobiliare della coppia che incarna plasticamente il turbocapitalismo neosionista di matrice trumpiana.

Così, mentre Leonardo DiCaprio ha di recente acquistato l’isola di Guafo, in Cile, per proteggerla da attività minerarie e deforestazioni, Saseno è pronta a essere riconvertita in paradiso esclusivo per pochi, mentre l’Albania intera rischia di diventare l’ennesimo laboratorio di gentrificazione travestita da sviluppo turistico.

Dicevo prima che la politica ha sempre la sua grossa parte di responsabilità. Secondo il primo ministro albanese Edi Rama, “l’Albania ha bisogno del turismo di lusso come un deserto ha bisogno d’acqua”. Rama non sa, o fa finta di non sapere, che l’arrivo di capitali porta sempre con sé inflazione: nei prossimi anni l’investimento di Trump e coniuge provocherà l’espulsione lenta ma progressiva di molti residenti dal distretto di Valona, spinti ai margini da un’economia che premia solo chi può permettersi di comprare, costruire o speculare.

Secondo il magazine Monitor, nel 2024 in Albania si è già registrato un incremento medio dei prezzi delle strutture alberghiere del 25-30 percento. I rialzi più elevati sono stati rilevati a Sud – da Vlora, la principale città del distretto di Valona, a Ksamil e Saranda: se nel 2023 si poteva prenotare un hotel nel centro di Valona a 40-50 euro a notte, oggi – basta fare una ricerca su Booking.com – è difficile trovare qualcosa sotto i 70-90 euro, anche per strutture di fascia media. E non è raro che i prezzi superino i 200 euro a notte per gli hotel con vista mare.

Ci tengo a specificare, in conclusione, che gli americani non sono gli unici turisti a provocare questa dinamica. I tedeschi, ad esempio, si sono resi indirettamente responsabili del forte aumento dei prezzi in Croazia negli ultimi 10-15 anni: molti italiani – la nostra capacità di spesa è nettamente inferiore rispetto a quella di tedeschi, americani, inglesi e spesso persino di quella degli spagnoli e dei cugini francesi – non hanno potuto fare altro che escludere questo Paese dalla lista delle proprie destinazioni preferite. Una delle ultime mete a noi vicine e a basso costo era l’Albania. Tempo che le dinamiche del turismo internazionale facciano il proprio corso e poi, con i nostri stipendiucci, non potremo permetterci neanche di andare in vacanza da quelli che consideravamo i vicini poveri.

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Il nuovo numero di Millennium parla di overtourism: da sabato 12 luglio in edicola e in libreria

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:01:04 +0000
Blog a cura di Loretta Napoleoni
Usa, la storia di Jared Gottula è la radiografia di un sistema che ha sostituito la cura con l’esecuzione

Nelle sconfinate praterie del Wyoming, dove i bovini superano in numero gli abitanti, la modernità arriva sotto forma di sirene della polizia. A Hot Springs County, 4.600 anime e nessuno psichiatra, Jared Gottula, 41 anni, disoccupato e afflitto da un disturbo mentale non trattato, agita una mazza da baseball fuori casa. Non minaccia nessuno. Non ha una pistola. Ma quando arrivano gli agenti dello sceriffo, Jared finisce crivellato di colpi. Uno, due, tre… fino all’ultimo proiettile. Il suo corpo resta steso sull’asfalto. Nessuna ambulanza, nessun medico, nessun negoziatore. Solo un padre che corre urlando: “È morto mio figlio?”.

Questa non è la cronaca nera. È la radiografia di un sistema che ha sostituito la cura con l’esecuzione. Che ha trasformato la polizia di campagna in giuria, giudice e boia. Il caso di Jared è solo uno dei tanti che emergono da un trend in crescita: nel 2024, 1.260 persone sono state uccise dalle forze dell’ordine negli Stati Uniti. Di queste, un numero crescente cade sotto il fuoco degli sceriffi rurali, oggi protagonisti di una militarizzazione strisciante e sottovalutata.

Dal 2013 a oggi, gli omicidi da parte degli uffici dello sceriffo sono aumentati del 43%, mentre quelli dei dipartimenti cittadini solo del 3%. Il motivo è semplice: nelle città, dopo George Floyd, le proteste hanno costretto a riforme. Nelle campagne, invece, la repressione è diventata vanto, segno di efficienza, spesso appoggiata da elettori che vedono negli agenti armati gli ultimi bastioni dell’ordine in un mondo che si sgretola.

Il caso di Hot Springs è esemplare. Qui gli agenti sono pochi, malpagati, scarsamente formati. Non esiste un servizio psichiatrico, ma l’arma d’ordinanza è sempre pronta. L’agente Max Lee-Crain, che ha ucciso Jared, ha dichiarato di aver esaurito il caricatore: “Non voleva mollare la mazza”. Eppure, lo stesso sceriffo locale non ricordava alcun precedente di sparatorie nella contea. La tragedia è un inedito. Ma non sorprende.

In un’America dove le crisi mentali si moltiplicano e i servizi scompaiono, chi risponde alla chiamata d’aiuto non è un terapeuta, ma un uomo armato e addestrato al combattimento. Il risultato è scontato. Come ha ammesso Allen Thompson, direttore dell’associazione degli sceriffi del Wyoming: “Abbiamo bisogno di più formazione. Ma il vero problema è che non possiamo prevenire ciò che accadrà la notte dopo”.

Il caso Gottula rivela lo slittamento profondo del ruolo della forza pubblica. Non più tutela, ma controllo. Non più vicinanza, ma dominio. Una logica da guerra civile a bassa intensità che, nell’indifferenza delle metropoli, consuma vite tra i silenzi delle valli e delle riserve.

Le immagini dell’omicidio non fanno il giro del mondo, come accadde per Floyd. Ma nelle comunità locali resta il trauma, resta la domanda: chi sarà il prossimo? La risposta, purtroppo, non arriva da un’aula di giustizia, ma da un poligono di tiro.

Nel cuore dell’America profonda, la frontiera non è più quella dell’Ovest, ma quella tra civiltà e barbarie. E la linea si sposta ogni giorno più in là, inesorabilmente, sotto il peso di un’ideologia securitaria che giustifica tutto, anche l’ingiustificabile. Come ha detto un funzionario di polizia coinvolto in un caso simile: “Tutti si lamentano della de-escalation”. Già. Perché parlare, negoziare, aspettare costa tempo e soldi. Sparare, invece, è rapido, risolutivo, e soprattutto impunito.

In questa America, il disagio psichico non è una malattia da curare, ma una minaccia da neutralizzare. E così lo Stato uccide, a sangue freddo, chi avrebbe solo bisogno di aiuto.

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 06:00:40 +0000
Blog a cura di Valerio Cesari
Quarant’anni dopo, Live Aid ci ricorda che la musica salva il mondo. E ora tocca alla Palestina

Passato alla storia come il concerto di beneficenza più grande di sempre, andò in scena oggi nel 1985, in contemporanea a Londra e a Philadelphia, il “Live Aidâ€: primo esempio di evento veramente globalizzato, organizzato da Bob Geldof e Midge Ure per raccogliere fondi contro la grave carestia che in quegli anni colpiva l’Etiopia causando centinaia di migliaia di morti. Secondo per importanza forse solo al “Concert for Bangladesh†di George Harrison e Ravi Shankar, e inseritosi nella tradizione già avviata pochi mesi prima dalla hit collaborativa “We Are the Worldâ€, la storica due giorni vide la partecipazione di oltre 70 artisti, con un pubblico televisivo stimato in quasi due miliardi di persone in 150 nazioni.

Con oltre 127 milioni di dollari raccolti (l’equivalente di 300-350 milioni odierni), il Live Aid ebbe il merito di dimostrare – questo sì, più di altri – il potere della musica nel sensibilizzare e mobilitare persone di ogni età e provenienza, unendole in vista di un’unica causa, aprendo inoltre la strada a iniziative simili, di poco o tanto successive, come il “Freddie Mercury Tribute Concert†del 1992, l’“America: A Tribute to Heroes†del 2001 o il suo seguito ideale “Live 8†(2005).

Celebre sì per il proprio impatto sociale, il “Live Aid†lasciò un segno altrettanto indelebile nella storia della musica, regalando ai presenti e agli spettatori la reunion dei Led Zeppelin – difficoltà annesse – con Phil Collins e Tony Thompson alla batteria, la straordinaria performance dei Queen, il duetto tra David Bowie e Mick Jagger nel brano “Dancing in the Street†e la famosa discesa tra il pubblico di Bono Vox degli U2 durante “Badâ€, mentre molti altri non mancarono di manifestare il proprio disappunto per non essere stati invitati (Clash, Police, Prince, Duran Duran).

Svoltosi nella quasi assenza di artisti africani – relegati a contributi minori – il “Live Aid†fu anche teatro di molte polemiche: accusato di voler spettacolarizzare la tragedia che si proponeva invece di contribuire a risolvere, e caratterizzato da non pochi ritardi ed errori sotto il punto di vista tecnico e logistico, l’evento fu anche criticato – nelle persone dei suoi organizzatori – perché si tradusse in maniera molto meno impattante, con buona parte dei fondi raccolti mai giunti in loco, o dirottati dall’allora regime etiope per fini politici e militari, nonché per rafforzare il proprio controllo sul territorio.

Rimane comunque il fatto che, in un’epoca in cui le divisioni sembravano insuperabili, mentre il mondo continua a dividersi confrontandosi con nuove sfide e conflitti, il “Live Aid†torna a insegnarci che una nuova mobilitazione globale sarebbe non solo possibile ma auspicabile, per portare ad esempio attenzione e supporto alle popolazioni palestinesi. Di chi altri, se non noi, è fare in modo che ciò accada?

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Data articolo:Sun, 13 Jul 2025 05:50:51 +0000
Politica a cura di F. Q.
Bari, il sindaco all’evento di Porro: “Darò le chiavi della città a Francesca Albaneseâ€. Il conduttore: “Me ne vadoâ€

“Ho intenzione, e lo dico con orgoglio, di dare le chiavi della città a Francesca Albanese“. L’annuncio del sindacodi Bari Vito Leccese dal palco dell’evento “La Ripartenza, liberi di pensare”, organizzato da Nicola Porro per il quinto anno consecutivo al teatro Petruzzelli, ha provocato la reazione indignata del conduttore: “Porca miseria, veramente?”, ha detto. E poi: “Mi stai spingendo…”. “A cambiare città“, suggerisce Leccese. “Ma no, ma è sicuro”, conferma Porro. E dal pubblico si alzano fischi verso il sindaco, che il padrone di casa ferma subito.

Il siparietto sulla relatrice Onu si inserisce in un quadro di tensione sotterranea tra il primo cittadino Pd e il giornalista sull’organizzazione della kermesse. Porro infatti ha ventilato di non rinnovare l’appuntamento per il prossimo anno, lamentando “ostacoli” da parte dell’amministrazione. Così, quando Leccese prova a stemperare dicendo che “nonostante la differenza di visione politica, abbiamo sempre accolto qui tutti”, Porro sbotta: Ci mancherebbe altro che non potessi venire a Bari, pago tutto io qui. Non siamo ospiti, non ho patrocinio del Comune. Io non devo dire grazie a nessuno”.

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Data articolo:Sat, 12 Jul 2025 19:16:08 +0000

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