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L'altra faccia della guerra e l'altro volto di Zelensky - Ucraina e Libia: due facce della stessa guerra e la Profezia di Gheddafi - Libia 2011, i crimini impuniti della Nato - Il sanguinoso conflitto in Iraq che pone l'occidente sotto accusa - Pillole di storia dell'Ucraina
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A Casale di Scodosia, 5mila anime in provincia di Padova, il sindaco deve fare anche il collaboratore scolastico. E’ lui ad aprire il plesso della primaria per garantire l’attività di pre-scuola a una decina di bambini. A raccontare a ilfattoquotidiano.it questa vicenda è lui stesso, Marcello Marchioro, uno di quei leghisti che sul suo profilo Facebook posta foto di lui mentre consegna il diario di benvenuto ad Amir o a Ghali: “Negli ultimi anni ero riuscito a garantire questo servizio attraverso la disponibilità dei giovani che svolgono il Servizio Civile. Ne ho sempre avuti due o tre ma quest’anno mi son trovato con uno solo che però in questo periodo doveva frequentare un corso di formazione promosso proprio dal dipartimento delle politiche giovanili. Avendo fatto l’accordo con il dirigente scolastico, per riconfermare il pre-scuola solo ad agosto non potevo contare nemmeno sul personale dell’amministrazione”.
A quel punto il primo cittadino ha deciso di mettersi a (ulteriore) servizio della comunità: dal 18 settembre è stato lui ad aprire la scuola e ad accogliere i piccoli che le famiglie sono costrette a lasciare a quell’ora per motivi lavorativi. Marchioro, che di figli ne ha due, di trenta e sette anni, e che nella vita fa tutt’altro che l’educatore o il docente (è dipendente di una società di raccolta rifiuti) ha fatto un po’ da maestro, un po’ da bidello, un po’ da educatore: “Guardi, in realtà mi sono anche divertito. Stare con i bambini è il mestiere più bello del mondo. Ogni giorno li accolgo con un piccolo gioco che permettere loro di svegliarsi e di confermare la loro presenza. Per il resto del tempo parlo con loro oppure vediamo qualche cartone animato nell’aula informatica. E’ una bella esperienza”. Un’iniziativa che ha permesso al Comune di risparmiare qualche soldo: “Ho chiesto un preventivo a diverse cooperative per un servizio che durasse tutto l’anno ma avrei dovuto spendere 10mila euro. Una spesa eccessiva. Ora grazie ad un accordo con la dirigenza pagheremo gli operatori 3mila euro”. Il tutto dovrebbe partire da lunedì prossimo ma Marchioro è disponibile a continuare ad andare lui ad accogliere i bambini se l’organizzazione non sarà ancora pronta: “Non c’è alcun problema. Lo faccio volentieri. L’importante è garantire alle famiglie che si erano recate in Comune per avere la certezza che vi fosse ancora questo servizio di anticipo scolastico, la possibilità di lasciare i loro figli a scuola senza preoccupazioni e senza dover sborsare alcuna cifra”. Una sorpresa anche per gli allievi che hanno conosciuto più da vicino la figura del primo cittadino vedendolo ogni giorno in aula.
L'articolo Non ci sono bidelli, ad aprire la scuola va il sindaco: la storia di Casale di Scodosia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Indebitamento netto rivisto al 5,3% nel 2023 per “colpa dei bonus edilizi“, mentre il prossimo anno scenderà al 4,3%. La crescita del prodotto interno lordo per il 2024 è fissata all’1,2 per cento con il debito pubblico al 140,1%. Sono i numeri inseriti nella Nota di aggiornamento al Def dal Consiglio dei ministri che ha varato il documento-cornice della prossima legge di Bilancio.
“Stiamo lavorando per scrivere una manovra economica all’insegna della serietà e del buon senso. E che mantenga gli impegni che abbiamo preso con gli italiani”, ha scritto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sui social dopo l’approvazione a Palazzo Chigi assicurando che la manovra dirà “basta” agli “sprechi del passato” e “tutte le risorse disponibili” verranno “destinate a sostenere i redditi più bassi, tagliare le tasse e aiutare le famiglie”.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si è detto convinto che le previsioni inserite nella Nadef dovrebbero “permetterci confermare interventi indispensabili a beneficio dei redditi medio bassi, in particolare il taglio cuneo e misure premiali per la natalità oltre a stanziamenti significativi per rinnovo del contratto del pubblico impiego”. Giorgetti ha rimarcato come il mancato obiettivo del rapporto deficit-Pil al 3 per cento vada contestualizzato: “Riteniamo di aver fatto le cose giuste. Non rispettiamo il 3% ma la situazione complessiva non induce a ritenere di fare politiche procicliche che alimentano la recessione e quindi l’asticella si sposta a un livello di ragionevolezza”.
La Nadef predisposta dal governo, ha spiegato Palazzo Chigi, tiene in considerazione la “complessa situazione economica internazionale, l’impatto della politica monetaria restrittiva con l’aumento dei tassi d’interesse (che sottrae risorse dell’ordine di 14-15 miliardi agli interventi attivi a favore dell’economia e delle famiglie), le conseguenze della guerra in Ucraina”. Nella Nadef 2023 il Pil è stimato allo 0,8% nel 2023 e, dopo l’1,2 del prossimo anno, il governo ha previsto una crescita dell’1,4 nel 2025 e quindi dell’1% nel 2026.
In quest’ultimo anno, secondo gli uffici ministeriali, è prevista la discesa del rapporto debito-Pil sotto il 140% (139). “Il motivo del fatto per cui il debito non diminuisce come auspicato è che il conto da pagare dei bonus edilizi, soprattutto il superbonus, i famosi 80 miliardi, saranno pagati in comode rate da 20 miliardi l’anno”, è tornato a martellare il ministro Giorgetti che da settimane imputa ai bonus edilizi le difficoltà del governo a far quadrare i conti in vista della legge di Bilancio.
L'articolo Il governo vara la Nadef: Pil 2024 al 1,2% e il deficit al 4,3. Meloni: “La manovra sarà senza sprechi”. Giorgetti: “Risorse per il taglio del cuneo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
In diretta la conferenza stampa coi ministri Giancarlo Giorgetti (Economia), Matteo Piantedosi (Interno) e Carlo Nordio (Giustizia). È durata circa un’ora e un quarto la riunione del Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi, che ha approvato la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, e dato il via libera a due decreti legge, il primo con disposizioni urgenti in materia di immigrazione e protezione internazionale, nonché per il supporto alle politiche di sicurezza e la funzionalità del Ministero dell’interno, il secondo con disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali.
L'articolo Governo, la conferenza stampa con Giorgetti e Piantedosi dopo il Consiglio dei ministri: la diretta proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Il giudice Paolo Borsellino ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, un luogo in cui venne umiliato”. È all’isolamento del giudice ucciso in via d’Amelio che l’avvocato Fabio Trizzino ha dedicato la prima parte della sua audizione davanti alla commissione Antimafia. Il legale rappresenta tutti i tre figli del magistrato ed è stato convocato a Palazzo San Macuto insieme alla moglie, Lucia Borsellino. “Siamo convinti, dopo avere assistito al percorrere di varie piste investigative, che non sono stati forniti del tutto atti, documenti e prove testimoniali che potessero portare a elementi, a nostro avviso indispensabili, per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e isolamento in cui ha vissuto fino all’ultimo giorno della sua vita”, ha detto la figlia maggiore del magistrato assassinato in via d’Amelio il 19 luglio del 1992. “Ciò che chiediamo – ha aggiunto – senza alcuna pretesa di volere sostenere una tesi piuttosto che un’altra, perché non siamo tecnici a differenza dei nostri avvocati, è offrire una ricostruzione completa”. La presidente Chiara Colosimo, che ha chiesto personalmente l’audizione, è intervenuta per sostenere di non avere “nessun esito già scritto, vogliamo fare piena luce soprattutto a partire da quello che finora non è stato detto”. In realtà, lungo tutta l’audizione, è sembrato che nella ricerca dei moventi coperti di via d’Amelio una pista sia quella prediletta. Ma andiamo con ordine.
Il nido di vipere – A parlare davanti ai parlamentari di San Macuto è stato soprattutto Trizzino, che ha tenuto un’audizione lunga quasi due ore. Dopo un dettagliato prologo, che ha ricostruito il contesto dei primi mesi del 1992, il legale ha particolarmente insistito sui rapporti tra Borsellino e i suoi superiori. Lo ha fatto citando la testimonianza della moglie del magistrato, Agnese Piraino Leto, alla quale Borsellino aveva detto: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”. Secondo Trizzino “quel riferimento a ‘i miei colleghi‘ è stato costantemente espunto. Se noi incrociamo questa confidenza di Borsellino con la testimonianza del 2009 in cui si dice che lui definiva il suo ufficio ‘un nido di vipere‘, allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino: sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre proceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”. A rendere difficile la vita in procura a Borsellino era il suo capo, Pietro Giammanco: “Bisogna andare a vedere se già nel ’92 vi erano elementi sulla cui base ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quell’affermazione incredibile – ha detto Trizzino – Dinamiche che, messe in atto dall’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, resero di fatto impossibile la vita di Borsellino. La cosa gravissima è che Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage”.
“Giammanco non fu mai interrogato” – E in effetti è così: fino al momento della sua morte, nel 2018, l’ex procuratore capo non fu mai ascoltato come testimone, nonostante su via d’Amelio fossero stati già celebrati quattro processi. E dire che sarebbero state parecchie le domande da porre a Giammanco. Il magistrato è l’uomo che la mattina del 19 luglio, alle 7 e 15, telefona Borsellino per dirgli che ha deciso di concedergli la delega per indagare sulla mafia a Palermo. “Così la partita è chiusa”, dice il procuratore capo. “No, la partita è aperta”, replica Borsellino, riferendo il contenuto della chiamata a sua moglie. Quella mattina è una domenica: perché un procuratore capo chiama un suo sottoposto per una comunicazione d’ufficio la domenica alle sette e un quarto? Perché non può aspettare lunedì? Il problema è che al giorno successivo Borsellino non arriverà mai: verrà ucciso quello stesso pomeriggio. “Il dottor Borsellino – ha detto Trizzino – ha appreso sul conto del procuratore Giammanco delle notizie così terribili e ha interrotto il flusso delle sue conversazioni col procuratore capo. E di questo Borsellino ne ha parlato con alcuni pm come Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi e Antonio Ingroia“. L’avvocato si chiede inoltre il motivo per cui “nessuno ha chiesto a Giammanco perché non avesse mai avvisato Borsellino dell’informativa sull’arrivo di una quantità di tritolo a lui destinato. Salvo Andò (ex ministro della Difesa ndr) gli dice questa cosa dell’informativa di Subranni (capo del Ros dei carabinieri ndr) di fronte alla moglie Agnese Borsellino, e Borsellino risponde: Vedi che bel procuratore ho? Amico di D’Acquisto (ex presidente della Regione Siciliana, andreottiano, ndr), amico di Lima!'”. “Non c’e’ un verbale in 19 anni – ha aggiunto Trizzino – in cui un magistrato della procura chieda conto di questo atteggiamento a Giammanco”. Il legale ha battuto spesso su un punto: “Anche la magistratura deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana. In questi anni non ho mai sentito un mea culpa“.
La questione di Mafia e appalti – Lungo la sua tutta la sua deposizione Trizzino è tornato spesso a citare l’indagine Mafia e appalti, che era nata da un rapporto del Ros dei Carabinieri. E’ un’indagine sui legami miliardari tra Cosa nostra, la politica e l’imprenditoria. “Il chiodo fisso di Falcone era il rapporto mafia-appalti e lo fu anche di Borsellino, che era convinto che lì vi fosse la chiave della spiegazione della strategia criminale in corso. E’ un falso storico dire che Borsellino non conosceva il contenuto del rapporto del Ros su mafia-appalti”, ha sostenuto il legale. Quell’indagine ha una storia tormentata, tra veleni e fughe di notizie che hanno contrapposto alti ufficiali del Ros come Mario Mori e Giuseppe De Donno alla procura di Palermo. Contrasti che esploderanno solo negli mesi successivi alla morte di Borsellino: nei vari processi in cui sono stati imputati, i carabinieri hanno sempre sostenuto che Mafia e appalti è la pista da seguire per spiegare le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Posizione storicamente sostenuta dalla coalizione della presidente dell’Antimafia: anche per la destra, infatti, l’eliminazione di Borsellino è da collegare al suo interesse per Mafia e appalti e non invece – come sostengono altri familiari del giudice, come il fratello Salvatore – agli elementi che il magistrato aveva raccolto sulla ‘pista nera’ dietro alla strage di Capaci. E neanche a quanto sostenuto da alcune inchieste poi archiviate: collegavano via D’Amelio a informazioni che il magistrato poteva aver avuto sui legami esistenti tra l’entourage di Silvio Berlusconi e Cosa nostra. “Il dossier Mafia e appalti era un dossier molto importante, certa era un atto imperfetto, non possiamo considerarlo un rapporto perfetto. Bisognava starci sopra, d’altra parte Falcone disse che bisognava affinare le metodologie di indagine”, ha spiegato Trizzino, paragondando il dossier del Ros alla confessione di Mario Chiesa, da cui poi si arrivò alla maxitangente Enimont. Secondo l’avvocato, dunque, Borsellino fu ucciso sia perché voleva indagare su Mafia e appalti, ma anche perché aveva scoperto come il movente della strage di Capaci fosse l’interesse dell’amico Falcone per quel rapporto. “L’accelerazione della strage di via d’Amelio – ha aggiunto – non ha senso guardando agli interessi puri e semplici del’organizzazione mafiosa di Totò Riina”. Il riferimento è al fatto che l’8 agosto il Parlamento avrebbe dovuto votare per convertire in legge il decreto sul 41bis, il carcere duro per i mafiosi, varato dopo la morte di Falcone: organizzare un’altra strage, dopo quella di Capaci, voleva dire provocare la conferma di quel provvedimento. In pratica era un boomerang per Cosa nostra. “Non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione. Deve, su suggerimento di terzi, fermare i magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti. Non dimenticate che doveva morire anche Di Pietro, quindi devono morire quei magistrato che hanno a che fare con inchieste che possono svelare il sistema, marcio, dei partiti”, ha proseguito l’avvocato.
L’indagine maledetta – Più volte investigatori e addetti ai lavori hanno dibattutto sull’interesse di Falcone e Borsellino per il dossier del Ros. Un elemento che, però, non è sembrato sufficiente a giustificarne l’eliminazione, almeno con quei tempi e quelle modalità. Per esempio: anche se Borsellino era interessato all’indagine dei carabinieri, cos’è che avrebbe potuto fare nei giorni successivi al 19 luglio per spingere Riina ad anticipare la sua eliminazione? La gestione di un’inchiesta – per quanto dirompente come Mafia e appalti – è un iter lungo: non si risolve in pochi giorni. Ma allora perché Cosa nostra decide di uccidere subito Borsellino, provocando la reazione dello Stato? Non poteva prima aspettare che il Parlamento si esprimesse sul 41bis? È dalla risposta a queste domande che è legata la verità su via d’Amelio. Sulla gestione di Mafia e appalti la procura di Caltanissetta ha aperto di recente un nuovo fascicolo. I pm nisseni ricostruiranno probabilmente lo scontro avvenuto alla fine degli anni ’90 tra i carabinieri del Ros e la procura di Palermo. Si tratta di una vicenda che torna ciclicamente a creare polemica. Nel 1999 l’ufficio inquirente siciliano, all’epoca guidato da Gian Carlo Caselli, depositò al Parlamento una dettagliata relazione per ricostrure la storia di Mafia e appalti. I pm scrivono che fino al settembre del 1992 non vennero mai informati dell’esistenza di intercettazioni telefoniche su politici nazionali. Cosa che avvenne soltanto con un’informativa del Ros depositata nel settembre del 1992, un anno e mezzo dopo la consegna del primo dossier su Mafia e appalti. La procura di Caselli citava, tra gli altri, il caso di una telefonata del 6 aprile 1990, intercettata tra Salvo Lima, il potente vicerè di Andreotti in Sicilia, e un dirigente della Sirap, l’ente sviluppo delle aree industriali e artigiane sull’isola. Al telefono Lima diceva esplicitamente di essere in buoni rapporti con l’imprenditore Cataldo Farinella, esponente di Cosa nostra già citato nel dossier consegnato dal Ros in procura il 16 febbraio 1991. In quell’informativa compariva il nome di Farinella, ma non quello di Lima. E nessun cenno si farà a quella registrazione anche quando Lima verrà assassinato, il 12 marzo del 1992. “Altri nomi di uomini politici di rilevanza nazionale venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo addirittura soltanto il 5 settembre 1992, allorquando con una informativa a firma del Cap. De Donno venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991 recanti la citazione di personalità politiche nazionali”, scriverà l’ufficio inquirente siciliano nella sua relazione al Parlamento. Sono passati quasi 25 anni, ma la vicenda sembra tornata d’attualità.
L'articolo Antimafia, il legale dei figli di Borsellino: “La vita del giudice resa impossibile dal suo capo Giammanco, indagare sulla procura del ’92” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il presidente ucraino ha scelto come suo consigliere freelance l’ex sportivo, che è stato l’allenatore della nazionale del suo Paese. Un documento top secret inviato da Kiev ai governi del G7 in agosto rivela che la Russia ha lanciato più di 600 raid aerei sulle città ucraine utilizzando droni contenenti tecnologia occidentale
L'articolo Ucraina, la diretta – Kiev conferma: “La Wagner è tornata nell’est dell’Ucraina”. Shevchenko nuovo consigliere di Zelensky proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nel giugno del 2021 Flavio Briatore disse in un’intervista di sentirsi come il “mugnaio di Bertolt Brecht”, che aveva finalmente trovato il suo “giudice a Berlino”. Una metafora letteraria che esemplifica il ruolo di vittima della giustizia. Dopo undici anni di processi, la Cassazione aveva spazzato via le due condanne per una maxi-evasione fiscale legata allo yacht Force Blue, che nel frattempo era andato però all’asta prima della sentenza definitiva. Nella stessa intervista, invadendo un campo per lui inconsueto (la politica giudiziaria), il patron del Billionaire arrivava a chiedere una grande riforma della giustizia.
Sono passati oltre due anni e una riforma della giustizia, nel frattempo, è arrivata: quella che porta la firma dell’ex ministro Marta Cartabia e del governo dei migliori. Per ironia della sorte, è anche grazie a quella legge che Briatore ha potuto scansare gli strascichi giudiziari di quella vicenda: la Procura di Genova ha archiviato l’ultima accusa rimasta nei suoi confronti, la corruzione di un dirigente dell’Agenzia delle Entrate, legata proprio a un’interpretazione normativa favorevole che potesse salvarlo dal processo Force Blue. Per i pm, ai sensi della norma Cartabia, non sussiste la “ragionevole previsione di condanna”, dunque Briatore va archiviato.
Lo stesso trattamento non è stato riservato agli altri personaggi (decisamente meno noti) rimasti invischiati in questa storia, accusati di aver ordito un depistaggio a favore di Briatore: l’ex direttore provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Genova Walter Pardini; le sue sottoposte Elena Costa e Claudia Sergi; l’ex consulente fiscale di Briatore Andrea Parolini. Nei loro confronti i pm Walter Cotugno e Patrizia Petruzziello hanno richiesto il rinvio a giudizio per il reato di depistaggio, ipotizzando, a questo punto in modo piuttosto paradossale, che i quattro abbiano tentato di far deragliare un procedimento giudiziario all’insaputa del beneficiario finale.
Il Force Blue – Per orientarsi in questa vicenda complicatissima occorre partire dal fatto scatenante. Nel maggio del 2010 la Guardia di finanza sequestra lo yacht dell’imprenditore, ormeggiato a La Spezia. Gli contesta sostanzialmente di aver usato un escamotage – l’intestazione fittizia a una società di chartering basata in paradisi fiscali, la Autumn Sailing – per mascherare la reale proprietà della barca, risparmiando così oltre tre milioni di euro di Iva sul carburante. Non solo. Emerge che Briatore “in Italia risulta nullatenente”, e che, “come risulta dalle indagini nel procedimento principale, ha intestato ogni suo avere a un trust di diritto estero, controllato mediante diversi livelli di interposizione”. Da questa vicenda nasce un lunghissimo procedimento giudiziario.
Briatore viene condannato in primo e secondo grado. La Cassazione annulla una prima volta la sentenza. La Corte d’appello di Genova, invece, riconferma la condanna, e con i reati ormai prescritti avvia la vendita all’asta dello yacht, motivando la decisione con i danni economici che sta sopportando lo Stato. Il natante viene venduto a poco più di sei milioni di euro (pagando a un’agenzia specializzata un’intermediazione da circa 700mila euro), ma la Cassazione annulla una seconda volta la condanna. L’assoluzione diventa definitiva dopo un terzo pronunciamento in appello e a Briatore, anzi alla Autumn Sailing, vengono restituiti gli oltre sei milioni di euro ricavati dall’asta. L’imprenditore sostiene che non bastino, perché il valore di mercato della barca riconosciuto dallo stesso perito del tribunale era di 19 milioni di euro, ma finora i tribunali gli hanno dato torto (l’ultimo pronunciamento della Cassazione è del 2023). Se vuole ottenere un risarcimento, Briatore dovrà percorrere la strada di un’ulteriore causa civile.
Il funzionario corrotto – C’è un momento di questa vicenda – fra i giudizi di primo e secondo grado – in cui l’affaire Force Blue incrocia un’altra inchiesta giudiziaria. La Guardia di finanza sta indagando su un giro di corruzione all’Agenzia delle Entrate di Genova. Il direttore, Walter Pardini, viene sorpreso in un ristorante mentre intasca una bustarella con 7.500 euro in contanti da una ditta di vigilanza campana. Da questo filone di indagine emerge che Pardini ha condotto in prima persona una trattativa che coinvolge la posizione di Briatore. L’accordo prevede che Briatore versi al fisco oltre tre milioni di euro, il corrispettivo dell’Iva che non sarebbe stata pagata. Al contempo, l’Agenzia delle Entrate dovrebbe emettere un parere che getti dubbi sull’interpretazione della norma penale contestata nel processo: un parere insomma contraddittorio rispetto alle posizioni della stessa Agenzia delle Entrate, che si era costituita come parte civile.
I lodge in Kenya e la “proposta indecente” – Pardini è un funzionario pubblico particolare. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, ha comprato dei lodge in Kenya e vede in Briatore, che a Malindi aveva aperto un Billionaire, un’opportunità di “convogliamento e procacciamento di clienti” vip. Per questo chiede al consulente fiscale che si sta occupando della transazione con il fisco, Andrea Parolini, di poter entrare in contatto diretto con Briatore. La richiesta, sottolinea il giudice per le indagini preliminari Ferdinando Baldini, “era palesemente al di fuori dei normali rapporti e da considerarsi quantomeno pericolosa”. Pardini prende un foglietto, scarabocchia sopra il suo nome e il numero, e, mentre è intercettato, dice a Parolini: “Quindi adesso poi, se vuole fare qualche proposta oscena, la fa direttamente sul cellulare…”. Il “tono” apparentemente “scherzoso”, secondo i giudici, non cambia il fatto che la proposta sia seria.
Sentito dalla Procura, Parolini ha raccontato di aver riportato quanto accaduto a Briatore, nello studio di uno dei suoi avvocati: “Dissi che Pardini voleva mettersi in contatto con lui in riferimento a interessi in Kenya. Tengo però a precisare che ho anche evidenziato allo stesso Briatore in quella sede l’assoluta inopportunità di qualunque contatto e che, visto l’atteggiamento tenuto, che da qualunque contatto con l’agenzia sarebbero derivati solo “casini”. Briatore mi ascoltò e non commentò”. Quanto alle richieste di Pardini, Parolini riferisce di essere stato preso in contropiede: “Non evidenziai a Pardini l’inopportunità di quella richiesta, un po’ per stupore e poi perché non ho ritenuto opportuno entrare in contrasto con il direttore dell’Agenzia delle Entrate che si stava occupando della vicenda che seguivo”.
“Io sono uno scienziato di queste cose” – Pardini sembra avere altri obiettivi in testa. Vorrebbe favorire E.M. (non indagata), collega e sottoposta esperta di Iva, a cui è legato da un rapporto personale: “Questo qua (riferendosi a Briatore, ndr) è uno che ti potrebbe dare un’opportunità enorme… via da questo posto di merda in cui sei (l’Agenzia delle Entrate, ndr)… perché sei una ragazza straordinaria, pera dare ovviamente giusto seguito alle cose, alla tua professionalità, alle tua capacità, è un rapporto molto importante… però te non mi aiuti, io cerco di coinvolgerti perché mi fa piacere… questo qua mi ha detto una cosa, quando è finita questa storia andiamo a cena io e lei e le spiego (…) Se ti si prospetta, ma perché no anche attraverso la mia modesta persona, la possibilità di vivere leggermente anche con qualche tono sopra le righe… non è giusto? Non sei mica più una bambina neanche te, cosa aspetti? (…) Francamente non capisco che hai timore di perdere…”.
La funzionaria palesa un certo “imbarazzo” di fronte alla proposta del capo: “Al limite cosa penso di rischiare, che è una cosa diversa”. Lui ostenta sicurezza: “Bisogna avere classe in queste cose, lo capisco quello che dici, io ne so molto, di queste cose sono uno scienziato, guarda”. Pardini alla fine verrà condannato corruzione a sei anni in primo grado, per la vicenda in cui viene sorpreso a intascare una bustarella. In secondo grado la condanna è scesa a due anni e dieci mesi grazie alla possibilità di patteggiare la pena anche in appello.
Le difese: vicenda paradossale – L’udienza per la vicenda del presunto depistaggio è stata fissata per il prossimo 28 ottobre. I difensori sono pronti a dare battaglia e a sollevare i tanti dubbi che affiorano dalla vicenda, a cominciare dal primo e più evidente: Briatore, il beneficiario della presunta corruzione (e del depistaggio giudiziario) è stato archiviato, mentre rimangono indagate le altre figure. Non solo. Il fascicolo, fanno notare i legali, è rimasto fermo sostanzialmente per quattro anni dopo la chiusura delle indagini. Nel frattempo è venuta meno il caposaldo su cui si basava il procedimento principale: la presunta evasione fiscale sul Force Blue. In altre parole, rimarrebbe in piedi l’ipotesi che il gruppo di indagati abbiamo “depistato” le indagini verso un esito che ha poi trovato effettivamente conferma dalla Corte di Cassazione. La difesa di Parolini, che ha sempre negato ogni addebito, ha anche fatto notare un paradosso: se fosse stata accettata la conciliazione fiscale, lo Stato avrebbe incassato oltre tre milioni di euro da Briatore. Invece, oltre a non aver incamerato questi soldi, gliene ha restituiti più di sei.
L'articolo L’ex capo del fisco di Genova verso il processo per depistaggio: “Favorì Briatore per fargli riavere lo yacht”. Ma il manager è archiviato proviene da Il Fatto Quotidiano.
I migranti come priorità, l’Europa come colonna portante. Tanto che Elly Schlein a Montecitorio si lascia andare a una battuta: “Se Conte va a destra sui migranti, ci regala uno spazio a sinistra”. È appena uscita dalla presentazione di una proposta di legge volta a rafforzare l’ancoraggio costituzionale dell’Italia all’ordinamento europeo, per chiarirlo e precisarlo nell’articolo 11 della Costituzione, con un riferimento espresso alla partecipazione dell’Italia all’ordinamento europeo. La campagna elettorale del Pd verso le Europee comincia così. Con un testo presentato a Montecitorio dalla segretaria, la capogruppo Chiara Braga, Enzo Amendola, Peppe Provenzano e Piero De Luca. Una scelta di campo, per chiarire da che parte bisogna stare e per provare a stanare una parte del centrodestra, a partire da Forza Italia.
Perché al Nazareno ritengono che la battaglia principale sarà tra Ppe e Pse. E, dunque, non bisogna essere ambigui. Anche perché la segretaria è convinta che il mondo delle imprese voglia risposte chiare su questo. Non ha il timore Schlein di essere assimilata all’Europa dell’establishment, dei burocrati. E non ha neanche remore a partire dal ricordo di Giorgio Napolitano come “grande europeista”. Un boomerang possibile, rispetto a certe fette del suo elettorato, che però lei non vede. Perché il suo obiettivo è quello di tenere unito il partito su un tema che non può che essere condiviso. Anche da una posizione più radicale.
“So che per certi mondi di sinistra, alcune regole europee non sono modificabili. Ma io sono convinta di sì. Io lavoro per un allentamento del rigore, per l’Europa del Next generation Eu”. E sui migranti: “Aspettiamo testi definitivi ma in generale posso dire che questo è un governo che è tutto chiacchiere e distintivo su questo”. Ancora. “Il governo ha già peggiorato la situazione, ha reso più difficile salvare le vite in mare e ha smantellato l’accoglienza diffusa”. Spiega: “Abbiamo fatto 7 proposte” sulla questione migratoria, “ma non abbiamo avuto alcuna risposta dalla destra”. Tra i punti c’è “la riforma del trattato di Dublino. C’è chi dice: è impossibile. Ma allora vuol dire rinunciare a fare politica. Far politica significa provare a portare un cambiamento anche laddove è difficile”. Una domanda sorge spontanea.
Giuseppe Conte la seguirà anche per quel che riguarda la proposta europea? La segretaria ribadisce in ogni sede che lei non ha alcuna intenzione di fare polemica con il leader di M5s. Anche se lui attira voti? Lei si dice convinta che non bisogna fare politica seguendo i sondaggi. Proprio sul tema dei migranti. Conte non ha esitato ad affondare, sostenendo che il Pd è per l’accoglienza indiscriminata. La “terza via” evocata da Conte la segretaria non la intravede. Ma l’avversario resta la destra. Qualcuno ai piani alti del partito si lascia pure scappare la battuta: “Ma con quello che ha detto Crippa, l’ambasciatore tedesco è ancora qui? Non lo hanno richiamato”. Le elezioni sono il 9 giugno, la campagna elettorale è appena cominciata.
L'articolo Schlein rivendica l’europeismo del Pd: “Se Conte va a destra sui migranti, ci regala uno spazio a sinistra” proviene da Il Fatto Quotidiano.
“L’unica cosa che sappiamo è che stanno litigando tra di loro sui condoni che sono una specialità del governo di Giorgia Meloni. Noi ne abbiamo contati 12 o 13, stanno discutendo se arrivare a 15. Un’ulteriore sberla a contribuenti onesti che la tasse le pagano anche per chi non lo fa”. Lo ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein, in conferenza stampa alla Camera, in riferimento alla legge di Bilancio.
L'articolo Schlein attacca il governo: “Litigano sui condoni, stanno discutendo se farne 15. È una sberla ai contribuenti onesti” proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’audizione fiume dell’avv. Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale dei tre figli di Paolo Borsellino (oltre a Lucia, Manfredi e Fiammetta) apre la partita decisiva per la presidenza Colosimo della Commissione parlamentare antimafia.
Chiara Colosimo lo aveva annunciato che la strage di Via d’Amelio ed in particolare i 57 giorni intercorsi tra le due stragi del 1992, sarebbero stati il punto cruciale del suo mandato e oggi ha fatto la sua prima (anzi seconda) mossa, invitando la figlia Lucia ed il marito, avvocato Trizzino. Se la traiettoria imboccata con questa audizione verrà mantenuta e approfondita in ogni aspetto, credo che alla presidente Colosimo non resterà che sperare nelle elezioni anticipate o nella invasione degli extraterrestri (gli extracomunitari al massimo faranno cadere il governo).
La ricostruzione commossa e ricchissima di elementi proposta alla Commissione dall’avv. Trizzino ha ripercorso la storia, partendo dalla caduta del Muro di Berlino fino ai giorni nostri, in uno sforzo sacrosanto di contestualizzazione e ricapitolazione. L’avv. Trizzino ha esposto in maniera chiara la tesi che intende sottoporre alla Commissione parlamentare: la strage di via D’Amelio ha avuto una funzione preventiva, quella cioè di impedire a Paolo Borsellino di andare avanti nel lavoro investigativo che lo avrebbe sicuramente portato a scoperchiare il pentolone dei rapporti altolocati tra grandi imprese nazionali e politica. Borsellino doveva morire così come doveva morire Di Pietro.
Il grimaldello che avrebbe consentito a Borsellino di arrivare all’obiettivo sarebbe stato senza alcun dubbio il rapporto “mafia-appalti” che il Ros aveva elaborato e messo a disposizione della magistratura fin dal 1991. I nemici di Borsellino e del Ros vanno sicuramente cercati, oltre che in Cosa Nostra (Riina, ha ricordato Trizzino, nutriva per Borsellino un odio ancora più antico di quello riservato a Falcone), nel sistema partitico-imprenditoriale che aveva calpestato ogni legalità con disprezzo della sovranità popolare, arricchendosi alle spalle del contribuente e che ora vedeva minacciato in maniera mortale il proprio potere.
La più infame e pericolosa cinghia di trasmissione tra la volontà dei mafiosi e quella del sistema “mafia e appalti” va indubbiamente ricercata in quel pezzo di magistratura collusa che agì ora piegando direttamente la funzione giurisdizionale ai voleri del sistema, ora isolando, umiliando e delegittimando i magistrati con la schiena diritta come appunto Paolo Borsellino. Tanto grave il ruolo dei “giuda” nella magistratura da far dire a Borsellino che il Tribunale di Palermo era un “nido di vipere” e da far confidare alla moglie Agnese: quando mi uccideranno, forse saranno i mafiosi a farlo, ma a volerlo saranno stati i miei colleghi ed altri.
Nel suo intervento, Trizzino parla dell’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, dicendo che certe “dinamiche resero di fatto impossibile la vita di Borsellino. La cosa gravissima è che Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage”.
Come un mantra, durante l’audizione, l’avv. Trizzino evoca il rapporto “mafia e appalti” frutto del lavoro del ROS ed in particolare di tre uomini e cioè Subranni, Mori e De Donno. Questi uomini, pare suggerire l’avv. Trizzino, avevano già intuito quasi tutto del “sistema” e seppure il rapporto avesse delle imperfezioni, sarebbe stato un viatico decisivo come lo era stata la bustarella del “mariulo” Chiesa, che avrebbe condotto i pm di Mani Pulite fino alla madre di tutte le tangenti.
Ed è proprio l’insistenza dell’avv. Trizzino sul rapporto “mafia ed appalti” che finisce col far tornare alla mente la prima mossa della Presidente Colosimo appena insediata a Palazzo San Macuto e cioè l’incontro riservato proprio con il prefetto Mori, che ormai libero da ogni fardello giudiziario non fa mistero di volersi togliere più di un sassolino dalle scarpe.
Saverio Lodato ha recentemente raccontato in un articolo pubblicato da AntimafiaDuemila che Mori, intervenendo ad una iniziativa in Umbria, avrebbe affermato che tra la strage di Capaci e di Via D’Amelio sarebbero successe cose agghiaccianti (quali?), che il rapporto “mafia e appalti” è la chiave di tutto e che si mantiene in forma camminando 4/5 km al giorno perché vuole vedere morire prima tutti quelli che lo hanno infangato in questi anni. Legittimo, per carità.
C’è un’altra cosa che l’avv. Trizzino sa e che oggi almeno non ha ancora detto (l’audizione si è conclusa per sfinimento dopo oltre due ore) e cioè che l’altra confessione dirompente che Paolo Borsellino affidò ad Agnese con grande sofferenza riguardava proprio il generale Subranni. Basterà alla Colosimo aver portato a casa che l’unica forza politica allora esclusa dal “tavolino” fosse il Movimento Sociale Italiano? Si è aperta una partita molto delicata oggi che ha per sfondo dolore e coraggio reali (di Paolo Borsellino e dei suoi famigliari), ma che rischia di risolversi in una domanda: chi sta usando chi?
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Ha ucciso moglie e figlio con un rasoio e un coltello da cucina, poi è andato nella casa di riposo in cui era ospite la suocera e ha accoltellato a morte anche lei. Infine l’omicida – Martino Benzi – si è tolto la vita: il suo corpo è stato trovato con una ferita alla gola nello stesso istituto in cui viveva l’anziana. Una strage quella compiuta ad Alessandria dall’uomo, un ingegnere di 66 anni, che ha sterminato la famiglia. Sul triplice omicidio seguito dal suicidio indagano i carabinieri: l’allarme è partito dopo che gli addetti dell’istituto Divina Provvidenza, del quartiere Orti, hanno trovato – nel giardino della struttura – i corpi senza vita della loro ospite (Carla Schiffo, 78 anni) e del genero.
Una volta raggiunto il luogo del delitto, le forze dell’ordine hanno rivenuto, in tasca dell’uomo, una lettera che indicava la casa come il luogo dove gli inquirenti avrebbero trovato i “due cadaveri” della moglie e del figlio, probabilmente scritta dopo aver portato a termine i primi due omicidi. È dopo questo ritrovamento che i militari dell’Arma, non essendo riusciti a rintracciare le prime due vittime, sono andati a casa della famiglia e, una volta sfondata la porta, hanno potuto confermare il contenuto di quanto scritto da Benzi oltre a trovare altri biglietti lasciati dallo stesso. Le ferite mortali ritrovate sul corpo della moglie e del figlio dell’uomo sarebbero risultate, secondo indiscrezioni investigative, anch’esse prodotte da arma da taglio. L’ipotesi non è ancora confermata ma secondo gli inquirenti le due armi rinvenute potrebbero essere state le stesse tre utilizzate per uccidere tutte le vittime.
Benzi di professione era titolare di uno studio di consulenza informatica e di progettazione e realizzazione di siti web ed è stato descritto dal preside della scuola frequentata dal figlio come un padre “molto attento ai bisogni del figlio, da risultare a volte iper-presente”. Monica Berto invece, moglie dell’autore della strage, lavorava a Valenza Po e risulta che in passato abbia dovuto trascorrere un lungo periodo di ricovero in ospedale a causa di una malattia di cui soffriva.
L’uomo aveva anche un blog personale nel quale amava scrivere e trattare dei più svariati temi e rimandare al proprio profilo professionale. Nella sua presentazione, risalente al 2013, Benzi parlava così di sé stesso: “Sono uno che, nato nel 1956, si è deciso a fare un figlio a cinquant’anni, età in cui qualche mio compagno di scuola diventava nonno. Allora non stupitevi se questo blog, a volte, presenterà dei contenuti stranamente incongrui per il pacato gentiluomo che dovrei e vorrei essere”. Come si evince, il figlio Matteo occupava un’importanza centrale nella vita dell’uomo: “Mi piace raccontare. E scrivere. Ho incominciato a farlo seriamente il giorno in cui mio figlio ha compiuto diciotto mesi e all’inizio era la trascrizione delle favole raccontate a lui, poi sono diventate storie per quando fosse stato più grande”, scriveva.
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È il presidente della commissione Sanità in Piemonte, ma il leghista Alessandro Stecco ha deciso comunque di fare domanda per un posto da primario di radiodiagnostica a Vercelli. Nulla di irregolare, visto che la legge lo consente, ma comunque una situazione molto delicata dal punto di vista dell’opportunità, dato che la commissione della Asl si troverà a giudicare la candidatura di chi da anni gestisce l’iter di tutti i principali dossier sanitari. Ma Stecco, parlando col Fatto, minimizza: “Non c’è alcuna anomalia e non ci saranno favoritismi. Se dovessi andare avanti col concorso e vincere, mi dimetterei dalla Regione”.
La promessa non risolve i dubbi di chi considera un rischio anche solo la candidatura presentata da Stecco, considerata la sua posizione di potere in Regione. Al leghista non mancano titoli professionali e accademici (è responsabile di Neuroradiologia a Novara, in aspettativa), ma la domanda per Vercelli spiazza gli altri cinque aspiranti primari ammessi al concorso, come da comunicato della Asl del 26 settembre. Stecco non fa una piega: “Ho aderito a un bando online sapendo delle enormi difficoltà del settore pubblico, soprattutto nella radiologia. Non ho ancora deciso se andare avanti, ma ne avrei tutti i titoli, tanto è vero che la mia domanda è stata dichiarata ammissibile”. Nessun sospetto che, dalla sua posizione privilegiata, possa ricevere qualche aiuto in fase di selezione. E neanche il timore di offuscare la trasparenza della selezione, su cui Stecco mostra un ottimismo granitico. “No, i giudicanti sono estratti a sorte e possono venire da tutta Italia, come fa a esserci sudditanza nei miei confronti? Non c’è alcuna possibilità che la mia posizione interferisca sull’andamento del concorso. Ci sono delle prove, dei punteggi, cose tangibili. Se andrò fino in fondo sarà solo perché voglio dare una mano al settore pubblico”. E il posto in Regione? “Se dovessi continuare e vincere, mi dimetterò”. Il Piemonte andrà al voto nella prossima primavera. Che la destra faccia il bis con Alberto Cirio oppure no, Stecco ha già il suo piano B. E, in caso di dimissioni “precoci”, al suo posto in Regione potrebbe entrare la leghista Michela Rosetta, ex sindaca di San Germano Vercellese finita ai domiciliari un paio d’anni fa e ancora a processo con l’accusa di aver negato pacchi alimentari a stranieri e anziani.
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Bottigliate, pugni, sputi, tagli con una lametta e perfino due tentativi di strangolamento. L’ennesimo caso di violenza sulle donne si è consumato a Tivoli, alle porte di Roma: l’imputato è un 21enne italiano incensurato, la vittima una ragazza italiana di 26 anni che allora era la sua fidanzata. Il ragazzo, secondo quanto emerso, millantava di appartenere a un clan criminale e si imponeva in maniera possessiva e violenta sulla giovane. Lei subiva in silenzio, completamente terrorizzata e assoggettata al ragazzo. Oltre alla violenza fisica, lui minacciava di uccidere lei e i suoi genitori se lo avesse lasciato o denunciato e l’ha costretta più volte a consumare rapporti sessuali senza il suo consenso, sotto minaccia di ulteriori violenze. Per di più, l’indagato ha anche rubato una collana, un braccialetto, il sussidio di disoccupazione e tentato di costringerla a rubare alcuni oggetti d’oro a un’amica. A questo si aggiunge il pieno controllo degli account social della giovane e del suo telefono cellulare. Tutto ciò fino al 27 settembre, quando il 21enne è stato arrestato dai poliziotti di Tivoli, coordinati dal “Gruppo uno” della Procura tiburtina, con le accuse di violenza sessuale, lesioni personali aggravate e atti persecutori. Sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, gli è stato applicato il braccialetto elettronico.
Ad accorgersi che quella relazione aveva qualcosa di anomalo erano state le amiche della vittima. Infatti, fin dall’inizio del rapporto amoroso con il 21enne, durato appena due mesi, lei si era allontanata dalle amiche, adducendo diverse motivazioni. La vittima ha inoltre cancellato dai suoi account social le fotografie in cui appariva in compagnia di alcuni suoi compagni maschi. Ha anche smesso di interagire con diversi amici, mentre le chat con le altre ragazze erano ormai gestite dal fidanzato.
Ecco dunque che le amiche, malgrado non fossero ancora a conoscenza della mole di violenze subite, l’hanno spronata a porre fine alla relazione. La 26enne ha quindi organizzato un incontro con il fidanzato, in un parco, sorvegliata a distanza dalle amiche. A bordo dell’auto di lei, il ragazzo non si è però diretto nel parco, ma in un luogo isolato a Guidonia Montecelio e l’incontro si è trasformato nell’ennesima aggressione. Lui l’ha nuovamente picchiata, sferrandole pugni allo stomaco, e minacciata di ammazzarla e buttarla dentro le cave se lei lo avesse lasciato. A quel punto l’ha accompagnata sotto la sua abitazione: lì la ragazza, approfittando di un momento di distrazione del fidanzato, è riuscita a fuggire a bordo della vettura. Arrivata a casa, ancora dolorante e terrorizzata, ha raccontato tutto ai genitori e alle amiche. Questi hanno dunque fotografato tutte le lesioni fisiche e hanno accompagnato la giovane al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli: lì è stata medicata e poi dimessa con diversi giorni di prognosi. A quel punto la vittima ha sporto denuncia al commissariato di Tivoli.
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Il progetto educativo gratuito “Viva la Costituzione, la Costituzione è viva!” avrà inizio il 1° ottobre nelle scuole primarie italiane. Promosso dalla Fondazione Articolo 49 ETS, il progetto ha come obiettivo sostenere la formazione della coscienza civica e critica nelle nuove generazioni. Attualmente, il progetto ha il patrocinio della rappresentanza della Commissione UE in Italia ed è sviluppato in collaborazione con l’ufficio di collegamento del Parlamento europeo in Italia.
Il lancio ufficiale avverrà a Roma il 12 ottobre con il battesimo istituzionale del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Il progetto si estende su tre annualità scolastiche indipendenti, ognuna delle quali si focalizza su ricorrenze di rilievo pubblico, come il 75° Anniversario della Costituzione italiana nel 2023, le nuove elezioni politiche europee nel 2024 e l’80° Anniversario della Liberazione nel 2025.
Le attività del progetto si svolgono all’interno dell’orario curricolare del I quadrimestre e includono risorse digitali fruibili dai docenti attraverso il portale didattico inclasse.net. Un elemento centrale del progetto è rappresentato da 16 video originali in cui la mascotte Martino dialoga con adulti attraverso domande, curiosità e racconti.
Il progetto fornisce un kit operativo che include una guida per i docenti, un poster per la classe, schede operative per approfondire i temi dei video didattici e le linee guida per partecipare al contest “Evviva la Costituzione!” in cui le classi possono inviare disegni, racconti, album fotografici o video che riflettono sul significato della Costituzione. Le tre classi vincitrici riceveranno un buono da 1000€ per l’acquisto di materiale didattico.
Il progetto ha ricevuto il sostegno e l’incoraggiamento dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel luglio 2022. Attualmente, più di 180 scuole hanno aderito al progetto coinvolgendo oltre 7300 alunne e alunni delle scuole primarie in 17 regioni, con particolare partecipazione da parte di Campania, Lazio, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Puglia. Le iscrizioni sono ancora aperte e possono essere effettuate tramite email, telefono o direttamente sul sito web del progetto.
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Andrea Purgatori non aveva metastasi al cervello quando è morto: è quanto emerge “concordemente” dagli esami istologici completati nell’ambito dell’indagine della procura di Roma sul decesso del giornalista, deceduto lo scorso 19 luglio. I consulenti dei pubblici ministeri e quelli delle parti hanno tenuto un incontro per fare il punto sulla attività effettuata in queste settimane all’istituto di medicina legale del Policlinico di Tor Vergata. Nel procedimento, avviato dopo una denuncia dei familiari, sono indagati due medici per omicidio colposo: si tratta del professor Gianfranco Gualdi, responsabile della radiologia della Casa di Cura Pio XI di Roma, e del dottor Claudio Di Biasi, un membro della sua équipe, cioè i due professionisti che hanno effettuato la prima diagnosi di tumore in stadio avanzato, con metastasi anche al cervello, da curare con una radioterapia ad alto dosaggio.
La vicenda della malattia di Purgatori ha avuto inizio lo scorso 24 aprile, quando si ricovera nella clinica privata Villa Margherita. Emergono valori delle analisi sballati in seguito a una tac e una biopsia. I risultati vengono girati alla Casa di Cura Pio XI, dove viene formulata la diagnosi di “tumore al polmone con metastasi diffuse agli organi vicini e al cervello”. Purgatori viene quindi dirottato in un’altra clinica dove inizia i cicli di radioterapia.
Il giornalista continua a sentirsi bene e prosegue con il suo lavoro, ma attorno alla metà di maggio inizia a sentirsi stanco e affaticato. Nella prima clinica dove era stato diagnosticato il cancro in fase avanzata gli viene però detto che la terapia funziona e le metastasi si sono ridotte. Il quadro fisico però è in continuo aggravamento, tanto da costringere Purgatori a un nuovo ricovero, sempre a Villa Margherita. E lì c’è una nuova tac, dalla quale emerge un’altra verità clinica: non c’è nessuna metastasi al cervello, soltanto alcune ischemie cerebrali.
Ma nonostante la diagnosi sia completamente diversa da quella che ha portato Purgatori a intraprendere la radioterapia, per i medici è coerente col il quadro clinico del paziente. Una risonanza magnetica eseguita nei giorni successivi esclude la presenza di metastasi. Anche in questo caso l’esito dell’esame è di segno opposto rispetto alla diagnosi iniziale, tanto da volere ripetere nuovamente l’esame”incrociandolo con quello eseguito alla Pio XI, prima di emettere il suo verdetto: non solo le metastasi non ci sono, ma non ci sarebbero mai state”, come aveva ricostruito Il Domani.
Il declino fisico di Purgatori prosegue, tanto da rendere necessario un ricovero all’Umberto I nei primi giorni di luglio. I famigliari, in ospedale, parlano con un radiologo “che in quei momenti concitati si preoccupa di confermare alla famiglia la presenza delle famose metastasi al cervello”. Si tratta di un medico che oltre a lavorare nell’ospedale romano, collaborava con Gualdi alla Pio XI ed “era uno dei firmatari del referto del giorno 8 maggio da cui era partita la diagnosi”. Undici giorni dopo il ricovero, il 19 luglio, Andrea Purgatori muore.
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Gas lacrimogeni sparati dai militari israeliani contro una ruspa dell’esercito libanese e i caschi blu dell’Onu che intervengono per separare le due parti. Uno scontro breve e senza conseguenze immediate, ma sufficiente a far salire la tensione lungo la Linea Blu che segna il confine fra Israele e Libano e precisamente in una zona contesa nei pressi delle fattorie di Shebaa. Si tratta del secondo episodio di scontro fra i due Paesi nel giro di pochi giorni, dopo quello dello scorso 23 settembre.
Del nuovo momento di tensione ha dato notizia lo stesso esercito di Beirut, insieme ai media vicini a Hezbollah, il partito armato sciita libanese. Secondo la loro ricostruzione, una ruspa dell’esercito libanese stava cercando di aprire una strada in una zona contesa della Linea Blu, nell’area di Bastarra, quando si è trovata sotto i colpi dei lacrimogeni, sparati dai militari di Tel Aviv. A quel punto sono intervenuti i Caschi Blu delle Nazioni Unite che sono impegnati lungo la linea di contatto con la missione Unifil. In alcuni video circolanti sui social si vede un attivista di Hezbollah molto vicino ad alcuni soldati israeliani, separati solo da qualche casco blu.
L’area di Bastarra è da settimane sotto i riflettori dei media e della politica dei due Paesi. Hezbollah, infatti, ha piazzato una tenda e due camere di sorveglianza su una collina vicina, in una porzione di territorio che oltrepassa la Linea Blu, mentre da giorni l’esercito libanese tenta di aprirsi una via sterrata per collegare quell’area alla strada asfaltata che conduce alla vicina località di Kfar Shuba.
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Non sarebbe nuovo a certe trovate don Tommaso Izzo, parroco della chiesa Maria Ss Annunziata di Casalnuovo (Napoli), che stasera avrebbe voluto celebrare una messa di suffragio per il boss Matteo Messina Denaro. Messa poi “annullata per prudenza pastorale”, precisa il parroco quando la frittata è ormai fatta: l’annuncio della funzione è sulla pagina Fb della Chiesa da diverse ore e l’ondata di indignazione stava salendo. Intervistato su Radio Marte da Gianni Simioli durante La radiazza, don Tommaso infatti si lascia sfuggire che in passato aveva celebrato una messa per Benito Mussolini “che era stato anche uno stratega”. Il deputato Francesco Borrelli (Verdi-Sinistra) gli ha quasi urlato addosso se non pensava di celebrarne una anche “in memoria di Jack lo Squartatore, potrebbe essere un’idea anche questa”.
Dietro la formula poco comprensibile della “prudenza pastorale” c’era forse in don Tommaso la consapevolezza che la messa in suffragio del boss stragista non si sarebbe comunque celebrata. Perché il sindaco di Casalnuovo, Massimo Pelliccia (Forza Italia), era furibondo: aveva mandato i vigili urbani a controllare e stava per firmare un’ordinanza di divieto. “Ho appreso in mattinata di questa aberrante intenzione e ho allertato il Vescovo di Acerra di questa follia. Mai e poi mai avrei consentito che nella città da me amministrata si celebrasse una messa per un mafioso mandante ed esecutore di crimini atroci”. E non finisce qui: “Continueremo a vigilare sulle attività di questo parroco e chiederemo al Vescovado di adottare gli opportuni provvedimenti”.
Pare che a sollecitare la funzione per Messina Denaro sia stato un fedele della parrocchia. “L’aveva chiesta un fedele, l’aveva segnata un mio collaboratore, ma poi ho annullato. Non sono stato io a pubblicizzare la messa su facebook ma un collaboratore. Chiunque può chiedere di pregare per qualche defunto. Se mi chiedono una messa io la segno e la celebro”, queste le risposte di don Tommaso al cronista dell’Ansa. Sarebbe interessante presentarsi in parrocchia e fare qualche esperimento in proposito.
Un’ora dopo la pubblicazione del post sulla pagina social della parrocchia, il deputato Borrelli ha diffuso un comunicato durissimo parlando di “adorazione del male” e di “offesa a migliaia di vittime della criminalità”. A ruota è intervenuta su X la presidente della commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo: “Voglio stigmatizzare con forza quanto accaduto nella chiesa di Casalnuovo di Napoli, dove si stava per celebrare una messa in suffragio di Matteo Messina Denaro. Un’iniziativa raccapricciante in contrasto con il processo di scomunica che la chiesa ha avviato per i mafiosi e che merita la condanna incondizionata di tutti quelli che credono nello Stato. Questo è un monito a non abbassare mai la guardia su legalità e giustizia”.
Alla fine, sempre sulla stessa pagina Fb, il parroco ha chiesto “scusa per l’accaduto”. Per diversi commentatori le scuse non bastano ed è alta la percentuale di chi chiede l’allontanamento di don Tommaso. Tra tutti segnaliamo il commento di Ivano: “Ripassati il Vangelo”. Ma c’è anche chi lo difende, come Anna: “Lei non deve chiedere niente scuse a nessuno, noi siamo liberi cittadini facciamo e diciamo quello che ci fa comodo, liberi di partecipare o meno alla celebrazione, ma non di giudicare l’operato di un parroco. Don Tommaso è un grande uomo e grande prete, di pace e di perdono, e sono sicura che l’ha fatto non per dare il perdono, ma semplicemente perché la visione di un prete è diversa dalla nostra”. Chissà, forse la riflessione di Simioli in diretta radio non era da buttare. “Io a quel punto la messa non l’avrei annullata, l’avrei fatta e avrei visto quante persone di Casalnuovo arrivavano. Sarebbe stato un esperimento sociale”. Don Tommaso gli ha quasi dato ragione: “Anche questo è vero, lo terrò presente in futuro”.
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