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Lettera aperta dell'economista statunitense Jeffrey Sachs al Cancelliere tedesco Merz, pubblicata sul quotidiano Berliner Zeitung
Cancelliere Merz,
Ha parlato più volte della responsabilità della Germania per la sicurezza europea. Questa responsabilità non può essere assolta attraverso slogan, memoria selettiva o la costante normalizzazione del linguaggio bellico. Le garanzie di sicurezza non sono strumenti a senso unico. Vanno in entrambe le direzioni. Non si tratta di un argomento russo, né statunitense; è un principio fondante della sicurezza europea, esplicitamente sancito dall'Atto finale di Helsinki, dal quadro dell'OSCE e da decenni di diplomazia postbellica.
La Germania ha il dovere di affrontare questo momento con serietà e onestà storica. Su questo punto, la retorica e le scelte politiche recenti risultano pericolosamente carenti.
Dal 1990, le preoccupazioni di sicurezza fondamentali della Russia sono state ripetutamente ignorate, ridimensionate o violate direttamente, spesso con la partecipazione attiva o l'acquiescenza della Germania. Questo registro storico non può essere ignorato se si vuole porre fine alla guerra in Ucraina, e non può essere ignorato se l'Europa vuole evitare uno stato di confronto permanente.
Alla fine della Guerra Fredda, la Germania diede ai leader sovietici e poi russi ripetute ed esplicite assicurazioni che la NATO non si sarebbe espansa verso est. Queste garanzie furono fornite nel contesto della riunificazione tedesca. La Germania ne beneficiò enormemente. La rapida unificazione del vostro paese, all'interno della NATO, non sarebbe avvenuta senza il consenso sovietico fondato su quegli impegni. Pretendere in seguito che quelle assicurazioni non abbiano mai avuto importanza, o che fossero mere osservazioni casuali, non è realismo. È revisionismo storico.
Nel 1999, la Germania partecipò al bombardamento della Serbia da parte della NATO, il primo grande conflitto condotto dalla NATO senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questa non fu un'azione difensiva. Fu un intervento che creò un precedente e che alterò radicalmente l'ordine di sicurezza post-Guerra Fredda. Per la Russia, la Serbia non era un'astrazione. Il messaggio fu inequivocabile: la NATO avrebbe usato la forza al di fuori del suo territorio, senza l'approvazione dell'ONU e senza tener conto delle obiezioni russe.
Nel 2002, gli Stati Uniti si ritirarono unilateralmente dal Trattato Anti Missili Balistici, una pietra angolare della stabilità strategica per trent'anni. La Germania non sollevò serie obiezioni. Eppure, l'erosione dell'architettura di controllo degli armamenti non avvenne nel vuoto. I sistemi di difesa missilistica schierati più vicino ai confini della Russia furono giustamente percepiti dalla Russia come destabilizzanti. Liquidare quelle percezioni come paranoia fu propaganda politica, non solida diplomazia.
Nel 2008, la Germania riconobbe l'indipendenza del Kosovo, nonostante espliciti avvertimenti che questo avrebbe minato il principio dell'integrità territoriale e stabilito un precedente che si sarebbe ripercorso altrove. Ancora una volta, le obiezioni della Russia furono accantonate come malafede, piuttosto che affrontate come serie preoccupazioni strategiche.
La spinta costante ad espandere la NATO verso Ucraina e Georgia - dichiarata formalmente al Vertice di Bucarest del 2008 - oltrepassò la più netta delle linee rosse, nonostante le veementi, chiare, coerenti e ripetute obiezioni sollevate da Mosca per anni. Quando una grande potenza identifica un interesse di sicurezza fondamentale e lo ribadisce per decenni, ignorarlo non è diplomazia. È un'escalation intenzionale.
Il ruolo della Germania in Ucraina dal 2014 è particolarmente preoccupante. Berlino, insieme a Parigi e Varsavia, mediò l'accordo del 21 febbraio 2014 tra il presidente Yanukovych e l'opposizione: un accordo destinato a fermare la violenza e preservare l'ordine costituzionale. In poche ore, quell'accordo crollò. Seguì un rovesciamento violento. Un nuovo governo emerse attraverso mezzi extra-costituzionali. La Germania riconobbe e sostenne immediatamente il nuovo regime. L'accordo di cui la Germania era garante fu abbandonato senza conseguenze.
L'accordo di Minsk II del 2015 avrebbe dovuto essere il correttivo, una cornice negoziale per porre fine alla guerra nell'Ucraina orientale. La Germania ne fu nuovamente garante. Eppure, per sette anni, Minsk II non fu implementato dall'Ucraina. Kiev rifiutò apertamente le sue disposizioni politiche. La Germania non le fece rispettare. Ex leader tedeschi ed europei hanno successivamente riconosciuto che Minsk fu trattato più come un'azione dilatoria che come un piano di pace. Questa sola ammissione dovrebbe imporre un esame di coscienza.
In questo contesto, le richieste di sempre più armi, di una retorica sempre più dura e di una "risolutezza" sempre maggiore suonano vuote. Chiedono all'Europa di dimenticare il passato recente per giustificare un futuro di confronto permanente.
Basta con la propaganda. Basta con l'infantilizzazione morale del pubblico. Gli europei sono pienamente capaci di comprendere che i dilemmi di sicurezza sono reali, che le azioni della NATO hanno conseguenze e che la pace non si raggiunge fingendo che le preoccupazioni di sicurezza della Russia non esistano.
La sicurezza europea è indivisibile. Questo principio significa che nessun paese può rafforzare la propria sicurezza a spese di un altro senza provocare instabilità. Significa anche che la diplomazia non è appeasement, e che l'onestà storica non è tradimento.
La Germania una volta lo comprendeva. L'Ostpolitik non era debolezza; era maturità strategica. Riconosceva che la stabilità dell'Europa dipende dal coinvolgimento, dal controllo degli armamenti, dai legami economici e dal rispetto dei legittimi interessi di sicurezza della Russia.
Oggi, la Germania ha nuovamente bisogno di quella maturità. Smettetela di parlare come se la guerra fosse inevitabile o virtuosa. Smettetela di delegare il pensiero strategico ai punti di discussione dell'alleanza. Impegnatevi seriamente nella diplomazia, non come un esercizio di pubbliche relazioni, ma come un sincero sforzo per ricostruire un'architettura di sicurezza europea che includa, anziché escludere, la Russia.
Un'architettura di sicurezza europea rinnovata deve iniziare con chiarezza e moderazione. Primo, richiede una fine inequivocabile dell'allargamento della NATO verso est: verso l'Ucraina, la Georgia e qualsiasi altro Stato lungo i confini della Russia.
L'espansione della NATO non era una caratteristica inevitabile dell'ordine post-Guerra Fredda; era una scelta politica, intrapresa violando le solenni assicurazioni date nel 1990 e perseguita nonostante ripetuti avvertimenti che avrebbe destabilizzato l'Europa.
La sicurezza in Ucraina non verrà dallo schieramento in avanguardia di truppe tedesche, francesi o di altri paesi europei, il che non farebbe che radicare la divisione e prolungare la guerra. Verrà attraverso la neutralità, sostenuta da garanzie internazionali credibili. Il registro storico è inequivocabile: né l'Unione Sovietica né la Federazione Russa violarono la sovranità degli Stati neutrali nell'ordine postbellico, né la Finlandia, né l'Austria, né la Svezia, né la Svizzera, né altri. La neutralità funzionò perché affrontava i legittimi interessi di sicurezza di tutte le parti. Non c'è alcun motivo serio per fingere che non possa funzionare di nuovo.
Secondo, la stabilità richiede smilitarizzazione e reciprocità. Le forze russe dovrebbero essere tenute lontane dai confini della NATO, e le forze della NATO - compresi i sistemi missilistici - devono essere tenute lontane dai confini della Russia. La sicurezza è indivisibile, non unilaterale. Le regioni di confine dovrebbero essere smilitarizzate attraverso accordi verificabili, non saturate di sempre più armi.
Le sanzioni dovrebbero essere revocate nell'ambito di un accordo negoziato; non sono riuscite a portare la pace e hanno inflitto gravi danni all'economia europea stessa.
La Germania, in particolare, dovrebbe rifiutare la sconsiderata confisca degli asset di Stato russi: una flagrante violazione del diritto internazionale che mina la fiducia nel sistema finanziario globale. Rilanciare l'industria tedesca attraverso scambi commerciali legali e negoziati con la Russia non è una capitolazione. È realismo economico. L'Europa non dovrebbe distruggere la propria base produttiva in nome di una postura morale.
Infine, l'Europa deve tornare alle basi istituzionali della propria sicurezza. L'OSCE - non la NATO - dovrebbe nuovamente servire come principale forum per la sicurezza europea, la creazione di fiducia e il controllo degli armamenti. L'autonomia strategica per l'Europa significa proprio questo: un ordine di sicurezza europeo plasmato dagli interessi europei, non una permanente subordinazione all'espansionismo della NATO.
La Francia potrebbe giustamente estendere il suo deterrente nucleare come ombrello di sicurezza europeo, ma solo in una postura strettamente difensiva, senza sistemi schierati in avanguardia che minaccino la Russia.
L'Europa dovrebbe premere con urgenza per un ritorno al quadro INF e per negoziati globali di controllo degli armamenti nucleari strategici che coinvolgano Stati Uniti e Russia e, in futuro, la Cina.
Più importante di tutto, Cancelliere Merz, studi la storia, e sia onesto al riguardo. Senza onestà, non può esserci fiducia. Senza fiducia, non può esserci sicurezza. E senza diplomazia, l'Europa rischia di ripetere le catastrofi dalle quali dichiara di aver imparato.
La storia giudicherà quelloò che la Germania sceglie di ricordare - e ciò che sceglie di dimenticare. Questa volta, lasci che la Germania scelga la diplomazia e la pace, e mantenga la parola data.
Con rispetto,
Jeffrey D. Sachs
Professore universitario
Columbia University
Stati Uniti, Israele e Emirati Arabi Uniti starebbero discutendo la possibilità di utilizzare i profitti derivanti dalle forniture di gas offshore di Gaza per contribuire a finanziare la ricostruzione dell'enclave distrutta dal genocidio in corso. A scriverlo è Middle East Eye che cita come fonte un ex funzionario occidentale, un attuale funzionario occidentale e uno arabo.
Le discussioni hanno assunto varie forme, ma una di queste prevede che la "Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc) acquisisca una partecipazione nei giacimenti di gas non sviluppati di Gaza e che tali fondi contribuiscano alla ricostruzione di Gaza", hanno riferito le fonti a MEE.
I colloqui sono preliminari e, come gran parte della pianificazione postbellica per Gaza che gli Stati Uniti hanno guidato, anche prima della firma del cessate il fuoco in ottobre, non sono stati presi impegni vincolanti, hanno detto le fonti.
Ma l'ex funzionario occidentale ha detto a MEE che l'idea di monetizzare il gas di Gaza per la ricostruzione è riemersa a dicembre.
Il gas è stato scoperto nel giacimento marino di Gaza nel 2000. I diritti di sfruttamento del gas sono condivisi tra due entità: il Palestine Investment Forum, che è il fondo sovrano dell'Autorità Palestinese, e la Consolidated Contractors Company, un conglomerato edile ed energetico di proprietà di una famiglia della diaspora palestinese con sede in Grecia.
Circa il 45% dei diritti è riservato anche a un partner internazionale. L'Egitto aveva preso in considerazione l'idea di acquisire una partecipazione prima dell'attacco guidato da Hamas del 7 ottobre 2023 contro il sud di Israele e della successiva guerra nell'enclave, che è stata riconosciuta come genocidio dalle Nazioni Unite. “Il progetto è molto redditizio dal punto di vista commerciale”, ha dichiarato a MEE Michael Barron, esperto di gas del Mediterraneo orientale e autore di The Gaza Marine Story, un libro sulla ricchezza di Gaza. “Questa è la risorsa naturale più preziosa dei palestinesi al momento. Il suo sviluppo contribuirebbe alla ricostruzione”, ha affermato.
L'ONU stima che il costo totale della ricostruzione di Gaza sia sostanzialmente più alto, arrivando a 70 miliardi di dollari. Ma gli Usa pensano solo alla ricostruzione di una parte. L'ex funzionario occidentale ha dichiarato di aver parlato con diplomatici di alto rango provenienti dall'Egitto e dagli Stati del Golfo, compresi gli Emirati Arabi Uniti, tutti contrari a contribuire al piano che lascerebbe Gaza divisa.
Il piano di Trump di schierare una forza internazionale a Gaza è in fase di stallo perché gli Stati arabi e musulmani, che dovrebbero contribuire con le truppe, temono di rimanere intrappolati tra Hamas, che non ha deposto le armi, e i soldati israeliani, trincerati nella metà di Gaza. Tuttavia, l'attuale funzionario occidentale ha affermato che le discussioni sulla monetizzazione delle risorse di gas di Gaza stanno ancora procedendo. “C'è stata una discussione più ampia sul collegamento del gas di Gaza alla rete dei giacimenti del Mediterraneo orientale”, ha detto il funzionario.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno mostrato interesse per il gas del Mediterraneo orientale. Adnoc e BP hanno rinunciato ad acquisire una partecipazione di 2 miliardi di dollari nella società israeliana NewMed Energy nel 2024 a causa della guerra a Gaza. NewMed detiene una partecipazione del 45% nel Leviathan, il più grande giacimento di gas di Israele, e del 30% nell'Aphrodite, un giacimento situato al largo delle coste di Cipro.
Altri diplomatici e funzionari regionali che hanno parlato con MEE si aspettano che gli Emirati Arabi Uniti svolgano un ruolo più importante a Gaza rispetto ai loro vicini del Golfo. Qatar ha annunciato che non finanzierà la ricostruione e l'Arabia Saudita è rimasta sul vago. Il principe ereditario Mohammed bin Salman non ha promesso alcun finanziamento a Gaza durante un incontro con Trump nello Studio Ovale a novembre. “Nessuno vuole sborsare soldi per questa ricostruzione”, ha detto il funzionario occidentale. “Ma investire in risorse naturali, per un paese come gli Emirati Arabi Uniti, potrebbe essere un modo per fare qualcosa”.
Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 16:00:00 GMT
Mentre l'Unione Europea si riempie di slogan ma zero risultati, Pechino è oggi il motore strutturale della transizione energetica globale.
Nel nuovo video editoriale in esclusiva per l'AntiDiplomatico, il prof. Fabio Massimo Parenti, parte da alcuni dati concreti: Pechino ha installato nel 2024 il 64% della nuova capacità rinnovabile mondiale, raggiungendo gli obiettivi 2030 con 6 anni di anticipo e facendo crollare la quota del carbone nel mix elettrico al 51% (minimo storico). La transizione cinese è sistemica: produce la maggioranza di pannelli solari, turbine eoliche e batterie globali, detenendo il 75% dei brevetti green.
Come ha fatto a vincere la gara alla transizione energetica con l'UE?
In questo video molte risposte:
Di Huang Xiaohui, Quotidiano del Popolo
Mentre l'inverno avvolge il Giardino Botanico Chenshan di Shanghai, il paesaggio vibrante nasconde un'importante conquista scientifica: una "camera di conservazione della vita" di 30 metri quadrati, ovvero la banca dei semi del Centro Nazionale per le Risorse di Germoplasma delle Piante Selvatiche del Giardino Botanico di Chenshan (di seguito denominato Centro Chenshan).
Il Centro ha recentemente annunciato un risultato significativo: conserva ora oltre 100 milioni di semi, rappresentanti 1.950 specie di piante selvatiche appartenenti a 159 famiglie e 785 generi, tra cui 323 specie endemiche della Cina e 68 specie rare e in via di estinzione.
Preservare la ricchezza genetica
"Questo traguardo riflette la creazione di una rete di raccolta e di un sistema di collaborazione completi, che ci consentono di preservare vaste risorse genetiche essenziali per il futuro ripristino, la rivitalizzazione e la ricerca scientifica delle specie", ha dichiarato Ge Binjie, curatore dell'Erbario Chenshan di Shanghai. "Questi semi sono la nostra 'assicurazione sulla vita' per il futuro".
La creazione di un simile deposito di semi è fondamentale, dato che la biodiversità globale si trova ad affrontare minacce crescenti. "L'estinzione comporta la perdita irreversibile di risorse genetiche uniche, potenzialmente fondamentali per future soluzioni mediche o ambientali", ha spiegato Ge.
La maggior parte dei semi viene sottoposta a essiccazione e conservazione a basse temperature per una conservazione a lungo termine. Le banche del germoplasma ex situ, come il Centro Chenshan, integrano le strategie di conservazione in situ, offrendo una migliore salvaguardia della biodiversità.
"Quando le popolazioni selvatiche diminuiscono o scompaiono, questi semi 'dormienti', meticolosamente catalogati, possono essere riattivati", ha affermato Zhong Xin, direttore del Centro Chenshan. Il germoplasma selvatico è fondamentale anche per la ricerca scientifica, dalla scoperta di farmaci antitumorali allo sviluppo di geni resistenti allo stress e varietà tolleranti alla salinità.
"Questi semi sono il risultato di otto anni di lavoro sul campo svolto dai nostri team, che hanno attraversato 17 province, 45 prefetture e 100 contee", ha osservato Ge. La creazione di una banca dei semi inizia con un rigoroso lavoro sul campo per raccogliere campioni di piante in territori remoti e spesso impervi.
Nell'estate del 2023, nel cuore delle foreste primordiali del comune di Yigong, nella Regione Autonoma dello Xizang, sud-ovest della Cina, Zhong e i suoi colleghi si sono arrampicati su un cipresso tibetano alto 101,2 metri per raccogliere semi e documentare le epifite che prosperano sulla sua chioma.
Sospeso sopra il suolo della foresta, Zhong ha descritto il suo stupore: "La paura ha lasciato il posto al fascino mentre osservavamo i micro-ecosistemi formati da orchidee, muschi e licheni: ogni strato di corteccia rivelava un mondo unico". La missione ha fruttato quasi 5.000 semi di cipresso tibetano.
Dalla raccolta alla conservazione
All'arrivo al Centro Chenshan, i semi vengono sottoposti a un meticoloso processo. I tecnici li puliscono, li asciugano, li contano e ne testano la vitalità. Vengono inoltre raccolti dati dettagliati, tra cui campioni pressati, dati sul campo, campioni di DNA e fotografie, per garantire un'identificazione e una tracciabilità precise.
I semi che soddisfano gli standard richiesti vengono quindi sigillati in contenitori di vetro o in speciali bustine di alluminio. A ciascuno viene assegnato un "passaporto" di identificazione univoco con codice QR prima di essere riposto in celle frigorifere sicure mantenute a meno 20 gradi Celsius. In queste condizioni di bassa temperatura, secche e attentamente controllate, i semi entrano in uno stato di animazione sospesa, in grado di rimanere vitali per decenni, potenzialmente anche per secoli.
Tuttavia, la conservazione a lungo termine non è l'obiettivo finale. Il Centro Chenshan mira a riattivare questi campioni dormienti per supportare la ricerca in ecologia dei semi, genetica delle popolazioni e biologia della conservazione, contribuendo alla protezione a lungo termine della biodiversità.
In un vivaio specializzato all'interno del Giardino Botanico Chenshan di Shanghai, mantenuto a una temperatura di circa 20 gradi Celsius, i ricercatori stanno coltivando un lotto di semi particolarmente prezioso, tornato dallo spazio a bordo del razzo Long March-2D.
La coltivazione spaziale sfrutta l'ambiente unico dello spazio per indurre variazioni genetiche, con il potenziale di sviluppare nuove varietà con caratteristiche migliorate. I semi inviati dal Centro Chenshan si concentrano su specie ornamentali e medicinali come l'ortensia, la salvia e la Salvia miltiorrhiza.
"Se la coltivazione spaziale riuscisse a prolungare il periodo di fioritura e a migliorare la resistenza allo stress delle ortensie, offrirebbe nuove possibilità per l'architettura del paesaggio urbano. Per le piante medicinali come la Salvia miltiorrhiza e la Leonurus cardiaca, nuove varietà con concentrazioni più elevate di composti attivi potrebbero supportare lo sviluppo di trattamenti per le malattie cardiovascolari e cerebrovascolari", ha affermato Zhong.
Oggi, le risorse di germoplasma del Centro Chenshan sono a disposizione delle istituzioni di tutto il Paese. Ogni anno, numerose istituzioni di ricerca richiedono semi e campioni di DNA per supportare studi di sistematica vegetale, biogeografia e conservazione ex situ.
Oltre alla ricerca, queste risorse genetiche svolgono un ruolo importante nel ripristino ecologico, nella riqualificazione delle zone umide e nel miglioramento della biodiversità urbana. Ad esempio, la Salvia zhangjiajieensis, una specie recentemente identificata dai ricercatori di Chenshan nel 2019, è stata propagata con successo a partire da semi conservati, sia per il recupero delle popolazioni selvatiche che per applicazioni orticole.

Un membro dello staff del Centro Chenshan ripone i semi in una cella frigorifera.

I membri dello staff del Centro Chenshan raccolgono semi in tutta la Cina.

Scaffali in una cella frigorifera per la conservazione dei semi presso il Centro Chenshan.
(Foto fornite dal Giardino Botanico Chenshan di Shanghai)
Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 14:00:00 GMT
di Li Rui, Quotidiano del Popolo
La Cina ha recentemente lanciato nello spazio un razzo vettore Gravity-1 dalle acque al largo della costa di Haiyang, nella provincia dello Shandong, nella Cina orientale, posizionando tre satelliti nelle loro orbite designate. Questo lancio esemplifica il crescente slancio del nascente settore spaziale commerciale cinese, che sta contribuendo in modo significativo alle capacità di esplorazione spaziale del Paese.
La competizione globale nel settore dei voli spaziali commerciali si sta intensificando. Secondo le proiezioni, il mercato spaziale commerciale cinese dovrebbe superare i 2.500 miliardi di yuan (351,76 miliardi di dollari) quest'anno. Attraverso una collaborazione strategica tra governo e imprese private, la Cina sta realizzando una sinergia dinamica che accelera i progressi tecnologici, riduce i costi ed espande la gamma di applicazioni nel settore spaziale. Di conseguenza, l'industria spaziale cinese sta acquisendo maggiore visibilità e dinamismo sulla scena globale.
Lo sviluppo delle "infrastrutture spaziali" cinesi sta procedendo a ritmo sostenuto, soprattutto ora che il dispiegamento delle reti internet satellitari a bassa orbita è entrato in una fase di espansione su larga scala. Tuttavia, il Paese si trova ad affrontare una sfida importante: la domanda di lanci satellitari supera la capacità disponibile dei razzi tradizionali. Affidarsi esclusivamente ai razzi tradizionali è lungi dall'essere sufficiente a soddisfare queste crescenti esigenze.
In questo contesto, lo sviluppo di iniziative spaziali commerciali è essenziale per fornire la capacità di lancio necessaria per l'ampia diffusione delle reti spaziali. Quest'anno, una nuova generazione di razzi commerciali, tra cui Zhuque-3, Tianlong-3 e Gravity-2, sta procedendo con attività di progettazione, test e lancio. Questi nuovi vettori di lancio allevieranno efficacemente la pressione sulle risorse per il lancio di satelliti e rafforzeranno lo sviluppo dell'infrastruttura nazionale cinese per internet satellitare.
I voli spaziali commerciali non solo aumentano la frequenza delle opportunità di lancio, ma aprono anche a una gamma più ampia di possibilità tecnologiche. A differenza delle imprese spaziali statali, le aziende commerciali private sono più agili e flessibili.
Ad esempio, il motore a metano e ossigeno liquido sviluppato in modo indipendente dall'azienda cinese LandSpace ha attirato l'attenzione globale per la sua economicità, la propulsione pulita e la riutilizzabilità. Allo stesso modo, l'azienda aerospaziale cinese Galactic Energy ha ridotto significativamente i costi di produzione dei motori per razzi grazie alla stampa 3D.
Grazie a meccanismi di mercato e a un modello basato su "piccoli passi e rapide iterazioni", le imprese spaziali commerciali hanno conquistato il favore di numerose istituzioni di ricerca. Queste aziende rappresentano un valido complemento alle organizzazioni spaziali statali, contribuendo ulteriormente al progresso delle capacità di esplorazione spaziale della Cina.
Come settore dinamico che guida il futuro dell'innovazione tecnologica, i voli spaziali commerciali possiedono un vasto potenziale di mercato. Più di 10 province in tutta la Cina hanno introdotto politiche specifiche a sostegno dello sviluppo del settore spaziale commerciale, favorendo la nascita di numerose aziende specializzate e innovative focalizzate sullo sviluppo di razzi e sulla produzione di satelliti. Queste iniziative hanno portato alla creazione di cluster industriali e a un ecosistema di "economia spaziale" in rapida espansione.
Ad esempio, Beijing sta sviluppando un polo industriale regionale con la produzione di razzi nel sud e la produzione di satelliti nel nord, mentre Shanghai mira a espandere il suo settore spaziale fino a raggiungere un valore di centinaia di miliardi di yuan. Inoltre, il parco industriale aerospaziale di Wuxi, nella provincia del Jiangsu, nella Cina orientale, ha riunito oltre 120 imprese di grandi dimensioni, alimentando la crescita e l'innovazione.
Con il passaggio del settore spaziale commerciale da iniziative isolate a uno sviluppo più integrato e concentrato, si sta delineando un ecosistema industriale autonomo, resiliente e competitivo, che sta diventando un importante motore di crescita economica e progresso tecnologico nel settore spaziale.
Oggi, i voli spaziali commerciali non solo servono missioni nazionali, ma stanno anche ampliando la loro innovazione per soddisfare le esigenze quotidiane. Applicazioni come il telerilevamento satellitare consentono agli agricoltori di gestire i sistemi di irrigazione tramite telefono cellulare, mentre Internet via satellite fornisce accesso a banda larga alle aree remote, comprese montagne e oceani. Inoltre, i sistemi di trasporto intelligenti basati su satelliti stanno ottimizzando la temporizzazione dei semafori per ridurre la congestione del traffico.
Queste innovazioni evidenziano come la tecnologia spaziale, un tempo percepita come distante ed esclusiva, stia ora diventando parte integrante della vita di tutti i giorni, migliorando le comunicazioni, supportando l'agricoltura, migliorando la mobilità e fornendo vantaggi concreti alla popolazione.
Il settore dei voli spaziali commerciali rappresenta una vasta frontiera di opportunità. Non è solo un ambito scientifico per l'esplorazione dell'ignoto, ma anche un settore economico in forte espansione con un potenziale illimitato per il futuro.

Tecnici assemblano un motore a razzo a ossigeno liquido e metano presso lo stabilimento di assemblaggio generale dell'azienda cinese di razzi commerciali LandSpace a Huzhou, nella provincia del Zhejiang, Cina orientale. (Foto/Huang Yangyang)

Parco industriale per il settore aerospaziale a Bengbu, nella provincia dell’Anhui, Cina orientale. (23 aprile 2025 - Foto/Huang Yangyang)

Un razzo vettore Gravity-1, con a bordo un satellite a largo campo visivo e due satelliti sperimentali, decolla dalle acque al largo di Haiyang, nella provincia dello Shandong, Cina orientale. (11 ottobre 2025 - Foto/Wang Yueguo)
Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 14:00:00 GMT
di Alessandro Volpi
di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2025
Prima che il Consiglio Europeo, si spera senza il consenso del nostro governo, distrugga definitivamente l’economia dell’Europa rapinando gli asset russi (che, come dice la parola, appartengono ai russi) ed esponendo non solo gli Stati, ma lo stesso Euro a un disastro epocale, è bene ricordare alcune cosucce che dopo quattro anni di auto-propaganda ibrida tendiamo a dimenticare. L’Ucraina è stata invasa dalla Russia nel 2022, come purtroppo è accaduto a decine di Paesi (spesso a opera di noi occidentali) a cui non abbiamo mai inviato neppure una cerbottana. Ma non fa parte né dell’Ue né della Nato. Quindi, al di là del doveroso sentimento di umana solidarietà, che però può esprimersi in mille modi, Ue e Nato non devono a Kiev un solo euro o un fucile a tappo. L’invasione è un atto criminale, ma è legata a fattori storici interni all’Ucraina e non è un attacco né all’Ue né alla Nato. I Paesi che vogliono armare Kiev sono liberissimi, fuorché l’Italia, che “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: era dubbio che potesse farlo quando scattò l’invasione senza negoziati; è sicuro che non potesse dopo il sabotaggio dei negoziati di Istanbul; è sicurissimo che non può oggi, in presenza di un piano di pace americano che proprio a suon di armi si vuole boicottare, per risolvere la controversia internazionale con la guerra infinita.
Ora, siccome i governi Ue hanno svuotato le loro casse e i loro arsenali per l’Ucraina non alleata, non sanno più dove trovare i soldi per comprare le armi (americane) da regalare a Kiev (un governo così amico che dal 2022 fa di tutto per trascinarci nella terza guerra mondiale e ci ha fatto pure saltare i gasdotti Nord Stream). Quindi vogliono attingere dai 290 miliardi di asset russi congelati nelle banche come se fossero roba loro, senza neppure peritarsi di dimostrare che i legittimi proprietari sono complici delle scelte di Putin. Ma sanno benissimo di violare il diritto internazionale: infatti temono di perdere l’arbitrato, cioè di dover restituire il maltolto e pagare pure i danni; di vedersi sequestrare le aziende europee operanti in Russia; di mettere in fuga (negli Usa: e dove se no?) gli altri investitori stranieri; e di trasformare le nostre banche in luoghi radioattivi dove nessuno deposita più un quattrino, temendo di vederselo sgraffignare perché il suo governo non piace ai nostri. Il tutto per aiutare un Paese non alleato a perdere la guerra, cioè altri territori, altri militari e altri civili per qualche altro mese o anno.
Se esistesse un neuropsichiatra all’altezza di questi dementi, bisognerebbe affidarglieli in blocco. Ma purtroppo non esiste. Non resta che sperare che si autodistruggano con le proprie mani mentre tentano di distruggerci.
Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 12:00:00 GMT
POLITICO offre oggi un quadro su quello che i paesi membri dell'UE pagheranno complessivamente per i prossimi aiuti all'Ucraina. Dopo il disimpegno totale degli Stati Uniti e la corruzione dilagante tra gli oligarchi del regime di Kiev era cresciuta la pressione intorno alla Commissione e gli stati membri. Il no categorico del Belgio alla rapina degli asset russi - che avrebbe messo in discussione la tenuta stessa del governo di De Wever per l'esposizione con Euroclear dei fondi russi - la decisione è stata quella di un debito comune, con il sostegno del bilancio UE, per 90 miliardi partorito all'ultimo momento durante il Consiglio conclusosi venerdì mattina. Tre paesi - Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca - si sono tirati fuori ma non interferiranno sulla possibilità di farlo per gli altri 24 membri. Si tratta, del resto, di un piccolo palliativo data la corruzione fuori controllo nel paese che ha generato un deficit complessivo al momento di 71,7 miliardi di euro il prossimo anno.
Secondo alti funzionari della Commissione europea ascoltati da Politico, i contribuenti dell'UE dovranno pagare 3 miliardi di euro all'anno in costi di finanziamento nell'ambito del piano di debito comune per finanziare la difesa dell'Ucraina contro la Russia. "Molte delle caratteristiche distintive del pacchetto di finanziamento da 210 miliardi di euro per l'Ucraina saranno trasferite al nuovo piano per il debito comune. Queste includono strutture di pagamento a tranche, misure anticorruzione e una bozza di quanto denaro dovrebbe essere speso per l'esercito di Kiev e le esigenze di bilancio del Paese", scrive POLITICO.
Il nuovo piano fornirebbe all'Ucraina 45 miliardi di euro l'anno prossimo e 45 nel 2027. "Il nuovo piano non sarà economico", prosegue POLITICO, sottolineanco come l'UE dovrebbe pagare 3 miliardi di euro all'anno di interessi dal 2028 attraverso il suo bilancio settennale, finanziato in gran parte dai governi dell'UE. Il pagamento degli interessi inizierebbe nel 2027 "ma costerebbe solo 1 miliardo di euro quell'anno", hanno sottolineato i funzionari.
L'Ucraina dovrà rimborsare il prestito solo quando la Russia porrà fine alla guerra e pagherà i risarcimenti di guerra. Un'ipotesi al momento del tutto irrealizzabile e che rende concreta l'idea che questo prestito dagli interessi esorbitanti dreneranno ulteriori risorse da sanità, istruzione e diritti sociali per allungare di pochi mesi la corruzione nel regime di Kiev.
LEGGI: COME UN URSULA QUALUNQUE....
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Non essendo in grado, per loro natura, di muoversi da soli, i “lattonzoli” delle cancellerie europee, autentici cuccioli ciechi privi di orientamento proprio, con stridule grida di esseri appena generati dalla femmina del suino vanno al seguito dei passi del complesso militare-industriale e così, ora, hanno stabilito che le masse popolari europee non siano state ancora sufficientemente spolpate e che, per dare ancora più fondi di guerra al regime nazigolpista di Kiev, si dovessero stanziare ulteriori 90 miliardi di euro sui mercati di capitali, ossia con l’emissione di debito comune, garantito dal bilancio europeo. Cioè: rubare ancora miliardi alla spesa sociale e gettarli nel tritacarne del proseguimento della guerra: non sia mai che i flebili tentativi di concludere qualcosa di simile a una pace rischino di andare in porto.
«La spesa per dotarsi di efficaci strumenti che garantiscano la difesa collettiva è sempre stata comprensibilmente poco popolare», ha detto con falsa ironia il presidente della repubblica italiana, più o meno nelle stesse ore in cui a Bruxelles ci si rotolava nel porcilaio della rapina ai danni delle masse e dei lavoratori; ma quella rapina «ora è necessaria», ha detto ancora Mattarella. Peccato che, parlando del «dovere di coltivare e consolidare ogni piccolo spiraglio che si apra rispetto ai conflitti in corso, in Ucraina come in Medio Oriente», Sergio Mattarella chiuda gli occhi sulla semplice constatazione per cui le spese di guerra, come sono state decise e ampliate, non contribuiscano affatto, come lui sembra ritenere, a «quella “pace permanente”, come la definì il presidente Franklin D. Roosevelt che affermava: “Più che una fine della guerra vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre”».
Dette da chi osanna quotidianamente “virtù” e “santità” di un ordine sociale che ha a fondamento lo sfruttamento del lavoro salariato per l'accaparramento del profitto privato e come clausola aggiuntiva la rapina della spesa sociale ai danni degli strati più deboli, proprio per alimentare le guerre, quelle non sono altro che ipocrite assicurazioni di catechistico liberalismo. All'origine delle guerre tra forze e soggetti borghesi c'è per l'appunto la sete di profitto del capitale e, finché quello capitalistico continuerà a essere l'ordinamento dominante, sarà impossibile eliminare le cause delle guerre di rapina. C'è guerra e guerra: ci sono le guerre rivoluzionarie dei popoli in lotta per la propria liberazione dall'oppressione imperialista; ma, parlare di guerra in generale, come fa il signor Mattarella, anche citando Roosevelt, non fa che confermare l'ipocrisia della visione borghese di una guerra scoppiata per caso e di contendenti tutti propensi farisaicamente alla pace, senza che si eliminino le cause che hanno portato alla guerra e che rendono le guerre inevitabili sotto il regime capitalista.
Ma di ciò basta. Tanto più che, immediatamente a ruota degli striduli grugniti dei “lattonzoli” sull'accordo raggiunto per le decine di miliardi con cui foraggiare i nazigolpisti ucraini, gli indefessi “figli della lupa” delle redazioni guerrafondaie si sono messi a guaire che questo non basta. Novanta miliardi son pochi. Come a voler ribadire il concetto a loro caro, pur se tenuto in sordina, di una guerra che va continuata fino all'ultimo ucraino da poter mandare al macello, i gaglioffi del Corriere della Sera, stizziti per il no del Consiglio europeo alla rapina dei fondi russi congelati, parlano di una «occasione persa nella guerra e nella politica globale».
Le loro manie belliciste non sono mai state troppo velate, ma finora si era avuto almeno un po' di ritegno a parlare della guerra come di una “occasione persa”. Sì, perché inneggiare a un'ulteriore rapina di soldi pubblici per alimentare una guerra, proprio nel momento in cui qualcuno sta, quantomeno apparentemente, dandosi da fare per trovarvi una soluzione negoziata, non può che essere tipico di un fogliaccio che da sempre, da almeno centocinquant'anni, plaude alle campagne coloniali e alle guerre di aggressione ai danni di popoli in Europa e in Africa.
E il furfante di turno, che si prende la briga, su quel giornalaccio milanese, di gridare più forte alla guerra, il signor Federico Fubini, si torce la mani dalla rabbia perché «90 miliardi dell’Unione europea da soli non bastano certo per due anni, come si è sostenuto da Bruxelles in queste ore; forse neanche per uno» e la guerra in terra ucraina va mandata avanti come minimo per altri due anni, se non di più; quantomeno per tutto il tempo necessario a che la cosiddetta “Europa” non ritenga di essersi armata a sufficienza per entrare nel conflitto in prima persona contro la Russia.
Si ode da qui lo stridore di denti del signor Fubini mentre scrive che «Se l’unione europea avesse mobilitato subito duecento miliardi in stile whatever it takes — e poteva, usando i beni russi congelati o aggiungendo al mix le risorse residue del Recovery Fund e del Meccanismo europeo di stabilità — il messaggio inviato al Cremlino sarebbe stato potente: noi non esitiamo e l’Ucraina resterà viva dentro questa guerra più a lungo di quanto la Russia possa restare al riparo da una crisi».
Già, ancora una volta l'esimio guerriero, a tempo perso pennivendolo del Corriere, si tuffa in un'insalatiera di concetti di cui, guarda caso, non dà però assolutamente conto: il tutto per sostenere che la Russia è ormai al collasso e ancora un paio d'anni di guerra finanziata coi soldi rubati alle casse sociali europee consentirebbero ai nazisti di Kiev di portare a casa il risultato atteso dai “lattonzoli” di Bruxelles.
State sicuri, recita il gaglioffo, ancora per «il 2026, Vladimir Putin ha le risorse per continuare l’aggressione. Ma intanto, malgrado i loro limiti, le sanzioni mordono; erosa dalla fuga all’estero dei giovani e dagli arruolamenti di massa, la manodopera non basta più a far funzionare le imprese normalmente; quasi tutti i settori dell’industria civile sono in recessione; l’inflazione corre, il deficit di bilancio di Mosca sale con l’aumento della spesa militare, mentre le entrate da petrolio calano. La Russia non sta bene. Dare oggi i mezzi a Kiev per resistere altri due anni avrebbe segnalato alle élite moscovite che Vladimir Putin, con la sua ossessione ucraina, è diventato un problema anche per loro».
Eccola, la ritrita nenia della pallottola sparata alla nuca di Vladimir Putin da un qualche oligarca della sua stessa cerchia, cui va stretta la politica del Cremlino: la “soluzione” di cui parlava qualche “analista” americano già più di dieci anni fa e oggi rimessa in circolazione dal ragioniere del Corriere della Sera, cui non farebbe male darsi un'occhiata alle reali cifre (da lui non menzionate) sul PIL russo, sulla crescita negli ultimi 3 anni (9,7%), sul calo dell'inflazione, sul deficit al 1,5%, sulle riserve auree e valutarie (741 miliardi di dollari). Ma, sghignazza il signor Fubini, convinto di aver sdoganato la formula che mette a tacere ogni pretesa russa, «Alla lunga il dittatore potrebbe dover scegliere fra continuare la guerra e tutelare il suo posto dentro al Cremlino». Eccolo lì: “zar”, “dittatore”, “autocrate”; il liberale non ha altri “argomenti” che non sia la mania di affibbiare epiteti che non significano nulla, antistorici e soprattutto aclassisti, che non dicono alcunché sui reali rapporti sociali di un paese che si pretende di descrivere, per un verso, affidandosi ai soliti “dissidenti oggi riparati all'estero” e, per un altro, ricorrendo a categorie prive di concreto contenuto sociale e classista.
Dalle parti di via Solferino è d'uso insomma affidarsi solo a grugniti; come quelli emessi da chi innalza peana bellicisti ai centocinquanta miliardi del cosiddetto programma “Safe” di diciannove paesi europei, come fa il signor Francesco Verderami ancora sul Corriere della Sera, gaudente per i «Mezzi corazzati per l’esercito, fregate per la Marina, jet da combattimento per l’aeronautica, droni, sistemi satellitari». Peccato che, singhiozza l'articolista, il tema incontri «la ritrosia dell’opinione pubblica, alimentata dalle polemiche partitiche e dalle manovre dei pacifinti». Brutti incoscienti che non siete altro, voi “pacifinti”, grugnisce il signor Verderami, che vi opponete ai carri armati, alle fregate, ai caccia e non capite che «i 150 miliardi sono stati distribuiti in modo da privilegiare i Paesi che hanno «maggiori emergenze». Tradotto vuol dire che le attenzioni sono state rivolte soprattutto agli Stati limitrofi al fronte russo: se l’Italia può disporre di 15 miliardi, infatti, la Polonia può attingere fino a 52 miliardi. È il segno dei tempi». Già: il segno di come le smanie di guerra dei “lattonzoli” delle cancellerie euro-atlantiste avvolgano anche i novelli “figli della lupa” di quelle redazioni in cui non si finge nemmeno di di volere la pace, ma si sventola a piene mani il vessillo della guerra. Farabutti.
Data articolo: Sat, 20 Dec 2025 11:00:00 GMT
di Michelangelo Severgnini
E’ disponibile la diciassettesima puntata di Radio Gaza, pubblicata sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico.
Guarda la puntata 17:
“Radio Gaza - cronache dalla Resistenza”, ogni giovedì alle 18, sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico, è un programma a cura di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue.
La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 182° giorno, avendo raccolto 124.903 euro da 1.581 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 124.024 euro.
Per donazioni: https://paypal.me/
C/C Kairos aps IBAN: IT15H0538723300000003654391 - Causale: Apocalisse Gaza
FB: RadioGazaAD
Di seguito I testi della sedicesima puntata.
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Radio Gaza - cronache dalla Resistenza
Un programma di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue
In contatto diretto con il popolo di Gaza che resiste e che ha qualcosa da dire al mondo…
Puntata numero 17 del 18 dicembre 2025
Questa sarà una puntata speciale e crediamo in questo servizio di rendere al meglio lo spirito che anima questo programma. Come avevamo già raccontato nella puntata numero 15, a Gaza si è affermato il fenomeno del furto delle tende dai depositi delle organizzazioni umanitarie e della vendita di queste da parte di alcuni funzionari corrotti sul mercato nero a Gaza. Bene, oggi abbiamo filmati e ricostruzioni con le quali possiamo documentare e denunciare questo ennesimo reato sulla pelle del popolo sofferente di Gaza. Si svolge tutto su Omar Al-Mukhtar Street nell’area di Al Saraya. Qualora qualcuno volesse per sbaglio riportare la notizia, non potrebbe che farci piacere.
Mostreremo video e racconti di questo furto degli aiuti nel corso della puntata, ma prima vorremmo parlare della cornice internazionale che in questi giorni sta avvolgendo tutto questo. Un quadro che non lascia presagire nessun miglioramento a breve.
Questo martedì in Qatar, presso il Comando Centrale degli Stati Uniti, si è tenuta una conferenza per discutere della composizione delle Forze Internazionali di Stabilità (ISF).
Hanno partecipato Egitto, Indonesia, Qatar, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Italia, Francia, Regno Unito e Azerbaigian (tra i Paesi che più sono coinvolti al momento nell’iniziativa), insieme a Cipro, Georgia, Canada, Germania, Paesi Bassi, Giordania, Giappone, Grecia, Singapore, Arabia Saudita, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait, Marocco, Bahrein, Bosnia, Finlandia, Kosovo, Kazakistan, Indonesia, Spagna, Yemen e altri.
45 Paesi in tutto.
Insomma tutti coloro che Trump ha potuto coinvolgere. Meno uno. La Turchia.
La Turchia è uno dei Paesi più critici di Israele a livello mondiale, con il presidente Recep Tayyip Erdogan che negli ultimi due anni di guerra ha spesso accusato Israele di genocidio, paragonandolo alla Germania nazista e assimilando il primo ministro Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler.
Erdogan ha anche stretto rapporti con Hamas nel corso degli anni, ospitando alti funzionari e definendo il gruppo terroristico “combattenti per la libertà”.
Israele ha espresso dunque una ferma opposizione alla presenza militare turca nella Gaza del dopoguerra.
La Turchia “potrà vedere Gaza solo con il binocolo”, ha scritto il mese scorso il ministro della Difesa Israel Katz su X.
“Non ci saranno soldati turchi sul terreno”, ha detto nei giorni scorsi ai giornalisti il portavoce dell'ufficio del primo ministro Shosh Bedrosian.
Lo stesso vice.presidente americano JD Vance ha dichiarato di recente, rispondendo ai sospetti israeliani: "Non importeremo truppe straniere sul suolo israeliano, ma crediamo che la Turchia possa svolgere un ruolo costruttivo. Siamo grati per il ruolo che hanno già svolto”.
Insomma, a questo giro Israele si è imposto, ottenendo al momento un’esclusione clamorosa.
Tuttavia la fune questa volta ha rischiato di spezzarsi davvero. Sabato scorso un attacco israeliano ha ucciso un alto dirigente appartenente allo stato maggiore delle Brigate martiri di Al-Aqsa, ramo militare di Hamas, Raed Saad, che secondo Israele era alla guida del riarmo dello stesso movimento. In risposta lunedì Trump ha dichiarato che Washington sta “valutando” se Israele abbia violato il cessate il fuoco a Gaza con l'attacco che ha ucciso il comandante di Hamas.
Israele teme che Washington possa spingere per passare alla fase successiva del cessate il fuoco anche prima che venga stabilito un piano operativo chiaro per il disarmo di Hamas.
“Il messaggio della Casa Bianca a Netanyahu era: ‘Se vuoi rovinare la tua reputazione e dimostrare che non rispetti gli accordi, fai pure, ma non ti permetteremo di rovinare la reputazione del presidente Trump dopo che ha negoziato l'accordo a Gaza’”, ha riferito un funzionario statunitense negli ultimi giorni.
Tuttavia questa mossa rischia di inceppare il processo di creazione delle Forze di Stabilità, visto che alcuni potenziali contributori ritengono che Ankara sia necessaria al loro fianco come polizza assicurativa, dati i suoi legami con Hamas e il suo ruolo di mediatore e garante del cessate il fuoco.
Trump parla ormai apertamente di metà gennaio come data per l’ingresso delle “forze di pace”, ma i tempi sembrano sempre più difficili da rispettare, poiché nessuno dei paesi che si pensava fossero interessati a contribuire con truppe, come l'Azerbaigian e l'Indonesia, ha finora annunciato formalmente la propria decisione in tal senso.
Chi invece si è dichiarata pronta a mandare il proprio contingente è l’Italia.
“Abbiamo dato da mesi la disponibilità a fare in modo che ci sia una tregua e poi la pace. Uno sforzo della comunità internazionale deve essere fatto da tutti i paesi e quindi anche da noi”. Così Guido Crosetto ha ribadito la sua posizione.
L’Italia vuole esserci da subito. L’ha ricordato anche Giorgia Meloni, incontrando Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, a Roma: da Palazzo Chigi, hanno fatto filtrare “la determinazione dell'Italia a svolgere un ruolo di primo piano” nella fase due a Gaza.
Interverranno dunque i Carabinieri, già di stanza in Medio Oriente e attivi al valico di Rafah, che forniranno assistenza per la formazione della polizia palestinese. Poi saranno inviate ruspe e unità per la rimozione delle macerie e l’attività di sminamento.
A quale mulino palestinese porterà in dote questi sforzi la Meloni, è stato apertamente esplicitato nei giorni scorsi, appunto, dalla visita a Roma di Abu Mazen. Hamas è terrorismo. L’Autorità Palestinese è democrazia. La volontà popolare palestinese uno spettro. E l’Occupazione è Libertà.
<<Per quanto riguarda la possibilità di un totale ritiro israeliano dalla Striscia, secondo i notiziari che attualmente ascoltiamo ci sarà una Forza internazionale che arriverà la metà del mese prossimo. A Gennaio dicono che ci sarà una Forza internazionale. Israele impone ancora le condizioni per il ritiro completo, tra cui il completo disarmo di Hamas. Qual'è l'attuale politica che si sta applicando, sinceramente non lo so. Tutti i notiziari parlano dell'arrivo, il mese prossimo, di una Forza internazionale, di un totale disarmo di Hamas, queste sono le notizie diffuse. Però qual è la verità, qual è la realtà, né io e né nessun altro nella Striscia di Gaza sta capendo quello che sta succedendo e cosa c'è di vero rispetto a ciò che affronteremo. Se stiamo veramente andando verso una seconda fase, se ci sarà una pace dichiarata, se affronteremo un altro percorso, sinceramente nessuno di noi lo sa>>.
La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 182° giorno, avendo raccolto 124.903 euro da 1.581 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 124.024 euro.
Tra pochi giorni la nostra campagna compirà 6 mesi. Tanti ne sono passati dal 20 giugno scorso quando battezzammo l’inizio di questa avventura al Teatro Flavio a Roma in occasione della presentazione di “Isti’mariyah”.
Dobbiamo anche ringraziare i numerosi sforzi di questi giorni che rispondono all’appello da noi lanciato la scorsa settimana. Abbiamo raccolto infatti quasi 3mila euro nel frattempo che sono serviti ad acquistare e a rinforzare le tende di alcune decine di famiglie a Gaza.
Tuttavia vogliamo essere chiari e onesti fino in fondo perché vorremmo che anche gli altri facessero altrettanto. Queste tende e questi rinforzi sono stati acquistati a prezzo maggiorato al mercato nero.
Però facciamoci un ragionamento. Sulle tende che tra poco vedremo nelle immagini compare il nome dell’organizzazione che le ha messe a disposizione. Noi abbiamo riconosciuto a questo giro il nome del Qatar Fund for Development, altre volte erano comparse altre organizzazioni.
Insomma, queste tende sono entrate nella Striscia come aiuti internazionali, magari pagate anche con le donazioni di migliaia di persone, poi un funzionario corrotto le ha sottratte dal deposito degli aiuti e le ha vendute in mezzo alla strada, quando dovrebbero essere distribuite gratuitamente.
Dal momento che non ci sono tende per tutti, perché le tempeste hanno messo a dura prova la tenuta delle stesse, venderle sul mercato nero frutta ora parecchi soldi.
Noi lì le abbiamo trovate e lì le abbiamo comprate, a un prezzo ingiusto.
Le abbiamo comprate per le famiglie che erano rimaste senza tende e stavamo letteralmente morendo di freddo.
Questo perché siamo lì, con la gente della strada, a Gaza, a denunciare la vendita degli aiuti al mercato nero.
Questo siamo. Un contatto diretto. Umano e, nel suo piccolo, utile.
<<Ringraziamo i fratelli donatori in Italia.
Ringraziamo il fratello Miklanglo per averci fornito aiuti a Gaza per acquistare teloni di nylon per proteggere la tenda dall'allagamento.
Che Dio vi benedica e vi ricompensi con il bene.
Fratello Rabi, queste tende vengono vendute sul mercato nero e ogni tenda porta un numero internazionale.
La pace sia con te, fratello Michelangelo. Ora stiamo affogando, abbiamo bisogno di teloni impermeabili.
La pace sia con te, amato fratello. Questo con il video, è un posto dove si vendono le tende al mercato nero e il prezzo della tenda che non protegge dalla pioggia, qua a Gaza è di 700 shekel ed è fatta di stoffa. C’è la tenda che si chiama cupola “qobba” che il suo prezzo è 1600 shekel . Questi sono i prezzi del mercato nero, che in realtà si distribuisce da organizzazioni internazionali, e si vende davanti le loro porte.
Fratello, queste a Gaza sono organizzazione internazionali, hanno impiegati la maggior parte di loro sono di Gaza, impiegati per questi associazioni e le organizzazioni, che distribuiscono la metà e la metà la vendono, con la scusa che prendono il compenso del lavoratore che lavora con loro, però l’immagina non è cosi,
sfruttano questi aiuti e li vendono nel mercato nero, per comprare delle macchine nuove di lusso , e portano cellulari molto cari, ecco, puntano su questo perché non c’è ne controllo governativo ne internazionale.
Pace e benedizione e misericordia di Dio sia con voi.
Nel tempo in cui le istituzioni dovrebbero essere un sostegno alla gente in difficoltà, qualcuno si è dato al commercio della sofferenza, vendendo le tende a chi ha perso casa. Invece di darle a loro,
come se la misericordia fosse diventata una merce che si vende.
Una vergogna per noi, come società, vedere chi ha perso casa a Gaza comprare una tenda per proteggersi dal freddo e dalla poggia. Le tende che normalmente dovrebbe essere date senza un compenso, si vendono come se fosse commercio. Quale umanità è questa che fa guadagnare dal dolore dei nostri,
Istituzioni e impiegati che hanno venduto la coscienza, e hanno dimenticato che chi dorme nella nudità non è un cliente, ma è un essere umano che ha bisogno di protezione e di dignità.
In un tempo in cui le nostre famiglie vivono tra le macerie, bambini nudi e donne che sopportano la fame e il freddo, scopriamo che c’è chi vende le tende alla gente invece di darle a loro.
La tenda che normalmente dovrebbe essere una protezione, una misericordia, diventa un commercio da cui si guadagna.
Come facciamo ad accettare di trattare il delegato a compromessi sulla sua dignità? Chi è questo essere umano che guadagna dal dolore, dalla perdita di casa e famiglia? Chi ha venduto una tenda ai profughi, ha venduto la sua coscienza prima di vendere la stoffa. Tacere di fronte a questo atto è complicità nell’ingiustizia.
Dio ci basta ed è il migliore protettore>>.
La furia delle tempeste di pioggia gelata a Gaza hanno ormai invaso i telefonini di tutto il mondo. E’ giusto. Bisogna mostrare. Bisogna fare presto. Noi però raccogliamo le voce, la voce e le ragioni di chi sta cercando di sopravvivere con l’acqua gelida alle ginocchia e i bambini in braccio.
Purtroppo, in queste circostanze, tante tende sono state inondate. Tante persone vivono in ruderi. Ad altri è crollato addosso il tetto per via della forza di queste piogge, di questi venti, di queste tempeste. La situazione è veramente molto difficile. Tanti bambini si sono ammalati. Tanti bambini sono annegati per via di queste inondazioni, tanti bambini sono stati ricoverati. Gente anziana.
Che Dio sia lodato per via di un aiuto in denaro di 600 euro ricevuto 5 giorni fa per una signora madre di alcune bambine e senza marito. Questa signora si trovava in difficoltà in una zona localizzata nel Sud di Gaza, a Der Al Balah. Che Dio sia lodato questa signora si è spostata in una zona dove le è possibile stabilirsi senza rischio inondazioni ed ha potuto comprarsi una tenda. Prima viveva dentro in un insieme di stracci.
Per quanto riguarda la situazione degli ospedali, un numero elevato di bambini sta soffrendo di gravi malattie per via del freddo pungente e delle inondazioni causate dalle piogge. 3/4 delle famiglie nella Striscia di Gaza, purtroppo, vivono nelle tende. Le tende non sono altro che un insieme di stracci che non proteggono dal freddo e dalle piogge. In questo momento stiamo affrontando gravi precipitazioni di piogge, che Dio sia lodato, stiamo tentando di spazzare (dalle tende) tutta quest’acqua. Non abbiamo mezzi per proteggerci da tutto ciò. Chiediamo a Dio che ci avvolga nella sua misericordia e che ci protegga e che migliori questa situazione>>.
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump segnano un’ulteriore escalation nella lunga offensiva statunitense contro il Venezuela. Alla domanda se Washington possa aprire un vero e proprio fronte di guerra, il presidente USA non ha escluso l’opzione militare. Un’affermazione che arriva dopo attacchi letali contro imbarcazioni, definiti da organismi internazionali come possibili esecuzioni extragiudiziali, e dopo l’annuncio di un blocco totale delle petroliere dirette da e verso il Paese. La giustificazione ufficiale resta la “guerra al narcotraffico”, ma Caracas la bolla a ragion veduta come pretesto.
Nicolás Maduro parla apertamente di una strategia già vista: impossibilitati a evocare armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti costruiscono un nuovo Afghanistan o una nuova Libia usando la narrazione fallace del narcotraffico. Al centro, ancora una volta, c’è il petrolio. La storia venezuelana dimostra che non si tratta di una novità. Sin dalla fine dell’Ottocento, con l’asfalto del lago Guanoco utilizzato per pavimentare Washington e New York, le risorse del Paese sono state sistematicamente integrate nello sviluppo statunitense. Le grandi compagnie nordamericane ed europee hanno operato per decenni come “Stato nello Stato”, influenzando governi, finanziando colpi di mano politici e imponendo regimi concessori estremamente favorevoli. Quando il Venezuela ha provato a spezzare questa dipendenza - dalla riforma del 50/50 del 1943 alla fondazione dell’OPEC nel 1960, fino alla nazionalizzazione del 1976 e alla rinazionalizzazione bolivariana del XXI secolo - la risposta è stata univoca: pressione economica, destabilizzazione politica, sanzioni.
L’attuale “assedio strutturale” a PDVSA, culminato con il sequestro di CITGO e il blocco navale di fatto delle esportazioni, rappresenta una forma moderna di nuova colonizzazione energetica. Le parole di Trump sul “petrolio che ci hanno rubato” rivelano senza filtri la logica sottostante: la sovranità venezuelana viene messa in discussione non per presunte e mai avvenute violazioni del diritto internazionale, ma perché Caracas rivendica il controllo delle più grandi riserve petrolifere del pianeta. In questo senso, la minaccia militare non è un’anomalia, ma la prosecuzione coerente di oltre un secolo di interventismo.
Il Venezuela continua a esportare, a resistere e a cercare appoggi internazionali, come dimostra il sostegno di Russia e Cina. Ma il quadro è chiaro: la crisi attuale non riguarda solo Maduro o Trump, bensì il conflitto strutturale tra sovranità nazionale e capitalismo energetico globale. Una lezione storica che, ancora una volta, viene scritta con il petrolio e con il sangue.
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Nel suo tradizionale appuntamento annuale di domande e risposte, quest’anno integrato con la conferenza di fine anno, Vladimir Putin ha delineato uno scenario coerente e politicamente denso sul conflitto ucraino e sul rapporto con l’Occidente. Il messaggio centrale è chiaro: Mosca rivendica di aver cercato a lungo una soluzione negoziata e sostiene che oggi l’uscita diplomatica sia ancora possibile, a precise condizioni di sicurezza. Particolare rilievo è stato dato al ruolo di Donald Trump. Putin ha affermato che il presidente statunitense starebbe compiendo “sforzi seri e sinceri” per porre fine al conflitto e ha rivelato che, durante l’incontro di Anchorage, la Russia avrebbe “praticamente accettato” le proposte avanzate da Washington.
Una dichiarazione che mira a ribaltare la propaganda occidentale (principalmente europea) di una Mosca indisponibile al compromesso. Il presidente russo ha però ribadito quella che definisce la causa strutturale della guerra: l’inganno occidentale seguito agli accordi farsa di Minsk e l’espansione della NATO verso est. Secondo Putin, non si tratta di nuove richieste, ma della pretesa che vengano rispettate promesse già fatte. In questo quadro, la Russia non esclude la fine delle operazioni militari, ma solo se trattata “con rispetto” e senza ulteriori forzature strategiche.
Sul piano militare, il Cremlino rivendica un netto vantaggio sul terreno: avanzata lungo tutta la linea del fronte, perdita dell’iniziativa da parte ucraina e quasi totale esaurimento delle riserve strategiche del regime di Kiev. A ciò si accompagna una denuncia estremamente dura sulle violenze contro i civili compiute dai soldati del regime neonazista di Kiev. Putin ha anche attaccato l’Unione Europea sul tema degli asset russi congelati, definendo apertamente l’eventuale confisca come un “furto” destinato a produrre gravi conseguenze giuridiche e reputazionali. Parallelamente, ha accusato i leader europei di sostenere Zelensky in modo “rabbioso” per mascherare i propri fallimenti interni.
Non sono mancati toni ironici, come la battuta sulla cometa interstellare 3I/ATLAS descritta come “arma segreta russa”, ma il sottofondo resta serio: Mosca si dice pronta a cooperare con Stati Uniti ed Europa, ma solo su basi paritarie, in un sistema di sicurezza condiviso. Il messaggio finale è duplice: apertura negoziale sul breve periodo e fermezza strategica sul lungo. La palla, evidenzia Putin, è ora nel campo dell’Occidente.
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In Palestina, la scrittura è sempre stata intrecciata con la sopravvivenza. Per un popolo espulso dalla propria terra, privato della cittadinanza e reso superfluo dal consenso globale, l’atto di registrare diventa un atto di rifiuto. È un mezzo per rifiutare la scomparsa. È il modo in cui un popolo a cui è stata negata una storia insiste sulla propria esistenza.
Finché queste parole esisteranno, Gaza non potrà essere Cancellata.
SCRIVERE NELLA MORTE: LE CONDIZIONI MATERIALI DEL GENOCIDIO

La seconda compagnia di trasporto marittimo al mondo, Maersk, è stata smascherata nel 2024 per aver trasportato milioni di libbre di carichi militari dagli Stati Uniti a Israele.
Questo è il mondo che le parole di Wasim ci costringono ad affrontare: un mondo in cui il Genocidio non è l’atto di un singolo Stato, ma una divisione globale del lavoro, una collaborazione internazionale.
*
MEMORIA VIVA, RESPONSABILITÀ ATTIVA
*
di Francesco Dall'Aglio*



*Post Facebook del 19 dicembre 2025
di Vito Petrocelli
19 dicembre 2025. Una data triste nella già famigerata storia dell'Unione Europea. Il Consiglio europeo che doveva rilanciare "l'indipendenza" degli stati membri si è concluso con la sensazione degli ultimi colpetti dei violinisti del Titanic e con la grande assenza di una strategia di pace.
All’ordine del giorno, ovviamente, vi era la questione ucraina. Sul tavolo il tema dei finanziamenti all’Ucraina e l’utilizzo degli asset russi, che si preannunciava spinoso già alla vigilia. La proposta della Commissione di utilizzare gli asset russi congelati era infatti già stata duramente osteggiata, oltre che da Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, soprattutto dal primo ministro belga De Wever.
Bruxelles, infatti, risulta essere tra le più esposte alle possibili ritorsioni russe poiché gli attivi russi sono, in gran parte, depositati presso la società di capitali Euroclear con sede in Belgio. Alla fine, la scommessa del conservatore fiammingo è stata vincente e la proposta Merz-Von der Leyen di finanziare il governo di Zelensky con i fondi russi è naufragata.
Il Consiglio europeo ha sì deciso di mantenere i fondi russi congelati ma ha optato per una formula diversa per finanziare Kiev: un prestito di 90 miliardi di euro sui mercati di capitali, ossia con l’emissione di debito comune, garantito dal bilancio europeo. Quella che, andando ben oltre il semplice supporto economico, doveva essere la dimostrazione di compattezza dell’Unione nel sostegno a Kiev, è stata invece la cartina di tornasole della frammentazione dei paesi membri e della scarsa credibilità della classe dirigente europea.
Il vincitore indiscusso è Viktor Orban, che riesce in un colpo solo ad evitare l’utilizzo dei fondi russi e a garantirsi, insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia, una clausola di opt-out dalla nuova tranche di finanziamenti a debito. Come ha dichiarato un diplomatico europeo ad Al Jazeera: “Siamo passati dal salvare l’Ucraina a salvare la faccia”. Neanche quella, aggiungiamo.
Ci troviamo di fronte alla debacle dell’Europa. Un’Unione di Stati vassalli di Washington, che pur di obbedire hanno sacrificato tutto. Letteralmente tutto.
La doccia fredda che Trump gli ha riservato, nel momento stesso in cui ha dichiarato che l’Ucraina non è più una priorità per gli Stati Uniti, ha messo a nudo la frammentazione e la debolezza del discorso europeo sul sostegno a Kiev. Tre anni di guerra per procura, venduti come minaccia alla sicurezza europea – i russi arriveranno fino a Lisbona dicevano – e che, nonostante tutto, hanno prodotto nient’altro che una sconfitta sul campo e centinaia di migliaia di morti, non sono bastati ai vari Merz, Macron, Von der Leyen e Kallas, per tornare sui propri passi.
Se 90 miliardi di debito comune sono, a detta delle delegazioni europee e viste le premesse della proposta della Commissione, un modo per salvarsi la faccia nei confronti di Kiev, cosa rappresentano dinanzi ai milioni di cittadini europei che non arrivano a fine mese? Ai disoccupati? Ai malati a cui viene negata un’assistenza sanitaria degna? Solo quindici anni fa ci imponevano l’austerità lacrime e sangue come l’unico modo per superare la crisi. E oggi? Possiamo indebitarci a cuor leggero per continuare a finanziare una guerra già persa?
E qui arriviamo al triste esultare del governo Meloni. Un esultare di chi ha impegnato i soldi delle giovani generazioni di italiani per i prossimi cessi d'oro degli oligarchi ucraini. Il triste esultare di chi sceglie la via guerrafondaia dei "volenterosi" fino all'ultimo ucraino. Lo stridulo esultare di chi non vuole fare i conti con la realtà, continuando a vaneggiare di integrità territoriale, guerra ibrida, supporto incondizionato all’Ucraina. Come una Ursula qualunque...
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 15:00:00 GMTdi Geraldina Colotti
Il 16 dicembre 2025, il Teatro Teresa Carreño di Caracas non era solo un palcoscenico, ma l’epicentro di una nuova epopea proletaria. Oltre cinquemila delegati e delegate, eletti dalle oltre 22.000 assemblee di base, hanno chiuso il gran Congresso costituente della classe operaia, insieme al ministro del Lavoro, Eduardo Piñate, a quello dell'Educazione, Héctor Rodríguez, e la presidente della Centrale bolivariana socialista dei lavoratori e delle lavoratrici, Wills Rangel. In platea, un mare di berretti rossi con lo slogan No war yes peace lanciava un messaggio inequivocabile al mondo: il Venezuela non vuole la guerra, ma non teme di difendere la propria dignità.
Il calore della solidarietà internazionale è stato palpabile grazie alla presenza e ai messaggi di sostegno dei popoli e dei sindacati di ogni continente, che hanno riconosciuto in questo congresso il cuore pulsante della resistenza globale contro il capitale.
Mentre la classe operaia discuteva di indipendenza tecnologica e della creazione del Consiglio scientifico, oltre i confini si riaffacciava lo spettro di una nuova Dottrina Monroe. Una dottrina che, a 200 anni di distanza, usa le stesse categorie coloniali: la presunta incapacità dei popoli latinoamericani di autogovernarsi e la necessità di una polizia internazionale statunitense attraverso la pretesa di extraterritorialità delle leggi di Washington.
Donald Trump, nel suo stile suprematista e xenofobo, ha gettato la maschera, mostrando i veri interessi imperialisti. Non si tratta di democrazia — un termine svuotato di senso dal genocidio in Palestina, dalle bombe e dai blocchi — ma di una pretesa coloniale pura e semplice. Trump ha affermato che le aziende USA rivogliono i loro diritti petroliferi, trattando le risorse del sottosuolo venezuelano come proprietà privata della Casa Bianca. Siamo di fronte a quella che lo storico Juan Romero definisce necropolitica: l'imperialismo si arroga il diritto di decidere chi deve vivere e chi deve morire attraverso il blocco navale e il sequestro di navi petroliere come la Skipper.
È un’aggressione che ignora il diritto internazionale, lo stesso che proprio in Venezuela, nel 1929, vedeva il Maresciallo Sucre firmare i primi trattati di regolarizzazione della guerra. Maduro ha risposto con fermezza: un governo colonialista non durerebbe 48 ore di fronte alla coscienza del popolo erede dei libertadores e delle libertadoras.
Per comprendere la portata di questo attacco, è necessario tornare alla lezione magistrale di Alí Rodríguez Araque, il cui pensiero è oggi difeso e attualizzato da figure come lo storico Juan Romero e l'esperto David Paravisini. Il punto di concordanza tra questi analisti è cristallino: il petrolio è l'essenza del problema perché rappresenta lo scontro storico tra la proprietà nazionale del suolo e il capitale transnazionale.
Romero sottolinea come l'imperialismo utilizzi il pretesto del debito e della crisi per ripristinare il corollario Roosevelt, cercando di trasformare la risorsa in un bene extraterritoriale sotto giurisdizione USA. Paravisini, dal canto suo, evidenzia come la lotta per la sovranità operativa di PDVSA sia la chiave per smantellare il cavallo di Troia della vecchia tecnocrazia meritocratica.
Insieme ad Araque, essi concordano che la rendita petrolifera non è un dato contabile, ma un territorio di lotta politica: chi la controlla decide se finanziare la vita o la guerra. Questa triade di pensiero ribadisce che il Venezuela non è un debitore insolvente, ma un proprietario sovrano che amministra la propria risorsa in base alle leggi di miniera nate con Bolivar già nel 1829.
Nel programma Sin Truco ni Maña, condotto da Tania Díaz, questo scontro è stato sviscerato attraverso la voce di Yelitze Santaella, Ministra della Donna. Santaella ha denunciato come l'aggressione imperiale colpisca al cuore il nucleo della vita quotidiana, ma ha anche sottolineato la resilienza delle donne venezuelane, avanguardia nella difesa della pace e della sovranità familiare e territoriale. La ministra ha ricordato che la resistenza non è solo militare, ma è la capacità di sostenere il tessuto sociale contro la coercizione economica e il terrore del blocco.
In questa battaglia per la verità, un ruolo cruciale è svolto dai media comunitari e alternativi, organizzati e presenti, per esempio, nella piattaforma Rompiendo fronteras comunicando alternativas (rompiendofronterasmundial@
Il gran Congresso della costituente operaia ha prodotto una dichiarazione-manifesto che delinea i pilastri della resistenza. In primo luogo, la sovranità tecnologica attraverso il nuovo Consiglio scientifico della classe operaia, per garantire l'autosufficienza e sostituire le importazioni strategiche nel campo industriale e informatico. Segue il piano di riattivazione industriale sotto gestione operaia diretta, per rispondere al blocco con l'incremento della produzione nazionale. Il manifesto sancisce l'impegno dei lavoratori e delle lavoratrici come moltiplicatori della difesa territoriale nell'unione civile-militare, e riafferma il petrolio come risorsa inalienabile per il finanziamento dei diritti sociali conquistati dalla rivoluzione.
In questo clima, il Presidente Nicolás Maduro ha annunciato la convocazione di una nuova tappa della Costituente Operaia per il 9 e il 10 gennaio 2026. Questo organo di potere costituente permanente avrà il compito di blindare l'economia nazionale contro ogni attacco esterno, trasformando definitivamente la classe operaia nel soggetto dirigente della nuova fase produttiva e politica del paese.
Il prossimo 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU diventerà il campo di battaglia dove il Venezuela, sostenuto da Russia e Cina, smaschererà l'illegalità delle sanzioni e dei sequestri navali. Si discuterà dell'atto di pirateria contro il petroliero Skipper e del tentativo di Trump di imporre una giurisdizione globale attraverso il gran garrote.
Anche il fondatore del sito Wikileaks, Julian Assange, perseguitato per aver rivelato i crimini di guerra degli Stati uniti, ha denunciato come il Venezuela sia nel mirino non per mancanza di democrazia, ma per il suo esempio di alternativa al modello neoliberista. Il giornalista ha anche sottolineato l'ironia di assegnare un premio per la pace a una figura come Maria Corina Machado, che ha apertamente invocato l'intervento militare e l'applicazione della Dottrina Monroe contro il proprio paese: azioni che porterebbero inevitabilmente alla guerra e non certo alla pace.
In Venezuela, il fronte della patria si presenta unito: l'Assemblea Nazionale ha visto l'accordo unanime di tutti i deputati, chavisti e di opposizione, in difesa della nazione contro l'aggressione. Il governo bolivariano risponde con la geopolitica della pace, stringendo accordi con l'asse multipolare e chiamando alla unione perfetta con i militari della Colombia per rinnovare il sogno di Bolivar di una Patria grande. E, intanto, come diceva Alí Rodríguez Araque, in tempi difficili occorre spiegare l'ovvio: il petrolio appartiene al popolo venezuelano. “Abbiamo visto la luce e non torneremo mai più alle tenebre del passato coloniale”, dice la rivoluzione bolivariana, ricordando le parole del Libertador.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 14:00:00 GMT
Venticinque anni fa, quando ero una studentessa di livello avanzato con un profondo interesse per le questioni politiche, ricordo di aver partecipato a un evento della comunità musulmana in cui un avvocato fu chiamato sul palco per fare una presentazione improvvisata sul nuovo Terrorism Act del 2000, recentemente introdotto nel Regno Unito.
Mise in guardia dal cambiamento che questa nuova legge comporta, spostando l'antiterrorismo dall'ambito della legislazione di emergenza a un quadro giuridico primario, insieme alla sua nuova attenzione alla definizione del terrorismo in relazione all'ideologia, piuttosto che al conflitto.
All'epoca mi sembrò agghiacciante, ma nella sala aleggiava anche un senso di sconcerto. Non credo che nessuno tra il pubblico avrebbe potuto immaginare quali sarebbero state le implicazioni durature, non solo per la libertà di espressione, ma anche per la condizione dei musulmani nel Regno Unito.
Molti dei gruppi proscritti da questa legge operavano nel mondo musulmano, alcuni con una visione apertamente islamica. Cosa significherebbe per i musulmani questa potenziale associazione tra l'azione politica musulmana e il terrorismo ideologico?
L'anno successivo, si verificò l'11 settembre, e le sue conseguenze immediate furono avvertite visceralmente nelle comunità musulmane di tutto il mondo. Un argomento di grande costernazione tra i raduni musulmani del Regno Unito divenne la domanda: "Abbiamo un futuro in questo Paese?"
In un'epoca in cui la legislazione antiterrorismo si stava esplicitamente concentrando sul demone popolare islamista, la preoccupazione era che intere comunità sarebbero diventate capri espiatori: che l'ingerenza statale e le leggi draconiane avrebbero alimentato e aggravato un clima di sospetto, rendendo la vita insostenibile per molti musulmani di origine immigrata nel Regno Unito. Il ricordo del genocidio bosniaco era ancora fresco nella mente delle persone.
Le organizzazioni e gli attivisti musulmani si sono occupati di questo tema in vari modi. Alcuni hanno investito molto nello sviluppo di una narrazione e di una strategia politica incentrate sulla lealtà allo Stato-nazione. La logica era che le nostre comunità si sono stabilite qui da generazioni; questa è la nostra casa e dobbiamo accoglierla con forza come tale.
Molti grandi gruppi e istituzioni musulmane diedero priorità all'obiettivo di garantire legittimità presso l'opinione pubblica, piuttosto che impegnarsi in campagne a favore di comunità e individui vittimizzati e assediati. Guardare all'esterno per affermare che l'Islam e i musulmani non erano una minaccia, erano autoctoni e rappresentavano una risorsa per la nazione era considerata una strategia più astuta in quel momento, e che avrebbe avuto maggiori probabilità di garantire stabilità e longevità nelle attuali circostanze politiche.
Questo approccio è stato manifestato attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica che sottolineavano la capacità di relazionarsi con i vicini musulmani e che esploravano la lunga storia dell'Islam nel Regno Unito, incluso il servizio musulmano nelle forze armate, oltre a evidenziare il valore economico della "sterlina musulmana".
Grande enfasi è stata posta anche sull'articolazione degli strumenti teologici relativi al dovere civico di un musulmano in un Paese non musulmano. Tra questi, l'obbligo di onorare la nostra cittadinanza obbedendo alle leggi del Paese e rimettendoci alle norme sociali e politiche prevalenti.
Si è discusso dell'obsolescenza delle categorizzazioni territoriali classiche: si sosteneva che avremmo potuto considerare il Regno Unito come "dar al-shahada", la dimora della testimonianza e un luogo in cui, nonostante i suoi difetti, avevamo lo stato di diritto e l'opportunità di praticare la nostra fede apertamente e in sicurezza.
Ne consegue che i musulmani dovrebbero impegnarsi con tutto il cuore, e per alcuni, esclusivamente, ad accettare la cittadinanza britannica. Dopotutto, i loro Paesi di origine erano dittature autoritarie in cui l'azione religiosa e il dissenso politico venivano spesso perseguitati spietatamente, senza alcun ricorso al giusto processo o alla trasparenza.
Questa spinta intenzionale e palese a dimostrare visibilmente la lealtà allo Stato, alla sua storia e alla sua cultura – a sposare una particolare forma di britannicità – sperava di trovare risonanza e rassicurare i media e l'establishment politico, entrambi apparentemente incessantemente affascinati dall'interrogarsi su dove risiedesse realmente la lealtà dei musulmani. In breve, abbiamo assistito a una politica di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione.
Facciamo un salto in avanti di un decennio e, nel 2010, successivi aggiornamenti alla legislazione antiterrorismo avevano sancito per legge restrizioni alla parola e all'espressione, ampliando al contempo la portata dello stato di sicurezza nei settori della sorveglianza e della detenzione senza accusa.
In particolare, gli anni 2010 sono stati quelli in cui abbiamo assistito all'emergere di una massiccia privazione della cittadinanza, anche per motivi di "bene pubblico", che, come sottolinea un nuovo rapporto del Runnymede Trust e di Reprieve, colpisce principalmente i musulmani di origine sud asiatica, mediorientale o nordafricana.
Sebbene inizialmente scioccante, col tempo l'idea di privare della cittadinanza è diventata una caratteristica normalizzata delle prerogative del Ministro degli Interni. I casi più eclatanti sono stati quelli che i media e le istituzioni politiche hanno cospirato per demonizzare nell'immaginario pubblico, come Abu Hamza al-Masri e, forse il più importante, Shamima Begum.
Per rappresentare entrambe queste figure come mostri agli occhi del grande pubblico, sono stati utilizzati stereotipi islamofobi. Sono stati caricaturati a causa di aspetti del loro aspetto fisico considerati sgradevoli, minacciosi e alieni.
"Capitan Uncino" è il nome con cui i titoli hanno ritratto Abu Hamza e, naturalmente, Begum è stata adulterata come una "sposa jihadista", un modo per ottenere il consenso pubblico per misure draconiane e autoritarie che, in circostanze normali, avrebbero suscitato incredulità per la loro erosione dello stato di diritto.
Tutti i musulmani coinvolti nella crescente rete di securitizzazione del Regno Unito venivano ora associati a queste figure "mostruose" e, quindi, rappresentavano plausibilmente una minaccia ideologica, anzi esistenziale, che poteva essere esclusa se ritenuta appropriata dallo Stato, lasciandoci con un regime di cittadinanza a due livelli.
La neutralizzazione degli atteggiamenti pubblici e politici non è stata l'unica conseguenza di questo regime. Ho trascorso gli ultimi quattro anni esplorando e mappando con i colleghi aspetti del panorama digitale musulmano britannico. Nel farlo, ho notato un numero significativo di influencer che utilizzano i social media per discutere e approfondire il concetto di "hijra".
Questo termine arabo si traduce letteralmente con "migrazione", ma è utilizzato da alcuni per descrivere uno spostamento da un ambiente in cui si sperimentano ostilità o persecuzioni a un luogo o una comunità in cui è possibile praticare più liberamente la propria fede, evocando la migrazione del profeta Maometto e della prima comunità di musulmani dalla Mecca a Medina.
Il sottotesto di questi discorsi è la sensazione che, per molti musulmani britannici, il Regno Unito non sia la patria che loro (o i loro genitori) avrebbero potuto immaginare, e che sia saggio predisporre un piano di fuga, per ogni evenienza. Tali piani si stanno sempre più avvicinando alla categoria del "quando", non del "se".
L'idea che il Regno Unito offra sicurezza e stabilità per una vita appagante ha meno presa su molti musulmani.
Vedo questo discorso nei resoconti "come fare", che offrono consigli passo dopo passo su luoghi, processi e procedure, cosa fare e cosa non fare. Ma ci sono anche discussioni teologiche e sociologiche, che analizzano e collegano momenti storici e offrono consigli ai cittadini con doppia cittadinanza su come affrontare i pericoli specifici del loro status.
Pertanto, il recente rapporto Runnymede/Reprieve, che rileva che le persone di colore hanno 12 volte più probabilità rispetto ai britannici bianchi di essere a rischio di revoca della cittadinanza, non è stato accolto con allarme, ma piuttosto come un'annoiata ammissione di ciò che molti musulmani britannici hanno già interiorizzato.
Nel 2025, molte delle persone che languiscono nelle carceri del Regno Unito per la loro presunta partecipazione ad azioni dirette contro i produttori di armi che riforniscono Israele del genocidio in Palestina , sono le stesse cresciute all'ombra di questo regime a due livelli. Per loro, il più ampio contesto politico di draconiana estensione e sospensione del giusto processo non è un'aberrazione scandalosa, come io e i miei coetanei della generazione dei Millennial avremmo potuto considerare i suoi precursori nel 2000.
Loro, e altre voci dissenzienti, vengono ritratti come sovversivi e anti-britannici, esponenti della quinta colonna, e sono quindi ben consapevoli della precarietà del loro status. Guardando oltre Atlantico, arresti arbitrari e molestie da parte dei funzionari dell'immigrazione statunitensi sottolineano la sensazione che l'accesso al giusto processo per i cittadini musulmani o i residenti in Occidente non sia una questione di diritti, ma di opportunità politica.
Questa generazione è molto meno interessata a dimostrare la propria gradimento e simpatia a un sistema che li ha disumanizzati per fini politici. Le strategie di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione dei loro genitori devono sembrare lontanissime dalla loro realtà attuale.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Nonostante la sua opposizione diplomatica al genocidio dei palestinesi di Gaza da parte di Israele, il Sudafrica ha aumentato drasticamente le esportazioni di carbone verso Israele, contribuendo a compensare la perdita delle importazioni di carbone dalla Colombia.
Secondo i dati sulle spedizioni citati da Reuters il 16 dicembre, le esportazioni di carbone dal Sudafrica verso Israele sono aumentate dell'87 percento su base annua nei tre mesi fino a novembre, fornendo circa il 55 percento delle importazioni di carbone via mare di Israele.
Le spedizioni sudafricane hanno aiutato Israele a soddisfare il suo fabbisogno energetico in tempo di guerra, dopo che le esportazioni di carbone colombiano sono scese a zero a novembre.
Il presidente colombiano Gustavo Petro ha annunciato la sospensione delle esportazioni di carbone verso Israele nel giugno 2024, più di un anno fa.
"Il carbone colombiano viene utilizzato per costruire bombe destinate a uccidere i bambini palestinesi", aveva scritto Petro all'epoca in un post su X.
Petro aveva ribadito che le spedizioni di carbone non riprenderanno finché Israele non avrà obbedito all'ordine della Corte internazionale di giustizia (ICJ) di interrompere l'assalto a Rafah, nella striscia di Gaza meridionale.
Tuttavia, nel 2025 la Colombia continuava a inviare carbone a Israele, rappresentando il 42 percento delle importazioni, a causa di scappatoie legali che consentivano la consegna nell'ambito di accordi di fornitura a lungo termine.
Petro ha adottato ulteriori misure nell'agosto 2025, ponendo di fatto fine alle esportazioni colombiane entro novembre.
Il ministro del Commercio sudafricano, Parks Tau, ha giustificato la continuazione degli scambi commerciali con Tel Aviv, affermando che sanzionare Israele potrebbe violare le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Tuttavia, secondo quanto riportato da Reuters, la Colombia, che è anche membro dell'OMC, non avrebbe dovuto affrontare alcuna contestazione formale in seguito al divieto di esportazione del carbone.
Il governo del Sudafrica è stato uno dei pochi ad adottare misure diplomatiche contro Israele dopo l'inizio della guerra genocida contro Gaza nell'ottobre 2023. Nel dicembre dello stesso anno, Praetoria ha intentato una causa contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, accusando Tel Aviv di aver violato la Convenzione sul genocidio.
A distanza di oltre due anni, la Corte internazionale di giustizia non ha ancora emesso una sentenza definitiva, mentre Israele ha ignorato le ingiunzioni temporanee della corte che chiedevano la fine delle operazioni militari.
Nonostante la condanna internazionale delle azioni di Israele, che hanno causato la morte di almeno 71.000 palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali sono donne e bambini, molte nazioni continuano a fornire risorse per alimentare l'economia e l'esercito di Israele.
Sebbene il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sia stato uno dei principali critici di Israele in pubblico, continua a consentire che il petrolio azero destinato a Israele venga trasportato attraverso l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.
La Turchia è tra i 25 paesi che hanno fornito a Israele petrolio greggio e petrolio raffinato, nonostante il genocidio in corso a Gaza.
L'8 dicembre, il Sudafrica ha posto fine all'esenzione dal visto di 90 giorni per i titolari di passaporto palestinese, citando voli "misteriosi" provenienti da Israele che trasportavano centinaia di palestinesi nel Paese.
Il dipartimento aveva lamentato in una nota che gli attori israeliani stavano abusando dell'esenzione per promuovere la cosiddetta "emigrazione volontaria" dei palestinesi dalla Striscia di Gaza.
A novembre, un aereo charter proveniente da Israele, con scalo in Kenya, ha trasportato 153 rifugiati palestinesi da Gaza al Sudafrica. A fine ottobre, un altro aereo ha trasportato 176 palestinesi.
Israele ha cercato di distruggere la Striscia di Gaza, inclusi alloggi, moschee, scuole, ospedali e infrastrutture, per rendervi la vita impossibile. I funzionari israeliani sperano che la distruzione non lasci ai palestinesi altra scelta che abbandonare la loro patria, lasciandola "ripulita" e disponibile per l'insediamento degli ebrei israeliani.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avevano coordinato congiuntamente la guerra di giugno contro l'Iran mesi prima, organizzando al contempo una campagna di inganni sui media volta a presentare Washington come opposta ai piani di Tel Aviv contro Teheran, hanno riferito alcune fonti al Washington Post il 17 dicembre.
Secondo le fonti, Netanyahu ha incontrato Trump a febbraio e gli ha fornito quattro opzioni su come potrebbe avvenire un attacco all'Iran.
"Il primo ministro israeliano ha innanzitutto mostrato a Trump come sarebbe stata l'operazione se Israele avesse attaccato da solo. La seconda opzione era che Israele prendesse il comando, con un supporto minimo da parte degli Stati Uniti. La terza era la piena collaborazione tra i due alleati. L'ultima opzione era che gli Stati Uniti prendessero il comando", si legge nell’articolo.
"Sono iniziati mesi di pianificazione strategica furtiva e intensiva. Trump voleva dare una possibilità alla diplomazia nucleare con l'Iran, ma ha continuato a condividere informazioni di intelligence e a pianificare le operazioni con Israele", ha aggiunto. "L'idea era: se i colloqui falliscono, siamo pronti a partire".
Un giorno prima dell'inizio della guerra, Trump dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero potuto potenzialmente colpire l'Iran, ma che preferiva una soluzione diplomatica.
"Lui e Netanyahu hanno manovrato per lasciare gli iraniani impreparati a ciò che sarebbe successo dopo", hanno continuato le fonti.
Tel Aviv ha fatto trapelare la notizia che il ministro degli Affari strategici di Netanyahu, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, avrebbero presto incontrato l'inviato statunitense Steve Witkoff.
Un round di colloqui nucleari tra Stati Uniti e Iran era previsto per il 15 giugno. Tuttavia, il 13 giugno Israele lanciò attacchi preventivi contro strutture militari e nucleari in Iran, innescando la guerra.
"Israele aveva deciso di colpire, come gli Stati Uniti sapevano bene. La diplomazia pianificata era uno stratagemma, e i funzionari di entrambi i Paesi incoraggiavano le notizie dei media su una frattura tra Stati Uniti e Israele. Tutte le notizie che circolavano sul fatto che Bibi non fosse sulla stessa lunghezza d'onda di Witkoff o Trump non erano vere. Ma è stato positivo che questa fosse la percezione generale, ha contribuito a far procedere la pianificazione senza che molti se ne accorgessero", hanno affermato le fonti.
Dopo l'inizio della campagna indiscriminata di Israele, Washington ha proposto un accordo irrealistico, chiedendo a Teheran di rinunciare al sostegno a Hezbollah e Hamas e di sostituire i principali siti nucleari con impianti che non consentano l'arricchimento dell'uranio, come rivelato per la prima volta dal rapporto.
"Poco dopo che gli Stati Uniti hanno trasmesso la proposta all'Iran tramite diplomatici del Qatar, Teheran l'ha respinta e Trump ha autorizzato gli attacchi statunitensi", ha dichiarato una fonte diplomatica di alto livello al Washington Post.
Almeno 1.000 persone, tra cui centinaia di civili, sono state uccise in Iran durante i 12 giorni di guerra.
Gli assassinii di importanti scienziati nucleari da parte di Israele hanno causato la morte di decine di civili, tra cui il figlio adolescente di uno scienziato che non si trovava in casa al momento dell'attacco.
I media ebraici avevano già confermato a giugno che Trump aveva finto di essere contrario a un attacco all'Iran, mentre in segreto aveva dato il via libera alla campagna di Israele.
Fin dall'inizio della guerra a Gaza, i resoconti dei media statunitensi e occidentali hanno regolarmente tentato di inquadrare Washington come "frustrata" dalle azioni di Israele, nonostante il suo palese sostegno militare a Tel Aviv durante tutto il genocidio.
Tra ottobre 2023 e settembre 2025, almeno 46 articoli sono stati pubblicati sui media occidentali in cui si descrivevano l'ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Trump come "frustrati" dalle azioni di Israele.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
La NATO deve contrastare uno dei principali obiettivi proclamati dalla Russia all'inizio dell'operazione speciale e cioè la smilitarizzazione dell'Ucraina e, al contrario, deve renderla «più forte possibile», ha dichiarato Mark Rutte. Questo, perché se la Russia riuscisse a riportare l'Ucraina nella propria orbita, se la Russia ottenesse l'accesso a tutta l'Ucraina, accrescerebbe le proprie risorse a tal punto che persino un aumento della spesa militare al 5% del PIL dei paesi NATO sarebbe insufficiente. Oggi, ha proclamato Rutte, «siamo più forti, ma se non adempiamo ai nostri obblighi, tra un paio d'anni saremo più deboli dei russi. E questo è molto pericoloso». Perché, come va ripetendo l'oracolo Andrius-Merlino-Kubilius, la Russia «tra cinque anni, o forse anche prima, attaccherà un paese europeo, o forse più di uno». A Delfi, perlomeno, erano un po' più precisi.
Sempre il bellimbusto Rutte ha sentenziato che, in ogni caso, l'Ucraina banderista rimarrà nella sfera d'influenza occidentale e, quantunque non membro della NATO, contingenti francesi e britannici saranno schierati sul suo territorio. Proprio l'esatto contrario di quanto richiesto da Moskva per addivenire a un accordo di pace. Ma, chiede Rutte, ancorato all'asserto secondo cui la Russia non può non attaccare di nuovo, che sia l'Ucraina o una qualunque “democrazia” europea, «se si raggiunge un accordo di pace, si raggiunge un cessate il fuoco a lungo termine o si conclude un trattato di pace a tutti gli effetti, come possiamo impedire alla Russia di attaccare nuovamente l'Ucraina? Le garanzie di sicurezza attualmente in fase di sviluppo, dice, si articolano su tre livelli. La prima linea di difesa è rappresentata dalle forze armate ucraine. La seconda linea è quella sviluppata negli ultimi mesi dalla coalizione di paesi disposti a fornire assistenza, guidata da Gran Bretagna e Francia... gli Stati Uniti sono il terzo elemento. Ad agosto, il presidente americano ha dichiarato di volere che gli Stati Uniti facciano parte di queste garanzie di sicurezza. Sono attualmente in corso discussioni su cosa significherà esattamente e come sarà strutturato questo pacchetto collettivo di garanzie di sicurezza... Putin deve sapere che dopo la conclusione dell'accordo di pace, se tenterà di attaccare di nuovo l'Ucraina, la risposta sarà devastante». A Moskva si sono avvertiti tremiti di terrore...
Da parte sua, il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha delineato la propria visione di un “accordo di pace”, con truppe NATO che, con il pretesto delle “garanzie di sicurezza”, sono pronte a occupare l'Ucraina lungo le linee del fronte e a garantire la salvaguardia del regime nazigolpista, anche al punto di lanciare un attacco militare contro la Russia. «Noi, europei e americani, siamo pronti a fornire insieme queste garanzie di sicurezza» ha detto; «quando si tratta, ad esempio, di rinunciare a territori, l'Ucraina non può farlo senza una garanzia di sicurezza... garantiremmo una zona demilitarizzata. E, più specificamente, risponderemmo anche a eventuali attacchi russi... Gli americani hanno fatto una promessa del genere, ovvero quella di difendere l'Ucraina in caso di cessate il fuoco, come se fosse territorio NATO» ha affermato Merz.
In effetti, sostiene da Mosca il politologo ucraino Konstantin Bondarenko, l'intelligence americana è molto più importante per l'Ucraina che non le forniture di armi: «la cosa più importante non sono nemmeno i soldi, o le armi fornite dagli Stati Uniti, ma le informazioni di intelligence: immagini satellitari, sistemi di guida satellitare e così via, senza le quali nessun missile può essere lanciato o raggiungere il suo obiettivo... se l'Ucraina perdesse il supporto di tali informazioni, ciò potrebbe avere un impatto molto grave sul potenziale e sulle capacità delle forze ucraine».
Dunque, tra proclami di Rutte, plateali assicurazioni di Merz e dati di fatto evidenziati da Bondarenko, sembra che le cose per il regime banderista non siano messe poi così male. Sembra. Ma, avverte il colonnello ed esperto militare ucraino Oleg Starikov, chi assicura che, subito dopo la cessazione delle ostilità, i paesi europei non dichiareranno di non dover nulla all'Ucraina e non rifiuteranno di fornire aiuti per la sua ricostruzione? «Se pensiamo che i nostri partner strategici continueranno a fornirci assistenza dopo la fine della guerra, voglio deludere tutti. Non succederà nulla. Tutti si dilegueranno... e guarderemo con orrore Germania, Francia, Gran Bretagna fuggire a rotta di collo dopo la guerra. La storia militare lo conferma: la maggior parte degli alleati diventano avversari dopo una guerra.... affidarci a un buon compagno straniero non ci aiuterà... Per qualche ragione, hanno deciso che stavamo difendendo l'Europa. Ma la guerra finirà e diranno: “Non vi abbiamo chiesto di difenderci”. Vedrete. Sarà terrificante».
E anche il colonnello Roman Kostenko, segretario del Comitato difesa della Rada, ha dichiarato a Ukrainskaja Pravda di non nutrire alcuna fiducia nelle promesse occidentali di garanzie di sicurezza. Ripetendo quello che è ormai l'assioma ukro-europeista, di una Russia che attaccherà nuovamente l'Ucraina dopo il cessate il fuoco, Kostenko sostiene che «Ci inganneranno. E poi, quando la Russia si muoverà di nuovo, non saremo nemmeno in grado di trovare la persona che ha firmato quelle garanzie. Cambieranno tutti. Arriveranno altri, come quelli in Ungheria e nella Repubblica Ceca, e diranno: “Non vi abbiamo promesso nulla. Non ci sono garanzie che la Russia non andrà oltre"». E una volta ceduti i territori, dice Kostenko, si dovrà cedere anche il sud e bisogna sottolineare che «nemmeno l'articolo 5, contrariamente a quanto si crede, non garantisce l'assistenza militare a un membro della NATO sotto attacco. Sì, l'attacco sarà considerato contro l'intera alleanza, ma a forma di assistenza (incluso l'uso della forza armata) è decisa individualmente da ciascun paese».
Ricordiamo che alla vigilia dell'inizio delle operazioni militari, scrive Igor Škapa su PolitNavigator, Vladimir Zelenskij, intervenendo il 19 febbraio 2022 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, aveva minacciato di invalidare il Memorandum di Budapest, ripristinando lo status nucleare dell'Ucraina e rendendo così nullo l'intero pacchetto di decisioni del 1994 e fornendo in tal modo a Moskva ulteriori argomenti per l'avvio delle operazioni.
Ma, in sintesi, al di là delle spacconate dei “lattonzoli” europei e dei piagnistei dei media loro megafoni, quali possono essere le condizioni per la sottoscrizione tra Moskva e NATO di garanzie di sicurezza? La Russia, ha dichiarato a RIA Novosti il vice Ministro degli esteri Alexandr Gruško, è pronta a formalizzare garanzie giuridicamente vincolanti coi paesi NATO solo su base di reciprocità. Anch'egli menzionando la vigilia del febbraio 2022, Gruško ha ricordato come, a fine 2021, la Russia avesse proposto a USA e NATO accordi per garanzie di sicurezza, respinti però da Washington e Bruxelles. Quelle bozze di accordo escludevano un'ulteriore espansione dell'Alleanza atlantica verso est e l'adesione di Kiev a essa, il dispiegamento di truppe e armi aggiuntive al di fuori dei paesi in cui si trovavano al maggio del 1997 e chiedevano la rinuncia a qualsiasi attività militare NATO in Ucraina. Moskva chiedeva inoltre di rinunciare formalmente alla decisione del vertice NATO di Bucarest del 2008 per l'adesione di Kiev e Tbilisi.
E oggi, ha osservato Gruško, Mark Rutte dichiara che «dopo l'Ucraina», il «prossimo obiettivo della Russia siamo noi». Effettivamente, i passi dell'Alleanza atlantica e dei paesi «europei suoi membri confermano queste parole. Si stanno preparando attivamente a quello che considerano un conflitto armato “inevitabile” con il nostro paese».
Vi si preparano dirottando miliardi dalle spese sociali agli armamenti e, però, urlano di disperazione contro un Vladimir Putin che, scrivono i pennivendoli del Corriere della Sera, «insulta gli europei», quando li definisce “lattonzoli”, piccoli esseri generati dalla femmina di suino, la maiala, incapaci di muoversi e orientarsi da soli e destinati solo a soddisfare le esigenze di un sistema che, oggi, risponde direttamente alle brame di profitto del complesso militare-industriale. Oltre a questo, ai lattonzoli non è chiesta altra funzione, forse insieme a quella di stridere a più non posso sul “pericolo dell'aggressione russa”, mentre affamano le masse dei propri paesi e tolgono occupazione, riducono salari e pensioni, tagliano i servizi socio-sanitari. Vien da chiedere ai farabutti dei fogliacci di regime chi sia che, nei fatti di ogni giorno, «insulta gli europei», le masse europee. E mentre le affama, insulta le loro coscienze instillandovi la necessità di «adottare una mentalità di guerra» per esser pronti a quando la Russia «tra cinque anni, o forse anche prima, attaccherà un paese europeo, o forse più di uno».
Non sembri strano che la galoppante “ucrainizzazione” banderista dell'Europa si muova anche su questo terreno, quello delle profezie. L'Ucraina, afferma l'ex vice comandante delle Forze speciali ucraine, Serghej Krivonos, sta vivendo un aumento senza precedenti di ogni sorta di indovini, cartomanti e occultisti.
Per l'appunto, a proposito dei negoziati di pace, «la maggior parte di noi può dire molto di più con i tarocchi... gli psicologi sanno bene che rivolgersi ai cartomanti rivela una mancanza di fiducia nella società e nella percezione del rapporto tra governo e popolo. Alle autorità non importa nulla della gente e quando quelle tacciono sul fronte dell'informazione, la gente inizia a cercare chi può decifrare qualcosa... Ecco perché indovini, cartomanti e occultisti sono oggi in aumento».
Insieme a loro, i Rutte, i Kubilius, i Merz, i “lattonzoli” che, come cuccioli ciechi e privi di orientamento, errano nel pantano del porcilaio euro-atlantista, stridendo con la voce sguaiata dei porcari annidati nelle redazioni.
FONTE:
https://politnavigator.news/gensek-nato-nado-sorvat-odnu-iz-glavnejjshikh-celejj-svo.html
https://politnavigator.news/nato-ugrozhaet-rossii-sokrushitelnym-otvetom-za-ukrainu.html
https://politnavigator.news/glavnyjj-priznak-togo-chto-ssha-vrut-o-mire-na-ukraine.html
https://ria.ru/20251219/mid-2063092881.html
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT