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Venticinque anni fa, quando ero una studentessa di livello avanzato con un profondo interesse per le questioni politiche, ricordo di aver partecipato a un evento della comunità musulmana in cui un avvocato fu chiamato sul palco per fare una presentazione improvvisata sul nuovo Terrorism Act del 2000, recentemente introdotto nel Regno Unito.
Mise in guardia dal cambiamento che questa nuova legge comporta, spostando l'antiterrorismo dall'ambito della legislazione di emergenza a un quadro giuridico primario, insieme alla sua nuova attenzione alla definizione del terrorismo in relazione all'ideologia, piuttosto che al conflitto.
All'epoca mi sembrò agghiacciante, ma nella sala aleggiava anche un senso di sconcerto. Non credo che nessuno tra il pubblico avrebbe potuto immaginare quali sarebbero state le implicazioni durature, non solo per la libertà di espressione, ma anche per la condizione dei musulmani nel Regno Unito.
Molti dei gruppi proscritti da questa legge operavano nel mondo musulmano, alcuni con una visione apertamente islamica. Cosa significherebbe per i musulmani questa potenziale associazione tra l'azione politica musulmana e il terrorismo ideologico?
L'anno successivo, si verificò l'11 settembre, e le sue conseguenze immediate furono avvertite visceralmente nelle comunità musulmane di tutto il mondo. Un argomento di grande costernazione tra i raduni musulmani del Regno Unito divenne la domanda: "Abbiamo un futuro in questo Paese?"
In un'epoca in cui la legislazione antiterrorismo si stava esplicitamente concentrando sul demone popolare islamista, la preoccupazione era che intere comunità sarebbero diventate capri espiatori: che l'ingerenza statale e le leggi draconiane avrebbero alimentato e aggravato un clima di sospetto, rendendo la vita insostenibile per molti musulmani di origine immigrata nel Regno Unito. Il ricordo del genocidio bosniaco era ancora fresco nella mente delle persone.
Le organizzazioni e gli attivisti musulmani si sono occupati di questo tema in vari modi. Alcuni hanno investito molto nello sviluppo di una narrazione e di una strategia politica incentrate sulla lealtà allo Stato-nazione. La logica era che le nostre comunità si sono stabilite qui da generazioni; questa è la nostra casa e dobbiamo accoglierla con forza come tale.
Molti grandi gruppi e istituzioni musulmane diedero priorità all'obiettivo di garantire legittimità presso l'opinione pubblica, piuttosto che impegnarsi in campagne a favore di comunità e individui vittimizzati e assediati. Guardare all'esterno per affermare che l'Islam e i musulmani non erano una minaccia, erano autoctoni e rappresentavano una risorsa per la nazione era considerata una strategia più astuta in quel momento, e che avrebbe avuto maggiori probabilità di garantire stabilità e longevità nelle attuali circostanze politiche.
Questo approccio è stato manifestato attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica che sottolineavano la capacità di relazionarsi con i vicini musulmani e che esploravano la lunga storia dell'Islam nel Regno Unito, incluso il servizio musulmano nelle forze armate, oltre a evidenziare il valore economico della "sterlina musulmana".
Grande enfasi è stata posta anche sull'articolazione degli strumenti teologici relativi al dovere civico di un musulmano in un Paese non musulmano. Tra questi, l'obbligo di onorare la nostra cittadinanza obbedendo alle leggi del Paese e rimettendoci alle norme sociali e politiche prevalenti.
Si è discusso dell'obsolescenza delle categorizzazioni territoriali classiche: si sosteneva che avremmo potuto considerare il Regno Unito come "dar al-shahada", la dimora della testimonianza e un luogo in cui, nonostante i suoi difetti, avevamo lo stato di diritto e l'opportunità di praticare la nostra fede apertamente e in sicurezza.
Ne consegue che i musulmani dovrebbero impegnarsi con tutto il cuore, e per alcuni, esclusivamente, ad accettare la cittadinanza britannica. Dopotutto, i loro Paesi di origine erano dittature autoritarie in cui l'azione religiosa e il dissenso politico venivano spesso perseguitati spietatamente, senza alcun ricorso al giusto processo o alla trasparenza.
Questa spinta intenzionale e palese a dimostrare visibilmente la lealtà allo Stato, alla sua storia e alla sua cultura – a sposare una particolare forma di britannicità – sperava di trovare risonanza e rassicurare i media e l'establishment politico, entrambi apparentemente incessantemente affascinati dall'interrogarsi su dove risiedesse realmente la lealtà dei musulmani. In breve, abbiamo assistito a una politica di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione.
Facciamo un salto in avanti di un decennio e, nel 2010, successivi aggiornamenti alla legislazione antiterrorismo avevano sancito per legge restrizioni alla parola e all'espressione, ampliando al contempo la portata dello stato di sicurezza nei settori della sorveglianza e della detenzione senza accusa.
In particolare, gli anni 2010 sono stati quelli in cui abbiamo assistito all'emergere di una massiccia privazione della cittadinanza, anche per motivi di "bene pubblico", che, come sottolinea un nuovo rapporto del Runnymede Trust e di Reprieve, colpisce principalmente i musulmani di origine sud asiatica, mediorientale o nordafricana.
Sebbene inizialmente scioccante, col tempo l'idea di privare della cittadinanza è diventata una caratteristica normalizzata delle prerogative del Ministro degli Interni. I casi più eclatanti sono stati quelli che i media e le istituzioni politiche hanno cospirato per demonizzare nell'immaginario pubblico, come Abu Hamza al-Masri e, forse il più importante, Shamima Begum.
Per rappresentare entrambe queste figure come mostri agli occhi del grande pubblico, sono stati utilizzati stereotipi islamofobi. Sono stati caricaturati a causa di aspetti del loro aspetto fisico considerati sgradevoli, minacciosi e alieni.
"Capitan Uncino" è il nome con cui i titoli hanno ritratto Abu Hamza e, naturalmente, Begum è stata adulterata come una "sposa jihadista", un modo per ottenere il consenso pubblico per misure draconiane e autoritarie che, in circostanze normali, avrebbero suscitato incredulità per la loro erosione dello stato di diritto.
Tutti i musulmani coinvolti nella crescente rete di securitizzazione del Regno Unito venivano ora associati a queste figure "mostruose" e, quindi, rappresentavano plausibilmente una minaccia ideologica, anzi esistenziale, che poteva essere esclusa se ritenuta appropriata dallo Stato, lasciandoci con un regime di cittadinanza a due livelli.
La neutralizzazione degli atteggiamenti pubblici e politici non è stata l'unica conseguenza di questo regime. Ho trascorso gli ultimi quattro anni esplorando e mappando con i colleghi aspetti del panorama digitale musulmano britannico. Nel farlo, ho notato un numero significativo di influencer che utilizzano i social media per discutere e approfondire il concetto di "hijra".
Questo termine arabo si traduce letteralmente con "migrazione", ma è utilizzato da alcuni per descrivere uno spostamento da un ambiente in cui si sperimentano ostilità o persecuzioni a un luogo o una comunità in cui è possibile praticare più liberamente la propria fede, evocando la migrazione del profeta Maometto e della prima comunità di musulmani dalla Mecca a Medina.
Il sottotesto di questi discorsi è la sensazione che, per molti musulmani britannici, il Regno Unito non sia la patria che loro (o i loro genitori) avrebbero potuto immaginare, e che sia saggio predisporre un piano di fuga, per ogni evenienza. Tali piani si stanno sempre più avvicinando alla categoria del "quando", non del "se".
L'idea che il Regno Unito offra sicurezza e stabilità per una vita appagante ha meno presa su molti musulmani.
Vedo questo discorso nei resoconti "come fare", che offrono consigli passo dopo passo su luoghi, processi e procedure, cosa fare e cosa non fare. Ma ci sono anche discussioni teologiche e sociologiche, che analizzano e collegano momenti storici e offrono consigli ai cittadini con doppia cittadinanza su come affrontare i pericoli specifici del loro status.
Pertanto, il recente rapporto Runnymede/Reprieve, che rileva che le persone di colore hanno 12 volte più probabilità rispetto ai britannici bianchi di essere a rischio di revoca della cittadinanza, non è stato accolto con allarme, ma piuttosto come un'annoiata ammissione di ciò che molti musulmani britannici hanno già interiorizzato.
Nel 2025, molte delle persone che languiscono nelle carceri del Regno Unito per la loro presunta partecipazione ad azioni dirette contro i produttori di armi che riforniscono Israele del genocidio in Palestina , sono le stesse cresciute all'ombra di questo regime a due livelli. Per loro, il più ampio contesto politico di draconiana estensione e sospensione del giusto processo non è un'aberrazione scandalosa, come io e i miei coetanei della generazione dei Millennial avremmo potuto considerare i suoi precursori nel 2000.
Loro, e altre voci dissenzienti, vengono ritratti come sovversivi e anti-britannici, esponenti della quinta colonna, e sono quindi ben consapevoli della precarietà del loro status. Guardando oltre Atlantico, arresti arbitrari e molestie da parte dei funzionari dell'immigrazione statunitensi sottolineano la sensazione che l'accesso al giusto processo per i cittadini musulmani o i residenti in Occidente non sia una questione di diritti, ma di opportunità politica.
Questa generazione è molto meno interessata a dimostrare la propria gradimento e simpatia a un sistema che li ha disumanizzati per fini politici. Le strategie di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione dei loro genitori devono sembrare lontanissime dalla loro realtà attuale.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Nonostante la sua opposizione diplomatica al genocidio dei palestinesi di Gaza da parte di Israele, il Sudafrica ha aumentato drasticamente le esportazioni di carbone verso Israele, contribuendo a compensare la perdita delle importazioni di carbone dalla Colombia.
Secondo i dati sulle spedizioni citati da Reuters il 16 dicembre, le esportazioni di carbone dal Sudafrica verso Israele sono aumentate dell'87 percento su base annua nei tre mesi fino a novembre, fornendo circa il 55 percento delle importazioni di carbone via mare di Israele.
Le spedizioni sudafricane hanno aiutato Israele a soddisfare il suo fabbisogno energetico in tempo di guerra, dopo che le esportazioni di carbone colombiano sono scese a zero a novembre.
Il presidente colombiano Gustavo Petro ha annunciato la sospensione delle esportazioni di carbone verso Israele nel giugno 2024, più di un anno fa.
"Il carbone colombiano viene utilizzato per costruire bombe destinate a uccidere i bambini palestinesi", aveva scritto Petro all'epoca in un post su X.
Petro aveva ribadito che le spedizioni di carbone non riprenderanno finché Israele non avrà obbedito all'ordine della Corte internazionale di giustizia (ICJ) di interrompere l'assalto a Rafah, nella striscia di Gaza meridionale.
Tuttavia, nel 2025 la Colombia continuava a inviare carbone a Israele, rappresentando il 42 percento delle importazioni, a causa di scappatoie legali che consentivano la consegna nell'ambito di accordi di fornitura a lungo termine.
Petro ha adottato ulteriori misure nell'agosto 2025, ponendo di fatto fine alle esportazioni colombiane entro novembre.
Il ministro del Commercio sudafricano, Parks Tau, ha giustificato la continuazione degli scambi commerciali con Tel Aviv, affermando che sanzionare Israele potrebbe violare le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Tuttavia, secondo quanto riportato da Reuters, la Colombia, che è anche membro dell'OMC, non avrebbe dovuto affrontare alcuna contestazione formale in seguito al divieto di esportazione del carbone.
Il governo del Sudafrica è stato uno dei pochi ad adottare misure diplomatiche contro Israele dopo l'inizio della guerra genocida contro Gaza nell'ottobre 2023. Nel dicembre dello stesso anno, Praetoria ha intentato una causa contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, accusando Tel Aviv di aver violato la Convenzione sul genocidio.
A distanza di oltre due anni, la Corte internazionale di giustizia non ha ancora emesso una sentenza definitiva, mentre Israele ha ignorato le ingiunzioni temporanee della corte che chiedevano la fine delle operazioni militari.
Nonostante la condanna internazionale delle azioni di Israele, che hanno causato la morte di almeno 71.000 palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali sono donne e bambini, molte nazioni continuano a fornire risorse per alimentare l'economia e l'esercito di Israele.
Sebbene il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sia stato uno dei principali critici di Israele in pubblico, continua a consentire che il petrolio azero destinato a Israele venga trasportato attraverso l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.
La Turchia è tra i 25 paesi che hanno fornito a Israele petrolio greggio e petrolio raffinato, nonostante il genocidio in corso a Gaza.
L'8 dicembre, il Sudafrica ha posto fine all'esenzione dal visto di 90 giorni per i titolari di passaporto palestinese, citando voli "misteriosi" provenienti da Israele che trasportavano centinaia di palestinesi nel Paese.
Il dipartimento aveva lamentato in una nota che gli attori israeliani stavano abusando dell'esenzione per promuovere la cosiddetta "emigrazione volontaria" dei palestinesi dalla Striscia di Gaza.
A novembre, un aereo charter proveniente da Israele, con scalo in Kenya, ha trasportato 153 rifugiati palestinesi da Gaza al Sudafrica. A fine ottobre, un altro aereo ha trasportato 176 palestinesi.
Israele ha cercato di distruggere la Striscia di Gaza, inclusi alloggi, moschee, scuole, ospedali e infrastrutture, per rendervi la vita impossibile. I funzionari israeliani sperano che la distruzione non lasci ai palestinesi altra scelta che abbandonare la loro patria, lasciandola "ripulita" e disponibile per l'insediamento degli ebrei israeliani.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avevano coordinato congiuntamente la guerra di giugno contro l'Iran mesi prima, organizzando al contempo una campagna di inganni sui media volta a presentare Washington come opposta ai piani di Tel Aviv contro Teheran, hanno riferito alcune fonti al Washington Post il 17 dicembre.
Secondo le fonti, Netanyahu ha incontrato Trump a febbraio e gli ha fornito quattro opzioni su come potrebbe avvenire un attacco all'Iran.
"Il primo ministro israeliano ha innanzitutto mostrato a Trump come sarebbe stata l'operazione se Israele avesse attaccato da solo. La seconda opzione era che Israele prendesse il comando, con un supporto minimo da parte degli Stati Uniti. La terza era la piena collaborazione tra i due alleati. L'ultima opzione era che gli Stati Uniti prendessero il comando", si legge nell’articolo.
"Sono iniziati mesi di pianificazione strategica furtiva e intensiva. Trump voleva dare una possibilità alla diplomazia nucleare con l'Iran, ma ha continuato a condividere informazioni di intelligence e a pianificare le operazioni con Israele", ha aggiunto. "L'idea era: se i colloqui falliscono, siamo pronti a partire".
Un giorno prima dell'inizio della guerra, Trump dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero potuto potenzialmente colpire l'Iran, ma che preferiva una soluzione diplomatica.
"Lui e Netanyahu hanno manovrato per lasciare gli iraniani impreparati a ciò che sarebbe successo dopo", hanno continuato le fonti.
Tel Aviv ha fatto trapelare la notizia che il ministro degli Affari strategici di Netanyahu, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, avrebbero presto incontrato l'inviato statunitense Steve Witkoff.
Un round di colloqui nucleari tra Stati Uniti e Iran era previsto per il 15 giugno. Tuttavia, il 13 giugno Israele lanciò attacchi preventivi contro strutture militari e nucleari in Iran, innescando la guerra.
"Israele aveva deciso di colpire, come gli Stati Uniti sapevano bene. La diplomazia pianificata era uno stratagemma, e i funzionari di entrambi i Paesi incoraggiavano le notizie dei media su una frattura tra Stati Uniti e Israele. Tutte le notizie che circolavano sul fatto che Bibi non fosse sulla stessa lunghezza d'onda di Witkoff o Trump non erano vere. Ma è stato positivo che questa fosse la percezione generale, ha contribuito a far procedere la pianificazione senza che molti se ne accorgessero", hanno affermato le fonti.
Dopo l'inizio della campagna indiscriminata di Israele, Washington ha proposto un accordo irrealistico, chiedendo a Teheran di rinunciare al sostegno a Hezbollah e Hamas e di sostituire i principali siti nucleari con impianti che non consentano l'arricchimento dell'uranio, come rivelato per la prima volta dal rapporto.
"Poco dopo che gli Stati Uniti hanno trasmesso la proposta all'Iran tramite diplomatici del Qatar, Teheran l'ha respinta e Trump ha autorizzato gli attacchi statunitensi", ha dichiarato una fonte diplomatica di alto livello al Washington Post.
Almeno 1.000 persone, tra cui centinaia di civili, sono state uccise in Iran durante i 12 giorni di guerra.
Gli assassinii di importanti scienziati nucleari da parte di Israele hanno causato la morte di decine di civili, tra cui il figlio adolescente di uno scienziato che non si trovava in casa al momento dell'attacco.
I media ebraici avevano già confermato a giugno che Trump aveva finto di essere contrario a un attacco all'Iran, mentre in segreto aveva dato il via libera alla campagna di Israele.
Fin dall'inizio della guerra a Gaza, i resoconti dei media statunitensi e occidentali hanno regolarmente tentato di inquadrare Washington come "frustrata" dalle azioni di Israele, nonostante il suo palese sostegno militare a Tel Aviv durante tutto il genocidio.
Tra ottobre 2023 e settembre 2025, almeno 46 articoli sono stati pubblicati sui media occidentali in cui si descrivevano l'ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Trump come "frustrati" dalle azioni di Israele.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
di Federico Giusti e Valentina Salada
Il dato più inquietante è ormai evidente e non potrà essere eluso da chicchessia: in diversi Atenei, il numero dei ricercatori e lavoratori non strutturati è superiore al personale stabile. Un sistema inefficiente, ingiusto e anche iniquo. Non possiamo parlare di "formazione" quando si vanno espellendo migliaia di ricercatrici e ricercatori dopo anni di attività, di lavoro e di pubblicazioni, non potremo definire "merito" una competizione costruita su criteri che ignorano la precarietà strutturale di chi produce la maggior parte delle pubblicazioni e dei progetti.
Sul definanziamento prosperano poi interferenze esterne sempre più marcate: fondazioni private, poli industriali e persino apparati militari tramite il paradigma europeo del "dual use" che spinge la ricerca verso finalità tecnologico-militari. La semplice disponibilità di fondi diventa leva di pressione per cercare di orientare l'offerta formativa. Come nel recente caso dell'Accademia Militare di Modena che, tramite un corridoio di influenze, aveva cercato un accordo con il Magnifico Rettore dell'Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, successivamente respinto dal Consiglio di Dipartimento di Filosofia, che non ha voluto garantire le risorse di docenza. Tale accordo, se attuato, avrebbe di fatto trasformato l'Ateneo bolognese in un campo di addestramento della retorica militare.
In un contesto già minato da carichi di lavoro insostenibili, salari stagnanti, tagli ai diritti economici e sociali e con appalti al massimo ribasso, appare paradossale discutere di riforme della struttura istituzionale e organizzativa delle università o di strategie per intercettare finanziamenti destinati a bilanci ormai al collasso, mentre ciò che realmente serve è stabilizzare, assumere, finanziare.
Le università sono fatte di persone. Tutte. Chi apre le aule, chi pulisce i corridoi, chi fa funzionare laboratori, biblioteche, servizi, chi insegna e chi fa ricerca. La qualità dell'università coincide con la dignità riconosciuta a chi contribuisce alla sua funzione pubblica e non con la brillantezza dei suoi documenti strategici.
Per questo, come delegati della Cub siamo convinti che sia indispensabile considerare il sapere alla stregua di un bene comune, che la precarietà non possa essere normalizzata, che senza un finanziamento stabile e adeguato non esiste alcuna autonomia possibile dell'università e della ricerca.
Allora pensiamo indispensabile aprire una discussione nel mondo universitario perseguendo alcuni obiettivi, ad esempio
– ribadire che l'Università rifiuta la guerra rafforzando invece il boicottaggio accademico contro chi è complice in genocidio e guerre;
– contro la più grande espulsione di massa nella storia della ricerca universitaria, con la scadenza di decine di migliaia di contratti precari; una deroga ai tetti di spesa per assumere migliaia di precari da qui a un paio di anni
– contro le nuove direttive governative che vogliono disciplinare gli Atenei;
- assunzioni e aumenti salariali di almeno 500 euro al mese con scatti biennali automatici,
-per un’Università pubblica e adeguatamente finanziata.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Il 2025 segna una fase di particolare importanza nel percorso di modernizzazione della Cina. Ripercorrendo l’ultimo anno, lo sviluppo economico e sociale del Paese ha continuato a procedere con passo sicuro, mentre le riforme e l’apertura si sono ulteriormente approfondite, mostrando una notevole resilienza e vitalità in un contesto internazionale complesso e in rapido mutamento.
La recente Conferenza Centrale sul Lavoro Economico ha tracciato con chiarezza le priorità strategiche per il prossimo anno. Oggi abbiamo il piacere di ospitare diversi esperti per analizzare come l’economia cinese possa mantenere una crescita stabile e sostenibile nel lungo periodo e quali nuove opportunità di sviluppo essa sia in grado di offrire ai partner globali.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha definito il prestito dell'Unione Europea (UE) all'Ucraina uno spreco di denaro, sostenendo che continua a finanziare il conflitto tra Kiev e Mosca anziché la sua risoluzione pacifica.
"È un bene che non partecipiamo. Sono soldi sprecati", ha dichiarato durante una breve conferenza stampa dopo la riunione del Consiglio europeo, dove i leader dell'Unione hanno deciso di ricorrere a una nuova emissione congiunta di debito invece di utilizzare i beni russi congelati per finanziare il prestito a Kiev. "Con questo evidente onere di debiti inesigibili, potrebbero non essere gli attuali decisori a pagarlo, ma i loro figli e nipoti per molti, molti anni", ha affermato Orbán.
Orbán ha anche definito il prestito una "sfortunata decisione che avvicina l'Europa alla guerra ". "Un prestito per le riparazioni significherebbe una guerra immediata . Pensateci: ci sono due parti in guerra. Tu sei una terza parte che va lì, prende una grande quantità di denaro da una parte e la dà al suo nemico. Cosa significa? È guerra", ha spiegato il primo ministro.
È stata quindi approvata la decisione di erogare 90 miliardi di euro (quasi 105,5 miliardi di dollari) attraverso una nuova emissione congiunta di debito. Questo schema, tuttavia, sarebbe stato concepito senza la partecipazione di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, Paesi che si sono opposti all'utilizzo di risorse russe.
"Orbán ha ottenuto ciò che voleva: nessun prestito di riparazione. E un'azione dell'UE senza la partecipazione di Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia", ha spiegato un diplomatico europeo alla Reuters.
Secondo il testo approvato, gli Stati membri dell'UE e il Parlamento europeo continueranno a lavorare per fornire all'Ucraina un prestito finanziato con fondi russi congelati. Questo prestito a Kiev, basato sull'emissione di debito congiunto, verrebbe rimborsato dall'Ucraina solo una volta ricevute le riparazioni; fino ad allora, i beni russi rimarrebbero congelati e l'Unione si riserva il diritto di utilizzarli per rimborsare il prestito, si stima.
Secondo alcune fonti, la difficoltà principale nel prendere la decisione sull'utilizzo del denaro russo è stata quella di fornire al Belgio, dove si trova la maggior parte dei fondi russi, garanzie sufficienti per affrontare i possibili rischi finanziari e legali derivanti da un'eventuale rappresaglia da parte di Mosca per la confisca del denaro.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Un eroe russo, che ha partecipato alla liberazione della città strategica di Seversk, situata nella Repubblica Popolare di Donetsk, ha fornito dettagli su come l'esercito russo è riuscito a conquistare la città.
Durante la tradizionale maratona annuale di domande e risposte con il presidente russo Vladimir Putin, tenutasi questo venerdì, al presidente è stato chiesto della situazione nella città appena liberata, al che ha risposto che c'è la possibilità di sentire tutto in prima persona, dato che il comandante che ha partecipato a queste operazioni è presente all'evento.
In risposta, Naran Okhir-Goryayev, eroe della Russia e comandante di una compagnia d'assalto, ha raccontato che la parte più difficile della liberazione della città è stata raggiungerla senza essere scoperti , perché "il terreno era aperto e non c'era quasi nessuna copertura naturale", quindi "si decise di avanzare in piccoli gruppi senza attirare l'attenzione". "E la missione fu compiuta", ha spiegato il soldato.
Rispondendo a una domanda su come i soldati ucraini trattassero i civili rimasti a Seversk, ha ricordato che i residenti locali erano stati a lungo sottoposti a "pressione costante" e che, quando hanno liberato la loro area di responsabilità in città, si sono resi conto che i soldati dell'esercito ucraino stavano sparando ai civili che si rifiutavano di andarsene con loro. "La gente non aveva armi; venivano semplicemente fucilati per essere rimasti lì ", ha detto, aggiungendo che quando sono entrati, le persone erano in condizioni critiche, " fisicamente e moralmente esauste".
Ha aggiunto che hanno giustiziato principalmente giovani civili tra i 30 e i 40 anni , senza processo né indagini. "[Hanno giustiziato] giovani, soprattutto giovani tra i 30 e i 40 anni. Li hanno semplicemente portati fuori e li hanno fucilati senza processo né indagini, tutti senza eccezione", ha affermato.
Il comandante russo ha anche osservato che 24 gruppi, 84 persone, hanno preso parte alla cattura di Seversk e che quattro soldati sono morti in combattimento.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Come l'AntiDiplomatico vi abbiamo dato una grande copertura ieri sui nostri social della grandissima giornata di lotta degli agricoltori di Belgio e Francia contro l'accordo tra Mercosur e Unione Europea.
Ursula Von Der Leyen avrebbe dovuto firmare l'accordo nella giornata del 20 dicembre in Brasile, ma il dissenso di un numero sempre crescente di paesi pone a rischio la conclusione dell'accordo.
Intanto oggi il Consiglio ha sancito l'azzeramento dell'attuale Commissione, aggiungendo al fallimento sul Mercosur la capitolazione sugli asset russi, sui quali Ursula aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto. L'accordo partorito - e di cui vi daremo aggiornamenti su l'AntiDiplomatico durante la giornata - elimina i beni russi dalla partita e prevede un prestito su debito comune molto più esiguo, 90 miliardi di euro, che copriranno la corruzione interna di Kiev sulle spalle dei contribuenti europei per alcuni mesi, ma rappresentano un piccolissimo e inutile palliativo rispetto al crollo sistemico del paese. Senza gli Stati Uniti, i paesi dell'UE al collasso socio-economico non sono in grado di andare oltre i prossimi sei mesi. Questo è emerso nel Consiglio in modo inequivocabile.
C'è un video che sta diventando virale e che esemplifica alla perfezione il disastro attuale dell'Unione Europea. La capitale dell'Ue, Bruxelles, si è risvegliata oggi con le Bmv dei tecnocrati intrappolate dalle patate lasciate sulle strade dagli agricoltori.
???????? Potato Aftermath, Brussels, Belgium
— Concerned Citizen (@BGatesIsaPyscho) December 19, 2025
The farmer protest against the EU, saw them line the streets of Brussels with potatoes everywhere.
What is this BMW get stuck the morning after! pic.twitter.com/vJdFWPKvGh
Una immagine che vale più di ogni parola. Nella speranza che i popoli europei seguano il risveglio partito dagli agricoltori del Belgio.
Il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, interviene come di consueto con i giornalisti nel contesto della tradizionale "linea diretta" combinata con la conferenza stampa annuale del Presidente. Secondo il Cremlino, per l'edizione di quest'anno, caratterizzata da una forte componente tecnologica e dalla pre-selezione delle domande tramite l'intelligenza artificiale GigaChat di Sberbank, sono pervenute oltre due milioni di richieste. Il portavoce presidenziale Dmitry Peskov ha evidenziato come le questioni relative all'operazione militare speciale siano state prioritarie e come sia stato garantito spazio anche ai media stranieri, "per dare loro l'opportunità di vedere e ascoltare il nostro Presidente".
Nelle sue prime risposte, Putin ha riaffermato la posizione di Mosca riguardo alla risoluzione del conflitto in Ucraina, attribuendo le origini della crisi agli eventi del 2014 e al successivo fallimento degli accordi di Minsk. "Desidero ricordare come tutto ebbe inizio: con il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e l'inganno circa una possibile soluzione pacifica a tutti i problemi dopo gli accordi di Minsk", ha dichiarato il leader russo. Ha poi aggiunto che nel 2022, quando le tensioni raggiunsero l'apice e il regime di Kiev scatenò la guerra nel sud-est del paese, la Russia si trovò costretta a riconoscere le repubbliche separatiste. "Fu detto loro: sarebbe stato meglio permettere semplicemente alle persone di vivere in pace come desiderano, senza colpi di Stato e senza russofobia. Allora non lo vollero", ha affermato Putin.
Il Presidente ha sottolineato che, in seguito ai negoziati di Istanbul, l'Ucraina avrebbe inizialmente accettato una roadmap negoziale, per poi rifiutarsi e respingere tutti gli accordi. "Al momento – ha osservato Putin – non vi è alcun segno della volontà di Kiev di porre fine al conflitto". Tuttavia, ha ribadito la disponibilità di Mosca: "Siamo pronti e disposti a terminare questo conflitto con mezzi pacifici, sulla base dei principi che ho esposto lo scorso giugno al Ministero degli Esteri russo, affrontando le cause profonde che hanno portato a questa crisi".
La Situazione sul Fronte Militare
Sul piano operativo, il Presidente ha fornito un'analisi dettagliata della situazione sul campo, dichiarando che le truppe russe continuano ad avanzare lungo l'intera linea del fronte. "Le nostre truppe stanno avanzando su tutta la linea del combattimento. In alcuni settori più rapidamente, in altri più lentamente, ma in tutte le direzioni il nemico si sta ritirando", ha detto.
Putin ha attribuito un significato strategico particolare alla liberazione della provincia russa di Kursk, affermando che essa ha segnato il passaggio completo dell'iniziativa strategica nelle mani delle Forze Armate Russe. Nel contempo, ha riferito che circa 3.500 soldati ucraini risulterebbero accerchiati nell'area di Kupiansk.
Parallelamente, il leader russo ha commentato lo stato delle riserve strategiche ucraine, sostenendo che subirebbero perdite gravissime a causa delle azioni russe. "Sembra che il nemico abbia subito perdite molto serie nelle sue riserve strategiche. Praticamente non ne sono rimaste", ha dichiarato.
Sulle Risorse Congelate: "Non è Furto, è Rapina"
In merito ai piani dell'Unione Europea di confiscare le attività russe congelate, Putin ha risposto a una domanda definendo l'eventuale atto non come "furto", bensì come "rapina". "Il furto è la sottrazione segreta della proprietà, mentre qui si cerca di farlo apertamente. È rapina", ha chiarito. Ha quindi avvertito che tale azione potrebbe avere "conseguenze serie per i ladri", colpendo i bilanci dei paesi coinvolti e infliggendo "un colpo alla loro immagine, minando la fiducia". "Ma, soprattutto – ha concluso – qualsiasi cosa rubino e in qualsiasi modo, un giorno dovranno restituirla", assicurando che la Russia difenderà i propri interessi in sede giudiziaria.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 10:00:00 GMT



Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha espresso forte preoccupazione per l’escalation di tensioni tra Stati Uniti e Venezuela provocate dalle mosse ostili di una Washington sempre più tracotante, ribadendo che l’America Latina è una regione di pace e che una guerra sarebbe inaccettabile. Lula ha dichiarato di non comprendere le reali ragioni dell’ostilità degli Stati Uniti verso Caracas: “Nessuno dice chiaramente quali interessi ci siano dietro questa aggressione”.
Il leader brasiliano ha confermato di aver parlato sia con Nicolás Maduro sia con Donald Trump, sottolineando la necessità di una soluzione diplomatica. Con oltre 2.000 chilometri di confine con il Venezuela, il Brasile - ha spiegato - ha una grande responsabilità nella stabilità del continente. “Non vogliamo una guerra nel nostro continente”, ha ribadito. Lula si è detto disponibile a svolgere un ruolo di mediatore, ricordando la sua esperienza passata nel favorire il dialogo tra governi contrapposti. A suo avviso, la diplomazia “dà molti più risultati delle posizioni belliciste”.
Il presidente brasiliano starebbe valutando un nuovo colloquio con Trump prima di Natale per capire come contribuire a un accordo pacifico. Le dichiarazioni arrivano mentre gli Stati Uniti intensificano le operazioni militari nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico, giustificate come parte della lotta al narcotraffico, ma contestate da Caracas e da diversi Paesi, oltre che in palese violazione del diritto internazionale.
Il Venezuela denuncia un tentativo di cambio di regime e accusa Washington di usare il pretesto della droga per accaparrarsi le sue ingenti risorse energetiche. In un contesto di condanne internazionali e crescenti tensioni, Lula insiste: il dialogo è l’unica strada per evitare una “guerra fratricida” in Sudamerica.
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Caracas alza la voce contro quelle che definisce le mire coloniali di Washington. In risposta alle recenti dichiarazioni del presidente statunitense Donald Trump, le più alte cariche venezuelane lanciano un duplice atto di accusa: gli Stati Uniti, dietro il pretesto fasullo della democrazia e della lotta al narcotraffico, mirano in realtà all'appropriazione delle immense risorse naturali del paese sudamericano. Una "maschera caduta", che rivela l'essenza predatoria dell'aggressione imperialista.
Diosdado Cabello, segretario generale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) e ministro degli Interni, ha tuonato nel suo programma televisivo "Con el Mazo Dando", definendo quella di Trump una "vera confessione". Come evidenziato da Cabello, la narrativa su diritti umani o terrorismo è solo una facciata per coprire il vero fine: il controllo del petrolio, delle terre e delle ricchezze nazionali. "Quello che infastidisce gli Stati Uniti è la dignità del popolo venezuelano", ha affermato, sostenendo che da 17 mesi il governo nordamericano conduce un "terrorismo psicologico" attraverso campagne mediatiche false per giustificare sanzioni e blocchi.
#GringosVáyanseAlCarajo | Con El Mazo Dando - Programa 556 https://t.co/kHY4tVUM79
— Con el Mazo Dando (@ConElMazoDando) December 18, 2025
Il ministro ha respinto con forza anche le accuse sul narcotraffico, bollandole come menzogne costruite per criminalizzare la nazione bolivariana, e ha attaccato ferocemente l'opposizione estremista e golpista venezuelana, definendola "lacche dell'impero". In particolare, ha preso di mira María Corina Machado, accusandola di essere una pedina di potenti multinazionali petrolifere come la ExxonMobil e di politici statunitensi, promuovendo narrative che cercano di giustificare interventi militari. "Solo una persona con l'anima profondamente decomposta può affermare che il 60% dei venezuelani sono narcotraficanti", ha dichiarato, riferendosi a sue recenti dichiarazioni che sono dirette a criminalizzare un'intera popolazione pur di giustificare un intervento militare.
Sulla stessa linea, il presidente Nicolás Maduro ha parlato di un chiaro tentativo di "imporre un governo fantoccio" per trasformare il Venezuela in una colonia. "La verità è stata svelata", ha detto Maduro, definendo le intenzioni statunitensi una "pretesa guerrafondaia e colonialista". Il presidente ha ribadito con forza la sovranità nazionale sulle risorse: "Il petrolio e le nostre ricchezze naturali appartengono al loro unico legittimo proprietario: il sovrano popolo venezuelano". Ha garantito che il commercio delle risorse proseguirà, sfidando quelle che deuncia come minacce illegali al libero scambio.
#ÚLTIMOMINUTO | Presidente de #Venezuela Nicolás Maduro: hoy nuestro pueblo grita en todos los cuarteles, en todas las universidades, en todas las fábricas, en todos los barrios la misma consigna, pero en el siglo XXI: dudar es traición. pic.twitter.com/e3np1cME6M
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 17, 2025
Entrambi i leader hanno sottolineato l'irremovibile difesa della Costituzione venezuelana e l'unità del popolo e delle forze armate per respingere qualsiasi pretesa esterna. Maduro ha anche affermato di aver portato all'attenzione del Segretario Generale dell'ONU, António Guterres, questa "escalation di aggressioni", esprimendo fiducia nel sostegno dei popoli latinoamericani e della comunità internazionale per far prevalere il diritto internazionale. Il messaggio da Caracas è uno solo: il Venezuela bolivariano non cederà mai la sua sovranità. "Il cartello è a nord", ha concluso Cabello, "e vuole il nostro petrolio".
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 15:31:00 GMTUna nuvola di gas lacrimogeni si è alzata oggi di fronte al cuore pulsante dell’Unione Europea. Non è una rivolta di estremisti, ma la disperata protesta di migliaia di agricoltori europei, giunti con i loro trattori per urlare alla tecnocrazia di Bruxelles che il campo è allo stremo. Tra le 10.000 e le 15.000 persone, con un corteo di circa 500 mezzi agricoli, hanno trasformato la capitale europea in un campo di battaglia, scontrandosi con la polizia che ha risposto con cariche e lacrimogeni. Patate e oggetti lanciati contro gli agenti sono il sintomo di una rabbia che non può più essere contenuta da vertici distanti e promesse vuote.
Il motivo dello sciopero è un doppio colpo che, secondo i manifestanti, rischia di cancellare la sovranità alimentare dell'intero continente: l’imminente firma dell’accordo di libero scambio con il Mercosur e i piani della Commissione Europea per tagliare del 22% i fondi della Politica Agricola Comune (PAC). Per gli agricoltori, è la ricetta perfetta per il disastro.
Il trattato UE-Mercosur, oggetto di controversie da oltre venticinque anni, viene denunciato come un tradimento. I produttori europei sostengono che aprirà le porte a prodotti agroalimentari realizzati con standard ambientali, sanitari e sociali ben più bassi di quelli rigorosi - e costosi - imposti nelle campagne d’Europa. “Distruggerà il tessuto agroalimentare europeo e minerà la sicurezza alimentare”, accusano i manifestanti, evidenziando la cruda contraddizione di un’Europa che predica la sostenibilità a casa propria ma la sacrifica sull’altare del libero mercato globale.
A questa minaccia esterna, si somma l’assalto interno: la proposta di taglio ai fondi della PAC del 22%. Per il settore, già stretto tra costi energetici in forte ascesa, burocrazia asfissiante e norme sempre più stringenti, è un colpo inaccettabile. Tra le richieste principali, oltre allo stop all’accordo Mercosur, ci sono infatti il ritiro di quei tagli e una drastica semplificazione della macchina burocratica della PAC, divenuta per molti un incubo quotidiano.
Mentre i trattori bloccavano gli accessi a Bruxeles paralizzando il traffico, la risposta delle istituzioni ha seguito il solito, sterile copione: vuote parole rassicuranti nei palazzi. Il Commissario all’Agricoltura Christophe Hansen e persino la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen hanno incontrato i rappresentanti di COPA-COGECA. Von der Leyen, in un post sui social, ha ripetuto il mantra consueto: “In tempi di incertezza, i nostri agricoltori hanno bisogno di affidabilità e sostegno. E l’Europa sarà sempre al loro fianco”, promettendo “un sostegno forte e sostenuto nel bilancio UE” e “aiuti specifici” per le piccole aziende.
Parole che suonano come un insulto per chi, oggi, ha respirato gas lacrimogeno. La stessa Europa che si proclama “fianco a fianco” con i suoi agricoltori negozia accordi che ne minano la sopravvivenza e propone tagli ai loro già magri sostegni.
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 15:16:00 GMT
di Pasquale Liguori
C’è un genere letterario che a queste latitudini si pratica con disciplina: l’editoriale igienico. Funziona così: davanti a un massacro reale, documentato, si cambia scala morale. Si prende un episodio “lontano” - “La strage che arriva da «down there» (da «laggiù»), come gli inglesi chiamano l’Australia perché è dall’altra parte del mondo)” - e lo si usa come grimaldello per rimettere in ordine il discorso pubblico: non per capire, ma per addomesticare.
L’operazione è sempre la stessa: si dichiara di voler combattere l’antisemitismo e intanto si costruisce un campo magnetico dove qualunque critica radicale a Israele viene squalificata, ricondotta a patologia.
Ecco il trucco. Si parte da un fatto e lo si mette in cornice: “una robusta fetta della nostra «società civile» inserisce senza alcun dubbio gli ebrei morti a Sydney nella contabilità generale della guerra di Gaza”. È un rilievo che pretende lo statuto del fatto, ma che resta una generalizzazione presentata come constatazione per orientare l’opinione. In ogni caso, subito dopo, la cornice diventa il quadro. L’antisemitismo non viene trattato per ciò che è - storicamente, socialmente, politicamente - bensì come effetto collaterale della solidarietà con la Palestina. Come se il problema non fosse l’odio antiebraico (che ha una genealogia occidentale lunga e pesante), ma l’eccesso di indignazione per Gaza.
A quel punto, il passo successivo è inevitabile: la rete diventa il tribunale. Polito rastrella frasi con zelo e le monta come un referto: le vittime dell’eccidio australiano diventano “una conseguenza (numericamente irrilevante) della più grande strage nella Striscia”, “Quasi un «danno collaterale» autoinflittosi da Israele”. E il campionario tossico viene convocato come prova regina: “«È nulla in confronto al GENOCIDIO»”; “«Ma prevedibile, dopo 3 anni di genocidio indiscriminato»”.
Da qui si compie il salto logico, spacciandolo per buonsenso: siccome esistono tali post, allora il cuore del movimento a sostegno della Palestina è corresponsabile. È un classico: prendi la scoria e la fai diventare il materiale. E così, guarda caso, la realtà concreta - colonizzazione, apartheid, pulizia etnica, impunità - scivola fuori scena. Troppa realtà: meglio un caso morale.
L’antisemitismo, invece di essere combattuto come fenomeno reale e autonomo, diventa il filtro selettivo attraverso cui far passare - e restringere - ogni critica efficace a Israele.
Il cuore concettuale dell’editoriale è una morale della moderazione, travestita da diagnosi. Polito parla della “peggiore forma di «disumanizzazione»”, del diritto alla “«pietas»”, del passaggio dall’individuo a un indistinto “loro”. E costruisce la simmetria: “Se un tempo tutti gli ebrei furono considerati colpevoli del «deicidio», oggi tutti gli ebrei sono considerati colpevoli del «genocidio»”. È qui che l’editoriale igienico dà il meglio: prende la dinamica dell’identificazione collettivizzante e la mette al servizio di una funzione disciplinare.
Perché il problema non è ciò che dice sul piano astratto. Il problema è ciò che non dice sul piano concreto. La disumanizzazione viene riconosciuta e denunciata solo quando cambia bersaglio. Quando il corpo colpito è ebreo, scatta l’allarme, la pedagogia, la lezione civile. Quando il corpo colpito è palestinese, invece, per mesi (anni) si è assistito a una disumanizzazione infinitamente più sistematica e istituzionale: il palestinese ridotto a numero, a sospetto, a “scudo umano”, a popolazione sacrificabile. Una disumanizzazione non da commenti social, ma da apparati: media, diplomazia, diritto, algoritmi, forniture militari, veto. Questa però non merita l’editoriale igienico: merita deplorazione senza conseguenze, indignazione a bassa intensità.
E qui sta l’ipocrisia più rivelatrice: l’editoriale, nel suo stesso gesto, mostra come funziona la gerarchia delle vite. Il morto ebreo diventa immediatamente occasione di pedagogia pubblica; il morto palestinese resta sfondo, rumore, contesto. Non perché “non importi”: perché è già stato trasformato in normalità.
Il congegno, poi, si chiude con la parola d’ordine: “E invece spezzare quel circolo vizioso che identifica l’intero ebraismo con Israele sarebbe decisivo per contrastare l’antisemitismo di ritorno…”. Frase che serve a suggerire che la critica radicale a Israele è pericolosa quando è troppo netta, troppo incompatibile con l’ordine. È la versione educata del ricatto: parla pure, ma resta nei limiti; indignati, ma con misura; denuncia, ma senza toccare il fondamento; solidarizza, ma senza mettere in crisi chi arma e copre.
E infatti l’editoriale igienico non finisce mai chiedendo l’unica cosa che conti: responsabilità concrete, rotture reali, fine della copertura politica e militare. Finisce chiedendo moderazione. Cioè, obbedienza, mentre la realtà fa il suo lavoro.
Polito chiude con un monito che sembra inattaccabile: “«L’antisemitismo non è iniziato o finito con l’Olocausto»” e conclude che se non sappiamo riconoscerlo “neanche quando uccide gli ebrei a quindicimila chilometri da Gerusalemme… allora vuol dire che è davvero di nuovo tra noi”. D’accordo, ma chiamiamo anche per nome l’uso politico dell’antisemitismo ridotto a sapone mediatico che lava la complicità e, nello stesso gesto, sporca di sospetto chi denuncia l’impunità.
Il punto, allora, non è solo denunciare l’antisemitismo ma smascherare il modo in cui esso viene usato come tecnologia discorsiva. Quando l’antisemitismo diventa la lente attraverso cui sorvegliare, filtrare e addomesticare la critica a uno stato coloniale, smette di essere combattuto e comincia a essere gestito. In questa operazione non c’è protezione degli ebrei, ma tutela dell’ordine che rende un genocidio possibile. Non c’è memoria storica, ma amministrazione preventiva del dissenso. Non c’è “pietas”, ma una sua distribuzione selettiva, concessa dall’alto a condizione di non disturbare l’impunità.
L’editoriale igienico serve esattamente a questo: a ripulire la scena mentre il crimine continua, a educare la coscienza pubblica non a vedere di più, ma a indignarsi di meno.
Se davvero si vuole contrastare l’antisemitismo che ritorna, bisogna smettere di usarlo come detergente morale e cominciare a spezzare il circuito che trasforma un genocidio in sfondo e la sua denuncia in colpa. Finché quel circuito resta intatto, il sangue continuerà a essere “lontano”. E la coscienza, comodamente, “vicina”.
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Pasquale Liguori e' il curatore della versione italiana di:

Il Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha lanciato un duro monito riguardo alle prossime elezioni legislative in Russia, accusando apertamente l'Occidente di preparare tentativi di influenza. Nel corso di un incontro della commissione per la cooperazione internazionale del partito Russia Unita, i cui contenuti sono stati pubblicati sul sito del Ministero degli Esteri, Lavrov - come riporta l'agenzia TASS - ha dichiarato che Mosca non deve nutrire illusioni e deve prepararsi a possibili ingerenze straniere nel voto per la Duma di Stato del 2026.
"La Russia è il bersaglio speciale degli 'ingegneri' geopolitici occidentali che vogliono condizionare il processo elettorale", ha affermato il capo della diplomazia russa, aggiungendo che durante le recenti elezioni presidenziali il Paese ha già sperimentato l'uso di strumenti di intelligenza artificiale contro di esso. "Visto che da soli non sono così intelligenti, probabilmente devono affidarsi ai risultati della tecnologia moderna in queste questioni", il commento sarcastico di Lavrov.
Il Ministro ha poi allargato il proprio fuoco critico alla scena internazionale, commentando le recenti tensioni transatlantiche. Ha definito "un forte segnale" il fatto che gli Stati Uniti non siano più allineati con la democrazia "così come è intesa in Europa", riferendosi alle critiche statunitensi ai sistemi autoproclamati democratici del Vecchio Continente. In questo contesto, Lavrov ha giudicato "sorprendente" la "schiettezza" della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che ha esortato Washington a non interferire nella cosiddetta "democrazia europea".
Particolarmente dura è stata la reazione di Lavrov alle dichiarazioni della Capa della diplomazia Ue, Kaja Kallas, la quale ha affermato che l'Unione Europea aiuterà l'Armenia nello stesso modo in cui "ha fatto in Moldavia". Il Ministro russo ha bollato queste parole come una "confessione, una confessione sincera e piena", interpretandole come un'ammissione di ingerenza politica.
Infine, Lavrov è tornato sul tema delle elezioni, questa volta in Ucraina, a proposito delle dichiarazioni del presidente USA Donald Trump sulla necessità di svolgere elezioni presidenziali nel paese in guerra. Secondo Lavrov, tali affermazioni sollevano la questione di come l'Occidente intenda "orchestrare" tale appuntamento elettorale, in un chiaro riferimento alla sua narrativa sulla natura controllata dall'esterno del governo di Kiev.
Il discorso del Ministro riflette la costante tensione tra Mosca e le capitali occidentali, con una Russia sempre più assediata da potenze esterne determinate a minarne la sovranità e l'integrità politica, in patria come nelle aree di legittimo interesse storico e strategico di Mosca. Insomma, nonostante la sconfitta sul campo di battaglia in Ucraina i guerrafondai europei nno hanno ancora abbandonato l'idea di infliggere a Mosca una sconfitta strategica.
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 14:37:00 GMTUn importante colpo al traffico internazionale di stupefacenti è stato sferrato a Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong, dove le autorità cinesi hanno sequestrato 430 chilogrammi di cocaina all’interno di un container sospetto presso il porto di Yantian. L’operazione, resa possibile grazie a informazioni tempestive fornite dalla Drug Enforcement Administration (DEA) statunitense, è stata annunciata dal Ministero della Pubblica Sicurezza cinese martedì 16 dicembre 2025 e rappresenta l’ennesimo passo avanti nella crescente collaborazione bilaterale tra Pechino e Washington nella lotta contro il narcotraffico.
La droga è stata rinvenuta il 26 novembre scorso, in una fase in cui Cina e Stati Uniti trasformano in azioni concrete l’intesa raggiunta dai rispettivi leader durante l’incontro di Busan, in Corea del Sud, il 30 ottobre scorso. Secondo un comunicato diffuso il 5 dicembre, entrambe le parti stanno applicando con impegno il consenso emerso da quell’appuntamento di alto livello, con risultati già visibili sul campo. L’inchiesta sull’operazione di Shenzhen è ancora in corso, ma le autorità cinesi non hanno nascosto la soddisfazione per l’efficacia della collaborazione transpacifico in materia di sicurezza.
Zhu Chen’ge, ricercatore associato presso l’Istituto di Studi Americani dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, ha definito questa sinergia “un nuovo punto di forza nel processo di stabilizzazione delle relazioni bilaterali”. “La Cina si è sempre schierata dalla parte della giustizia, sia internamente che nel sostegno ad altri Paesi nella lotta alla droga”, ha affermato, sottolineando come la cooperazione tra le due potenze sia “uno strumento decisivo per affrontare le sfide transnazionali e promuovere una governance globale efficace”.
Al contempo, Zhu non ha risparmiato critiche all’indirizzo degli Stati Uniti, accusati in passato di aver addossato ingiustamente alla Cina la responsabilità della propria crisi interna legata alle droghe, arrivando persino a imporre dazi punitivi sotto questa giustificazione pretestuosa. “L’unica strada percorribile è che gli Stati Uniti affrontino con onestà le proprie problematiche, apprezzino la buona volontà cinese e intensifichino la collaborazione”, ha dichiarato.
Il cammino comune, secondo l’esperto, può e deve essere ulteriormente migliorato: attraverso aggiornamenti dinamici delle sostanze controllate, un dialogo istituzionale più regolare, la creazione di meccanismi di cooperazione tra province cinesi e Stati USA, e l’istituzione di procedure di emergenza per la risoluzione di eventuali controversie. “La lotta comune alla droga potrebbe diventare un nuovo pilastro di stabilità nei rapporti tra Cina e Stati Uniti”, ha concluso Zhu.
L’operazione di novembre a Shenzhen non è un episodio isolato o il primo. Già a febbraio 2025, sempre sulla base di informazioni della DEA, le autorità cinesi avevano sequestrato oltre 4.900 chilogrammi di metanfetamina e arrestato sette sospetti nei pressi dell’isola di Huangyan nel Mar Cinese Meridionale, in un’operazione congiunta tra forze antidroga e Guardia Costiera cinese. Inoltre, a novembre scorso, Pechino ha aggiornato il proprio catalogo di gestione dei precursori chimici, introducendo licenze speciali per l’esportazione verso Stati Uniti, Messico e Canada di 13 sostanze specifiche, in risposta alle preoccupazioni legate al loro utilizzo illegale nella produzione di stupefacenti.
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 14:12:00 GMT
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato il 16 dicembre un "blocco totale" contro tutte le petroliere sanzionate in partenza o in arrivo in Venezuela, segnando l'ultima mossa di Washington in una recente campagna di pressione contro il governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro.
"A causa del furto dei nostri beni e per molte altre ragioni, tra cui terrorismo, traffico di droga e tratta di esseri umani, il regime venezuelano è stato designato come ORGANIZZAZIONE TERRORISTICA STRANIERA", ha scritto Trump in un post su Truth Social.
"Pertanto, oggi ordino un BLOCCO TOTALE E COMPLETO DI TUTTE LE PETROLIERE SANZIONATE che entrano ed escono dal Venezuela", ha aggiunto.
La mossa ha innescato un'impennata dei prezzi del petrolio, con i future sul petrolio statunitense in rialzo dell'1,3%.
Il governo venezuelano ha risposto definendo la decisione una "minaccia sconsiderata", definendo il blocco "irrazionale" e accusando Washington di "rubare" le ricchezze naturali del Paese.
Nella dichiarazione si è ribadita la sovranità del Venezuela sulle risorse naturali e ha condannato il “guerrafondaio” degli Stati Uniti.
"Ribadiamo che il Venezuela continuerà a esercitare il suo diritto sovrano e inalienabile di commercializzare le sue risorse in modo legittimo", ha affermato martedì sera il Ministero degli Esteri venezuelano.
Il ministero ha inoltre ricordato di aver inviato una lettera alla presidenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, condannando ufficialmente il recente sequestro di una petroliera venezuelana da parte degli Stati Uniti.
La scorsa settimana, gli Stati Uniti hanno sequestrato una petroliera venezuelana nel Mar dei Caraibi. Washington aveva imposto sanzioni alla nave sostenendo che era coinvolta nel commercio di petrolio iraniano.
Il Ministero degli Esteri venezuelano ha condannato fermamente il sequestro.
La mossa rispecchiava la politica di Washington nei confronti delle risorse naturali dell'Asia occidentale nel corso degli anni, in particolare della Siria. Dopo il lancio della coalizione militare guidata dagli Stati Uniti in Siria nel 2014, le forze statunitensi occuparono i giacimenti petroliferi del Paese e avviarono una sistematica campagna di saccheggio. Il Ministero del Petrolio del precedente governo siriano dichiarò anni fa che il settore energetico del Paese aveva subito perdite per oltre cento miliardi di dollari a causa della campagna di saccheggio statunitense.
Nel 2019 Trump ammise pubblicamente che le truppe statunitensi erano in Siria solo per il petrolio.
"Le vere ragioni della prolungata aggressione contro il Venezuela sono state finalmente svelate. Non è questione di migrazione. Non è questione di narcotraffico. Non è questione di democrazia. Non sono questione di diritti umani. È sempre stata una questione di ricchezza naturale", ha ribadito Caracas dopo il sequestro della scorsa settimana.
L'annuncio del blocco da parte di Trump è arrivato il giorno dopo che un attacco aereo statunitense ha preso di mira diverse imbarcazioni presumibilmente dedite al traffico di droga nell'Oceano Pacifico orientale, uccidendo otto persone.
Poche ore prima, Trump aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ufficialmente dichiarato il Fentanyl un'arma di distruzione di massa (ADM).
La nuova escalation si inserisce nel contesto di un continuo rafforzamento militare nel Mar dei Caraibi e di numerosi attacchi aerei contro presunte "narco-barche", che da settembre hanno ucciso almeno 93 persone, tra cui pescatori innocenti.
Trump sostiene che gran parte del Fentanyl che entra negli Stati Uniti provenga dal Venezuela, un'affermazione smentita dagli esperti di narcotici e dai rapporti della Drug Enforcement Agency (DEA).
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 11:30:00 GMT
di Alan MacLeod - The MintPress
Il tuo anello di fidanzamento ha contribuito a finanziare un genocidio a Gaza? È possibile. Pur non possedendo miniere proprie, Israele è un attore importante nel commercio mondiale dei diamanti, acquistando minerali in tutta l'Africa e rivendendoli all'Occidente, incassando miliardi. I diamanti sono la principale esportazione di Israele e finanziano direttamente il genocidio in corso contro la popolazione di Gaza. MintPress esplora il mondo oscuro dei diamanti insanguinati israeliani.
Un'industria gigantesca
Chiunque visiti l'esclusivo quartiere Ramat Gan di Tel Aviv rimarrà colpito dalla sua ricchezza. Grattacieli ovunque e costose gioiellerie fiancheggiano le strade. Ramat Gan è il centro dell'industria mondiale dei diamanti, con oltre 15.000 dipendenti impiegati dall'Israel Diamond Exchange nelle attività di taglio, lucidatura, importazione, esportazione e commercializzazione delle pietre.
Le principali esportazioni di Israele non riguardano l'industria tecnologica o il settore alimentare.
I diamanti da soli rappresentano oltre il 15% di tutte le esportazioni del Paese, mentre altri gioielli contribuiscono in modo significativo alla sua economia. Tra il 2018 e il 2023, Israele ha esportato pietre preziose per un valore di oltre 60 miliardi di dollari.
Il loro cliente principale sono gli Stati Uniti. Storicamente, Israele ha rappresentato tra un terzo e la metà di tutti i diamanti venduti in America, un mercato in crescita che vale già 20 miliardi di dollari all'anno.
Pietre del genocidio
A differenza dell'oro, i diamanti sono raramente punzonati, il che significa che poche spose americane sanno che le loro fedi nuziali e di fidanzamento sono state realizzate e lucidate in Israele. Ancora meno sanno che il loro acquisto finanzia direttamente il massacro di Gaza e la continua confisca di territori da parte di Israele in Cisgiordania, Libano e Siria.
"Nel complesso, l'industria israeliana dei diamanti contribuisce con circa 1 miliardo di dollari all'anno alle industrie militari e di sicurezza israeliane... ogni volta che qualcuno acquista un diamante esportato da Israele, parte di quel denaro finisce nelle forze armate israeliane", ha testimoniato l'economista israeliano Shir Hever al Tribunale Russell sulla Palestina nel 2010.
Forse la figura chiave dell'industria diamantifera israeliana è il magnate Beny Steinmetz. Considerato da molti l'uomo più ricco di Israele, il 69enne fondatore dello Steinmetz Diamond Group entrò nel settore nel 1988, acquistando uno stabilimento produttivo nel Sudafrica dell'Apartheid.
Attraverso la sua fondazione benefica, Steinmetz ha investito denaro nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF), tra cui l'"adozione" di un'unità della Brigata Givati ??e l'acquisto di equipaggiamento per loro. Durante l'Operazione Piombo Fuso del 2009, la brigata ha compiuto un massacro, costringendo decine di civili palestinesi a rifugiarsi in una casa a Gaza, bombardandola e impedendo alle ambulanze di avvicinarsi. I soccorritori che alla fine hanno trovato i loro corpi hanno anche riferito di aver visto le parole "L'unico arabo buono è un arabo morto" scritte in ebraico sui resti dell'edificio.
Più di recente, la Brigata Givati ??è stata filmata mentre dava fuoco alle scorte alimentari palestinesi e a un impianto fognario di Gaza, oltre a demolire altre case.
Dal 7 ottobre 2023, Israele ha distrutto il 92% delle scuole e degli edifici residenziali di Gaza, ha sparato a circa 300 giornalisti e ucciso almeno 20.000 bambini. L'UNICEF stima che tra i 3.000 e i 4.000 bambini a Gaza abbiano perso uno o più arti. Oltre alla violenza in Palestina, Israele ha invaso e occupato il Libano e la Siria e ha bombardato Iran, Tunisia, Yemen e Qatar.
Gli Stati Uniti pagano in dollari, l'Africa paga con il sangue
La brama di diamanti di Israele sta alimentando direttamente guerre civili e spargimenti di sangue in tutta l'Africa, dove fornisce materiale bellico a governi, signori della guerra e gruppi armati locali in cambio dell'accesso alle ricchezze minerarie del continente. La International Diamond Industries (IDI), con sede in Israele, ad esempio, si è assicurata il monopolio sulla produzione di diamanti nella Repubblica Democratica del Congo in un accordo che, secondo un comitato delle Nazioni Unite, includeva trasferimenti segreti di armi e l'addestramento delle forze di sicurezza congolesi da parte dei comandanti delle IDF. L'accordo è stato incredibilmente redditizio per IDI, che ha pagato solo 20 milioni di dollari per un monopolio che generava 600 milioni di dollari all'anno.
Nel frattempo, nel 2002, nella Sierra Leone devastata dalla guerra, per soli 1,2 milioni di dollari in contanti, Steinmetz riuscì ad acquisire metà della Koidu Ltd., un'azienda che rappresentava il 90% dei diamanti del paese. Nel 2011, Koidu avrebbe prodotto diamanti per un valore stimato di 200 milioni di dollari.
Il motivo per cui le autorità avrebbero accettato prezzi di acquisto così ridicolmente bassi potrebbe essere spiegato da una sentenza del 2021 di un tribunale svizzero, che ha dichiarato Steinmetz colpevole di aver pagato 8,5 milioni di dollari in tangenti alla moglie del presidente della Guinea. Queste tangenti, ha stabilito il tribunale, gli hanno garantito i diritti su redditizie concessioni di minerale di ferro nella regione di Simandou. Steinmetz è stato condannato a cinque anni di carcere. Il miliardario israeliano sta attualmente affrontando accuse di corruzione altrettanto gravi in ??Romania.
La corsa ai diamanti nella Repubblica Democratica del Congo, in Sierra Leone e in altre nazioni africane ha provocato guerre civili, tratta di esseri umani, lavoro minorile forzato e altre gravi violazioni dei diritti umani da parte di gruppi intenzionati ad assicurarsi una fetta dell'industria dei diamanti. Ma si tratta di attori relativamente piccoli rispetto agli israeliani.
Minerali “senza conflitti”
Gran parte della brutale realtà dell'industria delle pietre preziose è ormai ben nota nella cultura popolare, grazie anche al film del 2006 con Leonardo DiCaprio, "Blood Diamond", ambientato in Sierra Leone. In risposta alla crescente protesta pubblica per la loro etica, l'industria ha istituito il World Diamond Council, che ha contribuito a creare il Kimberley Process Certification Scheme, un sistema progettato per impedire l'ingresso sul mercato mondiale dei cosiddetti "diamanti da conflitti".
Dal punto di vista del marketing, il Kimberley Process è stato un grande successo, offrendo ai consumatori (un'illusione di) tranquillità, contribuendo all'aumento delle vendite di diamanti in tutto il mondo. Eppure, il sistema presenta una serie di difetti fondamentali. Il principale è che la certificazione del processo per i minerali "conflict free" si applica solo alla fonte dei diamanti, lasciando Israele libero di importare diamanti per miliardi di dollari in un paese che bombarda sette dei suoi vicini, di lavorarli, tagliarli e lucidarli e di continuare a vendere i propri prodotti come "conflict free". Tutto questo mentre si perpetra contro la Palestina quello che le Nazioni Unite hanno costantemente definito un "genocidio".
Inoltre, nel 2009, l'ONU ha accusato Israele di aver importato clandestinamente diamanti insanguinati illegali dalla Costa d'Avorio.
Ecco, in sintesi, come funziona l'industria globale. Sedici dei venti maggiori paesi produttori di diamanti sono nazioni africane povere, che ne traggono scarsi benefici economici. Nel frattempo, nessuno dei cinque principali esportatori mondiali di diamanti – Stati Uniti, India, Hong Kong, Belgio e Israele – produce effettivamente le gemme in quantità apprezzabili, a dimostrazione della diseguaglianza del mondo in cui viviamo.
Rocce senza valore e campagne di marketing
L'industria dei diamanti si sostiene grazie a una serie di miti, il primo dei quali è che siano minerali rari. Non lo sono. Alla fine del XIX secolo, in Sudafrica furono scoperti enormi giacimenti di diamanti, che inondarono il mercato globale. Tuttavia, gli imprenditori che gestivano le miniere si resero presto conto che solo mantenendo uno stretto controllo sull'offerta della materia prima si potevano mantenere prezzi elevati. Oggi, ogni anno vengono estratti ben oltre 100 milioni di carati di diamanti, sufficienti a produrre centinaia di milioni di pendenti, anelli e orecchini.
I diamanti non sono intrinsecamente preziosi. Grazie alla loro estrema durezza, sono utili agli utensilisti che producono lame per seghe e punte per trapani. Oltre a questo, tuttavia, il loro valore è limitato. E, contrariamente a quanto si crede, non sono intrinsecamente connessi al corteggiamento, al matrimonio o agli anniversari nella cultura occidentale. In effetti, il legame nella cultura popolare tra diamanti e amore è il risultato di una campagna di marketing. La frase "i diamanti sono per sempre" è, in realtà, uno slogan di marketing ideato dai dirigenti di Madison Avenue nel 1947. Il professor Sut Jhally, produttore del documentario "The Diamond Empire", descrive "i diamanti sono per sempre" come "forse lo slogan pubblicitario più famoso mai inventato". "Quello slogan, quell'idea che nasce da Madison Avenue, ora definisce il modo in cui concepiamo i rituali che definiscono le nostre attività più personali, il matrimonio e il corteggiamento", ha aggiunto.
Il successo di questa campagna fu a dir poco sorprendente. Nel 1940, solo il 10% delle spose americane riceveva anelli di diamanti. Nel 1990, quella percentuale era salita al 90%. Le vendite all'ingrosso di diamanti negli Stati Uniti salirono da 23 milioni di dollari nel 1939 a 2,1 miliardi di dollari nel 1979, con un incremento del 9000% in 40 anni. Alcuni stratagemmi, come il tentativo di commercializzare anelli di diamanti anche tra gli uomini, non ebbero altrettanto successo.
Forte del successo, l'industria dei diamanti ha sperimentato in Asia le stesse strategie di product placement e pubblicità che avevano funzionato negli Stati Uniti, aggiungendo un tocco di fascino e valori occidentali al proprio marketing. In Giappone, il trucco ha funzionato. Nel 1967, meno del 5% delle donne giapponesi fidanzate riceveva un anello di diamanti. Ma nel 1981, la percentuale era salita al 60%.
L'industria dei diamanti si è imbattuta anche in un altro problema: se il loro prodotto era così costoso, come potevano venderlo al mercato di massa? Per risolvere questo problema, si sono rivolti di nuovo a Madison Avenue, che ha suggerito di dire agli uomini di spendere 2-3 mesi di stipendio per un anello di fidanzamento. Nel 2014, un anello di fidanzamento medio negli Stati Uniti costava la considerevole cifra di 4.000 dollari, secondo il New York Times. "È stata una strategia brillante", ha detto Jhally . "Sono riusciti a convincere alcuni uomini a indebitarsi per acquistare queste cose senza valore, di cui hanno miliardi di dollari fermi nei magazzini".
Negli ultimi anni, la crisi economica globale ha fatto sì che i diamanti più piccoli e meno costosi fossero più richiesti. Queste piccole pietre vengono solitamente tagliate in India. I bambini, che hanno una vista più acuta e dita più piccole e agili degli adulti, vengono utilizzati per tagliare e lucidare questi minuscoli diamanti, aggiungendo un ulteriore strato di ambiguità morale al settore.
Le vendite di diamanti sono attualmente in crisi. Nel 2024 si è registrato un calo del 23% dei ricavi in ??tutto il settore, poiché i consumatori più giovani vedono sempre più i diamanti come pietre sopravvalutate, scavate dal terreno da bambini schiavi in ??zone di guerra, e come falsi simboli del loro amore.
Anche il movimento globale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni ha attirato l'attenzione sul fatto che la vendita di diamanti è indissolubilmente legata alla carneficina di Gaza. Come scrive il Comitato Nazionale Palestinese per il BDS :
I profitti derivanti dall'industria dei diamanti contribuiscono a finanziare l'occupazione illegale dei territori palestinesi da parte di Israele, la brutale sottomissione del popolo palestinese e la sua rete internazionale di sabotatori, spie e assassini.
Una minaccia meno politica ma forse più esistenziale arriva sotto forma di diamanti sintetici in laboratorio, il cui prezzo è circa un decimo di quello delle pietre di provenienza tradizionale. I diamanti sintetici in laboratorio (circa la metà dei quali proviene dalla Cina) rappresentano ora circa il 20% delle vendite totali e si prevede che aumenteranno la loro quota di mercato e ne ridurranno il prezzo. Tre quarti degli americani sarebbero felici di ricevere un anello di fidanzamento con diamante sintetici in laboratorio, secondo un sondaggio del 2025 , che ha rilevato che il pubblico li considera un miglior rapporto qualità-prezzo e una scelta più etica.
Un altro duro e imprevisto colpo per i commercianti di diamanti israeliani è stato il nuovo regime tariffario globale dell'era Trump. Attualmente, gli Stati Uniti impongono un'imposta del 15% su tutti i diamanti israeliani. A settembre, l'Unione Europea è riuscita a negoziare un'esenzione dai dazi del 15% sui diamanti, il che significa che concorrenti come il Belgio ora godono di un serio vantaggio su Israele nel cruciale mercato statunitense.
Di conseguenza, il presidente dell'Israel Diamond Exchange, Nissim Zuaretz, ha dichiarato che il suo settore si trova ad affrontare una "minaccia esistenziale". "Stiamo tornando indietro", ha avvertito, aggiungendo:
Il mio messaggio al governo e all'opinione pubblica è chiaro: adesso o mai più... Abbiamo un'occasione d'oro per riportare Israele al centro dell'industria mondiale dei diamanti, ma la finestra si sta chiudendo rapidamente. Ogni giorno senza un intervento governativo significa un altro commerciante di diamanti perso, un'altra famiglia senza reddito, un altro pezzo del nostro patrimonio nazionale perso".
Tuttavia, se il governo israeliano intervenisse davvero per salvaguardare la propria industria nazionale e adottasse un approccio più interventista, non farebbe altro che sottolineare ulteriormente il fatto che l'acquisto di diamanti finanzia intrinsecamente la pulizia etnica della Palestina, trasformando i diamanti insanguinati in diamanti del genocidio.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Thu, 18 Dec 2025 11:30:00 GMT