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Attenti al Lupo
Fulvio Grimaldi - “Democrazie vs Autocrazieâ€. Ma che, davvero? TU CHIAMALO SE VUOI FASCISMO

 

di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico

Come inciso che c’entra poco col resto, ma di cui sento l’urgenza, rivendico in chiave consolatoria che siamo scampati perfino alla kermesse delle canotte nere su pelle bianca. Ovviamente non alla partecipazione, alla quale si sono concessi segmenti della nostra presunta opposizione alla ricerca di visibilità “whatever it takes” e felici di farsi masticare. Il costo politico e morale lo pagheranno al rientro. Comunque ci torno sopra.

Si passa a cose serie (per dire…).

Al cancelliere Merz, che riprendeva un meme di Hitler degli anni’30, “La Germania farà della Bundeswehr (intesa come Wehrmacht) il più potente esercito d’Europa”, ha risposto molto brutalmente il No alla Leva del 65% dei giovani e della maggioranza dei parlamentari (a favore il 55% degli attempati, cioè di quelli che non ci andranno. In Italia, a dispetto di quelli del “libro e moschetto” e di “Vincere!” ha detto NO il 68% dei potenziali candidati a fari macellare.

Armigero senza baffi, armigero con baffi

Ai Volenterosi europei che, a nome di paesi ignari e poveri in canna, annunciano la guerra, ovviamente “di difesa” alla Russia (per qualcuno già in corso, per altri, fra massimo tre anni); risponde invece, a passo di corsa, il molto baffuto, molto bislacco e molto medagliato Cavo Er Baffo Dragone. Forse, pensando di far rapporto ai sovrani della Triplice Intesa, annuncia: Maestà, per vincere dobbiamo assolutamente attaccare per primi (implicito: sennò come possiamo far credere a ‘sti cojoni che devono andare a farsi sparare?)

Il delirio associato al declino, implicito in quella forma di baffi, sopravvissuti a tutte le nostre Caporetto e altre infamie, segno distintivo di chi pone la forza sopra il diritto e quello con le stellette sopra quello senza, ha definitivamente spazzato via quanto restava, nei nostri Stati Maggiore, di poveri resti di neocorteccia. Che sarebbe quella che presiede al ragionamento logico. Succede quando i baffi alla Umberto arrivano a oscurare il lobo frontale.

Finchè c’è guerra, c’è Cingolani

Dopo questa sfilza di seminatori di balle terrorizzanti, non poteva mancare lo Zar della Guerra in fieri, anzi degli strumenti per farla fare (Anche da Israele? Come no!). Roberto Cingolani, oggi, dopo la fase spiritosa da Ministro dell’Ambiente, AD del colosso necrofago “Leonardo”. Che sta a Rheinmetall come il Duce stava al Fuehrer. Dopo la paura, il terrore e stavolta da chi se ne intende e ci sa fare: nel giro di 3 minuti, senza che noi ci si possa neanche infilare le mutande, figurati raggiungere il bunker atomico (che dai tempi von der Leyen è di famiglia), Mosca ci può disintegrare e fare di Roma ciò che gli astronauti insistono a dirci di aver visto sulla Luna. Cioè niente e nessuno.  

                  

Dipende da cosa consideriamo delirio e cosa raziocinio. Nell’era degli Hobbit, della contrapposizione secca tra luce e oscurità, dei maghi buoni e di quelli cattivi, delle obnubilazioni esoteriche in cui il cervello è messo all’angolo e ragiona solo la pancia autoproclamatasi spirito, insomma nell’era tolkeniana di colui che “ha la forza” e ne rivendica il monopolio (da noi Urso? Crosetto?), tutto deve finire nel classico Armageddon, catarsi catastrofica e parto della nuova era. Tutta questa cianfrusaglia la rivestono di un Medioevo mai esistito, ma funzionale a togliere dalla scena, a forza di kitsch, fantasie, draghi ed eroi, la realtà tosta e vera, dell’intelligenza contro la retorica, dell’illuminismo e dell’età della ragione. Che impone verità. Che richiede onestà. Che comporta diritto.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

Saltando, cantando, che male vi fo?

Esempio luminoso, inesorabilmente tolkiano, il grande fenomeno auto-erotico di Atreju. In queste occasioni si arriva, anche grazie alle abbondanti libagioni di sostanze apotropaiche caccia-intirizzimento (vin brulé), alla Giorgia in trasfigurazione. Scevra del peso della gravità che inchioda in basso il popolino, invasa dal dio, la nuova menade si dimena, dà in escandescenze e, con turbinio vorticoso degli arti divenuti lame rotanti, per fortuna solo nell’aria, mostra come si debbano tagliare a fette i nemici.                                                                                                                                                                                                                                                        

Assistiamo ammirati a una specie di sabba della strega (ce ne sarebbe un’altra, la sorella, ma si conserva per il dopo) che, riflettendosi nei sussulti articolari e fonetici dell’intero convegno magico - “chi non salta comunista è” – (era a Napoli! E che cambia?), si allarga in sabba globale. Un festival di gabbamondo, a comprendere fattucchiere, saltimbanchi, cabalisti, che celebrano i superpoteri e le superconoscenze di cui è dotata la compagine governativa con tutte le sue ramificazioni.

Fondati sull’irrazionalità diffusa erano da sempre tutti i fascismi, che si presentino come monarchie assolute, giunte di tiranni, inviati di dio, pontificati e imperi, autocrazie, oligarchie, aristocrazie, totalitarismi, caudillismi, signorie, principati, marchesati, mafie, massonerie, Deep State, Trump… Tutta roba che opera in verticale, ma in orizzontale, compresi quei nostri vermiciattoli scappati da sotto le macerie di un regime finito in discarica e arrampicatisi impuniti sui palazzi del potere prima che noi ne savvertissimo il fetore.

Cingolani, Crosetto, Cavo Er Baffo Dragone, in questo quadro medieval-apocalittico, in cui si è rinnovata la minaccia dell’inferno ai disobbedienti, ma stavolta sotto forma non più di pena eterna, ma di combustione nucleare rapida, sono compratori e venditori di strumenti per distruggere e uccidere, bravi almeno quanto quelli degli “artigiani di qualità”, che però vendono solo sofà. Strepitosi pubblicitari dell’unica cosa che sembrerebbe riuscire a tenere in piedi un capitalismo che svaporerebbe se solo qualcuno dei poveri e gabbati volesse alzare gli occhi e dare uno sguardo all’Everest di debito sotto cui si divincola (37 trilioni solo gli USA: uno zombie che pare vivo solo perché ha dentro un meccanismo che abbaia).

Per nostra consolazione, tante volte basta un niente. Se i loro schiamazzi di guerra fanno salite le quote degli azionisti, i dividendi, i premi, i nascondigli nei Paradisi fiscali. Un battito di farfalla che parla di pace (tipo di questi giorni Trump in Ucraina) fa davvero miracoli: Leonardo, in borsa, meno 4,98; la Francese Thales meno 4,90%, la tedesca Rheinmetall meno 5,02%, Ogni volta che c’è un afflato di pace, parte la pressione ribassista sui titoli del settore guerra e ci viene a mente quel film, quello dei sogni (loro) e degli incubi (nostri) “che muoiono all’alba”.

Umanitaria? Purchè guerra sia

L’altra sera, ad Ancona, un dinamico Comitato No Guerra No Nato, ha ospitato insieme a me, Sara Reginella, la bravissima cronista dell’invasione NATO-Kiev del Donbass russo, quel Donbass liberato, che, a seguito del golpe nazista allestito da Obama, non ci stava a ripetere l’esperienza vissuta dai padri e nonni sotto il Gauleiter locale, Stepan Bandera e i suoi datori di lavoro SS e Gestapo. Reginella è stata anche la punta di lancia del ridottissimo e oscurato schieramento che, a dispetto della falsificazione – aggressore e aggredito - consacrata addirittura da un Quirinale appassionatamente atlantista, ha saputo rovesciare lo strumentale paradigma.  Quello che, con “l’invasione russa del febbraio 2022”, ha spazzato dalla mappa della Storia una serie di eventi che rovesciano il mantra aggressore-aggredito.

Il colpo di Stato dell’inverno 20013-2014, allestito da Obama, gestito sul campo, a Piazza Maidan, dalla sottosegretaria neocon Victoria Nuland con squadre armate naziste, culminato con la cacciata del presidente neutralista Yanukovic. Il referendum del 14 febbraio nel Donbass vinto con oltre l’80% dai separatisti antifascisti russi. Ai quasi 100 morti di Maidan, si sono aggiunti le 14.000 vittime dei bombardamenti e delle incursioni ucraine contro il Donbass con i reparti nazisti di Azov e Privy Sector, dal 2014 al 2022, anno che ha visto l’intervento di Mosca in difesa dei russi. Chi è l’aggressore?

Presentavamo due nostri libri, il suo: “Le guerre che ti vendono”, e il mio “Uno sguardo dal fronte”. “Le guerre che ti vendono”, nel quale Sara ha profuso le sue esperienze e competenze di psicologa e psicoterapeuta, è un agile, ma irrinunciabile, manuale di istruzioni su come sfuggire alle sempre più sofisticate, violente e pervasive, tecniche di manipolazione della realtà da parte dell’omertoso aggregato politico-economico-militare-mediatico. Quello che ci si è insediato sul groppone a colpi di persuasione occulta, manifesta, coatta, volontaria, a schiaffoni, e che, nell’attuale fase dell’accumulazione, è fondata su vendita, acquisto e consumo di armi. Insieme alle quali vendono, comprano e consumano le nostre vite.

Come ti educo il pupo (da combattimento)

Guerre contro le quali il primordiale e ancora vivo e vegeto istinto di preservazione della specie ti fornisce un codice genetico che, diversamente da quello individuato da Nordio, impostato sui cazzotti alle donne, le guerre te le fa odiare e ripudiare meglio di qualsiasi carta costituzionale. Come si è potuto dimostrare quando nelle scuole, sequestrate dal duo Crosetto-Valditara, le ghirlande e le pailettes con cui “educatori con le stellette” hanno fatto la cosmesi a bombe e cingoli, sono state lacerate di netto dal 68% di NO dei ragazzi alla leva, volontaria, od obbligatoria che sia. Disastro di un marketing che si affanna di fiera in fiera, di liceo in liceo, di schermo in schermo. Perchè senza gente che induci ad amare le armi e poi a usarle, disponendosi perfino a farsele piovere addosso, a cosa serve fabbricare missili?

Qui i fomentatori di guerre devono affrontare un paradosso. Far paura della guerra degli altri contro te, far apparire nobile e bella la guerra tua contro gli altri. Il che comporta un’acrobazia dialettica –ovviamente costruita intorno all’asse manicheo degli assoluti bene e male – che renda conciliabile l’inevitabile dissonanza cognitiva con quanto sei riuscito a difendere della tua razionalità.

Sara Reginella ci ricorda come d’un tratto le guerre siano diventate umanitarie Quella dei nostri cent’anni le ho attraversate tutte. E mi è capitato di partecipare anche all’inaugurazione di quelle “umanitarie”: Serbia, 1999. Quella del Vietnam era ancora del tipo “portiamo la civiltà ai primitivi”. I quali, se comunisti, anche cattivi. Poi è tutto un difendere i valori umani, esportare la democrazia, far valere le regole, abbattere dittature, salvare minoranze, anzi interi popoli. Sempre accertandosi che siano così carini da servire da quinte colonne a noialtri: berberi in Algeria, albanesi in Kosovo, palestinesi alla Abu Mazen, curdi in Siria, Iran e Iraq, musulmani turcofoni in XinJang e, recentemente, perfino alcuni  Aymara dell’ex-rivoluzionario boliviano Evo Morales.

Persuasori Occulti

Quando nel 1957 Vance Packard, quarantatreenne insegnante di giornalismo all'Università di New York, con il suo “I persuasori occulti”, rivelò al grande pubblico che l'alleanza sempre più stretta tra analisi e pubblicità minacciava subdolamente, ma scientificamente, la libertà d'opinione su qualsiasi argomento, venne arruolato nella schiera dei più grandi allarmisti. Fu invece uno dei più grandi profeti, meglio, chiaroveggenti, del nostro tempo in metempsicosi.

Con la differenza, non sostanziale, che allora la tua percezione della realtà, bisogni compresi, veniva compressa da chi ti voleva far consumare. Oggi, e da un bel po’, la realtà che a te, pesce rosso nella boccia concava che ti deforma la realtà, viene imposta è sempre quella, ma si è di molto estesa. Un pensiero autonomo, aderente a come stanno le cose fuori dalla boccia, costa sempre più fatica. E i persuasori sono altri, ben oltre i pubblicitari, oggi forse la categoria di persuasori meno occulta, più scoperta e perfino onesta, nella sua dabbenaggine infantilista.e buonista.

Il nemico è un altro. Il subdolone, che ti fare vedere lucciole per lanterne e viceversa, è lui, è il Cingolani della minaccia, il Crosetto dell’emergenza bellica, il Cavo Er Baffo Dragone dell’irrinunciabile attacco per primo. Ovviamente non sarebbero che comparse, al massimo figuranti di terza fila, se alla loro sostanza inconsistente non desse corpo quell’armada di rapinatori della realtà di cui ci parlano Reginella e molti analisti. Rapinatori della realtà che, dai persuasori occulti di Packard, si sono evoluti in blocco politico-economico-mediatico, agente in assoluta comunità d’intenti, senza più sbavature alla vietnamita, o irachena, o perfino ancora afghana-

Le lacerazioni al tessuto di una opinione comune dettata, che i persuasori hanno subito in quelle irruzione di una Storia non controllata, ma anche in occasione di eventi sismici interni, come quel ’68 che ha percorso mezzo mondo per una decina d’anni rischiando di mettere a repentaglio tutto il fabbricato, e in parte riuscendoci, hanno accelerato i tempi e i modi della riorganizzazione e del consolidamento. Che, nel nostro caso non è neanche in prima linea quello del riarmo da far passare come necessità ineluttabile, corroborata da nobili virtù. Ma ciò che la rende possibile. La varietà e diversità dell’informazione, già ritenuta fisiologica, si è fatta catechismo, legge mosaica cantata in coro da poche voci..

I becchini dell’informazione? Quelli dei soldi.

 Pluralismo dell’informazione ieri e oggi

L’editore puro era morto e seppellito da decenni. Lo squallore speculativo e amorale di una casta amorale come la discendenza Agnelli, con la sua svendita all’armatore greco Kyriakou di quelli che passavano (imperfetto, se non passato remoto) per i più autorevoli giornali italiani, con tutte la panoplia multimediale del gruppo GEDI, non è che l’epifenomeno burino della globalizzazione delle testate. Una riduzione ad paucis, in poche mani, iniziata qualche decennio fa e fattasi parossistica negli ultimi anni.

Sette tra i più sfondati miliardari del mondo, tutti del mondo High Tech e dei Fondi di Investimento, da Zuckerberg a Bezos e Murdoch, da Fink a Page e Musk, erano già padroni dell’informazione, detta social per prenderci per il culo, ma dettata dal loro logaritmo. Ora, catturati giornali come il Washington Post, o il Los Angeles Times, si lanciano all’assalto di colossi multimediali come Warner, Paramount, CNN, Discovery, Disney (di Blackrock). Sono tutti, oggi, follower di Trump, e sono tutti amici di Israele, con in prima linea le famiglie Ellison e Adelson, senza i dobloni dei quali Trump la presidenza se la poteva sognare. Il grafico che illustra il passaggio, in 40 anni, da un grande pluralismo di informazione agli oligopoli di oggi, esplicita anche il passaggio dalla democrazia all’oligarchia.

Disinformo, faccio paura, faccio la guerra, zittisco tutti

Abbiamo alle spalle una certa esperienza di come il politico si inserisca in operazioni che si presentano – e a volte sono – basate su presupposti scientifici, ma i cui propositi scientifici finiscono col diventare strumenti politici. Eminentemente di disciplina sociale finalizzata a nuove forme di frantumazione sociale, dominio e sfruttamento. Come? Con la paura, arma fine del mondo.

L’AIDS e la coesione sociale, per quanto riguarda i rapporti tra i generi, travolta da sospetto e paure. Il terrorismo che, con l’islamofobia, ha rinnovato lo sconfitto razzismo colonialista d’antan e ha rilanciato un’era di guerre. Il Covid che, con lockdown e Green Pass, diventa il più grande esperimento di casermizzazione della società. Il cambio climatico, funzionale a sovvertire abitudini, imporre costi e agevolare alternative di modi di produzione con relativa eterogenesi dei fini, quando si scopre che migliaia di kmq di terra, aria, mare, muoiono sotto l’impatto delle “innovative”, mentre intere economie nazionali vanno in rovina (ultimissime dall’Antartide: crescita dei ghiacci e freddo senza precedenti. Da 1400 giorni temperatura sotto i 20°). E tocca rimediare buttandosi sulle armi (e quindi sulle guerre).

Tutta questa vera e propria discesa agli inferi, nella quale, come rivela il poeta, riconoscere noi stessi attraverso il nostro passato, non ci fa incontrare Farinata degli Uberti, o la Sibilla, o padre Anchise, o Agamennone e, con le loro, le nostre verità. Ci mette alla mercè di un Cerbero che ci mostra come, nell’era della Forza, sistemare gli infedeli. Nel caso specifico, azzannando Jacques Baud, l’ex-ufficiale svizzero che figurava tra i migliori analisti militari e geopolitici, tanto da essere scelto consulente dell’ONU. E chi ha azzannato questo prestigioso e rispettato signore? Ursula von der Leyen che, in quanto presidente della Commissione UE è capo dell’Esecutivo e come, nel caso Meloni, Macron, Trump, in quanto capo dell’esecutivo, è a capo di tutto, alla faccia della divisione dei poteri. Al diavolo legislatori e magistrati.

Saremmo dunque finiti nella fase in cui quel tale, Trump, ha toccato l’albero e ha fatto un suo “Tana liberi tutti” al contrario. Nel senso liberi non noi, ma loro. Liberi di utilizzarli tutti, i mezzi della coercizione, quelli psicologici e quelli fisici. Succede quando si accorgono che, a un certo punto, anche la paura più paura rischia di dissiparsi quando lo scontro con quanto ci è rimasto di intelligenza della realtà fa più male alla paura che all’intelligenza.  E allora la partita può anche riaprirsi e spuntare da qualche parte una Bastiglia, o un Palazzo d’Inverno.

Cingolani-Crosetto-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara, quintetto perfetto

Abbiamo parlato del duo Crosetto-Cingolani. Ma forse tocca parlare di un trio, Crosetto- Cingolani-Cavo Dragone. Dove l’uno è portavoce dell’altro e tutti abbisognano che noi si temi la guerra altrui e si ami la nostra, magari d’attacco. Ma, poi, solo di terzetto si tratta? E allora Piantedosi? Non è il caso di intravvedere, nell’alba dove muoiono i sogni, un quartetto? Come farebbe il terzetto a tirare dritto là dove punta il baffo umbertino, cioè l’eroico assalto, senza che qualcuno gli spiani la strada, visto che quelli della persuasione ci hanno lasciato troppi dossi? Ecco che tocca al ministro di polizia.

E’ nel nuovo ordine delle euro-cose che questa funzione si renda operativo locale di Ursula, la quale, istruita da quanto Trump ha inflitto a Francesca Albanese, ha appena comminato sanzioni invalidanti (niente soldi, niente conti in banca, niente viaggi, niente lavoro, ostracismo dal mondo) a chi non sputa quando sente dire Putin, o Hamas. Ed è solo l’inizio della morte civile comminata.al dissenso.

Senza che Mattarella lo avesse dichiarato ufficialmente (lui si occupa di confini violati, ma solo dai russi), le libertà costituzionali, e anche quelle ONU, OSCE e UE, sono morte. Giorno dopo giorno, sanzione dopo sanzione, la lista di proscrizione si allunga. Siamo al delitto di “connivenza col nemico”. Democraticamente, senza che tutto ciò coinvolga minimamente una roba obsoleta come tribunali e giudici. Basta un’Ursula, esecutivo. Un decreto.

Dunque habemus quartettum. E perché non quintettum? Che ne dite di un bel Crosetto-Cingolani-Cavo Dragone-Piantedosi-Valditara? Ah no? E allora a chi fareste chiudere il cerchio della persuasione volens-nolens, se non da uno cui spetta allestire l’indispensabile scambio formativo tra caserma e aula, scuola e leva, dio-patria-famiglia-moschetto? Un bel ministro dell’Istruzione e del Merito? Scambio scuola-lavoro che vada oltre la pratica dello svuota- bidoni, o stagista alla catena, ma renda i nostri ragazzi, quindi tutta la società, come ai tempi del Balcone, o come Merz-Blackrock:ha vaticinato al Reichstag: “kriegstuechtig” (*)?

(*) Abile alla guerra, agguerrito.

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UNO SGUARDO DAL FRONTE

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Tue, 23 Dec 2025 06:00:00 GMT
Lavoro e Lotte sociali
La previdenza del futuro secondo il rapporto Ocse

 

di Federico Giusti e Emiliano Gentili

Il documento sulle dinamiche occupazionali nei trentotto Paesi dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) evidenzia preoccupazioni per l’andamento del PIL, per fare fronte alle quali si propone tutta una serie di misure. Nello specifico, in questo articolo approfondiremo gli interventi in materia previdenziale.

Sul tema, l'Ocse non la manda certo a dire: la spesa pensionistica è troppo elevata, pari al «38% della spesa sociale pubblica nei paesi OCSE, ovvero circa l'8,5% del PIL», e che a causa dell’invecchiamento delle popolazioni «si prevede che la spesa per pensioni e sanità aumenterà (…) in media di 0,09 punti percentuali del PIL all’anno fino al 2060, ovvero di un totale di 3 punti percentuali».[1]

Cosa manca a questo documento?

  • una analisi sulla insufficienza cronica del gettito contributivo per gli inadeguati versamenti datoriali;
  • la valutazione delle difficoltà imprenditoriali, che da decenni impediscono di accrescere la spesa previdenziale;
  • un commento sulla tendenza a favorire la previdenza integrativa, a scapito di quella universale;
  • un’analisi sui crescenti costi a carico dei lavoratori anziani – quasi obbligati a restare al lavoro sino a tarda età, per avere coefficienti migliori che accrescano l'assegno previdenziale. 

Gli effetti delle riforme pensionistiche

L’OCSE non ha remore a svelare il suo punto di vista sulle ultime riforme previdenziali: «Negli ultimi due decenni (…) molti paesi dell'OCSE hanno innalzato l'età pensionabile, limitato l'accesso ai regimi di prepensionamento e creato incentivi per lavorare oltre l'età pensionabile tradizionale. (…) Svezia e Repubblica Slovacca hanno rafforzato il legame tra età pensionabile e aspettativa di vita, una mossa ora adottata da un paese OCSE su quattro, tra cui Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Italia, Paesi Bassi e Portogallo (…). In alcuni casi, come Danimarca, Estonia, Italia, Paesi Bassi e Svezia, l'età pensionabile normale potrebbe raggiungere i 70 anni o più per la coorte di nascita del 2000»[2].

Le soluzioni proposte lasciano decisamente a desiderare:

  • un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile, con conseguente diminuzione degli importi percepiti per classe d’età;
  • l'abolizione del pensionamento obbligatorio, ossia della età pensionabile legale, per favorire forme d’accesso al pensionamento plurime e variabili, da istituire «attraverso riforme mirate del mercato del lavoro, come procedure più flessibili di determinazione dei salari e di licenziamento»,[3] con l’obiettivo di influenzare gli stessi modelli occupazionali.

A nostro avviso la flessibilità di uscita dal mondo del lavoro e l'eliminazione di ogni età che determini un limite invalicabile per il pensionamento vanno di pari passo con la flessibilità salariale: una possibilità è che questa divenga sempre più dipendente dall’andamento della produttività del lavoratore nel corso degli anni. 

Se aumenta il tasso di occupazione fra i lavoratori anziani

L’OCSE parte da un punto fermo: «mantenere l'individuo nel mondo del lavoro aumenta il gettito fiscale e riduce i pagamenti delle prestazioni pensionistiche»[4], dal momento che si percepirà la pensione per meno anni.

Secondo il Rapporto, «Le riforme pensionistiche, come l'innalzamento dell'età pensionabile o la limitazione delle vie di uscita anticipata, hanno contribuito in modo significativo ad aumentare l'età media di uscita dal mercato del lavoro, ma questi sforzi devono essere integrati in un quadro politico più ampio che consenta attivamente alle persone anziane di rimanere o rientrare nel mondo del lavoro».[5] Del resto, «Nonostante i progressi degli ultimi decenni, i tassi di occupazione iniziano a diminuire a partire dai 50 anni e calano drasticamente dopo i 60».[6]

Se, da un lato, «L'età media di uscita dal mercato del lavoro è aumentata nella maggior parte dei paesi tra il 2002 e il 2022, in media di 3,1 anni per le donne e di 2,6 anni per gli uomini», dall’altro l’OCSE lamenta che «rimane un margine significativo per aumentare l'età media di uscita dal mercato del lavoro senza aumentare l'NRA [l’età pensionabile], poiché l'età media di uscita dal mercato del lavoro è inferiore all'attuale NRA in 25 dei 38 paesi OCSE per le donne (e in 23 paesi per gli uomini)».[7]

La direzione, dunque, è chiaramente definita: da una parte si opta per rendere il pensionamento anticipato progressivamente meno conveniente, mentre dall'altra c’è l'invito a considerare una sorta di semi-pensionamento, che consenta di continuare a lavorare part-time – con ciò riducendo, però, i versamenti contributivi e la futura pensione.

Purtroppo, com’era prevedibile, l’OCSE propone di utilizzare tale istituto per incrementare la permanenza dei lavoratori anziani al lavoro e non, come sarebbe invece opportuno, per ridurla senza però al contempo gravare eccessivamente sulle casse pubbliche. Gli esempi citati nel documento riguardano la Finlandia, dove è possibile pensionarsi al 25, 50 o 75%, e la Danimarca, Paese nel quale i dipendenti pubblici possono scegliere di interrompere i versamenti contributivi per una percentuale superiore al 15%, includendo l’importo direttamente in busta paga. L’esempio della Finlandia presenta aspetti positivi, che sarebbe possibile utilizzare come rivendicazione – opportunamente rivisti e calibrati per meglio tutelare le esigenze dei lavoratori che si avvicinino all’età pensionabile.

[1] OCSE, Prospettive occupazionali dell’OCSE 2025, pp.93-94.

[2] Ivi, p. 152.

[3] Ivi, p. 206.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 176.

[6] Ivi, p. 14.

[7] Ivi, p. 134.

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Mon, 22 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Hispaniola". La parabola umana e professionale di Stanislav Orlov


di Francesco Dall'Aglio*

A prima vista sembrerebbe che la parabola umana e professionale di Stanislav Orlov (al link 1 un suo ritratto, forse un po' troppo encomiastico) abbia avuto molto in comune con quella di Evgenij Prigožin, ma i due personaggi erano molto diversi, sia in termini di peso politico che di obiettivi. Orlov, ultras del CSKA e veterano della seconda guerra di Cecenia, detto "Ispanets", "spagnolo" (ma il film "Il gladiatore" non c'entra, è perché ha vissuto in Europa vari anni e parlava varie lingue, tra cui appunto lo spagnolo) era il fondatore della brigata "Hispaniola", uno dei reparti di volontari che all'inizio del conflitto sono spuntati con una certa frequenza combinando vari elementi politici e ideologici, di norma di estrema destra, e una certa allergia ai regolamenti, se non proprio alla legge; nello specifico, Hispaniola reclutava originariamente nell'ambiente degli ultras di calcio e hockey, raramente noti per le loro idee progressiste. Non a caso, l'insegna del reparto era la bandiera nera col teschio e le tibie incrociate del generale Yakov Baklanov, con la scritta "Attendo la resurrezione dei morti e la vita del mondo a venire. Amen", da lui usata come suo stendardo personale nel corso delle campagne nel Caucaso negli anni '50 del 19° secolo. Sempre probabilmente non casuale era la scelta del nome "ufficiale" dell'unità, 88° reggimento ricognizione e sabotaggio - non penso di dover spiegare il significato del numero in certi ambienti.

Hispaniola era un'unità piuttosto capace, ma come Wagner aveva il difetto di essere difficilmente controllabile, preda di estremismi poco presentabili, e soprattutto spesso dedita a traffici irregolari, di armi o altro. Come tutte le milizie create nel 2014 o nel 2022 e sopravvissute alla prima fase, in cui la loro utilità obbligava le autorità a una certa tolleranza, era solo questione di tempo prima che venisse normalizzata. Il momento era giunto in realtà abbastanza tardi per Hispaniola, ma era comunque giunto: il 3 ottobre 2025 l'unità annunciava lo scioglimento sul suo canale Telegram e i suoi combattenti venivano trasferiti ad altre unità, destino comune a quelli della Wagner e delle altre unità simili. Orlov, evidentemente, non era molto d'accordo, specie a perdere i vantaggi che la sua posizione gli conferiva. Cosa sia successo esattamente non si sa, ma la versione più accreditata (link 1) è quella secondo la quale il 9 dicembre è stato ferito in uno scontro a fuoco con la polizia durante un arresto per violazione dell'articolo 222 del codice penale russo, ovvero traffico d'armi. Tra il 19 e il 20 è stata data la notizia della sua morte, che non penso dispiaccia alle autorità, anzi: il tempo dei pirati e degli avventurieri, e soprattutto dei capimilizia con un seguito personale, è definitivamente tramontato.
 
 
 
*Post Facebook del 22 dicembre 2025
Data articolo: Mon, 22 Dec 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Il futuro di John Elkann (e di altri oligarchi italiani): ma il problema sono i "comunisti"...


di Alessandro Volpi*

Come si organizzano i ricchi. John Elkann, con il contributo dell'ex ministro inglese Osborne, ha dato vita a "Lingotto", una società di diritto olandese con sede fiscale a Londra, che opera con i più innovativi strumenti finanziari per valorizzare oltre 10 miliardi di euro di proprietà Elkann e di alcune altre famiglie decisamente "benestanti".
 
Nel frattempo l'uomo più ricco d'Italia Giovanni Ferrero ha creato uno strumento analogo, "Teseo Capital", con sede in Lussemburgo e una dotazione di quasi 4 miliardi di euro per fare operazioni simili. Sulla stessa falsariga si muove "Dea Capital" delle famiglie Drago e Boroli, impegnante a tempo pieno nei fondi immobiliari.
 
L'ultimo in ordine di tempo è Alessandro Benetton che ha costituito "21 Next" con una disponibilità di circa 13 miliardi di patrimoni di super ricchi. Vale la pena ricordare che nella Legge di bilancio in discussione per questi soggetti sono previsti incentivi sulle rottamazioni, crediti d'imposta, semplificazioni per il private equity e naturalmente l'assenza di alcuna forma di imposizione patrimoniale.
 
Ma il problema sono i "communisti".
 
 
*Post Facebook del 21 dicembre 2025
 
 
Data articolo: Mon, 22 Dec 2025 06:00:00 GMT
OP-ED
Marco Travaglio - Parla per te


di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2025

 

L’altroieri papa Leone XIV, nel suo primo messaggio per la Giornata della Pace, ha scomunicato i piani di riarmo dei governi europei che si dicono cattolici, ma sono “blasfemi”. Ha contrapposto ai loro folli aumenti di spese militari il “disarmo integrale” e la “pace disarmata”. Ha definito “scandaloso che si faccia la guerra per raggiungere la pace”, “si trasformino in armi persino i pensieri e le parole”, si ritenga “una colpa non prepararsi abbastanza alla guerra”, si lancino “campagne di comunicazione e programmi educativi che trasmettono una nozione meramente armata di difesa e sicurezza” e “diffondono la percezione di minacce”, si propagandi “una logica contrappositiva molto al di là del principio di legittima difesa”, invece di una “cultura della memoria che custodisca le consapevolezze maturate nel ’900 e non ne dimentichi i milioni di vittime”. Poi si è appellato a “chi ha responsabilità pubbliche nelle sedi più alte” perché la smetta con gli “appelli a incrementare le spese militari” e a “giustificarle con la pericolosità altrui” e percorra “la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale”. E contro il pensiero unico guerrafondaio foraggiato dalle “enormi concentrazioni di interessi economici e finanziari privati che sospingono gli Stati in questa direzione” ha invocato “il risveglio delle coscienze e il pensiero critico”. Parole sante.

Intanto i soliti casi europsichiatrici deliravano di “soldi o sangue” e varavano eurobond per comprare altre armi, come se l’Europa non spendesse già più del doppio della Russia e un terzo più della Cina. “La nostra spesa per la difesa – diceva Von der Leyen – deve aumentare. La Russia spende fino al 9% del suo Pil per la difesa. L’Europa in media l’1,9%. C’è qualcosa di sbagliato in questa equazione”. Vero: di sbagliato c’è che la Russia, oltre a essere in guerra, ha un Pil molto basso, quindi usarlo per paragonare la sua spesa militare (che comunque nel 2025 è al 6,3% del Pil) con la nostra è ridicolo. I Paesi Ue, con un Pil nove volte più alto, spendono già oggi con l’1,9% la mostruosità di 350 miliardi, al netto dei piani di riarmo, contro i 120 della Russia e i 240 della Cina. E non sono in guerra con nessuno, anzi non hanno proprio nemici.

Mentre il Papa parlava, a Mattarella devono essere fischiate le orecchie. Infatti ieri ha detto l’opposto, associandosi alla versione falsa di Ursula: “La spesa per efficaci strumenti che garantiscano la difesa collettiva è da sempre poco popolare. Anche quando, come in questo caso, si perseguono la sicurezza e la pace nel diritto internazionale. E tuttavia, poche volte come ora, è necessario”. Invece noi poche volte come ora ci siamo sentiti meno rappresentati dal presidente della Repubblica.

Data articolo: Mon, 22 Dec 2025 06:00:00 GMT
OP-ED
Conferenza del Prof. Angelo d'Orsi alla Federico II di Napoli. Una "missiva" prova a bloccare l'evento


di Angelo d'Orsi

Lunedi 22 dicembre, alla Federico II di Napoli, una delle più antiche università pubbliche d'Europa (secondo alcuni, la più antica), è prevista un'altra conferenza, nella quale sarò affiancato da Alessandro Di Battista, con i compagni dell'Anpi Zona Orientale Sez. Aurelio Ferrara a coordinare e introdurre.
Ebbene, mentre il Calenda avvia la sua patetica raccolta di firme per impedire lo "sconcio", un'altra signora nessuno, che non risulta neppure docente dell'ateneo (e di nessun ateneo, a dire il vero) si infervora e indirizza una lettera alle autorità accademiche perchè vietino l'incontro. Ormai non so più davvero se piangere o ridere.

Ecco il resoconto di un giornale locale, con la risposta dell'amico Franco Specchio, primo organizzatore dell'evento.

Siamo curiosi di vedere come andrà a finire... Sarei davvero l'uomo più censurato d'Italia!


L'ULTIMO, IMPERDIBILE, LIBRO DEL PROF. D'ORSI:


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DA IL DESK.IT, 10 DICEMBRE 2025

Alla Università Federico II di Napoli, un seminario dedicato alla complessità del rapporto tra russofilia, russofobia e informazione sta generando un’ondata di reazioni che vanno ben oltre il perimetro accademico. Il 22 dicembre, nel Dipartimento di Filosofia, la sezione ANPI Napoli Orientale promuoverà l’incontro “Russofilia, Russofobia, Verità”, con la partecipazione di Alessandro Di Battista, dello storico Angelo D’Orsi e del dirigente nazionale ANPI Vincenzo Calò, introdotti da Franco Specchio. Un appuntamento culturale, annunciato come spazio di riflessione e analisi critica. Ma per alcuni, a quanto pare, già troppo.

A scatenare il caso è stata una lettera inviata al Rettore Matteo Lorito e al Direttore del Dipartimento Andrea Mazzucchi da Maria Nicola Buonocore, project manager in organizzazioni impegnate nel sostegno all’Ucraina. La missiva, pur con toni istituzionali, mette in discussione l’opportunità dell’incontro e ne chiede la riesamina, sollevando dubbi sui relatori e sul presunto sbilanciamento dell’impostazione.

È un intervento che, nella sua apparente formalità, introducendo criteri di “accettabilità” dei contenuti prima ancora che vengano esposti, evoca una logica di vigilanza preventiva. Una dinamica che molti negli ambienti universitari leggono come il tentativo, neanche troppo velato, di condizionare il perimetro del dibattito pubblico.

La risposta degli organizzatori non si è fatta attendere. Il presidente della sezione ANPI Napoli Orientale, Franco Specchio, ribadisce con fermezza il senso dell’iniziativa: “Discutere non è un reato. Soprattutto in università, lo spazio del confronto non può essere ostacolato da chi teme il pluralismo. La cultura non si difende con i divieti”.

Per l’ANPI, il nodo è politico nel senso più alto del termine: difendere l’autonomia del pensiero critico in un clima in cui ogni lettura non conforme rischia di essere bollata come sospetta.

La vicenda sta assumendo un valore simbolico: la capacità dell’Ateneo di resistere alle pressioni esterne e difendere la funzione primaria dell’università, quella di dare casa anche ai temi difficili, scomodi, non allineati.

Il rischio, denunciano alcuni docenti, è che il tentativo di condizionare l’iniziativa possa trasformarsi in un precedente: oggi si discute della Russia, domani potrebbe toccare ad altro. In una spirale in cui la libertà accademica finisce ostaggio della sensibilità politica del momento.

Malgrado le pressioni, l’evento resta confermato. E forse proprio le contestazioni lo hanno trasformato in qualcosa di più di un semplice seminario: un banco di prova della maturità democratica dell’università italiana.

Molti studenti e studiosi annunciano la loro presenza come gesto di partecipazione, ma anche di vigilanza civica. Perché la domanda che emerge, scomoda e inevitabile, è questa: se basta un convegno per generare timori, allarmi e lettere ai vertici accademici, quale spazio resta oggi per la libertà di pensiero?

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L'ULTIMO, IMPERDIBILE, LIBRO DEL PROF. D'ORSI


Data articolo: Mon, 22 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Nuovi aggiornamenti dall'Eliseo sui potenziali colloqui tra Macron e Putin

 

La presidenza francese ha annunciato di aver ricevuto e preso atto con favore della disponibilità di Mosca a un dialogo ad alto livello, in risposta all’invito pubblico lanciato venerdì dal presidente Emmanuel Macron. In un comunicato diffuso domenica, l’Eliseo ha fatto sapere che "nei prossimi giorni deciderà il modo migliore di procedere" per definire i termini di un possibile incontro tra i due capi di Stato.

La mossa francese segue le dichiarazioni del presidente Macron, che all’indomani di un vertice Ue ha sottolineato la necessità per il blocco europeo di essere pronto a “riprendere i rapporti” con la Russia e a dialogare con il presidente Vladimir Putin. Un approccio che, secondo Parigi, ha trovato un riscontro pubblico nel Cremlino.

La posizione russa, emersa ieri attraverso le dichiarazioni del portavoce Dmitry Peskov all’agenzia RIA Novosti, conferma l’apertura al dialogo ma delinea condizioni precise. Putin rimarrebbe “sempre pronto a spiegare le sue posizioni in modo dettagliato, sincero e coerente”, ha affermato Peskov, specificando che un eventuale colloquio “non deve essere utilizzato da una parte per ‘dare lezioni’ all’altra” e deve avere “uno scopo chiaro”.

L’ultimo contatto diretto tra i due leader risale a luglio, primo scambio dall’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina nel febbraio 2022.

Il contesto europeo

L’apertura di Parigi arriva in un momento delicato per la politica Ue verso Mosca. La proposta di utilizzare circa 210 miliardi di euro di asset russi congelati come garanzia per un prestito di riparazione all’Ucraina – oggetto di mesi di deliberazioni – non ha trovato l’accordo unanime del Consiglio Europeo, naufragando principalmente per la ferma opposizione del Belgio, paese che detiene la maggior parte dei beni immobilizzati.

Il vertice ha invece approvato un prestito di 90 miliardi di euro, da raccogliere sui mercati dei capitali, per finanziare il deficit di bilancio di Kiev. Tuttavia, diversi Stati membri hanno già comunicato la loro intenzione di non partecipare al piano, manifestando così una crescente reticenza a sostenere nuovi impegni finanziari diretti.

In questo quadro, l’iniziativa diplomatica francese sembra voler esplorare una strada parallela.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 22:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Una corte obbliga Kallas a ritrattare pubblicamente false accuse

 

La Corte Suprema dell'Estonia ha respinto il ricorso dell'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, confermando definitivamente una sentenza che la obbliga a una rettifica pubblica per dichiarazioni ritenute diffamatorie. La vicenda risale a un post pubblicato dalla stessa Kallas nel febbraio 2022, quando ricopriva l'incarico di Primo Ministro estone.

Nel messaggio, Kallas affermava che agenti di polizia erano stati aggrediti durante una protesta organizzata da Varro Vooglaid, esponente del partito di opposizione EKRE e presidente della Fondazione per la Protezione della Famiglia e della Tradizione (SAPTK), collegandolo inoltre a una manifestazione anti-restrizioni Covid tenutasi a Tallinn nell'ottobre 2021.

Vooglaid e la SAPTK hanno sporto querela, sostenendo l'infondatezza delle accuse. Un tribunale estone, dopo aver esaminato le prove, si è pronunciato a loro favore lo scorso anno, stabilendo che nessun agente aveva subito aggressioni durante gli eventi in questione e che non sussistevano i collegamenti denunciati da Kallas. Con il rigetto dell'appello da parte della massima corte, la sentenza è divenuta esecutiva.

Sabato, Kallas ha pubblicato sulla sua pagina Facebook il testo di rettifica imposto dall'autorità giudiziaria, nel quale ha riconosciuto il carattere falso delle proprie precedenti dichiarazioni. La nota non conteneva scuse formali ai querelanti.

La sentenza giunge in un periodo in cui l'operato della diplomatica estone è al centro di un dibattito pubblico che travalica i confini nazionali. Recenti dichiarazioni pubbliche di Kallas su temi storici e di politica internazionale hanno sollevato perplessità e critiche in varie capitali, evidenziando le tensioni esistenti all'interno dell'Unione Europea riguardo all'approccio da adottare nei confronti della Russia. Alcuni analisti e media europei hanno espresso riserve sull'efficacia di uno stile giudicato da alcuni come eccessivamente conflittuale, in un contesto diplomatico già estremamente complesso.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 22:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Euractiv" esclusa dai briefing della Commissione UE. Caporedattore: "Bruxelles punisce il giornalismo critico"

 

In una mossa che riaccende il dibattito sulla libertà di stampa nell'UE, la Commissione Europea ha escluso il sito di informazione Euractiv dai propri briefing informativi riservati. A rivelarlo è stato il caporedattore Matthew Karnitschnig, che in un editoriale ha definito il giornalismo indipendente a Bruxelles "una specie in via di estinzione", sempre più emarginato a favore di un "giornalismo di accesso" dipendente dalle istituzioni.

Karnitschnig ha attribuito la decisione della Commissione alla linea editoriale critica adottata dal portale nel corso dell'anno, definita "una forte dose di giornalismo critico" nei confronti della cosiddetta "bolla UE". Tra gli articoli citati come possibili cause del provvedimento figurano inchieste che hanno messo in discussione versioni ufficiali, come quella relativa a un presunto atterraggio di emergenza dell'aereo della presidente Ursula von der Leyen in Bulgaria, e analisi critiche su proposte politiche, come il piano per un servizio di intelligence europeo.

Euractiv, fondato nel 1999 con l'obiettivo di "svelare le complessità" della macchina comunitaria, è un punto di riferimento consolidato per la copertura delle politiche dell'UE. La sua esclusione dai briefing – sessioni chiave in cui i funzionari orientano il messaggio della Commissione verso la stampa – solleva interrogativi sui criteri di accesso all'informazione per i media che operano nella capitale europea.

La vicenda si inserisce in un contesto di tensioni più ampie sulla libertà di espressione nel continente. Recentemente, voci critiche sia interne che esterne all'Unione, incluso il vicepresidente statunitense J.D. Vance durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, hanno espresso preoccupazione per un presunto "declino" di tale libertà in Europa, accusando talvolta le istituzioni di allontanarsi da valori democratici fondamentali.

La Commissione Europea, interpellata in merito, non ha ancora rilasciato una dichiarazione ufficiale che motivi l'esclusione di Euractiv. L'episodio promette di alimentare il dibattito sull'equilibrio tra il diritto-dovere di cronaca critica dei media e le strategie di comunicazione delle istituzioni nell'era della disinformazione.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 22:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Financial Times: "Macron ha tradito Merz"

 

Il presidente francese Emmanuel Macron avrebbe “tradito” Friedrich Merz non appoggiando la proposta del cancelliere tedesco di utilizzare i beni russi congelati nell'UE per finanziare l'Ucraina. A scriverlo domenica è il Financial Times, sollevando importanti interrogativi sulla tenuta futura della stessa Unione. 

Dopo un vertice maratona di 16 ore, i leader dell'Unione Europea hanno approvato nella matttina di venerdì un prestito di 90 miliardi di euro per l'Ucraina, ma la decisione è arrivata al prezzo di una profonda spaccatura politica e del fallimento di un piano più ambizioso, sostenuto dalla Germania, per utilizzare gli asset russi congelati come garanzia. Il mancato accordo sul cosiddetto "prestito di riparazione", che avrebbe impiegato fino a 210 miliardi di euro di fondi della Banca Centrale Russa immobilizzati nell'UE, è stato interpretato come una sconfitta personale per il cancelliere tedesco Friedrich Merz e per la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Domenica, il FT, citando un alto diplomatico anonimo dell'UE, ha riferito che “Macron ha tradito Merz e sa che dovrà pagare un prezzo per questo”. Secondo il noto giornale, mentre il presidente francese non si è opposto pubblicamente alla cosiddetta proposta di “prestito di riparazione”, Macron ha messo in discussione la sua legalità in privato. Inoltre, il suo team avrebbe indicato che la Francia, oberata da un debito crescente, difficilmente avrebbe concesso garanzie nel caso in cui i beni sequestrati sarebbero dovuti essere restituiti alla Russia.

Il FT ha affermato che Macron si è così unito a Belgio, Italia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca nell'opporsi al piano, “affossando l'idea”. In un contesto di crescenti divisioni all'interno del blocco, secondo il FT è diventata sempre più evidente la “disunione tra Merz e Macron”.

Intervenendo venerdì durante una sessione di domande e risposte di fine anno, il presidente russo Vladimir Putin ha avvertito che “qualunque cosa [l'UE rubi] e comunque lo faccia, un giorno dovrà restituirla”. Mosca ha avviato un procedimento arbitrale contro Euroclear, un deposito con sede in Belgio dove è conservata la maggior parte dei beni russi congelati. A novembre, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che l'Europa occidentale aveva perso il diritto di avere voce in capitolo nella crisi ucraina e si era di fatto “autoesclusa” dai negoziati a causa del suo ostinato bellicismo.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 22:00:00 GMT
Dalla parte del lavoro
ELSA MELONI FORNERO


di Giorgio Cremaschi

 

Il governo Meloni odia le donne e gli operai.
 
Avevano presentato peggioramenti brutali della legge pensionistica più feroce d’Europa. Poi, di fronte alla vergogna che travolgeva Matteo Salvini che aveva fatto tutte le sue campagne elettorali contro la legge Fornero, hanno fatto una parziale marcia indietro.
 
Si tolgono truffe incostituzionali come quella che sostanzialmente annullava il riscatto della laurea. Si attenua l’aumento dell’età della pensione, ma non lo si ferma. Così mese dopo mese si avvicina la pensione a settant’anni.
 
Resta il regalo ai fondi pensione privati, con la rapina a loro favore del TFR dei nuovi assunti. Resta la mancata vera indicizzazione delle pensioni, il che vuol dire che sempre più pensionati vedranno diminuire il loro reddito reale e peggiorare la loro vita.
 
Ma c’è una correzione della manovra che mostra tutto l’odio di classe di questo governo che finge di stare con il popolo. Hanno deciso di colpire il diritto ad andare in pensione prima per chi è andato a lavorare da ragazzo e per chi fa lavori usuranti, mentre hanno confermato l’abolizione del diritto delle donne alla pensione anticipata anche se con meno soldi.
 
Insomma gli operai devono rischiare salute e vita da anziani, mentre le donne si arrangino.
 
È bene ricordare che in Francia si continua ad andare in pensione a 62 anni, perché Macron ha congelato la sua legge Fornero, mentre da noi siamo quasi a 68 anni di età e 44 di contributi.
 
Matteo Salvini continua ad imbrogliare, ma Giorgia Meloni in fondo è coerente. Lei ha scelto di essere l’obbediente esecutrice in Italia dell’austerità europea e del riarmo NATO. E questa sua scelta non è di oggi, perché la deputata Giorgia Meloni nel 2012 aveva proprio votato la legge Fornero. Ora la porta avanti perché per la finanza internazionale quella legge è una vera e proprio bandiera. Elsa Meloni Fornero.
Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 21:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Terza petroliera inseguita dagli USA vicino al Venezuela

La Guardia Costiera degli Stati Uniti ha avviato l’inseguimento di una terza petroliera in acque internazionali vicino al Venezuela in meno di una settimana. Lo riporta l’agenzia Reuters, citando fonti anonime, confermando così un’ulteriore intensificazione della campagna diretta a sottrarre il petrolio al Venezuela. Un funzionario ha affermato che la nave operava sotto sanzioni USA, senza fornire ulteriori dettagli sull’identità o la posizione del mercantile.

L’episodio si inserisce nella scia dell’annuncio, fatto la scorsa settimana dal presidente Donald Trump, di un “blocco navale” totale contro le petroliere sanzionate in entrata o in uscita dal Venezuela. Una misura che diversi osservatori internazionali denunciano come parte di una più ampia strategia di regime change. Oltre ai pattugliamenti, la politica di Washington ha incluso un rafforzamento militare nella regione e numerosi attacchi illegali contro navi, che secondo stime di Caracas hanno causato almeno un centinaio di vittime civili.

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha denunciato queste azioni come veri e propri “atti di pirateria” perpetrati sotto copertura statale. Attraverso un materiale illustrativo, il leader ha spiegato la differenza tra i pirati, che agiscono per conto proprio, e i “corsari”, che invece operano sotto contratto e protezione di uno Stato. “È esattamente ciò che sta facendo l’amministrazione statunitense”, ha affermato Maduro, “utilizzando metodi coloniali per assaltare e rubare petrolio venezuelano nei Caraibi”.

La protesta arriva a soli due giorni da un’altra formale denuncia del governo bolivariano, guidata dalla vicepresidente esecutiva Delcy Rodríguez, che aveva già segnalato alla comunità internazionale il “sequestro” di una nave e la “sparizione forzata” del suo equipaggio, definendolo un “grave fatto di pirateria” nella sistematica aggressione all’economia nazionale.

Nonostante l’assedio, Maduro ha ribadito la forza della resistenza venezuelana, affermando che il Paese ha affrontato e neutralizzato 25 settimane consecutive di questa campagna multiforme di guerra ibrida. “Questa fase di aggressioni ha servito a rafforzare la struttura dello Stato”, ha dichiarato il presidente, annunciando che la nazione è pronta per una “Rivoluzione profonda”. “Il Venezuela ha dimostrato che può affrontare il terrorismo psicologico e il furto delle sue risorse senza fermare il suo cammino. Siamo preparati per accelerare la marcia!”, ha concluso.

Il governo si è impegnato a portare la denuncia di queste violazioni del diritto marittimo e dei diritti umani in tutti i consessi internazionali, difendendo la sovranità energetica come asse centrale della resistenza alle pressioni esterne.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 19:15:00 GMT
Mondo grande e terribile
Mattarella, il riarmo e la politica: e voi vi meravigliate dell'astensionismo?

 

di Paolo Desogus*

 

L’invito al riarmo di Mattarella costituisce l’ennesima invasione di campo del Presidente della Repubblica sugli affari del governo e del parlamento. Mette in discussione l’autonomia dei poteri costituzionali e stravolge quello della presidenza. 

Mattarella non è nuovo a questi abusi. Ma va però fatta un’osservazione. Ora come in passato le sue scelte invasive non sono compiute per l’interesse del paese, ma per rispondere a sollecitazioni esterne, legate a un disegno politico privo di legittimazione democratica.

Detto in altre parole, Mattarella è il garante dei diversi vincoli esterni (mercati, patto Atlantico, NATO, UE…) che comprimono la volontà popolare e che rispndono alle élite che nel corso degli ultimi trent’anni hanno promosso politiche devastanti, dall’austerity al sabotaggio di ogni trattativa di pace in Ucraina. Sono le stesse élite che si voltano dall’altra parte quando si parla di Gaza, ma che in nome dell’Ucraina si sperticano nell’esaltazione dei valori europei. Quelle che hanno varato non si sa più quanti pacchetti di sanzioni contro la Russia e nessuna contro Israele.

Questa volta però Mattarella ha passato il segno. Ha consegnato l’Italia a quella linea politica che promuove il riarmo anche al prezzo di scelte “impopolari”. Tradotto Mattarella, in nome di un disegno politico che gli italiani non hanno mai valutato, chiede a governo e parlamento (dunque con la collaborazione dell’opposizione) di procedere con la macelleria sociale pur di far avanzare la linea bellicista. 

Al governo Meloni, oramai privo di bussola e di qualsiasi spinta programmatica, va anche bene. La necessità del riarmo è un buon argomento per giustificare la mancata crescita, i salari al palo e l’esternalizzazione dei servizi, per i quali si arricchiscono i privati. 

Anche l’opposizione non fa una piega. Pur di darsi un senso e sentirsi necessaria è disposta ad accettare l’inaccettabile. Per molti versi il PD è anzi più guerrafondaio di Giorgia Meloni.

Poi ci si sorprende se alle elezioni vince l’astensione. E come potrebbe andare diversamente? Perché gli elettori dovrebbero votare per questa gente? Perché dovrebbero fingere che nel nostro paese non ci sia un gravissimo problema democratico?

*Post Facebook del 21 dicembre 2025

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 19:00:00 GMT
OP-ED
Andrea Zhok - La chiusura della tonnara

 

di Andrea Zhok*

 

Qualche giorno fa il Consiglio dell’Unione Europea, organo esecutivo, ha sanzionato il colonnello Jacques Baud ed altri 11 soggetti (individui e persone giuridiche). Le sanzioni implicano il congelamento dei beni, il divieto a tutti i cittadini e alle imprese dell'UE di mettergli a disposizione fondi, di permettergli attività finanziarie o concedergli risorse economiche, oltre ad un divieto di viaggio. In sostanza ciò equivale a dichiarare la morte civile del cittadino colpito, che non può più accedere legalmente ad alcuna forma reddituale, né pregressa, né nuova, e non può spostarsi.

 

Due cose vanno sottolineate.

 

In primo luogo, questa punizione draconiana viene comminata per qualcosa che è precisamente e soltanto un “reato d’opinione”, in quanto non ci sono accuse di violazioni di legge, né penale, né civile.

 

In secondo luogo, la punizione non viene comminata da un organismo giudiziario, ma da un esecutivo, dunque senza passare attraverso una procedura di accertamento delle eventuali responsabilità.

 

Incidentalmente – per il piacere di chi si diletta di queste cose – questa forma di intervento è in diretta e manifesta violazione degli articoli 11 e 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che recitano rispettivamente:

 

Articolo 11.1. “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.”

Articolo 12. “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.”

 

Ora, chi pensasse che questa esibizione di arbitrio dittatoriale sia un semplice incidente di percorso, sbaglierebbe di grosso. 

Il governo dell’Unione Europea è da tempo il regno del più totale arbitrio. 

 

Pensiamo alla questione della sottrazione dei beni russi congelati. Questa palese violazione del diritto internazionale non è avvenuta (per il momento) solo per una congiuntura fortuita, ovvero la presenza negli USA di un presidente che ha altri piani per quei fondi e la presenza in Belgio – il paese finanziariamente più coinvolto – di un primo ministro dotato di un minimale buon senso. Per inciso, per questo atteggiamento prudente il premier Bart De Wever - nonostante goda di un massiccio appoggio popolare – è stato aggredito dalla stampa belga con accuse di filoputinismo. Le conseguenze a catena di una tale violazione macroscopica del diritto economico sarebbero potenzialmente devastanti e lo sono tanto più in quanto l’UE ha come ultimo residuo asset sul piano internazionale il fatto di essere una superpotenza finanziaria con una moneta stabile.

 

La von der Leyen è quella presidentessa che è stata eletta per un secondo mandato dopo aver bruciato decine di miliardi di fondi europei in un contratto privato e secretato via sms con la Pfizer. Ergo, il suo modo di agire arbitrario è stato benedetto dall’UE in toto.

 

L’UE è quell’organismo che ha portato al macello l’industria europea per seguire, pro tempore, le lobby green (che ovviamente nulla c’entrano con l’ecologia), salvo poi rendersi conto di quanto decine di esperti avevano detto immediatamente, ovvero che gli obiettivi di elettrificazione a tappeto erano astratti ed irrealistici (oltre che inutili per i fini che ufficialmente si proponevano, in assenza di accordi con il resto del mondo industrializzato).

 

L’UE è quell’entità multinazionale che sta aprendo un’agenzia d’intelligence sotto il diretto comando di chi presiede pro tempore la commissione (ora von der Leyen), come se fosse un capo di governo nazionale, democraticamente eletto.

 

L’UE ha partorito il Digital Services Act, meccanismo censorio che può sanzionare in maniera perfettamente arbitraria (cioè senza passaggio attraverso organi giudiziari) qualunque piattaforma che ospiti un contenuto ritenuto “disinformazione”, cioè qualunque contenuto che non sia allineato all’esecutivo europeo e sia significativamente influente.

 

L’UE sostiene sistematicamente che le elezioni con esiti avversi alla propria agenda sono illegittime e vanno ripetute, che i vincitori di elezioni con agende antieuropeiste vanno arrestati, che i partiti euroscettici vanno messi fuori legge anche se hanno la maggioranza delle preferenze.

 

Mentre nelle nostre scuole le ore di educazione civica vengono prese in ostaggio da piazzisti porta a porta delle meraviglie dell’Europa Unita, mentre carriere accademiche si decidono attraverso l’erogazione di grants europei, concessi a progetti o rigorosamente innocui o proni all’agenda eurocratica, mentre si procede a tappe forzate verso il portafoglio digitale – con cui le sanzioni oggi erogate a Jacques Baud potranno essere più ampie, rapide e diffuse – mentre tutto questo accade, la popolazione europea continua in gran parte a sonnecchiare.

 

I liberali libertari vogliono più libertà solo per i detentori di capitale.

 

I progressisti canticchiano “Bell* ciao” e inseguono fascisti immaginari.

 

I gruppi del dissenso sono troppo intenti ad essere gelosi o maldicenti gli uni degli altri per occuparsi d’altro.

 

La destra sovranista continua a vendersi la patria a pezzi in cambio di poltrone e foto opportunity.

 

Vecchi europeisti rintronati continuano a trastullarsi col “sogno europeo” perché possono fare benzina oltre confine senza mostrare i documenti.

 

Gli industriali, sempre più dipendenti dalle europrebende, stanno muti di fronte ad un’UE capace per la prima volta nella storia europea di coltivare rapporti catastrofici con tutto il resto del mondo: sul piede di guerra con la Russia, relazioni distrutte con la Cina per la “via della seta”, cacciati a calci dall’Africa, disprezzati dagli USA.

 

Gli unici a prosperare sono gli yes-men, i conformisti di lusso, gli ingranaggi di alto bordo, gli inservienti dell’accademia, gli ingranaggi della magistratura.

 

Pochissimi sembrano avere una comprensione della gravità di questa transizione storica, in cui, nelle istituzioni di quella tonnara chiamata Unione Europea, omini e donnine a pagamento, dipendenti da rarefatte oligarchie finanziarie, stanno portando a compimento gli ultimi passi per un assoggettamento integrale e irrevocabile dei cittadini europei: assoggettamento culturale, economico, materiale, comportamentale. Assoggettamento diverso però da quello delle autocrazie, perché brado, opaco, acefalo, privo anche di quel piccolo lusso che consta nel conoscere il volto di chi ti opprime. Al comando non è un uomo solo al balcone, ma un apparato autoperpetuantesi, un apparato messo in piedi da un sistema di lobby finanziarie, un apparato privo di un progetto che non sia quello del potere per il potere, l’estrazione di valore fine a sé stessa, per cui l’Europa e i suoi cittadini sono solo materia prima, forza lavoro, terra di conquista.

 

*Post Facebook del 21 dicembre 2025

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 18:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Abu Mazen ad Atreju. La risposta delle organizzazioni palestinesi agli attacchi della Meloni

 

Riceviamo e pubblichiamo un importante comunicato di due organizzazioni palestinesi che hanno voluto mandare questo messaggio alla premier Giorgia Meloni

 

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COMUNICATO DI RISPOSTA ALL’ATTACCO DELLA MELONI ALLE ORGANIZZAZIONI PALESTINESI

 

L’invito di Abu Mazen ad Atreju e l'esplicito attacco della Meloni alle realtà e ai movimenti palestinesi nel comizio finale, costituiscono un dato di fatto significativo: la capacità del movimento di resistenza palestinese di rivelare le fratture e le contraddizioni del sistema politico italiano ed internazionale. 

 

Per rispondere più nel dettaglio alla Presidente, che ad Atreju ci ha interpellati direttamente, “pretendendo di sapere se la resistenza della quale parliamo sia Hms”. 

 

Siamo d’accordo con Meloni quando dice che “la pace non si fa con le canzoni di John Lennon ma con la deterrenza”, e ribadiamo che, come dimostra l'oltre un secolo di lotta anticoloniale del nostro popolo, in Palestina l’unica deterrenza contro “Israele” è la Resistenza.

 

Chi ha storicamente rappresentato i palestinesi, in Palestina e nella diaspora, non è mai stato un organo imposto dall'esterno, ma il movimento di resistenza nella sua pluralità di movimenti, partiti, fazioni e gruppi, che hanno guidato e sostenuto nel tempo tutte le forme della lotta di liberazione. La resistenza palestinese non è un fenomeno contingente né riconducibile a un singolo attore, è un processo storico che si sviluppa da oltre un secolo e che si esprime in forme molteplici: dalla resistenza politica e sociale a quella culturale, dalla resilienza quotidiana delle comunità al sacrificio dei prigionieri, dei giornalisti, delle donne e dei bambini sotto assedio.

 

Perciò l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese è chiunque e qualunque fazione lo difenda contro l’occupante sionista, compresi alcuni membri proprio del partito del suo ospite e caro amico Abu Mazen. Uno di questi si chiama Anan Yaeesh, detenuto in Italia, a Melfi, con false e ingiuste accuse. Anan non è né un membro di Hms né di qualche partito comunista, ma un militante di Fateh, che tecnicamente è il partito dell’Autorità Palestinese. Abu Mazen ha mai parlato a Meloni di Anan? Ha mai preteso la sua liberazione? Certamente no, e questo dà la misura di quanto sia traditore dei palestinesi, a partire da quelli che dovrebbero essergli più prossimi. 

 

Meloni ha paura delle “autoproclamate” associazioni palestinesi perché sa che noi abbiamo più legittimazione di un burattino come Abu Mazen, perché sa che alla testa della piazza del 4 ottobre c’eravamo noi e non l’ambasciata palestinese, che in due anni non ha proferito mezza parola sul genocidio e che non muove un dito per la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti in Italia.

 

Questa messinscena è un inutile tentativo di riabilitare un leader riconosciuto solo da una comunità internazionale che rifiuta di ammettere le proprie responsabilità storiche nel progetto coloniale israeliano; un leader non riconosciuto dal suo stesso popolo, per il suo ruolo di sostegno all'occupazione sionista. 

 

Allo stesso tempo, la sua partecipazione al convegno di Fratelli d'Italia, è un chiaro tentativo di rilegittimare il governo Meloni di fronte all’opinione pubblica e di fare dimenticare il protagonismo italiano nel genocidio e nelle pratiche di oppressione coloniale. 

 

Ma il genocidio non sarebbe stato possibile senza il contributo fondamentale del made in Italy. L’Italia infatti è il terzo esportatore europeo di armi verso “Israele”, che invece è il secondo fornitore di armi all’Italia, che con i suoi contratti militari, economici e accademici sostiene pienamente l’occupazione e lo sterminio dei palestinesi.

Il massacro non sarebbe stato possibile senza l’incessante lavoro di sostegno diplomatico che il suo Governo ha svolto per “Tel Aviv” a tutti i livelli e in ogni occasione. Solo questo completa e rende pienamente giustizia al quadro illusionista che la Premier ha dipinto ad Atreju: i bambini che lei ha fatto umanamente venire in Italia per curarsi sono doppiamente suoi, perché la mano italiana li ha bombardati prima e curati poi. Ugualmente gli aiuti sono stati possibili solo grazie al contributo dell’Italia all’assedio e alla fame di Gaza.

 

Rimanere saldamente al fianco della resistenza e opporsi ai collaborazionisti è fondamentale, ora più che mai, perché è proprio sul disarmo e sulla riabilitazione dell’Autorità Palestinese che si gioca il piano Trump per la colonizzazione della Palestina e per la liquidazione della sua causa.

 

Le organizzazioni palestinesi in Italia pretendono dallo Stato Italiano quello che Abu Mazen non pretenderà mai: l’embargo totale delle armi ad “Israele”, la rottura di ogni rapporto militare, economico politico e accademico, e soprattutto la liberazione di Anan Yaeesh e la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi e per la Palestina in Italia.

 

Giovani Palestinesi d'Italia (GPI)

Unione Democratica Arabo Palestinese (UDAP)

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 18:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Il Cremlino commenta le modifiche di Ucraina e Ue al "piano Trump"

 

Le modifiche che ucraini ed europei stanno cercando di introdurre nel piano di pace non avvicinano il raggiungimento di un accordo, ha dichiarato il consigliere presidenziale russo Yuri Ushakov. “Sono sicuro che le proposte che europei e ucraini hanno fatto o stanno cercando di fare certamente non migliorano il documento né aumentano la possibilità di raggiungere una pace a lungo termine”, ha detto ai giornalisti.

Tentativi di modificare il piano di pace

In precedenza, Vladimir Zelensky aveva affermato che l'Ucraina e Washington non avevano ancora concordato una versione definitiva del piano di pace. “C'è un piano che gli Stati Uniti hanno discusso con noi e stanno discutendo con la Russia. L'ultima versione di qualsiasi piano è quella concordata. Per ora, non esiste una versione concordata del piano”, ha affermato. Secondo lui, Washington sta attualmente “cercando un accordo” sul Donbass. Ha anche affermato che l'Ucraina spera ancora che le sue forze raggiungano “almeno 800.000 effettivi”.

Le sue dichiarazioni arrivano nel mezzo dei tentativi di Kiev e dei suoi partner di modificare la versione iniziale del piano di pace del presidente Donald Trump, che considerano vantaggioso per la Russia.

I 28 punti della proposta iniziale dell'inquilino della Casa Bianca includevano il non ingresso dell'Ucraina nella NATO, la graduale revoca delle sanzioni imposte alla Russia e lo svolgimento delle elezioni presidenziali in Ucraina 100 giorni dopo l'entrata in vigore del documento, nonché questioni territoriali e la riduzione del numero dei membri dell'esercito ucraino a 600.000 effettivi. Tuttavia, funzionari statunitensi hanno successivamente indicato che alcuni punti erano già stati modificati, senza specificare quali.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 11:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Tulsi Gabard smentisce Reuters: "Nessun piano russo di occupazione totale"

 

Il Direttore dell'Intelligence Nazionale degli Stati Uniti, Tulsi Gabbard, ha smentito categoricamente alcune informazioni diffuse dall'agenzia Reuters riguardanti presunti piani della Russia di assumere il controllo dell'intera Ucraina e di altri territori dell'ex Unione Sovietica, assicurando che sono infondate e che simili piani non figurano nei rapporti della comunità di intelligence del Paese.

“Si tratta di una menzogna e di propaganda che Reuters sta diffondendo volontariamente per conto dei guerrafondai che vogliono minare gli instancabili sforzi del presidente [Donald] Trump” per porre fine al conflitto russo-ucraino, ha scritto Gabbard in un post sulla piattaforma X.

Secondo il responsabile dell'intelligence nazionale, questa “narrazione falsa” ha l'obiettivo di “alimentare l'isteria e la paura tra la popolazione affinché sostenga l'escalation”. In tale contesto, ha aggiunto che questo corrisponde esattamente a quanto “vogliono la NATO e l'UE per trascinare l'esercito americano direttamente in guerra con la Russia”.

Gabbard ha sottolineato che, in realtà, la comunità di intelligence statunitense ha informato i responsabili politici, così come la fonte di Reuters, di ritenere che “la Russia cerchi di evitare una guerra più ampia con la NATO”.

Reazioni e contesto

Da parte sua, l'inviato speciale della presidenza russa e direttore generale del Fondo russo per gli investimenti diretti, Kirill Dmitriev, ha commentato la pubblicazione della responsabile dell'intelligence statunitense, valutando che essa metta a nudo “la macchina bellicista dello Stato profondo”.
“[Gabbard] è fantastica non solo per aver documentato le origini dell'inganno su Russia di Obama e Biden, ma ora anche per aver smascherato la macchina bellica dello Stato profondo che cerca di incitare alla terza guerra mondiale, alimentando la paranoia anti-russa in tutto il Regno Unito e nell'Unione Europea. Le voci della ragione contano: dobbiamo ripristinare la sanità mentale, la pace e la sicurezza”, ha scritto sul suo account X.

Negli ultimi mesi, nel mezzo dell'isteria contro la Russia alimentata dall'Occidente, in Europa si è diffuso il dibattito su una presunta “minaccia” di attacco da parte del Paese slavo. Mosca ha respinto ripetutamente questo tipo di speculazioni, definendole pura “follia”. “La leggenda secondo cui la Russia sta pianificando un attacco contro l'Europa e i paesi della NATO è proprio quella bugia inverosimile che cercano di far credere alla popolazione dei paesi dell'Europa occidentale”, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 11:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Il Cremlino definisce le condizioni per eventuali colloqui con Macron

 

Il presidente russo Vladimir Putin è aperto al dialogo con il suo omologo francese Emmanuel Macron, a patto che i futuri contatti siano improntati al rispetto reciproco e abbiano uno scopo chiaro. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, delineando i termini per eventuali nuovi colloqui.

Le parole del portavoce russo giungono in seguito a un intervento di venerdì scorso del presidente francese. In quell'occasione, Macron ha osservato come alcuni paesi abbiano già stabilito contatti con Mosca, sottolineando la necessità per gli europei e gli ucraini di definire un quadro di riferimento comune per riavviare le discussioni “in modo adeguato”. Il leader francese ha sostenuto che tornare a parlare con Putin potrebbe diventare “di nuovo utile”, per evitare che l'UE finisca per “discutere tra noi” mentre singoli negoziatori “vanno da soli a parlare con i russi”, una situazione che ha definito “non ottimale”.

Le condizioni di Mosca
Rispondendo attraverso l'agenzia di stampa RIA Novosti, Peskov ha specificato che qualsiasi futura interazione non dovrà essere utilizzata da una delle parti per “dare lezioni” all'altra. Al contrario, il dialogo dovrà concentrarsi sulla “comprensione reciproca delle rispettive posizioni”. “Putin è sempre pronto a spiegare le sue posizioni in modo dettagliato, sincero e coerente”, ha aggiunto il portavoce del Cremlino.

La posizione russa è stata ulteriormente chiarita dal ministro degli Esteri Sergey Lavrov, il quale ha ricordato che Putin ha ripetutamente espresso la sua disponibilità al dialogo, ma unicamente con “persone educate con alcune competenze elementari di decenza”.

Le dichiarazioni di Macron arrivano dopo che il vertice UE di questa settimana non ha raggiunto un accordo sull'utilizzo dei beni russi congelati per sostenere l'Ucraina, a causa di profonde divisioni interne tra gli Stati membri. In alternativa, i leader europei hanno optato per un prestito di 90 miliardi di euro (105 miliardi di dollari), da raccogliere sui mercati dei capitali, per finanziare il crescente deficit di bilancio di Kiev.  

L'ultimo contatto diretto tra Vladimir Putin e Emmanuel Macron risale a una telefonata nel luglio 2025, rappresentando la prima conversazione tra i due leader dal 2022. Il colloquio era incentrato sull'evoluzione del conflitto in Ucraina.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 11:00:00 GMT
OP-ED
Marco Travaglio - Leone XIV chi?



di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano 21 dicembre 2025

Spero che non vi sarete persi i grandi servizi di giornaloni e tg sul Papa che viene eletto da Vogue come uno dei “personaggi meglio vestiti del 2025” (per il dress code originale e innovativo), che visita a sorpresa il Senato per la mostra sulla Bibbia di Borso d’Este accolto da La Russa, che compulsa nottetempo la piattaforma Duolingo per studiare il tedesco. Notizie che cambiano la vita a milioni di persone. Altro che il suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace: un anatema contro le classi dirigenti europee riarmiste e guerrafondaie persino più definitivo di quelli di Francesco. Infatti, a parte il Fatto e Del Debbio sulla Verità, non ne parla nessuno. Altrimenti gl’imbecilli che vaneggiano di un papa “atlantista” o di “destra”, manco fosse la buvette di Montecitorio, o comunque ben diverso dal comunista-pacifinto-putiniano Bergoglio, e i politici baciapile delle destre e del Pd che gli leccano l’anello dovrebbero farsi ricoverare. O, in alternativa, prendere posizione sulla compatibilità tra il loro bellicismo e le sue parole, che poi sono una costante della dottrina della Chiesa da oltre un secolo: almeno dalla Nota inviata il 1° agosto 1917 da Benedetto XV alle “potenze belligeranti” contro l’“inutile strage” della Prima guerra mondiale. Non sia mai: poi toccherebbe confrontare il messaggio di Prevost con quelli opposti di Mattarella, altro noto cattolico che dice il contrario della morale cattolica e dell’art. 11 della Costituzione. Quindi nessuno lo riporta per non doverlo commentare (e magari, volendo, criticare).

Nei primi mesi del 2003, prima e dopo l’invasione occidentale dell’Iraq per rovesciare Saddam Hussein in base a false prove su armi di distruzione di massa e complicità con l’attentato di al Qaeda alle Torri gemelle, la stessa sorte toccò a papa Wojtyla. Ogni suo sospiro su qualunque tema dello scibile finiva sui tg e sui giornali: ma appena si azzardava a tuonare contro la guerra in Iraq, fino a equipararla a Satana e a promuovere una giornata di digiuno per la pace tra i cattolici di tutto il mondo, veniva oscurato insieme ai cortei pacifisti dalla Rai berlusconiana e ovviamente da Mediaset, per non disturbare B. e gli altri due criminali di guerra con la B.: George W. Bush e Tony Blair. Però i giornali “indipendenti” le parole di Giovanni Paolo II le riportavano col dovuto risalto. Ora quelle di Leone XIV le censurano tutti, perché il fronte guerrafondaio del si vis pacem para bellum va dall’Ue “volenterosa” al governo italiano, dal Quirinale ai tre quarti del Pd. E chi vuol fermare l’inutile strage in Ucraina ha i nomi impronunciabili di Trump, Orbàn, Xi Jinping, Lula e, in casa nostra, di Conte, Bonelli, Fratoianni, ogni tanto Salvini. Meglio sorvolare su quel che il Papa dice e concentrarsi su come si veste.

Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 10:00:00 GMT
OP-ED
DIVENIRE-PALESTINA CONTRO LA GOVERNANCE DELLA MACERIA


di Pasquale Liguori

 

Il piano Trump su Gaza - quello che promette ricostruzione mentre istituisce un consiglio di amministrazione planetario (“Board of Peace”), una forza militare internazionale e una gestione “tecnica” palestinese sotto tutela - non è un inciampo grottesco della diplomazia. È, semmai, la sua verità in purezza: la pace come rebranding dell’occupazione, la sovranità come compliance, la liberazione come procedura. È un lessico che sostituisce politica con governance e, nel farlo, prova a convertire un conflitto coloniale in un dossier di sicurezza e investimenti.

La cosa rivelatrice è proprio l’architettura: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu ha incardinato la cornice del piano, autorizzando una International Stabilization Force e collocando la “riqualificazione” di Gaza dentro una catena di comando e finanziamento esterna, destinata a durare finché l’Autorità Nazionale Palestinese - già cinghia di trasmissione amministrativo-securitaria dell’apparato coloniale - non risulti “riformata” e in grado di “riprendere controllo”. La Palestina, di nuovo, non è soggetto costituente: è oggetto di transizione, amministrato fino a nuova decisione.

C’è poi il dettaglio che, in realtà, è il centro: la cosiddetta linea gialla e le formule elastiche sulla sicurezza. Il meccanismo non chiude l’occupazione: la ridisegna nello spazio, con presenze “a terra” che restano e confini che diventano mobili, progressivamente riscrivibili. È la logica storica dei “processi di pace” che restringono il territorio palestinese mentre promettono futuro: un confine che non delimita, ma consuma.

Se questo è il quadro, l’idea di una ricostruzione da oltre 100 miliardi - la fantasia “Sunrise” di una Gaza trasformata in metropoli hi-tech, resort, riviera, ferrovia veloce e infrastrutture AI - non appare come un eccesso, ma come la forma economica del medesimo gesto: la maceria come asset, la popolazione come problema di ricollocazione, la terra come piattaforma. Non è un progetto “umanitario”: è un progetto immobiliare in abiti geopolitici.

In questa costruzione, la parola-chiave è disarmo: la pace come capitolazione amministrata. Ma persino i funzionari che la promuovono ammettono il nodo: chi disarma Hamas, come, con quale mandato e con quali costi politici? E mentre si annuncia l’imminente avvio degli organismi di governo e della forza di stabilizzazione, la realtà continua a bucare il comunicato: Israele prosegue attacchi e pressioni; la tregua resta fragile; i morti “dopo la tregua” ricordano che il genocidio può cambiare intensità senza cambiare natura.

Il piano Trump non è solo rapace, è ridicolo in senso politico, perché presume che la resistenza sia un malfunzionamento da correggere con un organigramma. L’idea che una burocrazia travestita da pace possa produrre resa è un’aberrazione: finché c’è occupazione, la resa non è un esito tecnico, è una richiesta coloniale.

Da qui la domanda: vale la pena, oggi, tentare un discorso evolutivo - sociopolitico - sulla Palestina che non abbia nulla delle pretese “bianche” (Ong, addolcimenti, pedagogie giuridiche occidentali) e che accompagni, invece, il successo della resistenza? Sì, se per “successo” intendiamo una cosa precisa e spietata: l’insistenza del politico dove l’impero vuole solo amministrazione; la capacità di non farsi ridurre a popolazione-utenza; il rifiuto di trasformare la liberazione in un capitolo di governance.

Il punto, però, non è solo smascherare la truffa semantica del piano. È capire perché proprio la Palestina costringe l’ordine internazionale a esibire, senza più pudore, i propri dispositivi: tutela, stabilizzazione, reconstruction governance, security sector reform. È come se, davanti a una soggettività che non collassa, la diplomazia fosse costretta ad ammettere la propria natura: non mediazione, ma ingegneria politica; non pace, ma amministrazione della violenza coloniale.

Qui è utile chiamare le cose col loro nome. La governance della maceria è una tecnica globale di potere. La maceria - fisica, istituzionale, psicologica - non è un incidente, ma una condizione produttiva. Produce dipendenza. Produce “beneficiari”. Produce filiere di appalto, consultazione, monitoraggio. Produce un soggetto nuovo: non il cittadino, non il resistente, ma l’utente umanitario, il destinatario di servizi. E quando il potere riesce a fabbricare un soggetto come quello, ha già vinto metà della battaglia, perché ha convertito il conflitto politico in un problema di gestione.

La Palestina, però, non entra docilmente in questa conversione. Non perché sia immune alla catastrofe, ma perché la catastrofe - paradossalmente - non basta a sciogliere il legame politico fondamentale: quello tra terra e diritto al ritorno, tra spoliazione e presenza, tra corpo e geografia. È qui che il paradigma popolo-Stato - quello che l’Europa ha esportato come forma unica del politico - si mostra per ciò che è: una gabbia, spesso funzionale all’impero. Perché promette sovranità come premio finale, mentre intanto normalizza ogni perdita: un check-point qui, una colonia là, un muro temporaneo, una zona cuscinetto, una transizione necessaria.

Criticare quella gabbia non significa fare l’estetica della dispersione o la retorica dell’“oltre lo Stato” come slogan postmoderno. Significa riconoscere un fatto più brutale: nel mondo reale, lo Stato nazionale è spesso la forma con cui si amministrano popolazioni rese eccedenti; e nella questione palestinese, la promessa dello Stato - rinviata, condizionata, contrattata - è diventata uno strumento per trasformare la liberazione in un orizzonte sempre differito. La Palestina è stata educata, per decenni, a “meritare” uno Stato; Israele ha colonizzato la terra mentre la Palestina veniva invitata a prepararsi per l’esame finale della governabilità.

Se oggi il piano Trump si permette di proporre un consiglio di amministrazione e una forza internazionale come ponte, è perché presume di poter continuare quello schema: prima la tutela, poi (forse) una sovranità condizionata.

La sola risposta all’altezza non è un appello morale: è una teoria e una pratica che riconoscano la Palestina come soggetto già politico, non come problema da stabilizzare.

Una soggettività che si fonda concretamente e non per citazionismo filosofico sulla triade - moltitudine, individuazione, divenire - come macchina concettuale convergente.

La moltitudine è il nome di un politico che non si lascia ridurre a Uno. E qui la Palestina è esemplare: non esiste un corpo sovrano unico capace di rappresentare integralmente la sua esperienza. Ci sono Gaza e Cisgiordania, campi e città, minoranze interne e diaspora; ci sono forme armate e forme comunitarie, culture e reti mutualistiche; ci sono differenze religiose e laiche, generazionali e di classe. L’Occidente ha letto tutto questo come deficit: “divisioni”, “mancanza di interlocutore”, “assenza di leadership affidabile”. Ma è la lettura tipica di chi non tollera la politica se non quando si presenta in forma statale e negoziabile. In realtà, quella pluralità è una potenza: è cooperazione senza fusione, capacità di agire senza condensarsi in un’immagine unica e, soprattutto, capacità di sopravvivere alla decapitazione istituzionale. Non si decapita una moltitudine: si prova, piuttosto, a trasformarla in popolazione amministrata. È esattamente ciò che la governance tenta di fare.

C’è un passaggio decisivo, se si vogliono evitare due trappole simmetriche: da un lato la nostalgia di un popolo compatto e mitico, dall’altro l’estetica della dispersione come se fosse automaticamente emancipativa. Il punto è smettere di trattare il soggetto politico come un’essenza già pronta (unitaria o dispersa) e cominciare a vederlo come un processo: una formazione storica che si produce e si trasforma sotto pressione, attraverso legami, fratture, ricomposizioni, invenzioni istituzionali. L’individuazione è transindividuale: emerge da un campo di potenzialità condivise (memoria, lingua, trauma, terra, simboli, pratiche) che non appartengono a nessuno come proprietà privata e non possono essere sequestrate da uno Stato come proprietà pubblica. In Palestina, quel campo è violentemente attraversato: la colonizzazione tenta di interrompere le condizioni stesse dell’individuazione collettiva, spezzando continuità territoriali, distruggendo infrastrutture, cancellando toponimi, isolando comunità. È un lavoro di dis-individuazione: non solo dominare corpi, ma impedire il formarsi di legami durevoli.

Quando lo Stato coloniale lavora per fissare e recintare, la risposta non può che essere un’altra logica: quella che sfugge alla cattura, che diviene. Divenire non è fuga dalla terra: è il modo in cui una comunità, sotto pressione estrema, inventa forme di esistenza che non coincidono con le istituzioni offerte dal dominatore. Il progetto coloniale - con i suoi muri, le sue zone, le sue linee mobili - è una gigantesca macchina di territorializzazione che vuole fissare la Palestina in due sole figure: o vittima umanitaria, o problema di sicurezza. Il divenire-palestinese, invece, è l’ostinazione a restare un terzo termine: né utente né nemico, ma soggetto politico che continua a produrre legami, istituzioni, memoria, organizzazione.

Moltitudine, individuazione, divenire: tre parole, ma un’unica dinamica. La moltitudine è la forma del soggetto. L’individuazione è la sua genesi continua. Il divenire è la sua capacità di sottrarsi alle griglie del potere senza dissolversi. Se le tieni separate, sembrano tre capitoli. Se le intrecci, diventano una teoria della resistenza come costruzione di mondo.

Il successo della resistenza non è dunque uno slogan. È, oggi, innanzitutto questo: aver impedito la conversione totale della Palestina in oggetto amministrabile. Aver impedito che la maceria diventasse definitivamente un nuovo regime di normalità umanitaria. In un mondo in cui la potenza coloniale immagina di poter decidere perfino la forma della sopravvivenza, resistere significa mantenere aperto il fatto che la Palestina non è un problema da risolvere, ma una presenza che giudica l’ordine mondiale con la sua sola persistenza.

Ma questa persistenza, per non essere ridotta a mito, deve diventare istituzione. Qui la parola chiave è comune. E va sottratta con forza al suo uso occidentale più insidioso: il comune come linguaggio da laboratorio Ong, come lessico di “community building”, come retorica partecipativa che depoliticizza. Il comune, in Palestina, non può essere un meccanismo di pacificazione. Deve essere una pratica materiale e conflittuale: terra, acqua, casa, energia, cura, scuola, archivi, infrastrutture. Deve essere la forma con cui la moltitudine sedimenta il proprio virtuosismo politico in organizzazioni durevoli.

La resistenza palestinese è piena di virtuosismo - intelligenza pratica, capacità di inventare, cooperazione sotto assedio. Ma il virtuosismo, se resta pura performance, è vulnerabile: come abbiamo visto fin troppo negli ultimi tempi, può essere spettacolarizzato, consumato e moralizzato dall’esterno. Il comune, invece, è ciò che rende quel virtuosismo non consumabile: lo trasforma in ossatura sociale, in istituzione non statale e non mercantile.

Il comune non è un’utopia gentilmente orizzontale. È un potere. È la capacità di decidere collettivamente sull’uso delle risorse e sul modo di abitare lo spazio. È la capacità di produrre norme interne (non giuridiche nel senso occidentale, ma pratiche) che stabilizzano la cooperazione. È anche - inevitabilmente - conflitto: perché ogni forma di comune autentico entra in collisione con il mercato e con lo Stato coloniale. La governance della maceria lo sa benissimo: per questo propone “ricostruzione” come appalto e “stabilizzazione” come catena di comando. Il comune è l’anti-appalto: la ricostruzione come riappropriazione.

E qui bisogna ribadire il vincolo: il comune palestinese non è pensabile senza terra. Perché la Palestina non è un’“idea”. È una geografia concreta tra fiume e mare, fatta di città, colline, uliveti, coste, villaggi cancellati. Ogni teoria della moltitudine che dimentichi la terra scivola nel moralismo: Gaza come icona, Palestina come metafora universale. È la trappola più elegante dell’Occidente: universalizzare per sottrarre materialità. La Palestina può parlare al mondo proprio perché è irriducibilmente situata. Il comune, quindi, non è solo sociale, è territoriale. È contro-cartografia. È difesa e reinvenzione dello spazio.

Occorre un anticorpo contro la tentazione occidentale di trasformare tutto in cultura e compassione: Ghassan Kanafani. Non come icona letteraria o “voce del dolore”, ma come criterio politico. Proprio perché è stato spesso addomesticato in quella forma - romanziere tragico, autore da commemorare e citare per slogan - il suo recupero è polemico: mostra come funziona la neutralizzazione. Si prende un militante e un teorico della liberazione e lo si ricolloca nell’area protetta della sensibilità, esattamente come la governance della maceria sposta la Palestina dalla strategia alla testimonianza, dal conflitto all’emozione, dalla politica all’umanitario.

La sua ossessione è l’opposto: impedire che la Palestina venga ridotta a lamento, nostalgia, identità ferita. Il problema non è ricordare il villaggio perduto; è trasformare quella memoria in organizzazione, coscienza, capacità di agire. La memoria non vale come archivio: vale come disciplina collettiva, come pratica di formazione. È già comune, perché non appartiene a un io; appartiene a un “noi” che si costruisce. E quel “noi” non è mai un popolo compatto: è un intreccio di figure attraversate da conflitti, differenze di classe, ambiguità morali; una pluralità in formazione che deve imparare a non coincidere con la sola sopravvivenza. Per questo rifiuta la figura del palestinese “presentabile”: la vittima corretta, il corpo che soffre nel linguaggio giusto, la vita che chiede permesso per esistere.

Da qui discende l’altra corrispondenza decisiva: l’umanitarismo come alibi. Non perché la sofferenza non conti, ma perché nel linguaggio giusto diventa un prodotto: ciò che permette agli altri di sentirsi buoni senza cambiare il mondo. È la versione culturale della governance della maceria: l’Occidente compra innocenza con la commozione e pretende che la Palestina resti al posto assegnato quale vittima eterna, “caso umano”, oggetto di cura. La rottura è semplice: la Palestina non chiede di essere capita; chiede di essere liberata. E liberazione non è retorica né concessione dall’alto: è processo organizzativo. È comune, è istituzione, è capacità di fare della diaspora una rete politica, dei campi una città politica, della cultura non un “ponte” conciliatore ma parte dell’armatura collettiva.

Questo filo serve anche a evitare due rischi simmetrici: la filosofia come lusso occidentale (concetti che parlano di tutto e non incidono su nulla) e la resistenza come romanticismo (eroismo senza istituzione, sacrificio senza forma). Il criterio resta materiale, e le domande diventano inevitabili: quali forme organizzative trasformano la ferita in potenza? quali istituzioni del comune impediscono che la Palestina venga ridotta a “causa” gestibile? quali pratiche producono soggettività collettiva capace di durata, senza collassare nelle identità imposte?

Se la colonizzazione è riscrittura dello spazio, allora la resistenza deve essere anche riscrittura antagonista. Qui il comune diventa una pratica di contro-geografia.

Non parliamo solo di mappe. Parliamo di accesso all’acqua, di ricucitura di percorsi, di ricostruzione di case come atto politico, di riuso collettivo di spazi distrutti. Parliamo di archivi popolari dei villaggi cancellati - non come nostalgia, ma come pretesa concreta: quella terra ha nomi, genealogie, usi. Parliamo di diritto al ritorno inteso non come formula giuridica addomesticata, ma come asse materiale: tornare significa riaprire continuità territoriali, reinserire corpi e comunità nello spazio da cui sono stati espulsi.

E qui la diaspora smette di essere un problema e diventa un orizzonte politico. In termini di moltitudine, la diaspora è deterritorializzazione subita; ma in termini di divenire può diventare deterritorializzazione attiva: diffusione di competenze, di risorse, di reti. Kanafani l’aveva compreso: la diaspora non è un “fuori” della Palestina; è un altro teatro della stessa lotta, un’estensione del campo preindividuale palestinese. La governance tenta di neutralizzarla con un gesto sottile: trasformarla in lobby, in advocacy, in raccolta fondi “per la ricostruzione”. In altre parole: convertire una potenza politica in una funzione ausiliaria del piano di stabilizzazione. Il comune, invece, chiede altro: infrastrutture transnazionali di cooperazione, non circuiti di donazione.

Questa è una differenza che va detta senza diplomazia: l’Occidente adora la solidarietà quando è reversibile e non vincolante; la tollera quando è performativa; la criminalizza quando diventa infrastruttura. È il motivo per cui ogni resistenza reale viene chiamata “radicalizzazione”, mentre ogni gesto simbolico viene chiamato “civiltà”. Il comune è ciò che rende la solidarietà irreversibile: la trasforma in istituzione.

C’è poi il piano che oggi decide tutto: la tecnologia come governo dei corpi e dello spazio. La Palestina è uno dei luoghi in cui la tecnocrazia globale appare nella sua forma più nuda: sorveglianza, droni, riconoscimenti biometrici, database, gestione algoritmica dei permessi e della mobilità. È la traduzione digitale della logica coloniale: non solo dominare, ma rendere calcolabile la vita.

Un discorso evolutivo sulla resistenza non può limitarsi a denunciare questo. Deve dire: come si costruisce un soggetto tecnologico del comune? Non nel senso ingenuo delle “soluzioni digitali”, ma nel senso politico: sottrarre l’infrastruttura alla monopolizzazione dei dominatori. Qui le parole di prima tornano come programma: la moltitudine non è solo consumatrice di tecnologie: può produrre sapere tecnico come bene comune;

l’individuazione collettiva passa anche per pratiche di sicurezza digitale, archivi condivisi, media resilienti; il divenire non è fuga, ma invenzione di contro-infrastrutture: reti autonome, memoria distribuita, contro-mappe, contro-archivi.

Questa dimensione non è futuristica. È già reale, anche quando è embrionale. E proprio per questo la governance la teme: perché un comune tecnologico riduce la dipendenza, riduce la ricattabilità, rende la Palestina meno “gestibile”.

Bisogna essere espliciti su un punto che spesso viene lasciato implicito per prudenza: esiste una “Palestina presentabile” costruita per il consumo occidentale. È la Palestina che soffre nel modo giusto, che parla nel linguaggio del diritto come liturgia, che chiede riconoscimento senza disturbare i rapporti di forza. È la Palestina che può essere invitata a un panel, che può essere finanziata per un progetto, che può diventare contenuto. È la Palestina che permette all’Occidente di sentirsi umano senza smettere di essere imperiale.

La Palestina reale - quella che resiste, che organizza, che insiste sulla terra, che non accetta la tutela - viene invece trattata come anomalia. E qui la lezione di Kanafani è feroce: la cultura, se non è parte della lotta, diventa decorazione del dominio. La filosofia, se non è parte della lotta, diventa ornamento. La solidarietà, se non costruisce comune, diventa igiene morale.

Dire “successo della resistenza” significa allora anche questo: sottrarre la Palestina a questa estetica. Restituirle la sua potenza politica non come “simbolo”, ma come laboratorio di un altro mondo possibile. Non nel senso astratto del modello esportabile, ma nel senso preciso di una domanda che la Palestina pone a tutte le moltitudini contemporanee: come si costruisce vita comune sotto dominio, senza delegare allo Stato e senza essere catturati dal mercato?

Se il piano Trump è ridicolo perché scambia la resistenza per un guasto, allora la prospettiva che si apre non è un’utopia sentimentale, ma un processo politico duro: disattivare la macchina coloniale e costruire, nello stesso tempo, una forma costituente decoloniale.

Disattivare non significa immaginare un evento messianico. Significa logorare l’impunità, erodere la pretesa di invincibilità, rendere insostenibile il costo politico e materiale della colonizzazione. E, contemporaneamente, far crescere un potere duale del comune: comitati, cooperative, reti di cura, infrastrutture culturali e mediatiche, capacità di autogoverno territoriale. È la sola alternativa alla tutela: se non costruisci istituzione dal basso, qualcun altro costruirà governance dall’alto.

Qui il comune non è “oltre la politica”: è la politica in forma non statale. E il costituente decoloniale non è una formula giuridica. È la riorganizzazione concreta dello spazio tra fiume e mare: smontare segregazioni, ricucire continuità territoriali, trasformare terra e acqua in beni comuni gestiti collettivamente, fare del ritorno non una concessione ma un processo reale. In altre parole: passare dall’ossessione del riconoscimento alla potenza dell’istituzione.

Alla fine, il punto è semplice e radicale. Il piano Trump - board, stabilizzazione, ricostruzione miliardaria - è l’ultima forma della stessa idea: la pace come appalto, la sovranità come certificazione, la Palestina come territorio da mettere a reddito dopo averlo devastato.

Divenire-Palestina è il nome del rifiuto di questa idea. Non per sostituirle un mito, ma per affermare una prospettiva politica più esigente: una moltitudine radicata nella terra, che si individua collettivamente attraverso istituzioni del comune e che continua a divenire contro le griglie del potere coloniale.

Kanafani torna come bussola: la Palestina non è una storia da raccontare bene per commuovere il mondo. È una lotta che costringe il mondo a scegliere che cosa vuole essere. La governance della maceria vorrebbe chiudere la scelta, sostituendo la politica con la procedura. La resistenza - quando ha successo - fa l’opposto: riapre la storia, impedisce la pacificazione amministrata, costruisce comune dove l’impero vuole beneficiari.

Se esiste una “proposta” palestinese al mondo, non è un modello da copiare. È un criterio per giudicare il presente: ogni volta che un potere promette ricostruzione mentre istituisce tutela; ogni volta che la pace si presenta come organigramma; ogni volta che la sovranità viene tradotta in compliance; ogni volta che una popolazione viene ridotta a utenza, la Palestina ci dice che la politica non è finita. È solo stata sequestrata. E può essere ripresa - non con la purezza morale, ma con la costruzione paziente e conflittuale del comune.

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L’inferno del genocidio a Gaza: la testimonianza che pretende responsabilità

 Il libro di Wasim Said, pubblicato da LAD edizioni, non è un racconto da compatire ma un atto di accusa che spezza la neutralità e chiama alla lotta politica.


LA PRESENTAZIONE DEL CURATORE DELLA VERSIONE ITALIANA

Pasquale Liguori

 Non è un libro “su Gaza”, non è l’ennesimo titolo che si aggiunge allo scaffale del dolore mediorientale. L’inferno del genocidio a Gaza è un documento che arriva in Italia con il peso preciso di una prova, non con la leggerezza di un prodotto culturale. Il fatto che a pubblicarlo sia LAD edizioni con la mia curatela non è un dettaglio editoriale, ma una scelta di campo: portare qui una voce che non si presta né alla retorica umanitaria né alla commozione di consumo, ma esige di essere ascoltata come atto di accusa, come frammento di verità che non intende integrarsi nella normalità del discorso pubblico, bensì incrinarla.


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Data articolo: Sun, 21 Dec 2025 10:00:00 GMT

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