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News lantidiplomatico.it

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IN PRIMO PIANO
Bloomberg: USA esortano l'Europa a non utilizzare asset russi per finanziare il prestito all'Ucraina

L'Unione Europea continua a portare avanti un progetto molto controverso: l'utilizzo dei beni russi congelati per finanziare il regime di Kiev. Secondo quanto riportato da fonti diplomatiche a Bloomberg, gli Stati Uniti starebbero segretamente spingendo diversi Stati membri dell'UE a bloccare il piano avanzato da Bruxelles. Il cuore della proposta comunitaria, definita tecnicamente un "prestito di riparazioni", è l'uso degli oltre 300 miliardi di dollari di asset della Banca Centrale Russa immobilizzati dal 2022 come garanzia per emettere nuovi prestiti, fino a 90 miliardi di euro, destinati a sostenere le esauste casse ucraine nel prossimo futuro.

La posizione USA, secondo le fonti, sarebbe dettata da un calcolo strategico differente. Washington dice agli alleati europei che tale tesoro dovrebbe essere conservato intatto come formidabile leva negoziale per un eventuale, futuro accordo di pace con Mosca. Impiegarlo ora, secondo questa logica, significerebbe privarsi di uno strumento cruciale e, al contempo, eliminare ogni incentivo al negoziato per la Russia, di fatto prolungando indefinitamente il conflitto. Una divergenza di visione che mette a nudo crepe significative nella cosiddetta unità transatlantica.

Nonostante le pressioni e le resistenze interne di Paesi come l'Ungheria, la macchina comunitaria procede. La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha confermato l'impegno sul piano, affermando di aver già recepito e risolto molte delle obiezioni tecniche sollevate. La posta in gioco per Bruxelles è altissima: dimostrare una capacità di azione autonoma e risolutiva in un momento di estrema difficoltà per il regime neonazista di Kiev.

La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è stata categorica. Il Presidente Vladimir Putin e i suoi funzionari hanno bollato qualsiasi tentativo di confisca o utilizzo degli asset come "furto" su scala statale, annunciando senza mezzi termini l'elaborazione di contromisure "asimmetriche" e durissime. Mosca avverte che una tale violazione dei principi fondamentali dell'immunità sovrana degli asset centrali bancari farebbe crollare la fiducia residua nel sistema finanziario occidentale, nell'euro e nelle sue istituzioni, innescando una pericolosa spirale di instabilità giuridica ed economica globale. L'ex presidente Medvedev ha avvertito che una tale mossa potrebbe essere considerata come un casus belli.

Questa complessa partita si gioca su uno sfondo sempre più cupo. L'Ucraina è stremata, tra scandali di corruzione che minano la credibilità della sua leadership e un fronte che arretra. L'Europa, dal canto suo, mostra sempre più i segni della fatica: economie in stallo, inflazione persistente e un malcontento popolare crescente di fronte a costi sociali ed energetici divenuti insostenibili.

In questo quadro, il piano della Commissione Europea non appare come un atto di lungimirante solidarietà, ma come l'ultimo, disperato colpo di coda di un'establishment tecnocratico e guerrafondaio, totalmente avulso dagli interessi reali dei popoli che pretende di rappresentare. Bruxelles dimostra ancora una volta di essere non il baluardo della pace continentale, ma il braccio esecutivo di una strategia guerrafondaia fallimentare, pronta a sacrificare la stabilità e il futuro economico dell'intero continente sull'altare di un conflitto senza via d'uscita.

Utilizzare gli asset russi non è solo una forzatura giuridica pericolosa che svuota di significato i principi di sovranità e diritto internazionale su cui dice di basarsi l'Occidente. È un autentico atto di autolesionismo economico e politico. Da un lato, fornisce a Mosca il casus belli perfetto per risposte aggressive e imprevedibili in campo economico, energetico e forse anche militare, innalzando ulteriormente il già insopportabile livello di rischio per tutti gli europei. Dall'altro, segnala al mondo che l'Europa è disposta a bruciare la residua fiducia nel proprio sistema finanziario - l'euro e la sicurezza dei depositi - per inseguire un obiettivo militare irrealistico.

Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 16:12:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Palestina nel cuore": il regalo migliore che puoi fare questo Natale

 

PROMO DI NATALE “PALESTINA NEL CUORE” 

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1. Le nozze di Gaza – Ibrahim Nasrallah




Il libro “Le nozze di Gaza” del pluripremiato scrittore palestinese Ibrahim Nasrallah è un romanzo che racconta la vita nella Striscia di Gaza, intrecciando la dimensione privata e quella politica in un contesto segnato da conflitti e sofferenze. Attraverso il racconto di una festa nuziale, Nasrallah esplora i legami familiari, le tensioni sociali e la resistenza di una comunità che vive sotto assedio, offrendo al lettore un quadro umano e vivido della realtà palestinese. La narrazione coniuga il dramma quotidiano con una profonda riflessione sulla speranza, sull’identità e sulla tenacia in condizioni estreme.

Il romanzo si presenta come una testimonianza intensa dell’esistenza a Gaza.

Un libro staordinario.

 

2 – “Ho ancora le mani per scrivere” – a cura di Aldo Nicosia

“Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza”, curato da Aldo Nicosia, raccoglie 222 testi strazianti scritti da abitanti della Striscia di Gaza: diari, poesie, appelli e denunce che catturano l’orrore quotidiano sotto i bombardamenti. Attraverso voci di medici, contadini, poeti e madri, il libro trasmette il dolore della perdita, la fame, lo sfollamento e una resistenza feroce che rifiuta il silenzio, tradotti in italiano da 44 esperti per non lasciare che il mondo dimentichi. Questi messaggi, spesso condivisi via social, dipingono una Gaza sepolta viva tra rovine e magia nera, dove la morte è un contatore inarrestabile e l’immaginazione diventa l’ultimo rifugio contro l’indicibile. Ogni testimonianza è un grido di umanità: odori di alberi disintegrati, acqua mista a fango come clessidra fatale, e la domanda lancinante “Quale male abbiamo commesso?”

Un libro imperdibile per comprendere realmente quanto accaduto a Gaza

 

3 – Ritorno a Gaza: Scritti di donne italo-palestinesi sul genocidio

Ritorno a Gaza. Scritti di donne italo palestinesi sul genocidio - copertina

“Ritorno a Gaza. Scritti di donne italo-palestinesi sul genocidio”, curato da Mjriam Abu Samra ed edito da Edizioni Q nel 2025, raccoglie le voci potenti di donne della diaspora palestinese in Italia che sfidano il silenzio sull’orrore in corso nella Striscia dal ottobre 2023. Attraverso saggi personali e collettivi, queste autrici trasformano l’esilio in atto di resistenza, decostruendo propagande orientaliste e neoliberiste per reclaimare la narrazione palestinese contro la violenza coloniale. Le testimonianze intrecciano emozioni intime – dolore, rabbia, esilio – con analisi politiche acute, rigettando categorie di trauma individuale per abbracciare una lotta globale, epistemologica e materiale. Dieci donne, dalla diaspora italiana, leggono Gaza attraverso le lenti dell’identità condivisa, criticando meccanismi razziali in Occidente e proponendo strategie di liberazione che uniscono personale e collettivo. Il libro non cerca pietà, ma ascolto rigoroso: è un grido contro l’oblio, un ponte per il dibattito palestinese e un monito alle responsabilità occidentali, rendendo la scrittura stessa un’arma di sopravvivenza e futuro.

Con i contributi di Mjriam Abu Samra (curatrice), Shaden Ghazal, Rania Hammad, Sabrin Hasbun, Laila Hassan, Samira jarrar, Sara Rawash, Noor Shihade, Tamara Taher, Widad Tamimi.


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Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 15:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Elon Musk: “L'UE dovrebbe essere abolita”

L'oligarca staunitense Elon Musk ha criticato l'Unione Europea e ne ha chiesto l'abolizione. “L'UE dovrebbe essere abolita e la sovranità dovrebbe essere restituita ai singoli paesi, in modo che i governi possano rappresentare meglio i propri popoli”, ha scritto Musk sul suo account X.

Il magnate ha anche condiviso un video di un evento pubblico tenutosi ad agosto in Finlandia, in cui la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha elogiato la “democrazia” nel blocco comunitario.

“Coloro che qui gridano e urlano così forte possono ritenersi fortunati di vivere in un Paese libero come la Finlandia, dove la libertà di espressione è un diritto e non ci sono restrizioni. Grazie a Dio abbiamo una democrazia”, esclamava Von der Leyen mentre un manifestante che esprimeva la sua solidarietà alla Palestina veniva arrestato dalla polizia.

Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 14:24:00 GMT
MondiSud
Argentina: mentre la povertà vola, Milei gioca col suo nuovo giocattolo F-16


di Fabrizio Verde

Un'immagine che vale più di mille parole, e soprattutto più di mille promesse tradite: Javier Milei, il "presidente anarco-capitalista" come viene definito, sorridente e tronfio sale a bordo di un caccia F-16 da combattimento appena acquistato. Un simbolo perfetto, grottesco e crudele, della sua vera filosofia di governo.

Lo stesso uomo che ha affermato "No hay plata!" per giustificare il macello della sanità pubblica, dell'istruzione, degli aiuti alimentari, delle pensioni e di ogni rete di protezione sociale per i più vulnerabili. Lo stesso paladino dell'austerità spietata che parla dell’inevitabilità di "aggiustare" le finanze sulle spalle della gente comune.

Ma improvvisamente, quasi magicamente, i soldi per gli F-16 sí hay. Milioni e milioni di dollari spuntano dal cilindro per comprare giocattoli di guerra nemmeno di ultima generazione, per alimentare il complesso militare-industriale, per posare da macho sulla carlinga di un vecchio caccia usato.

È la quintessenza dell'ipocrisia neoliberista più becera: lo Stato è un parassita quando nutre, cura o istruisce i suoi cittadini. Lo Stato diventa invece sacro e necessario quando si tratta di fare acquisti militari, di mostrare i muscoli, di finanziare gli apparati repressivi. La "libertà" che predica sembra valere solo per il mercato e per le armi, non per il diritto al cibo, alla salute o a una vita dignitosa e una vechciaia dignitosa dopo una vita di sacrifici.

Questo teatrino a Río Cuarto non è una celebrazione della sovranità nazionale. È un insulto all’ intelligenza e alla sofferenza degli argentini che stanno pagando il prezzo umano dei suoi "aggiustamenti", leggi macelleria sociale. Mentre i prezzi volano e i salari affondano, il presidente preferisce volare con la fantasia, a bordo di un caccia F-16 pagato con i soldi che "non c'erano".

È la solita, vecchia ricetta neoliberista: austerità per il popolo, generosità per i generali e per l'industria della guerra. Privatizzare lo Stato sociale, socializzare i costi, e intanto distrarre con fuochi d'artificio tecnologici e retorica pseudo-nazionalista, visto anche che Milei ha di fatto rinunciato al recupero della sovranità argentina sulle isole Malvinas per non disturbare gli anglo-americani e per poter accedere ad armamenti ormai obsoleti come i caccia F-16 acquistati usati dalla Danimarca.

Che la foto del cowboy sul caccia resti come il monumento più chiaro di questo governo: priorità spaventosamente distorte, cinismo elevato a virtù, e un profondo, assordante disprezzo per la vita della gente comune che affonda, mentre lui finge di decollare, di volare alto politicamente parlando, mentre nella realtà si prostra ai peidi di statunitensi, inglesi e israeliani.

 

Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 14:17:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Palestinian Prisoners' Society: Israele pianifica di uccidere Barghouti

 

Venerdì la Palestinian Prisoners' Society ha lanciato l'allarme su un "piano pericoloso" che, a suo dire, mira ad assassinare il leader palestinese Marwan Barghouti, attualmente incarcerato nelle carceri israeliane, tra accuse di gravi aggressioni e crescenti richieste internazionali per la sua liberazione.

Barghouti, membro del Comitato Centrale di Fatah e figura di spicco della politica palestinese, è stato arrestato da Israele nel 2002 e condannato per omicidio e tentato omicidio. Sta scontando cinque ergastoli e continua a godere di grande popolarità tra i palestinesi.

Amjad al-Najjar, direttore generale del gruppo, ha dichiarato in una nota che "l'escalation degli attacchi contro il leader Marwan Barghouti, in concomitanza con movimenti e personalità internazionali che ne chiedono l'immediato rilascio, riflette le pericolose intenzioni del governo di occupazione di sbarazzarsi di lui mentre è in detenzione, in un crimine aggravato e in palese violazione del diritto internazionale umanitario".

Ha esortato le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali a “intervenire urgentemente”, inviando “un comitato delle Nazioni Unite a visitare il leader Barghouti, esaminare le sue condizioni di isolamento ed esercitare una pressione reale per garantirne il rilascio e salvargli la vita prima che sia troppo tardi”.

La famiglia denuncia una violenta aggressione

In un post su Facebook, Qassam Barghouti, figlio del leader imprigionato, ha citato un ex prigioniero che venerdì gli ha raccontato che le forze israeliane "hanno schiacciato il corpo di suo padre, gli hanno rotto denti, costole e dita e gli hanno tagliato parte dell'orecchio in prigione".

Ha precisato che i tentativi di raggiungere nuovamente la presunta fonte sono falliti.

"Abbiamo contattato tutti gli enti ufficiali e legali possibili per ottenere informazioni, ma fino a questo momento non siamo riusciti a farlo", ha scritto.

Risposta della presidenza palestinese

La presidenza palestinese ha condannato quelli che ha definito "attacchi continui e pericolose misure di ritorsione" contro Barghouti, ritenendo il governo israeliano pienamente e direttamente responsabile della sua sicurezza e di quella di tutti i prigionieri sotto custodia israeliana.

Ha invitato la comunità internazionale, le organizzazioni per i diritti umani e il Comitato internazionale della Croce Rossa ad “agire immediatamente e con urgenza” per fare pressione su Israele affinché ponga fine alle violazioni.

Minacce precedenti e interessi politici

Il 18 febbraio, il ministro della Sicurezza nazionale israeliano di estrema destra, Itamar Ben-Gvir, ha fatto irruzione nella cella di Barghouti e lo ha minacciato di morte, secondo un video diffuso all'epoca dai media israeliani.

Barghouti è spesso considerato dagli analisti una figura unificante, capace di radunare i palestinesi attorno a una "soluzione a due stati", in particolare nel contesto dei cambiamenti seguiti al genocidio israeliano nella Striscia di Gaza.

Il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu continua a opporsi alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Il 23 ottobre, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato che avrebbe deciso se insistere per il rilascio di Barghouti, ma non è stata ancora annunciata alcuna decisione.

Condizioni carcerarie

Secondo diversi report di organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliani, più di 10.000 prigionieri palestinesi, tra cui donne e bambini, rimangono nelle carceri israeliane e “soffrono di torture, fame e negligenza medica”, condizioni che hanno portato alla morte in custodia.

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 10:30:00 GMT
EXODUS
“Ho fatto tardi perché mio cugino è stato ucciso dagli israeliani”


RADIO GAZA - PUNTATA NUMERO 15

“Radio Gaza - cronache dalla Resistenza”, ogni giovedì alle 18, sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico, è un programma a cura di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue.

La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 168° giorno, avendo raccolto 120.454 euro da 1.537 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 119.385 euro.

Per donazioni: https://paypal.me/apocalissegaza

C/C Kairos aps IBAN: IT15H0538723300000003654391 - Causale: Apocalisse Gaza

FB: RadioGazaAD


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Di seguito I testi della quindicesima puntata.

La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 168° giorno, avendo raccolto 120.454 euro da 1.537 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 119.385 euro.

Nel mese di novembre abbiamo ricevuto 8.133 euro. I numeri della campagna stanno drasticamente calando. Eppure in questo momento non c’è altro modo plausibile per procurare una tenda nuova ai Gazawi se non inviando denaro fresco in modo che possano affrontare i costi per la tenda e per tutto il resto.

Dove le trovano le tende? Non ci sono tende? Sembrerebbe non essere così. Uno dei nostri contatti documenta un deposito stipato di tende non ancora consegnate e anzi spesso sottratte dai magazzini degli aiuti umanitari e rivendute dagli stessi operatori umanitari sul mercato nero a prezzi, appunto, esorbitanti.

Cercheremo di far ancora più luce su questa vicenda in futuro. 

Detto questo. Con i soldi delle donazioni di queste settimane stiamo acquistando quante più tende possibili e torneremo presto a documentarlo. Visto che si avvicina il Natale, acquistare una tenda per un Gazawi, è il minimo che si possa fare. Quanto costa una tenda a Gaza? Dai 600 ai 1.000 euro. Non sono cifre che tutti si possono permettere. Ma un po’ alla volta tutti possiamo fare la nostra parte.

<<Quello che vedete si chiama Centro di distribuzione Al-Samer.  Potete vederlo nel video. Ci sono tende e gazebo  Le persone e gli sfollati sono bagnati dalla pioggia. E l'organizzazione non ha distribuito loro le tende, ma chi aveva delle conoscenze ha potuto riceverle. Questa organizzazione vuole mostrare al mondo che distribuisce, invece riesce a rubare e vendere le tende sul mercato nero.

Dio ci ha affogati, fratello Rabi. Ci ha affogati>>.

 

Le incertezze sugli equilibri regionali e internazionali si riflettono in questo pensiero ricevuto da Gaza. Una cosa è certa: lo scenario attuale nel Levante è cambiato rispetto a 20 anni fa, se non altro attraverso il peso delle economie emergenti di alcuni Stati. E lì, sul crinale tra Mediterraneo ed Estremo Oriente, quelle economie devono rimanere amiche occidentali, a qualunque costo, secondo la visione americana: Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Egitto. Tutti noi invece ci auguriamo che questo scenario inedito corrisponda ad una svolta epocale sul campo.

 

<<Gli Stati Uniti cercano di mantenere l'immagine di mediatori e il loro costante sostegno a Israele, ma cercano sempre di mostrare il loro ruolo di mediatori, in particolare di fronte ai paesi arabi. Le pressioni provengono da paesi come l'Egitto e il Qatar perché sono gli alleati regionali che mediano sempre tra Hamas e Israele e chiedono a Washington di sostenere il cessate il fuoco.

Una guerra prolungata a Gaza potrebbe aprire nuovi fronti con Hezbollah o l'Iran, ed è proprio questo che l'amministrazione Trump temeva>>.

 

A proposito di forze di polizia a Gaza o Forza di stabilizzazione di Gaza (GSF), che andrà addestrata ad Arish, in Egitto. C’è già qualcuno che prova a tenere l’ordine all’interno della Striscia. Sono i membri delle forze di sicurezza di Hamas, tale e quale come avveniva prima del 7 ottobre. La differenza è che ora lo fanno gratis, senza salario. Perché reddito non ce n’è e il Movimento non è in grado di coprire loro i salari. Per dire.

 

<<Mi ha assegnato il comando di 30 uomini..Forse sono anche di più. Probabilmente saranno più di 200 persone,  ma adesso sono responsabile di almeno 30 persone. 

Ne conosco altri di responsabili e mi incontro spesso con loro. Anche loro vorrebbero essere aiutati, sono nella mia stessa situazione economica, l'occupazione israeliana ci vieta gli aiuti di tipo alimentare o economico>>.

 

Rappresaglia o no, certo che è difficile distinguere i massacri di queste settimane da un genocidio perpetuo. I messaggi vocali promessi dalle righe che leggeremo di seguito non sono ancora arrivati. Troppo grande il dolore, troppo urgente la sopravvivenza. Li ascolteremo possibilmente nella prossima puntata di Radio Gaza.

 

<<La pace sia con te, mio caro fratello. Spero che mi perdonerai per il ritardo nei messaggi vocali.

Te li invierò oggi. Ho fatto tardi perché mio cugino è stato ucciso dagli israeliani in un attacco mirato. Sono stato tutto il tempo in ospedale, davanti alle celle frigorifere. Ieri lui, sua sorella e i figli di sua sorella sono stati circondati nel quartiere di Al-Tuffah. I veicoli israeliani hanno avanzato e assediato la zona e hanno iniziato a sparare e a lanciare granate contro alcuni residenti nel quartiere di Al-Tuffah, nella parte orientale di Gaza. Sostenendo che si tratta di una zona gialla e che non è possibile avvicinarsi a questa zona. Hanno ucciso mio cugino e ferito suo nipote>>.

 
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Insomma, Gaza non può aspettare.

Gaza ha vinto sul campo, ma questa vittoria va protetta. 

Se questo è il modo migliore non lo sappiamo. Ma se forze egiziane, turche, magari pakistane entrassero a Gaza, questo rappresenterebbe sicuramente una svolta epocale e una garanzia di sopravvivenza per i cittadini della Striscia.

Il resto si discute dopo.

Per esempio ne discuteremo oggi alle 18 in diretta sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico quando terremo una visione in rete del quinto episodio del film in progress, “Gaza ha vinto”, seguita da un dibattito cui parteciperanno Loretta Napoleoni, Diana Carminati, Wasim Dahmash, insieme agli autori.


 
Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 10:00:00 GMT
Economia e dintorni
Nuova Strategia di Sicurezza Nazionale USA: Goodbye Europe!


di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico

 E' stato appena pubblicato dalla Casa Bianca il nuovo documento che delinea la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Non pare azzardato definire questo documento come un vero e proprio manifesto del trumpismo e, conseguentemente, anche una svolta a 180° gradi rispetto ai vecchi piani frutto delle idee delle vecchie amministrazioni democratiche.

Nella prima parte del documento viene delineata, senza parafrasi, una severa critica della strategia di sicurezza americana elaborata negli ultimi 30 anni,  definita come irrealistica e contraddittoria. A tale proposito leggiamo testualmente: «Dopo la fine della Guerra Fredda, le élite della politica estera americana si convinsero che il dominio permanente degli Stati Uniti sul mondo intero fosse nel migliore interesse del nostro Paese. Eppure, gli affari degli altri Paesi ci riguardano solo se le loro attività minacciano direttamente i nostri interessi. Le nostre élite hanno mal calcolato la volontà dell'America di accollarsi per sempre oneri globali che il popolo americano non vedeva come collegati all'interesse nazionale. Hanno sopravvalutato la capacità dell'America di finanziare, contemporaneamente, un enorme stato assistenziale, normativo e amministrativo, insieme a un enorme complesso militare, diplomatico, di intelligence e di aiuti esteri. Hanno puntato in modo enormemente sbagliato e distruttivo sul globalismo e sul cosiddetto "libero scambio", svuotando proprio la classe media e la base industriale da cui dipende la preminenza economica e militare americana. Hanno permesso ad alleati e partner di scaricare il costo della loro difesa sul popolo americano, e talvolta di trascinarci in conflitti e controversie centrali per i loro interessi ma periferiche o irrilevanti per i nostri. E hanno legato la politica americana a una rete di istituzioni internazionali, alcune delle quali sono guidate da un aperto antiamericanismo e molte da un transnazionalismo che cerca esplicitamente di dissolvere la sovranità dei singoli stati. In sintesi, non solo le nostre élite hanno perseguito un obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile, ma così facendo hanno minato i mezzi stessi necessari per raggiungerlo: il carattere della nostra nazione su cui si fondavano il suo potere, la sua ricchezza e la sua dignità».

Una vera e propria requisitoria che pone la pietra tombale su trenta anni di politica egemonica americana sul mondo intero: la politica di quella che – dopo la fine dell'URSS - si riteneva una invincibile iperpotenza è ritenuta dalla nuova amministrazione come fallimentare e come causa di fondo della decadenza e dell'impoverimento della nazione nord americana. Da notare che questa disamina non è fondata su posizioni ideologiche ma su constatazioni fondate sulla logica, sulla storia e sulla economia. Come altro definire lo schiaffo inflitto dall'amministrazione Trump che ritiene le politiche americane del passato incoerenti perchè da un lato mantiene un enorme apparato militar diplomatico per controllare il mondo intero e dall'altro lato cede quote rilevanti della propria sovranità ad enti sovranazionali dove le nazioni assoggettate si trasformano de facto in assoggettatrici di Washington? Semplicemente sono politiche incoerenti, illogiche ed irrazionali e la Casa Bianca a scriverlo nero su bianco ha perfettamente ragione.

L'Emisfero Occidentale e il Corollario Trump alla Dottrina Monroe

 Andando sul lato operativo, assume nella nuova strategia di sicurezza americana certamente massima importanza il cosiddetto Emisfero Occidentale ovvero il Nord e il Sud America.  Nelle intenzioni di Washington ci sarebbe la volontà (così almeno viene scritto sul documento) di avere un emisfero ben governato con la finalità ultima di prevenire le migrazioni di massa negli Stati Uniti provenienti dal continente latino americano. Inoltre l'amministrazione USA pretende cooperazione assoluta contro narcotrafficanti  e qualunque altra organizzazione criminale esistente nell'emisfero. Infine, si sottolinea l'impegno di Washington affinchè l'emisfero rimanga chiuso a qualunque organizzazione straniera ritenuta ostile magari interessata ad appropriarsi di asset chiave e   catene di approvvigionamento critiche;  in altri termini, porte chiuse in America a Cina, Russia, Iran e qualunque altro stato ritenuto ostile da Washington, non importa se l'ingerenza di questi paesi possa arrivare tramite ONG, aziende private o direttamente dagli enti statali. Una dottrina che apertis verbis Washington definisce come la volontà di applicare «un "Corollario Trump" alla Dottrina Monroe». In termini diretti, gli USA vogliono sull'Emisfero Occidentale l'egemonia assoluta ed incontrastata in ambito diplomatico, economico e militare.

Europa, Medio Oriente e Indo-Pacifico

Per quanto riguarda il quadrante Indo-Pacifico gli Stati Uniti rivendicano la volontà di«fermare e invertire il danno in corso che gli attori stranieri infliggono all'economia americana, mantenendo al contempo l'Indo-Pacifico libero e aperto, preservando la libertà di navigazione in tutte le rotte marittime cruciali e mantenendo catene di approvvigionamento sicure e affidabili e l'accesso a materiali critici». In altri termini intendono mantenere il controllo marittimo di quest'area e in particolare delle sue rotte commerciali, fondamentali soprattutto per … l'Europa e per l'export petrolifero del Medio Oriente. In altri termini gli USA sembrano dire a Pechino e tutte le tigri asiatiche che sono libere di svilupparsi e di crescere economicamente, ma che i gangli vitali del commercio di tutta l'area devono essere saldamente controllati dagli USA, a partire ovviamente dal fondamentale Stretto di Malacca.

Sul Medio Oriente Washington rivendica la volontà di impedire a una «potenza avversaria di dominare il Medio Oriente, le sue riserve di petrolio e gas e i punti critici attraverso i quali passano, evitando al contempo le “guerre eterne” che ci hanno impantanato in quella regione a caro prezzo». In altri termini, la penetrazione cinese che si sta realizzando in Medio Oriente attraverso l'alleanza tra Cina e Iran suggellata dagli accordi della Via della Seta deve fermarsi. Gli USA non sono disposti a cedere spazio in quest'area di mondo fondamentale sia per la sopravvivenza del Dollaro che per l'approvvigionamento energetico.

Davvero eloquente ciò che è scritto sull'Europa in questo fondamentale documento. «Vogliamo sostenere i nostri alleati nel preservare la libertà e la sicurezza dell'Europa, ripristinando al contempo la fiducia in se stessa e l'identità occidentale della civiltà europea». In altri termini l'Europa è invitata ad imparare a badare a se stessa in materia di sicurezza e ad interrompere il flusso incontrollato di immigrati dall'Africa se vuole preservare la propria identità e cultura. Va da sé, che gli USA sosterranno volentieri lo sforzo europeo vendendo le armi copiosamente prodotte dal suo enorme apparato militar-industriale. Concetto ancora più chiaramente ribadito più avanti nel documento: «i giorni degli Stati Uniti sostenitori come Atlante dell'intero ordine mondiale  è finito. Tra i nostri numerosi alleati e partner annoveriamo decine di nazioni ricche e sofisticate che devono assumersi la responsabilità primaria delle loro regioni e contribuire molto di più alla nostra difesa collettiva». Se non è per l'Europa un De Profundis questo, non saprei cosa altro possa essere considerato tale.

Fondamentale anche l'inciso espresso dalla Casa Bianca in questo paragrafo in relazione alla competizione sull'innovazione tecnologica. «Vogliamo garantire che la tecnologia e gli standard statunitensi, in particolare nei settori dell'intelligenza artificiale, della biotecnologia e dell'informatica quantistica, facciano progredire il mondo.» che in altri termini significa che gli USA non sono disponibili a cedere lo scettro di paese guida in ambito tecnologico. Staremo a vedere come Washington intenderà rintuzzare il potentissimo attacco cinese in questo settore.

 

Conclusioni.

In definitiva da questo fondamentale documento possiamo trarre le linee guida fondamentali della politica di sicurezza dell'Amministrazione Trump (ma probabilmente anche di quelle che ad essa seguiranno): il fulcro della sicurezza americana consisterà nel “corollario Trump” alla Dottrina Monroe ovvero sia il ripristino del controllo totale sul continente americano. Per quanto riguarda invece l'Indo-Pacifico gli USA danno “libertà di sviluppo” ai paesi asiatici a patto che il controllo sulle fondamentali rotte commerciali rimanga monopolio della US Navy. Infine l'Europa, a parole certo considerata partner e alleata ma, di fatto, degradata a cliente degli armamenti e che dovrà badare a se stessa da ora in avanti.

Un epoca si è davvero chiusa. Soprattutto per il nostro continente. Nella seconda parte dell'articolo, sarà più chiaro il perchè l'Unione Europea e la sua moneta sono da considerarsi ormai un residuo della storia privo di qualunque importanza per gli stessi paesi europei che l'hanno voluta a partire dalla Germania.

Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 08:00:00 GMT
Editoriali
"La pagina è a rischio". Facebook censura la pagina (da oltre 200 mila persone) de l'AntiDiplomatico


di Vito Petrocelli - direttore editoriale de l'AntiDiplomatico

Oggi celebriamo con voi un traguardo per noi storico. La pagina Facebook de l’AntiDiplomatico ha superato questa settimana la cifra delle 200 mila persone.





200 mila compagni di viaggio che ringraziamo uno ad uno. E' un traguardo, tuttavia, amaro per lo shadowbanning imposto da fact checker autoproclamati “indipendenti” alla Guaidò, che in realtà lavorano per giornali con una visione del mondo diversa dalla nostra.

La nostra pagina Facebook rischia la chiusura. 



200 mila persone a cui i fact checker hanno tolto il diritto di informarsi attraverso voci alternative al pensiero dominante. E i nostri articoli non sono condivisibili e sono altamente penalizzati, come annunciato da Facebook, anche per le persone che seguono la pagina. Il tutto senza appello possibile al Ministero della Verità.

Dal giorno della sua fondazione, la missione de l’AntiDiplomatico è sempre stata chiara: dare voce a coloro che non avevano diritto di parola per il regime mediatico neoliberista. In politica estera. Sui diritti sociali che via via venivano distrutti. Sulle rivendicazioni di sovranità, libertà e autodeterminazione nel mondo. Dopo l’invasione della Libia, l’aggressione della Siria e memori delle guerre terroriste della NATO degli anni precedenti - tutte preparate e fondate su fake news rese virali da quei giornali che allora come oggi si vogliono ergere a unici detentori del diritto di parola - abbiamo deciso che era il momento di agire. Per questo è nato l’AntiDiplomatico. Grandi traguardi sono stati raggiunti da allora e l’affetto con cui ci premiate ogni giorno è il volano più forte per tutti noi per proseguire la nostra Lunga Marcia. Un cammino ricco di tanti compagni di viaggio straordinari e di altrettanti ostacoli creati ad hoc dai veri padroni dell’informazione.

E' noto come la maggior parte delle notizie in Italia venga filtrato dal duopolio Google (che controlla Youtube) e Meta (Facebook in particolare). E’ giusto, lecito che due multinazionali Usa possano controllare la diffusione della maggioranza netta delle notizie in Italia attraverso i loro algoritmi? E’ possibile che da parte politica non ci sia una reazione? Il governo nato “sovrano” e divenuto montiano preferisce non rispondere. E le opposizioni?

Google ha deciso da anni di censurare i nostri articoli che sono impossibili da trovare sul motore di ricerca di fatto monopolio. I nostri video di Youtube vengono oscurati preventivamente. Censura totale. Attraverso “Google Discover”, inoltre, il motore di ricerca controlla le notizie che vi arrivano direttamente sul cellulare. Quando scorrete sul cellulare e trovate quelle notizie (e non altre) sul vostro monitor, la scelta l’ha già fatta per voi l’algoritmo di Google.  E l’AntiDiplomatico non c’è volutamente mai. Dal 2022 Google ha deciso la censura totale de l’AntiDiplomatico per l’azione di una agenzia statunitense, Newsguard, che ha dato bollini rossi e verdi ai media italiani sulla base di domande surreali che vi abbiamo riproposto e denunciato qui. E’ giusto, lecito che un’agenzia dei poteri forti statunitensi possa condizionare gli algoritmi di chi controlla la diffusione della maggioranza delle notizie in Italia attraverso i loro algoritmi?

Lo scenario futuro è ancora più cupo. Dal Digital Act allo “Scudo democratico”, l’Unione Europea sta lavorando per rendere preventiva la censura a tutte quelle voci critiche del sistema neoliberista dominante. L’Ue sta lavorando perché non ci siano in Italia voci che sostengano le ragioni del Venezuela nell’aggressione Usa in corso, le ragioni della Cina nella vicenda Taiwan, le ragioni della Russia nell’aggressione della NATO che ha portato al conflitto in Ucraina, le ragioni di Traorè che in Africa sta guidando l’ultima fase della decolonizzazione. Le ragioni di chi non vuole andare in guerra contro una potenza nucleare seguendo le follie di due barzellette della storia come Kallas e Von Der Leyen. E ancora, le ragioni dei lavoratori che vedono i loro diritti sociali smantellati uno ad uno.

Quando abbiamo deciso di iniziare questa avventura, sapevamo che saremmo stati osteggiati, combattuti. Oggi abbiamo raggiunto il loro timore, la loro censura al massimo livello. E questo è per noi il segnale più importante della bontà del nostro lavoro. La censura di una pagina Facebook di oltre 200 mila iscritti è un colpo che ci obbliga ad una reazione e un invito a tutti voi a starci ancora più vicini. Non siamo soli. Quello che sta accadendo in queste ore al Prof. D’Orsi, censurato per l'ennesima volta nella sua città a Torino con un evento con un altro luminare dell'accademia italiana come il prof. Barbero, è il segnale di come a rischio ci siano le basi democratiche più elementari. E’ il momento di reagire. Tutti insieme.

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Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Oltre la propaganda: il dialogo silenzioso tra Washington e Caracas

La conferma, arrivata a bordo dell’Air Force One, è stata tanto secca quanto strategica: “La risposta è sì”, ha detto Donald Trump ai giornalisti che chiedevano se avesse parlato con Nicolás Maduro. Nessun dettaglio, nessuna concessione alla curiosità mediatica. Ma quel “sì” basta per indicare una svolta: un canale diretto tra Washington e Caracas, aperto mentre nel Mar dei Caraibi si intensifica il dispositivo militare statunitense e cresce la tensione per le denunce venezuelane di esecuzioni extragiudiziali. Secondo il New York Times, il colloquio - avvenuto circa dieci giorni fa - è stato “corretto” nei toni. Maduro, intervenendo a Petare (quartiere di Caracas), ha confermato la versione: una conversazione “rispettosa e cordiale”, da pari a pari. Nessun ultimatum, nessuna retorica muscolare. E soprattutto, nessun elemento che giustifichi le ricostruzioni iperboliche della stampa occidentale, intenta da settimane a dipingere scenari di minacce imminenti o condizioni imposte unilateralmente dalla Casa Bianca.

Il presidente venezuelano ha rivendicato un approccio di diplomazia silenziosa, maturato negli anni da ministro degli Esteri di Chávez: “Quando ci sono cose importanti, in silenzio devono essere”. Una lezione che stride con l'abitudine di molti media a colmare l’assenza di informazioni con supposizioni utili solo a orientare l’opinione pubblica. La reazione del mondo politico venezuelano è stata durissima: Diosdado Cabello ha ridicolizzato la narrativa dell’opposizione e dei media occidentali, ricordando che nessuno conosce i contenuti reali della telefonata. Il contesto è però tutt’altro che disteso. Caracas denuncia l’“aggressione illegale” rappresentata dall’annuncio statunitense sul presunto “blocco” dello spazio aereo venezuelano e le 22 operazioni letali compiute dalle forze USA in mare aperto, che avrebbero causato almeno 83 morti dal 2 settembre.

Il Parlamento venezuelano ha avviato un’inchiesta, denunciando violazioni del diritto internazionale e dell’ONU. Washington, finora, non ha fornito prove che colleghino le imbarcazioni colpite al narcotraffico. Ma la telefonata, pur fragile e preliminare, rivela una dinamica più profonda: l’emergere di una diplomazia statunitense meno ideologica e più transazionale, in linea con la postura multipolare che l’amministrazione Trump sta costruendo su vari dossier. Se gli Stati Uniti possono negoziare direttamente con Mosca sul conflitto ucraino, possono anche aprire uno spiraglio con Caracas, soprattutto in un momento in cui la retorica dell’intervento militare coesiste con l’esigenza di ridurre conflitti e costi imperiali.

Maduro l’ha detto chiaramente: “Gli Stati Uniti sono stanchi di guerre eterne”. Ed è proprio questo il punto. In un mondo in cui le nuove potenze si affermano e il peso dell’Occidente si decentra, la Casa Bianca sembra consapevole che i vecchi paradigmi di isolamento e minaccia non funzionano più. La telefonata non annuncia un disgelo immediato, ma segnala un adattamento geopolitico: gli Stati Uniti trattano, anche con chi fino a ieri definivano “nemico”. La diplomazia del XXI secolo, quella che si muove sotto traccia mentre i media inseguono narrazioni prefabbricate, viaggia così: con conversazioni riservate, senza ultimatum, tra attori che comprendono di essere già dentro un ordine mondiale multipolare, che piaccia o meno a Washington.


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Data articolo: Sat, 06 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Multipolarismo in marcia: l’effetto della vittoria russa

 

di Alex Marsaglia

 

Gli eventi delle ultime ore rivelano la vittoria russa sul campo del conflitto ucraino. Il tentativo di Trump con il suo piano in 28 punti di far riprendere il volo alla colomba della pace è stato di fatto sabotato dall’Unione Europea che ha elaborato un suo contro-piano. La mediazione tra questi due piani è poi avvenuta a Miami, con il Segretario neocon Rubio che ha messo assieme la proposta da portare a Mosca. Il 2 Dicembre il delegato americano Witkoff, introdotto dal delegato russo alle trattative Kirill Dmitriev, ha presentato le proposte direttamente al Presidente Putin che aveva già messo in chiaro i punti chiave con i quisling europei poche ore prima, mentre alla delegazione americana veniva fatta fare anticamera dopo una fresca passeggiata per la Piazza Rossa.

Infatti, prima di sedersi alla tavola rotonda delle trattative - in cui è plasticamente risaltata la differenza abissale con un Macron tenuto a debita distanza, poiché disposto a sedersi a quel tavolo solo per intavolare uno scontro frontale - le cose sono state subito messe in chiaro davanti alla stampa: “se l’Europa inizia una guerra con la Russia, presto non ci sarà nessuno rimasto con cui negoziare” e “se l’Europa inizia una guerra, la Russia è pronta subito”. Insomma, la Russia non è in guerra, sta portando a termine l’Operazione Militare Speciale per liberare il Donbass e la Crimea e denazificare l’Ucraina, dimostrando disponibilità a trattare con chi vuole riconoscere questi elementi, ma se all’Unione Europea non sta bene e ha intenzione di intervenire direttamente contro la Russia per via militare così sia. Come è stato rimarcato più volte questa diventerebbe una vera e propria guerra, senza gli accorgimenti dell’Operazione Militare Speciale in termini di estensione dei bombardamenti e loro precisione chirurgica su obiettivi militari.

Gli americani oggi hanno ben capito che il punto di discrimine è la cosiddetta “integrità territoriale” dell’Ucraina che non esiste più dall’autodeterminazione della Crimea e del Donbass avvenute tra il marzo e il maggio del 2014 tramite i referendum. L’élite dell’Unione Europea che mosse ai tempi il golpe di Euromaidan, assieme ai neocons e ai democratici americani, ancora oggi non se n’è fatta una ragione e continua a richiamarsi a un non ben precisato diritto internazionale che vieterebbe l’autodeterminazione dei popoli per mezzo dell’acclamazione popolare referendaria. Questa posizione è degenerata dalla decisione della Russia di intervenire in difesa delle popolazioni secessioniste che venivano massacrate dai battaglioni nazisti Azov, Aidar e dalle milizie di Pravy Sector portando l’Unione Europea ad approvare piani di spesa militare sempre più ingenti.

Un keynesismo militare sempre più imponente si è sbilanciato verso la contribuzione europea con il progressivo ritiro degli Stati Uniti di Trump, arrivando fino al Piano di Difesa presentato lo scorso Ottobre dalla Commissione Von der Leyen di 6.800 miliardi di euro entro il 2035.

Con un simile impegno di spesa, la progressiva militarizzazione e la chiusura repressiva l’Unione Europea si è configurata sempre più come macchina bellica e vero e proprio braccio armato in grado di arrivare laddove Stati Uniti e NATO non sembrano più intenzionati ad arrivare. La nuova trazione baltica dell’UE con Kaja Kallas alla Vicepresidenza della Commissione si è totalmente dimenticata la diplomazia e ha sempre più esteso le minacce. È evidente che la Russia, con i due precedenti fallimenti importanti degli accordi di Minsk 1 e 2, non si fidi più di avere come interlocutori il regime di Kiev e quello dell’Unione Europea. Già perché, pur non sapendo cosa si siano detti a Mosca il 2 dicembre, sappiamo con certezza che è stato immediatamente annullato l’incontro previsto dalla delegazione Witkoff a Bruxelles in cui avrebbe dovuto riportare la posizione russa alla “controparte” ucraina ed europea. Evidentemente i russi hanno fatto sapere che l’Ucraina di Euromaidan e l’UE non sono riconosciuti come controparte di un accordo di pace: se la pace ci sarà, una volta liberato il Donbass e abbattuto il regime neonazista ucraino, verrà firmata con gli Stati Uniti di Trump e basta. D’altra parte le condizioni sul campo impongono sempre più una resa che assume gli aspetti di una disfatta per il regime ucraino. Difficile pensare possano salvarsi le élite che dovranno fare i conti con la loro Caporetto. Tanto più che questi vertici risultano sempre più distaccati dal popolo che viene chiamato ai sacrifici, immischiati in una corruzione ramificata che da Kiev nelle ultime ore è approdata sino a Bruxelles, coinvolgendo nientemeno che la nostra ex lady PESC (Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Sicurezza) Federica Mogherini che proprio nel 2014 si distinse per il sostegno al Presidente ucraino golpista Petro Poroshenko e per la promozione delle prime storiche ondate di sanzioni alla Russia. I mandati di arresto al momento colpiscono soggetti che circondano da vicino i leader al potere, ma nelle prossime ore capiremo realmente la serietà di queste inchieste dal coinvolgimento o meno dei leader stessi.

La strada della Russia invece è l’unica ad essere segnata indipendentemente dal buon fine o meno degli accordi di pace in Ucraina. I suoi legami con l’Oriente sono infatti stati ulteriormente saldati nelle ultime ore, rilegando l’UE a sconfitta in una periferia sempre più povera ed emarginata. La Russia poche ore prima dell’incontro di Mosca ha infatti abolito i visti per i cinesi che vorranno entrare nel territorio nazionale, dando un enorme polmone demografico alla sua economia che è in fase di sviluppo su di un territorio vastissimo per una popolazione che fatica ad espandersi su un’estensione simile. La Duma ha anche approvato l’accordo intergovernativo con l’India sull’invio di materiale militare e da combattimento sui reciproci territori. E Ushakov ha rivelato che tra gli obiettivi della visita di Putin in India del 4 e 5 dicembre vi è la firma di 10 accordi intergovernativi e 15 accordi commerciali per stringere ancor più saldamente i due sistemi politico-economici. Significativo è anche il rifiuto di Putin a rientrare nel G8, ribadito anch’esso nelle ore precedenti all’incontro di Mosca. Questo anche se dovesse andare in porto la pace con Trump. La Russia è infatti focalizzata sui BRICS per trainare il multipolarismo fatto sorgere nel fuoco delle lotte commerciali e degli accordi economici, monetari e militari di questi ultimi anni e non è più interessata al G8 che sempre secondo Putin “non rappresenta più le economie più industrializzate del pianeta” . Il fatto che la Russia stia uscendo da posizioni di forza dal conflitto ucraino rinvigorirà il nuovo ordine multipolare aiutando il Sud Globale all’emersione da una posizione di dipendenza cronica dal centro dell’impero a cui era stato costretto negli anni dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti a differenza dell’Unione Europea reggeranno la competizione, ritirandosi in tempo per non accollarsi gli oneri di guerra e guadagnando il margine per continuare a porsi come potenza.

L’UE marcescente e putrefatta invece rischierà seriamente di mettere a repentaglio la propria tenuta. Già oggi rivela la sua essenza più brutale di totalitarismo liberale in cui il comunismo è equiparato al nazismo e in cui si procede alla censura dietro al fantomatico Scudo Democratico e persino la repressione diviene uno strumento legittimo e sdoganato apertamente. A tal proposito oggi è stato messo fuori legge in Polonia il Partito Comunista, che resta invece attivo e libero di fare opposizione in Russia a dispetto della propaganda sul sistema autocratico russo rispetto al grande multipartitismo occidentale, che però viene sistematicamente disertato dagli elettori.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 22:00:00 GMT
OP-ED
Andrea Zhok - L'epoca del Virtue Signalling


di Andrea Zhok*

Oggi il Teatro Grande Valdocco di Torino ha negato la sala, preventivamente noleggiata, al prof. Angelo D'Orsi che insieme al prof. Alessandro Barbero e ad una pluralità di altri intellettuali avrebbero dovuto dar vita all'evento "Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l'informazione".

Simultaneamente si è infiammata ulteriormente la polemica per la presenza della casa editrice "Passaggio al Bosco" alla kermesse libraria "Più libri, più liberi" di Roma. Dopo Zerocalcare oggi è la volta di Corrado Augias ad annunciare la propria assenza dalla manifestazione per protesta contro il fatto di aver dato ospitalità ad una casa editrice di estrema destra.

Questi due eventi hanno qualcosa di profondo in comune, qualcosa, vorrei dire, di epocale. Per metterlo in evidenza bisogna fare due osservazioni, la prima intorno alla temperie ideologica e la seconda intorno allo stile.

Sul piano ideologico, osserviamo innanzitutto come i posizionamenti di autori come D'Orsi e Barbero da un lato e dell'editore "Passaggio al bosco" dall'altro non potrebbero essere più diversi. Essi hanno una sola cosa in comune: testimoniano di narrazioni divergenti rispetto al conformismo perbenista sedicente "liberaldemocratico" che domina i centri di potere e di informazione in tutta Europa.

Questo conformismo, originariamente nato come frutto del trionfo neoliberale, oggi è ideologicamente immensamente flessibile, annacquato, ma è tenuto assieme, più che da qualche idea definita, dall'identificazione "virtuosa" con le preferenze dei "ceti erogatori di prebende".

In sostanza, per quanto di principio questo groppo ideologico ritenga di far riferimento ad un certo impianto liberale e neoliberale (europeismo, atlantismo, liberismo, dirittumanismo, femminismo, scientismo, secolarismo, individualismo) in verità è straordinariamente disponibile a tutti gli aggiustamenti del caso, battendo i tacchi di volta in volta a favore della legge e dell'ordine o del libertarismo assoluto, della mano invisibile o dei "prestiti di guerra", dell'inclusivismo buonista o del bullismo ghignante.

Questa posizione ideologicamente fluida, tenuta assieme dai desiderata delle oligarchie paganti, ha un grande problema, e questo ci porta al secondo punto. Le "opinioni giuste" oggi non possono più fidarsi di essere coerenti con un paradigma, neppure liberale o neoliberale. Come nelle epoche più oscure della storia, non ci si può fidare del proprio intelletto o della ragionevolezza o del principio di non contraddizione per "pensare la cosa giusta" o almeno per essere esenti da rimprovero.

No, bisogna percepire con grande attenzione quali sono i desideri lassù in alto; bisogna continuamente giocare ad un gioco di rincorsa all'ultima "opinione buona", una rincorsa che potremmo chiamare di "conformismo estremista".

Bisogna tenere le antenne all'erta per capire se è il momento di dimostrarsi patriottici prestando il petto alle baionette nemiche, o di dimostrarsi anarconidividualisti nel perseguimento del proprio utile; se bisogna dimostrarsi empatici con l'oppresso o se è il momento di colpevolizzare le vittime per il mal che gliene incolse; se è il momento di venerare le regole o di denigrarle col saggio cinismo della Realpolitik, ecc.. E soprattutto, bisogna tenersi sempre all'erta per capire in quali contesti bisogna utilizzare un criterio di giudizio o invece quello opposto.

Vale tutto e dunque niente vale stabilmente.

Ora, l'unico modo per tenersi all'altezza di questo processo di sottile continuativa sintonizzazione verso la voce del padrone (le richieste del caporedattore, le circolari del dirigente, le valutazioni del ministero, ecc.) consiste nel lanciare costanti segnali della propria virtù, della propria ottemperanza, e di riceverne dagli altri.

Questa è l'essenza di ciò che gli americani chiamano "virtue signalling": l'esibizione costante di segni di appartenenza al gregge dei buoni, dei disponibili, della gente perbene, di tutti quelli che non discutono mai, ma al massimo aggrottano le sopracciglia.
 
Il teatro che non concede il palcoscenico ad un dibattito che protrebbe contestare la lettura oggi prevalente rispetto alla Russia non sta, ovviamente, mettendo in discussione quelle opinioni. Non le conosce, non gli interessa conoscerle, non sarebbe in grado di discuterle e non vuole discuterle. Sta solo lanciando un segnale alla propria catena di erogatori di prebende, un segnale che dice: "Ci siamo capiti, sono ottemperante, sono a disposizione."
La stessa cosa fanno i Zerocalcare, gli Augias et alii, con i loro proclami che ricordano tanto Ecce Bombo ("Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?"). Stanno segnalando alle loro catene (afferenti ai medesimi erogatori) che stanno dalla parte dei buoni, di chi sa come pensarla giusta, quelli di cui ci si può fidare, che non metteranno mai in imbarazzo i vertici della catena alimentare.

Naturalmente la sostanza del contendere è perfettamente pretestuosa. Chiunque abbia avuto un libro esposto in libreria sarà stato in compagnia di altri libri che considerava odiosi. Il punto non è mai la sostanza, ma la sceneggiata, la segnalazione.

L'essenza di questa ubertosa fioritura delle "segnalazioni di virtù" consiste nel rifiutare rigorosamente ogni discussione nel merito, ogni confronto su contenuti, ogni analisi materiale. Ci si conforma e ci si coordina tra quelli che la pensano bene, e che perciò possono continuare a ricevere becchime, e quelli che deviano o - Dio non voglia - si oppongono.

Fornire un diapason su cui sintonizzare le parole per chi "pensa bene" è, più o meno, l'unica funzione rimasta alle "grandi testate giornalistiche" che oramai
non vendono neanche per coprire le spese di riscaldamento.

E questo li aiuta a coprire le spese rimanenti.

*Post Facebook del 5 dicembre 2025


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Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 20:00:00 GMT
EXODUS
Gaza ha vinto sul campo, ma questa vittoria va protetta



L'editoriale di Radio Gaza di Michelangelo Severgnini


ASCOLTA QUI LA 15° PUNTATA DI RADIO GAZA

Oltre 300 vittime a Gaza della rappresaglia israeliana dall’inizio del cessate il fuoco, quasi 2 mesi fa. La macabra crudezza dei numeri ci racconta come queste vittime siano vittime di rappresaglia, perché non paragonabili alle oltre 70.000 vittime di 2 anni di foga genocidiaria israeliana.

Sia quel che sia, non c’è altro tempo da perdere: le forze internazionali devono entrare a Gaza, spingere le IDF oltre l’intero confine della Striscia ed interrompere la strage quotidiana di queste settimane. Poi si parlerà di disarmo di Hamas, ammesso ci sia qualcosa da parlare.

Questo è il motivo di questa rappresaglia: scoraggiare l’ingresso di forze internazionali.

Quando entreranno a Gaza?

I primi mesi del 2026, si dice. Sì, ma quali forze? Quante? 15mila, 20mila soldati. Giusti giusti gli effettivi di Hamas, insomma. 

L’Egitto prova a prendere l’iniziativa mentre sono in corso i preparativi per l'istituzione del quartier generale della Forza di stabilizzazione di Gaza (GSF) nella città di Arish, nel Sinai settentrionale, a soli 40 chilometri dalla Striscia di Gaza.

Altra questione scottante. La polizia palestinese da addestrare per la sicurezza interna a Gaza.

Ufficiali egiziani e giordani addestreranno l'avanguardia di un contingente di 10.000 poliziotti palestinesi che sarà inviato nella Striscia. Una volta schierati sotto l'egida delle GSF, queste reclute, provenienti da diverse comunità di Gaza, in teoria prenderanno il controllo delle strade da Hamas e garantiranno una certa sicurezza e ordine dopo due anni di genocidio israeliano.

“L'Egitto è stato meticoloso”, ha dichiarato il generale Mukhtar al-Ghabari, ex alto comandante dell'esercito egiziano. “Insistendo su una risoluzione vincolante del Consiglio di sicurezza dell'ONU per legittimare la forza e la sua struttura di comando, il Cairo ha avvolto l'intero progetto in un'armatura legale indistruttibile”.

Secondo al-Ghabari, l'ambizione dell'Egitto è quella di consegnare Gaza, intatta e pacificata, nelle mani dell'Autorità Palestinese, cosa che al Cairo non dispiacerebbe affatto, probabilmente.

Da parte sua, Hamas ha rifiutato di disarmarsi e rimane organizzato in gran parte della zona libera della Striscia, nonostante due anni di guerra genocida da parte di Israele. Il movimento ha criticato aspramente la risoluzione 2803, che ha legalizzato il GSF il 17 novembre, definendola “uno stratagemma per nascondere l'occupazione sotto le spoglie della tutela internazionale”. 

“Le armi della resistenza, ha sottolineato Hamas in una dichiarazione del 18 novembre, “sono legate al destino dell'occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza e oltre”.

Quindi, in poche parole, il disarmo è lungi a venire.

Allo stesso modo, le fazioni palestinesi, in una reprimenda unitaria, hanno insistito sul fatto che la GSF deve limitarsi alla protezione dei civili e alla facilitazione degli aiuti, senza poteri di polizia o di applicazione del disarmo, per non rischiare di diventare un “proxy dell’occupante”.

Ma torniamo alle forze internazionali. Pare che Israele stia facendo problemi rispetto al contingente turco. Mentre il Pakistan, attraverso il primo ministro Shehbaz Sharif, ha promesso di inviare militari, assicurando però che questi mai avranno come compito il disarmo di Hamas.

Insomma, Gaza non può aspettare.

Gaza ha vinto sul campo, ma questa vittoria va protetta. 

Se questo è il modo migliore non lo sappiamo. Ma se forze egiziane, turche, magari pakistane entrassero a Gaza, questo rappresenterebbe sicuramente una svolta epocale e una garanzia di sopravvivenza per i cittadini della Striscia.

Il resto si discute dopo.

Per esempio ne discuteremo questo sabato alle 18 in diretta sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico quando terremo una visione in rete del quinto episodio del film in progress, “Gaza ha vinto”, seguita da un dibattito cui parteciperanno Loretta Napoleoni, Diana Carminati, Wasim Dahmash, insieme agli autori.

Di seguito alcune clip tratte dal documentario.

Vi aspettiamo sabato. Collegatevi a questo link. 



ASCOLTA QUI LA 15° PUNTATA DI RADIO GAZA


Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 19:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
L'ombra di Washington e il silenzio complice sulle elezioni in Honduras

C'è una grossa ombra sui risultati elettorali in Honduras, dove le accuse di un “golpe” elettorale si intrecciano con denunce di un’ingerenza straniera senza precedenti e del colpevole silenzio della comunità internazionale. A lanciare l’allarme è stato il consigliere del Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) Marlon Ochoa, il quale in una conferenza stampa ha puntato il dito contro una manipolazione elettorale definita “la più grave della nostra storia”, superiore anche a quelle contestate nel 2013 e nel 2017.

Al centro della sua accusa vi è un atto “inedito” di interferenza: la pubblica chiamata del presidente degli Stati Uniti Donald Trump a votare per il candidato di destra Nasry Asfura in vista delle scorse consultazioni di domenica scorsa. Secondo Ochoa, si tratta di una “flagrante interferenza negli affari sovrani”, resa ancor più grave dal peso geopolitico di chi l’ha compiuta. Per illustrare l’assurdità della situazione, il consigliere ha proposto un parallelo immaginifico: che diremmo se la presidente honduregna Xiomara Castro pubblicasse un appello per influenzare le elezioni in un altro paese? Lo stesso si potrebbe dire se fossero arrivati appelli a favore di Rixi Moncada da parte di Putin o Xi Jinping.

La critica di Ochoa non si ferma alla Casa Bianca, ma investe direttamente le missioni di osservazione elettorale internazionale e il mainstream mediatico globale. Il consigliere ha denunciato una “assoluta ipocrisia”: i rapporti preliminari degli osservatori e centinaia di media internazionali avrebbero infatti descritto la giornata elettorale come “civica, pacifica e con un’alta dimostrazione di cultura democratica”, ignorando completamente quello che Ochoa definisce “l’elefante nella stanza”, ossia l’aperta intromissione di Trump. Questa omissione, secondo il funzionario, viola lo spirito della Carta Democratica dell’OSA e trasforma gli osservatori in “complici della usurpazione della volontà popolare”.

Il quadro tracciato da Ochoa è quello di un vero e proprio “golpe elettorale” in cui l’ingerenza straniera si somma a una serie di gravi irregolarità: acquisto di voti, intimidazioni ai danni di migliaia di persone e un sistema di trasmissione dei risultati preliminari (TREP) presentato come una “vera trappola”. Di fronte a questo scenario, il silenzio dei garanti internazionali e la narrazione rassicurante dei media mainstream appaiono al consigliere honduregno come una forma di complicità che soffoca la verità e tradisce la sovranità del suo paese.

Marlon Ochoa ha assicurato che continuerà a combattere all’interno dell’organo elettorale affinché la volontà popolare sia rispettata. La sua denuncia, tuttavia, pone interrogativi scomodi non solo sull’esito di queste elezioni, ma sul ruolo degli Stati Uniti in America Latina e sulla credibilità di quegli organismi e di quei media che dovrebbero vigilare sulla correttezza dei processi democratici, troppo spesso distratti quando le manipolazioni vanno nella direzione dei desiderata geopolitici di Washington.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 17:11:00 GMT
OP-ED
4 domande su "The Unit", la nuova valuta dei BRICS


di Amarynth
Sovereignista

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

 

Scrivo qui sotto un commento sul contenuto nel post di Pepe Escobar: Pepe Escobar: Come l'unità BRICS+ può salvare il commercio globale

 

Vorrei innanzitutto precisare che sono convinta che il lavoro di Pepe sia assolutamente corretto come gli è stato fornito. So anche che, senza una profonda conoscenza tecnica e un background in questo campo, e con tutto il rispetto per il nostro amico di lunga data Pepe, forse non aveva le conoscenze approfondite necessarie per porre alcune domande fondamentali.

Quindi, farò io ora queste domande. Permettetemi che queste domande non saranno del tipo "accademicamente validato", ma principalmente focalizzate su i temi seguenti:

1. Questa proposta sembra un progetto commerciale. Potrete vederla così anche voi alla fine di questo testo.

2. Questo progetto ha così tante tecnologie atlanticiste e occidentali che è discutibile se si tratti affatto dei BRICS. Potrete pensarla anche voi alla fine, ma sentitevi liberi di dimostrarmi che sbaglio, o anche solo in parte.

3. Se questo progetto rappresenta davvero la posizione dei BRICS nello sviluppo di un progetto tokenizzato, è profondamente deludente. Abbiamo qui un sacco di packaging che non convince una persona esperta in metodologie crittografiche. Il BRICS ha bisogno di una propria blockchain e non dovrebbe prevedere di operare su una blockchain commerciale come token. Non è l'ambiente in cui dovrebbero trovarsi i BRICS. È meschino e spregevole… e i token (trattati più avanti nella sezione dedicata alla nomenclatura) valgono più o meno quelle targhe vanitose personalizzate.

4. Qui non si trova una competenza tecnica di alto livello, e progetti di questo tipo richiedono tecnologi di peso e dei visionari di spicco con una profonda conoscenza del settore. Ci tratta qui, in sostanzia, di due aspetti: la tecnologia e la governance della blockchain, che includeranno la gestione dei costi. È un aspetto critico. E non sto usando il termine “critico” alla leggera. Se questi due aspetti non sono in equilibrio, il progetto fallirà, come dimostrano i numerosi progetti blockchain falliti nella breve storia di questa tecnologia. Vogliamo davvero che tutti i Paesi BRICS vengano bruscamente smantellati se Cardano improvvisamente crollasse? Come diavolo possiamo riporre la nostra fiducia in una blockchain esterna? È come affidarsi alla Citibank.

 

La nomenclatura

Chiamerò ogni singolo aspetto discreto del sistema un elemento (in realtà si tratta di un segmento, così come hanno segmenti i vermi) e chiamerò The Unit stesso un token, poiché questa è la nomenclatura corretta per un prodotto crittografico sia nei sistemi "Proof of Work" [metodo crittografico che dimostra lo sforzo computazionale richiesto è stato eseguito] che "Proof of Stake" [metodo di consenso blockchain basato sulla proprietà di criptovaluta]. La nomenclatura corretta ci aiuta a evitare l'esoterismo e il clamore del marketing. In effetti, la Unit Foundation lo chiama un token.

 

Cos'è The Unit?

Come descritto, non si tratta né di una stablecoin né di una criptovaluta. È comprensibile perché venga spiegato così, e serve a superare i pregiudizi e la diffidenza nella comunità in generale. La diffidenza verso la parola stablecoin esiste principalmente nella comunità occidentale. E allora perché riteniamo necessario menzionarlo nello specifico? Ci indirizziamo agli occidentali? Sono sicuro che l'E-CNY cinese non abbia questa connotazione di diffidenza e che The Unit non sia una "post-stablecoin". Infatti, la vera definizione di stablecoin è: una moneta stabile il cui prezzo è determinato utilizzando il prezzo dell'oro al momento e il tasso di cambio di una valuta o di un paniere di valute coinvolte al momento. Una stablecoin nel tradizionale è una moneta che ha un valore esattamente uguale alla vostra valuta. Una stablecoin in dollaro è legata al dollaro statunitense. L'E.CNY è legato al Renminbi cinese. Quindi, aggiungiamo l'oro. È triviale.

Ma The Unit non è una stablecoin, quanto un token. Un meccanismo di determinazione dei prezzi diverso non lo rende ciò che non è. E allora perché scherzare con i token?

Proprio come l'E-CNY cinese è un denaro elettronico peer-to-peer, un analogo del renminbi. Il token si adatta al processo di mining o conio sulla blockchain. Se questo non è accurato, forse dovremmo avere un nome che lo descriva tecnicamente.

Cioè – secondo la descrizione – conieremo dei token e li frutteremo con il metodo piggyback sulla blockchain Cardano, giusto? E perché viene menzionata specificamente "Ada"? Esiste un'interazione? Forse a livello dei costi? Sì – è la risposta e anche il problema. Allora si sviluppa la Blockchain di Cardano e si paga le transazioni tramite Cardano.

 

Il "libro bianco"

Consuetamente e correttamente, progetti come questo richiedono un "libro bianco" [un documento completo e dettagliato che funge da fondamento per un progetto crypto]. Ma il fatto che non abbiamo qui un libro bianco, in primo piano, mi dice che abbiamo a che fare con degli economisti e banchieri… e questo non basta per creare una blockchain tecnica. Non esiste alcuna competenza tecnica in questo progetto come viene descritto. Lo vediamo anche qui: sono state coniate 100 Unit (in forma di prova), e se si trova già a questo stadio di sviluppo, queste domande devono già avere delle risposte. In più, alcune delle informazioni che ci sono state fornite sono davvero discutibili. Eviterò gli aspetti più tecnici per rendere tutto il più comprensibile possibile per chi non ha una formazione tecnica in questo ambito.

Alla fine ho trovato una specie di "libro bianco", ma si chiama in effetti un “lite paper” [un breve rapporto che descrive una nuova tecnologia] - ed è davvero leggero come una piuma: https://wp.unitfoundation.org/assets/lightpaper_v17102025.pdf

Diamo ora un'occhiata a questa Unit Foundation e i suoi tre membri. Il primo, secondo loro, è i BRICS+, il secondo è l'Unione Economica Eurasiatica, e il terzo è l'Africa Occidentale e Centrale. Ma questi sono alla fine solo dei potenziali casi d'uso futuri e certamente non reali. Poi c'è un "direttore IA [virtuale]" e un vero direttore (almeno credo). L'intelligenza artificiale non può sostituire le competenze tecniche intelligenti e visionarie che dovrebbero avere una profonda conoscenza del settore e di questo campo. Bisogna rimboccarsi le maniche.

Tornando al "lite paper" apparentemente prodotta dall'International Research Institute for Advanced Systems (Irias). E dove si collocano loro? Cosa hanno fatto loro finora? Qualche pubblicazione, qualche evento… Non hanno degli esperti tecnici di alto livello in materia di blockchain, criptovalute o token. Esistono dal 1976 e sono composti da:

  • La Repubblica di Bulgaria — A. IVANOV, PhD, Rappresentante Permanente della Repubblica di Bulgaria nel Consiglio IRIAS.

  • Ungheria — Professor T. ASBOTH D.Ec, Vicepresidente del Consiglio ungherese del Movimento Europeo, Rappresentante Permanente dell'Ungheria nel Consiglio IRIAS.

  • La Repubblica di Cuba — RODRIGUEZ BATISTA, Vice Ministro della Scienza, Tecnologia e Ambiente della Repubblica di Cuba, Rappresentante Permanente della Repubblica di Cuba nel Consiglio IRIAS.

  • Mongolia — Professor S. TIMUR-OCHIR, Vice Ministro dell'Istruzione, della Cultura e della Scienza della Mongolia, Rappresentante Permanente della Mongolia nel Consiglio IRIAS.

  • La Federazione Russa — E. VELIKHOV, Membro Effettivo dell'Accademia Russa delle Scienze, Rappresentante Permanente della Federazione Russa nel Consiglio IRIAS, Presidente del Consiglio IRIAS.

 

Qui non c'è alcuna competenza tecnologica di alto livello, e il lite paper è davvero leggera. Anzi, è trasparente per ciò che non dice.

 

Il Come

La Unit Foundation (https://unitfoundation.org/) afferma: "Sfruttiamo le valute BRICS+ e l'oro in un ecosistema del Unit." A quanto pare, secondo questi geni, non è mai stato fatto prima. Per quanto ne so io, per quanto riguardano le valute, sì, non è stata fatta, tranne che con le stablecoin esistenti. Ecco una semplice pubblicità per 10 criptovalute sostenute dall'oro: La https://primexbt.com/for-traders/gold-backed-cryptocurrency/. Fare i calcoli è per un buon programmatore designer una cosa di poco conto. Ma teniamo presente che un Paese come El Salvador ha reso Bitcoin una valuta ufficiale e ha offerto incentivi per adottarlo. Anche la Repubblica Centrafricana. Dov'è ora quel numero relativo alla valuta?

Sono affermazioni come questa che mi dicono chiaramente che non c'è alcuna competenza tecnica del peso richiesto qui.

 

Andiamo ora a cercare il prezzo dell'oro e il valore della valuta in quel momento.

The Unit, al fine di poter stabilire il prezzo di una transazione commerciale, necessita del prezzo corrente dell'oro. Affermano di ottenerlo da qui: https://www.bullion-rates.com/

La sede centrale di questa società è indicata come: 800 N. King Street, Suite 304 1474; Wilmington, Delaware 19801; USA

Quindi questa è una di quelle società del Delaware (USA) che hanno sede in una suite. È così che appare una società virtuale. Ma, insomma, questi progettisti di The Unit hanno mai sentito parlare di Hong Kong?

Hanno anche bisogno di un valore valutario: https://www.xe.com/

Quindi BRICS utilizzerà XE, società quotata al Nasdaq con sede in Canada, che è essenzialmente un operatore di trasferimento di denaro. (Tenete pronti il vostro IBAN (Numero di Conto Bancario Internazionale) per assicurarvi che il trasferimento venga inviato alla destinazione giusta. Più occidentale di così non si può.

Il commento seguente non è adatto ai BRICS: "Persino JP Morgan ha ammesso che The Unit è 'forse la proposta di de-dollarizzazione più approfondita che esista nel settore delle transazioni transfrontaliere per i BRICS+'." Posso chiedere chi, all'interno di JP Morgan, ha fatto questa affermazione e dove si trova la competenza tecnologica necessaria per poterla fare?

Pertanto, il Presidente del Comitato di Lancio è Bilderberg. E una delle organizzazioni con cui stanno collaborando si trova a Bruxelles.

Con questo, non riesco nemmeno a trovare le parole…

 

Come influenzerà questa Unità l'intera infrastruttura BRICS? Cioè, cosa farà?

"Una volta che i token UNIT sono stati coniati e i nodi della rete sincronizzati, saranno completamente fungibili e potranno essere usati come qualsiasi valuta fiat: un semplice trasferimento da conto a conto utilizzando l'infrastruttura bancaria esistente dovrebbe essere sufficiente."

Esaminiamo più approfonditamente questo testo.

"nodi della rete" – quale rete? Cardano?

"infrastruttura bancaria esistente" – posso garantirvi che le banche nel posto dove mi trovo io non toccheranno questo coso nemmeno con un bastone lungo tre metri. È anche un'affermazione sbagliata che non voglio nemmeno approfondire qui. Ripeto, mancano competenze tecniche con una visione e una profonda conoscenza del settore – è evidente.

Ora potete dire: Beh, si tratta solo di un paio di tabelle di riferimento, una cosa di poco conto… Bene, e cosa succede se le tabelle dovessero scomparire? Cosa succede se tutto il commercio in tutti i paesi BRICS si fermasse bruscamente?

Permettetemi inoltre di non commentare troppo sulla fungibilità in questa fase. È corretto che un token, una moneta, deve essere fungibile. Ma, allora, cosa succede se Blackrock decidesse di irrompere sulla scena per acquistare tutte gli Unit disponibili?

 

La Blockchain Cardano

Alla fine, abbiamo quindi il BRICS che gestisce il suo Unit come token sulla blockchain Cardano. Quando l'ho letto per la prima volta, la mia risposta è stata: COME, SCUSA?

Cosa succede se The Unit perde la sua amicizia con Cardano? Cosa farà sì che la Blockchain Cardano non si comporti come un Volkswagen contro un razzo spaziale? Cardano sarà in grado di scalare il proprio ambiente token? Si è consapevoli del fatto che la scalabilità è uno dei problemi tecnici più difficili da risolvere? Qual è la transazione token più grande che Cardano abbia mai elaborato? Quali sono i parametri di riferimento rispetto all'attuale commercio tra Russia, Cina e Iran? Si avvicina anche solo lontanamente al commercio mondiale di Visa e Mastercard?

Qui lavoriamo con il commercio tra Russia e Cina, completamente in valute locali, e le cifre sono enormi. Qui lavoriamo con il commercio tra Russia e India, che è oltre il 90% in valute locali. Prevedo che Cardano fallirà clamorosamente se dovrà elaborare uno smart contract e una delle grandi transazioni moltiplicate per un certo numero di Paesi. Per darvi un'idea, la Cina ha realizzato il suo primo contratto intelligente anni fa, acquistando rame dall'Australia. Perché usiamo tecnologie occidentali che non si sono dimostrate efficaci in termini di transazioni di massa, mentre è la Cina chi possiede la tecnologia? Non ho nulla contro Cardano, ma Brasile gestisce PIX con molto successo. Abbiamo mai considerato PIX come base? Appartiene allo Stato brasiliano, e non a una società del Delaware… Cardano ha un volume giornaliero superiore a 1 miliardo di dollari. Questo è il volume di transazioni che è in grado di elaborare, perché non possiamo affermare che possa fare di più se non lo abbiamo visto, testato o confrontato con altri sistemi. Cosa succede se è necessario triplicare tale volume in poche transazioni significative? E perché, quando disponiamo già delle tecnologie interne nei Paesi BRICS?

A seguito di questa domanda: Qualcuno degli elementi, come spiegato, è proprietario o stiamo lavorando in open source? Spero di sì, ma se così non fosse, chi possiede gli elementi proprietari? Inoltre, chi sta sviluppando e programmando tali elementi e per chi?

Ecco l'ecosistema dei token Cardano – è roba da bambini: https://cryptorank.io/blockchains/cardano. Una rivoluzione non lo è.

 

Una raccomandazione di ferro

Fate il lavoro e sviluppate una blockchain per BRICS. Posizionatela in un'azienda tecnologica BRICS in un paese BRICS. Le blockchain sono tutte open source e rappresentano un inizio facile, dato il numero di iterazioni già fatte negli ultimi anni. Portate le competenze tecnologiche al livello necessario. Lasciate che la fondazione faccia un po' di lavoro. Create scambi alternativi in Eurasia. Quindi costruite una blockchain che sia priva di qualsiasi influenza occidentale. Solo allora potrete interagire tecnicamente con i Paesi occidentali, come interfacce e non come tecnologia determinante. Solo allora i Paesi BRICS, SCO, il Sud Globale e l'Occidente Globale potranno davvero commerciare in modo indipendente. Non dipendete dai sistemi bancari occidentali, credendo che “un giorno l'Occidente tornerà alla ragione”. Questo non dovrebbe essere un'opera atlantista.

C'è di più… e ho accennato solo a ciò che mi è rimasto in evidenza nel primo articolo, concentrandomi sulle questioni di governance. Sono convinta che i Michael Hudson di questo mondo possano smontare questo progetto dal punto di vista economico. The Unit, come previsto finora, fallirà se non verrà salvata ora, dato il materiale che abbiamo ora. Lo dico con assoluta convinzione, poiché il livello richiesto di competenza tecnologica è inesistente, così come lo è la governance. Un libro bianco ci vuole – e non un lite paper – per favore. Il costo – e sì, ce n'è uno – è un buco nero. La proprietà è un buco nero. Oppure anche The Unit dei BRICS registrerà una società virtuale nel Delaware?

Vorrei anche sapere se questa unità è così fungibile da poter essere scambiata, dove si trova il portafoglio? Questa è una domanda di prova che riguarda la proprietà custodita o non custodita e le questioni relative a Chi possiede cosa e Dove è conservato. Questa domanda definirà dove vengono conservato il denaro, ovvero i token Unità. Avete già parlato con il miglior block explorer [uno strumento online per vedere transazioni, blocchi e dati di wallet su una blockchain], che è un'azienda russa? Si chiama "Blockchair": https://blockchair.com/ Nikita, il progettista e sviluppatore di lunga data, è un tecnologo brillante e può subito consigliare con chi lavorare.

Non rinuncerete al vostro attuale progetto o non lo rivedrete perché non utilizza le risorse BRICS? Posso offrirvi alcune delle risorse tecniche più incredibilmente talentuose del pianeta. Una di queste è sposato con una russa, vive in Oriente, conosce il settore alla perfezione, è uno sviluppatore di grande talento, è in grado di gestire team di sviluppo ed è una cristiana ortodossa devoto. No, non lo creerà per voi, ma vi aiuterà a organizzare tutto e a mettere ordine nelle questioni di governance. Conosco anche un francese, ed è la stessa storia. Non lo creerà per voi, ma può aiutarvi a organizzare tutto. Il talento c'è, ma il pool di talenti veramente visionari è limitato… e voi non ne disponete.

È certamente un argomento vasto, e ho appena scalfito la superficie. Non ho esaminato la composizione di The Basket [Il Paniere] perché non è espresso con chiarezza. Come calcolate "le porzioni uguali delle principali valute BRICS: BRL, CNY, INR, RUB e ZAR"? ZAR ne ringrazierà i creatori proprio. Trovo anche qui un certo livello di mancanza di trasparenza.

Quelli di noi che si sono presi la briga di imparare questo ambiente sin dall'inizio, puntano alla trasparenza. Siamo assolutamente abituati a immergerci nel codice e valutarlo a livello granulare. È così che le risorse tecniche dei paesi BRICS inizieranno la loro analisi per decidere se partecipare o meno. Forse è una questione di tempistica, ma con un lite paper, questo livello di trasparenza dovrebbe essere visibile. E non lo è.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 16:44:00 GMT
OP-ED
Con l’incontro Trump-Mamdani i socialisti e i trumpiani paiono (quasi) sulla stessa lunghezza d’onda


di Fabio Ashtar Telarico

L'immagine è sembra pensata per risultare assurda. Nello Studio Ovale, il presidente repubblicano in carica, che per mesi ha definito il sindaco eletto di New York un "comunista" e una minaccia per la repubblica, è ora al suo fianco e loda le sue idee "d’impatto" sull'edilizia abitativa e sui prezzi sotto un ritratto da poco riscoperto del presidente Franklin D. Roosevelt. Dall'altro lato del podio, un sedicente socialista, eletto con la promessa di rendere la più grande città americana "a prova di Trump", ringrazia lo stesso Trump per il tempo concessogli e parla con sincerità di come possano lavorare insieme per rendere New York accessibile.

Il sistema politico ha fatto del suo meglio per insistere sul fatto che questi due uomini appartengono a due estremi inconciliabili di una scena politica polarizzata. Nei mesi precedenti le elezioni municipali di New York, Trump ha messo in discussione la cittadinanza di Zohran Mamdani, definendolo "comunista" e "antisemita", e ha apertamente suggerito che avrebbe potuto essere arrestato se avesse mantenuto la sua promessa di sfidare le leggi federali sull'immigrazione. Il presidente ha anche minacciato di tagliare miliardi di dollari di finanziamenti federali a New York se gli elettori lo avessero comunque scelto. Inoltre, la mattina dell'incontro tra Trump e Mamdani, la Camera dei Rappresentanti ha persino approvato una risoluzione che denunciava "gli orrori del socialismo" in un attaco simbolico contro l'ideologia che Mamdani rivendica apertamente come propria. Da parte sua, Mamdani si è candidato e ha vinto come nemico di Trump, promettendo di opporsi ai raid dell’agenzia per l’immigrazione, di difendere gli immigrati e di usare il municipio per proteggere i newyorkesi dalle politiche del presidente.

Eppure, quando finalmente appaiono fianco a fianco, gran parte di quella tensione passa in secondo piano. Trump non apre con discorsi roboanti sulla legge e l'ordine o sulle guerre culturali, ma con un programma economico condiviso. "Abbiamo una cosa in comune", dice alle telecamere. "Vogliamo che questa nostra città che amiamo vada molto bene... molto forte in comune, come gli alloggi e la costruzione di alloggi. Il cibo e i prezzi, [... t]utto ciò che faccio sarà positivo per New York". Mamdani risponde allo stesso modo, inquadrando l'incontro intorno alle pressioni del costo della vita piuttosto che alla guerra ideologica:

La necessità di garantire l'accessibilità economica ai newyorkesi, gli otto milioni e mezzo di persone che chiamano la nostra città casa loro, che lottano per permettersi la vita nella città più costosa degli Stati Uniti d'America.

Elenca affitti, generi alimentari, utenze; Trump gli fa eco pochi minuti dopo con il suo mantra: "La cosa più importante è il costo della vita. La nuova parola del momento è 'affordability' [...] in altre parole, sono i generi alimentari".

Quella che a prima vista sembra una bizzarra tregua mediatica è in realtà molto più rivelatrice. La conferenza stampa rende esplicita una convergenza che si sta delineando nella politica americana da un decennio: il costante allineamento delle frange più estreme della sinistra e della destra attorno a un populismo economico comune e a una retorica anti-élite condivisa. Lo stesso Trump allude a questa lunga storia quando si vanta di aver conquistato nel 2016 molti elettori di Bernie Sanders perché d'accordo con lui su commercio, dazi e la sensazione che l'America fosse stata "derubata". Ora, in piedi accanto a un sindaco autodichiaratosi socialista, osserva con naturalezza che "molti dei miei elettori hanno effettivamente votato per lui"; un punto confermato da Mamdani, che cita la sua campagna elettorale tra i sostenitori di Trump, i quali gli hanno ripetuto più volte che la loro preoccupazione principale era "il costo della vita. Il costo della vita. Il costo della vita".

In definitiva, questo quadro dell'Ufficio Ovale è meno un'aberrazione che una cristallizzazione. Segna il momento in cui due politici che hanno passato mesi a denunciarsi a vicenda scoprono, in pubblico, di essere in competizione per lo stesso elettorato economicamente insicuro e sono pronti ad adottare un linguaggio sorprendentemente simile per farlo. L'uomo che ha cercato di trasformare il Partito Repubblicano come il "partito dell'accessibilità" ora si affida a un vocabolario che non sarebbe fuori luogo in un comizio socialista democratico. Il sindaco eletto la cui campagna prometteva il congelamento degli affitti, autobus gratuiti e tasse più elevate sui ricchi, sembra a suo agio nel parlare di regolamentazione semplificata e rapida costruzione di alloggi in termini che potrebbero tranquillamente trovare posto in un comizio elettorale di Trump.

 Accessibilità economica e alloggi: un programma economico condiviso

Fin dal primo minuto della conferenza stampa, entrambi gli uomini insistono sul fatto che la politica inizia con il prezzo della sopravvivenza a New York. Trump dice ai giornalisti che lui e Mamdani

hanno parlato di alcune cose che hanno in comune, come gli alloggi e la loro costruzione. Il cibo e i prezzi, [...] Tutto ciò che faccio sarà positivo per New York. Se riesco a far abbassare i prezzi, sarà positivo per New York.

Mamdani risponde sulla stessa linea: l'incontro, dice, riguardava

necessità di garantire l'accessibilità economica ai newyorkesi [...] che faticano a permettersi la vita nella città più costosa degli Stati Uniti d'America. Abbiamo parlato di affitti. Abbiamo parlato di generi alimentari. Abbiamo parlato di servizi pubblici.

Questa sovrapposizione non è puramente estetica. La campagna di Mamdani è stata costruita attorno a un programma esplicito di accessibilità economica: congelamento degli affitti, autobus gratuiti, ampliamento dei servizi di assistenza all'infanzia, negozi di alimentari gestiti dalla città e aumento del salario minimo, finanziati da un aumento delle tasse sulle società e sui ricchi. Da parte sua, Trump ha cercato di riposizionare i repubblicani come il "partito dell'affordability", vantandosi del calo dei prezzi dei generi alimentari e del carburante e riducendo il suo messaggio a una formula schietta: "Una cosa importante sui costi. La nuova parola è 'accessibilità economica'. In altre parole, si tratta semplicemente di generi alimentari".

È nel settore dell'edilizia abitativa che questo vocabolario condiviso si trasforma in un programma concreto. Trump afferma che il sindaco eletto

vuole vedere diminuire gli affitti [...] Penso che una delle cose che ho davvero capito molto bene oggi è che lui vorrebbe vederli diminuire, idealmente costruendo molti alloggi aggiuntivi. Questo è il modo migliore. Lui è d'accordo con questo, e anch'io. [... Lui] vuole vedere aumentare il numero di case. Vuole vedere la creazione di molte case, la costruzione di molti appartamenti, ecc. [...] la gente ne sarà scioccata, ma io voglio vedere la stessa cosa.

Mamdani va oltre gli slogan e descrive il sistema di tassazione immobiliare di New York come "così iniquo che non può nemmeno reggere in tribunale" e afferma che il suo programma per l'edilizia abitativa ha due pilastri:

non solo costruire più alloggi, ma anche garantire che la regolamentazione degli alloggi sia qualcosa di gestibile da attuare e non la causa di un'altra attesa che vediamo nella nostra città.

Quando un giornalista ostile lo accusa di pianificare "tasse sulla proprietà basate sulla razza", lui nega, ma non rinuncia al suo obiettivo di "un sistema fiscale equo [...] che tutti i newyorkesi possano permettersi".

Retoricamente, Trump tratta l'edilizia abitativa come un problema di offerta ed eccessiva regolamentazione: ridurre la "burocrazia", spingere le autorità locali ad aumentare la densità edilizia e lasciare che il settore privato costruisca per abbassare i prezzi. Il programma di Mamdani è incentrato sull'edilizia sociale, la giustizia fiscale e la tutela degli inquilini, con una semplificazione normativa utilizzata per accelerare l'edilizia pubblica e al di sotto del mercato piuttosto che semplicemente per liberare le mani dei costruttori. Ma quando parlano insieme, tutto ciò che si sente è semplicemente: più gru, più appartamenti, meno strozzature. Gli antagonismi tra proprietari e inquilini e tra ricchi e poveri che strutturano il mercato immobiliare della città gettano le basi per la promessa condivisa di "costruire" in modo che "gli affitti scendano".

È qui che diventa visibile una convergenza più profonda. Un socialista democratico che vuole una ridistribuzione aggressiva e il leader di un'ampia coalizione conservatrice che vuole la deregolamentazione e l'edilizia privata sono ora entrambi d'accordo sul fatto che lo Stato deve agire per cambiare il lato dell'offerta del mercato immobiliare. E deve farlo più rapidamente che mai. Per i centristi che per decenni hanno insistito sul fatto che il compito principale del governo era quello di "lasciar spazio" ai mercati, si tratta di un cambiamento silenziosamente radicale.

Elettorato condiviso: da Bernie a Donald e da Trump a Mamdani

Se la conferenza stampa ha un protagonista, non è nessuno dei due uomini sul podio, ma quella fetta di elettorato che si sposta da uno all'altro. Mamdani giustifica l'incontro con un presidente che ha definito "fascista" non in termini di dovere istituzionale, ma utilizzando i termini degli elettori che ha incontrato in prima persona. Racconta di aver chiesto ai newyorkesi che avevano votato per Trump perché lo avessero fatto; le loro risposte, dice, "vertevano consistentemente" su due temi: la fine delle "guerre infinite" e il peso delle spese quotidiane. Su quest'ultimo punto è volutamente ripetitivo: "Costo della vita. Costo della vita. Costo della vita". Gli elettori elencano "il costo della spesa, il costo dell'affitto, il costo della Con Ed e il costo dell'assistenza all'infanzia".

Trump, insolitamente, non contesta questa descrizione. "Ha detto che molti dei miei elettori hanno effettivamente votato per lui [...] e mi sta bene". Dietro la tipica retorica trumpiana, c'è il riconoscimento che una parte della sua base spesso apprezza i candidati democratico-socialisti. I sondaggi dopo la corsa di New York hanno fornito dati che lo confermano: circa il dieci per cento degli elettori di Mamdani ha sostenuto Trump nel 2024, e una percentuale simile degli elettori di Trump nel 2024 è passata a Mamdani nella corsa alla carica di sindaco. Si tratta di persone perlopiù giovani, generalmente meno abbienti, nettamente più diffidenti nei confronti dell'establishment di entrambi i partiti, affittuari nei quartieri periferici dove gli affitti e le bollette sono aumentati di più in proporzione sui salari.

Lo stesso Trump fornisce la genealogia di questa base elettorale. Nel bel mezzo dell'evento, senza imbeccata dei giornalisti, ricorda a tutti che quando Bernie Sanders si è ritirato dalle primarie democratiche del 2016, lui ha "raccolto molti dei suoi voti" e che i due erano d'accordo su più cose di quanto la gente pensasse. Soprattutto sul fatto che gli Stati Uniti fossero "derubati" dai partner commerciali e sull'uso dei dazi. La scienza politica e le analisi post-elettorali gli danno ragione: una parte non trascurabile degli elettori che scelsero Sanders alle primarie è passata a Trump nel novembre 2016, formando l’ormai familiare categoria degli "elettori Sanders-Trump": economicamente di sinistra, anti-establishment, ostili alla globalizzazione e alle guerre all'estero, e aperti sia a un socialista democratico che a un esponente della destra, purché promettano di sconvolgere lo status quo.

Il progetto di Mamdani è rivolto proprio a questi stessi strati sociali. Come Sanders, Mamdani si presenta come un ribelle contro la gerarchia del proprio partito. Come Sanders, propone un programma apertamente redistributivo e un'attenzione incessante ai costi della vita quotidiana. Gli elettori di Trump che gli dicono di volere il controllo degli affitti, autobus più economici e la fine delle "guerre infinite" sono varianti locali dell'elettorato che un tempo è passato da Sanders a Trump. Ciò che suggeriscono i dati di New York è che questo movimento non è più a senso unico. Il bacino di elettori animati principalmente da rivendicazioni economiche e sentimenti anti-élite è ora in gioco in entrambe le direzioni.

Per questi elettori, la linea di demarcazione principale non è "socialismo contro capitalismo" o "sinistra contro destra" in senso tradizionale. È tra coloro che possono vivere comodamente sotto l'attuale regime economico e coloro che non possono. Una persona che ha sostenuto Trump come presidente perché era l'uomo che avrebbe "riportato i posti di lavoro" e "messo fine alle guerre infinite" dovrebbe, se la logica regge, sostenere Mamdani come sindaco perché offre il congelamento degli affitti, autobus gratuiti e generi alimentari gestiti dalla città. Quando entrambi riconoscono con calma di condividere lo stesso elettorato, ammettono che le loro fortune politiche dipendono dalla loro capacità di convincere quella stessa base sociale che ha deciso le recenti elezioni e che potrebbe continuare a essere determinante nei prossimi decenni.

Politica estera: Qualcosa oltre alla fine delle "guerre infinite"?

In materia di politica estera, la distanza tra Trump e Mamdani è evidente a prima vista: un presidente che si vanta della "pace in Medio Oriente" e si allinea strettamente con Israele, e un sindaco eletto che ha accusato Israele di genocidio a Gaza e gli Stati Uniti di finanziarlo. Eppure, quando ciascuno di loro spiega ciò che vogliono i propri elettori, le conclusioni sono sorprendentemente simili. Le guerre all'estero sono troppo lunghe, troppo costose e troppo lontane; prosciugano il denaro dei contribuenti e distolgono l'attenzione dalle persone che lottano per pagare le spese quotidiane.

Mamdani lo dice chiaramente. Raccontando le sue conversazioni con i newyorkesi che hanno votato per Trump, dice di aver sentito "ripetere più volte" due ragioni: volevano "la fine delle guerre infinite" e volevano un alleggerimento del costo della vita. Le stesse persone che si lamentano del "costo dei generi alimentari, del costo dell'affitto, del costo della Con Ed [società fornitrice di servizi elettrici di New York], del costo del crescere un bambino" gli dicono anche che sono stanche di vedere "i nostri soldi delle tasse finanziare violazioni dei diritti umani" all'estero. Quando difende il suo linguaggio su Gaza, lo ricollega immediatamente alla situazione locale: se più di 100.000 scolari newyorkesi sono senza casa, sostiene, allora c'è un "bisogno disperato" di reindirizzare le risorse dalla guerra all'edilizia abitativa e alla dignità di base nella città.

Trump ricorre a un vocabolario diverso, popolato di pasta e di imminenti "accordi" sostenuti dalla "forza" dell'America e che porteranno al "disarmo" dei suoi avversari. Eppure, il presidente fa la stessa mossa. L'Ucraina, dice, è una guerra che "non avrebbe mai dovuto verificarsi" e che "non ci riguarda" al di là dell'orrore di vedere morire delle persone "dall'altra parte dell'oceano"; ciò che conta a livello interno è che lui ha "un modo per ottenere la pace". La sua critica di lunga data alle "guerre infinite" e allo scarso investimento dei partner NATO viene riproposta come una promessa di smettere di sprecare le risorse americane nei conflitti altrui, in modo che il Paese possa prosperare. Anche le sue osservazioni sulle infrastrutture energetiche sotto attacco in Ucraina sono inquadrate meno come un problema geopolitico che come un ulteriore punto di pressione sui prezzi e sui servizi pubblici.

Eppure, le linee di frattura sono sostanziali e profonde. Mamdani basa la sua posizione sui diritti umani e sulla solidarietà con la Palestina; Trump sulla gestione delle alleanze e su un nazionalismo transazionale "America First". Non sono d'accordo su Gaza, sull'Ucraina o su come dovrebbe essere una soluzione giusta. Ma a livello retorico, entrambi parlano come se il significato principale della politica estera per i loro elettori fosse una voce nella legge fiscale e un vincolo alla spesa interna. La promessa che risuona nelle loro basi molto diverse è semplice: porre fine alle "guerre infinite", smettere di investire denaro in crisi lontane e utilizzare le risorse dello Stato per rendere la vita nel Paese accessibile.

In questo senso, la politica estera nella conferenza stampa non è un ambito separato, ma un'estensione dello stesso populismo economico che struttura le loro argomentazioni sull'alloggio e sui generi alimentari. La guerra viene ricodificata come un altro modo in cui un establishment indifferente distribuisce male le risorse; la pace viene interpretata come un prerequisito per affrontare l'affitto, le utenze e l'assistenza all'infanzia. Il divario ideologico tra un anti-imperialista di sinistra e l'"America First" di destra rimane; ma ora parlano di quel divario in un linguaggio comune che considera i coinvolgimenti esteri come un ulteriore ostacolo alla sicurezza materiale della "gente comune".

L'eredità di FDR: colmare il divario tra la storia della sinistra e la reinvenzione della destra

Il momento più significativo della conferenza stampa arriva quando entrambi smettono di parlare di affitti e generi alimentari e iniziano a parlare di Franklin Delano Roosevelt. Il simbolismo è evidente. Un socialista democratico e un nazionalista repubblicano si stanno letteralmente allineando sotto la stessa immagine di Roosevelt, cercando ciascuno di rivendicarne l'eredità.

Mamdani evoca FDR per primo. Dice che durante il loro incontro ha "apprezzato" il ritratto di FDR appeso alla parete e

l'incredibile lavoro svolto con il New Deal e, inoltre, nel pensare a come [avere...] il governo federale e quello di New York City [che] lavorano insieme per garantire l'affordability [... p]uò essere trasformativo.

Trump trasforma immediatamente l'aneddoto in una storia su di sé:

Abbiamo un magnifico ritratto di FDR che ho trovato nei sotterranei, che era sparito da anni. L'ho trovato e l'ho appeso... quando il sindaco ha visto quel ritratto, ha detto: "Signore, le dispiace se faccio una foto davanti a quel ritratto?" [...] Quindi immagino che sia un grande fan del New Deal e di FDR.

Per Mamdani, FDR rappresenta un tipo particolare di Stato: uno Stato che riunisce il potere federale e il governo municipale per rendere accessibili gli alloggi, i trasporti e i beni di prima necessità. La sua campagna è già stata definita una sorta di "New York New Deal": congelamento degli affitti, edilizia popolare, autobus gratuiti, ampliamento dei servizi di assistenza all'infanzia, finanziati da tasse più elevate sulle società e sui ricchi. Per lui, invocare il New Deal è un modo per dire che un intervento pubblico aggressivo nell'economia non è utopistico, ma parte della storia stessa della città.

L'uso che Trump fa di FDR è più personale, ma punta nella stessa direzione. Si presenta come l'uomo che ha "trovato" il ritratto "scomparso" nei sotterranei della Casa Bianca e lo ha restaurato, inserendo Roosevelt nella sua mitologia dei presidenti “forti” e rivoluzionari. In precedenti dichiarazioni ha elogiato FDR come un leader "straordinario" e ha sottolineato l'importanza di curare la selezione dei presidenti da appendere nella Sala del Gabinetto; qui usa quella storia per segnalare che anche lui si colloca nella tradizione di una leadership nazionale forte piuttosto che in quella reaganiana del “governo minimo”. Il messaggio riguarda meno la previdenza sociale e più la scala dell’intervento federale nell’economia: grandi progetti, grandi investimenti, e il governo federale come agente di rinnovamento nazionale.

Nonostante il recente riggetto di FDR da parte della sinistra intellettuale e la lunga opposizione alle sue politiche da parte della destra, entrambi gli uomini non hanno problemi a utilizzarlo come simbolo per legittimare programmi molto diversi. Un sindaco socialista eletto che vuole tassare i ricchi, espandere i servizi pubblici e costruire alloggi sociali, e un presidente nazionalista che vuole deregolamentare l'edilizia, aumentare le tariffe e riaffermare l'"America First", entrambi ricorrono istintivamente a FDR piuttosto che, ad esempio, a Clinton o Reagan. Questo la dice lunga su dove si è spostato il baricentro. Il vecchio sospetto nei confronti di un governo attivista è più debole proprio sul terreno che entrambi condividono: accessibilità economica, sicurezza economica, lo Stato come garante che la "gente comune" non sia lasciata completamente in balia del mercato.

Fragile convergenza e nuove linee di faglie

Nonostante tutte le sovrapposizioni in materia di affordability, alloggi e "guerre infinite", persiste un certo grado di antagonismo ideologico. Mamdani non ritratta mai di aver definito Trump un despota con un "programma fascista" e, quando viene messo alle strette, ammette che "ci sono molti [...] punti di disaccordo" con il presidente. Da parte sua, Trump scherza dicendo che essere definito un despota "non è poi così offensivo" e afferma di sperare che Mamdani "cambi idea", ma questo si aggiunge a una campagna in cui lo ha etichettato come comunista, ha messo in discussione la sua cittadinanza e lo ha minacciato di arresto.

Sostanzialmente, dietro la diagnosi condivisa di una crisi del costo della vita si nascondono forti conflitti distributivi. Il progetto politico di Mamdani punta a spostare il carico fiscale verso l'alto, ribaltando quello che definisce un sistema di tassazione immobiliare "iniquo", ampliando i servizi pubblici, aumentando l'edilizia popolare e congelando gli affitti. Queste misure colpiscono inevitabilmente alcuni degli interessi che stanno alla base della coalizione di Trump: i proprietari di immobili più ricchi e altri percettori di redditi alti. Gli strumenti economici preferiti da Trump (riduzione delle normative, tagli fiscali, tono favorevole alle imprese) vanno nella direzione opposta. Dal podio entrambi possono parlare di "costruire più alloggi" per "ridurre gli affitti". Tuttavia, al momento in cui passano dal dire al fare, Mamdani deve ancora capire chi pagherà, chi ci rimetterà, cosa sarà regolamentato; mentre Trump potrebbe non decidersi mai.

Lo stesso vale per la polizia e l'immigrazione. Nella conferenza stampa entrambi definiscono la sicurezza pubblica come ambito d’accordo: vogliono "una New York sicura", la polizia dovrebbe concentrarsi sui reati gravi, contro lo spreco di risorse per chiamate denunce non criminali. Tuttavia, Mamdani ha promesso di opporsi alle retate dell'agenzia per l’immigrazione e di proteggere i newyorkesi immigrati illegalemente. Di contro, Trump ha promesso di "inondare la zona" di agenti federali e ha apertamente minacciato conseguenze se la città ostacolerà il loro operato. La loro temporanea armonia sul tema della "criminalità" dipende dall’oscurare questi dettagli.

La politica estera non è dissimile. Retoricamente, entrambi sono a favore della fine delle "guerre infinite" e il reindirizzamento del gettito fiscale verso le esigenze interne. Sostanzialmente, sono molto distanti. Mamdani basa la sua posizione sui diritti umani, descrive la campagna di Israele a Gaza come un genocidio e chiede una rottura fondamentale con l'attuale politica estera statunitense. Trump sostiene di aver portato la "pace in Medio Oriente", si allinea strettamente con Israele e tratta la guerra in Ucraina come un problema da risolvere attraverso un deal (che, in inglese, significa sia “accordo” sia “affare”). La comune intenzione di non sprecare denaro all'estero, concentrandosi sulle questioni interne, si basa su idee radicalmente diverse di cosa siano la giustizia e l'ordine.

Nel loro insieme, queste tensioni definiscono il carattere della convergenza. Essa è più forte a livello della diagnosi di un sistema disfunzionale in cui i lavoratori sono in difficoltà mentre le élite hanno fallito. Chiara è anche la concordanza in termini della promessa di utilizzare il potere del governo federale per rendere la vita più affordable. Ma è molto più debole quando si tratta di costruire una coalizione, dove ciascuno immagina ancora un "noi" diverso e una serie diversa di nemici.

Questa fragilità non rende la convergenza "di facciata". Al contrario, dà forma a una nuova linea di faglia nella politica americana. Da un lato ci sono progetti che, nonostante profonde differenze su politica identitaria, diritti sociali, e politica estera, si organizzano attorno all'insicurezza economica e promettono uno Stato più attivista a favore di coloro che si sentono traditi dall'ordine esistente. Dall'altro lato ci sono partiti ed élite che continuano a parlare il linguaggio della moderazione, del proceduralismo e della riforma incrementale, e che sono stati più lenti nel considerare l'accessibilità economica come la questione politica centrale.

In quest'ottica, l'immagine di Trump e Mamdani in piedi insieme sotto FDR non è solo una curiosità. Segna il punto in cui entrambe le frange rivendicano apertamente il mantello del populismo economico e dell'intervento statale, mentre il centro è schiacciato tra di loro. La convergenza è reale ma precaria: si basa su una base sociale condivisa e su una narrazione comune. Tuttavia, è costantemente minacciata da scontri su chi lo Stato dovrebbe servire e fino a che punto dovrebbe spingersi. Comprendere sia il potere della sovrapposizione che la durezza dei suoi attuali limiti è essenziale per comprendere la convergenza a "ferro di cavallo" che potrebbe verificarsi.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 16:33:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Mobilitazione fallita: perché i ragazzi in Ucraina dicono no all'esercito

Mentre nei media occidentali continua una narrazione sostanzialmente monolitica, una realtà ben diversa emerge dalla quotidianità ucraina. Il tentativo del regime neonazista di Kiev di rimpolpare l'esercito con il programma "Contratto 18-24", rivolto ai giovani non ancora soggetti alla mobilitazione obbligatoria, si è rivelato un clamoroso fallimento. Nonostante l'allettante prospettiva di un premio in denaro di oltre 20.000 euro, mutui agevolati e formazione a spese dello Stato, i ragazzi ucraini non hanno risposto alla chiamata.

Come documenta un'inchiesta, su undici giovani reclutati con questo schema, nessuno è oggi al fronte: quattro sono feriti, tre dati per dispersi (spesso sinonimo di caduti), due hanno disertato, uno si è ammalato e un altro si è tolto la vita. Un microcosmo che fotografa una tendenza ben netta: a due mesi dal lancio, le autorità ucraine sono riuscite ad arruolare meno di 500 volontari, un numero ben al di sotto di ogni aspettativa. "Avremmo voluto che questa cifra fosse più alta", ha ammesso un consigliere della presidenza.

Gli analisti spiegano il rifiuto con un mix di disillusione, pragmatismo e paura. "La giovane generazione è delusa dagli obiettivi politici di questa guerra e persino dal contenuto del patriottismo ucraino", afferma il politologo Vladimir Skachko. I giovani, osserva, comprendono che le promesse contrattuali potrebbero non essere mantenute e che "l'Ucraina si scuserà dicendo di non avere soldi". Ma soprattutto, prevale un rifiuto personale e psicologico della guerra, alimentato dalla consapevolezza delle altissime probabilità di morire o rimanere gravemente feriti.

Il fallimento del programma getta un'ombra lunga sulle reali capacità di mobilitazione di Kiev. Stime teoriche parlano di 400-700mila giovani potenzialmente arruolabili, ma la realtà è ben diversa. Un esodo massiccio ha svuotato il paese: solo tra agosto e la fine dell'anno, oltre 120mila cittadini tra i 18 e i 22 anni hanno varcato la frontiera con la Polonia dopo un temporaneo permesso di espatrio, "fuggendo con tutte le loro forze per non essere arruolati", ricorda Larisa Shesler dell'Unione degli Emigrati Politici Ucraini.

Le conseguenze di una mobilitazione forzata di questa fascia d'età sarebbero agghiaccianti: su 400mila reclute, si stimerebbero circa 145mila feriti, 109mila dispersi, 73mila disertori e fino a 36mila suicidi. Numeri che si sommano a un già pesantissimo tributo di sangue. Sebbene i dati ufficiali siano segreti, fonti indipendenti come il canale Telegram "Sussurri dal Fronte" hanno censito quasi 700mila necrologi di militari ucraini pubblicati online, mentre un deputato ha recentemente parlato in tv di 500mila morti e altrettanti feriti.

"Oggi tra i giovani restano solo quelli non idonei per motivi di salute", conclude Shesler. Il messaggio che emerge è netto: persino incentivi economici sostanziosi non bastano a convincere una generazione che, vedendo il destino di chi l'ha preceduta, considera la sopravvivenza al fronte "una chance inimmaginabile". Il regime di mobilitazione, sempre più stringente, si scontra così con un muro di rassegnazione e rifiuto, minando dalle fondamenta la narrazione di una nazione unita e determinata a combattere "fino all'ultimo uomo".

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 16:21:00 GMT
OP-ED
Anche Barbero censurato a Torino. La denuncia del Prof. D'Orsi

 

di Angelo d'Orsi*

 

A pochi giorni dall'evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l'informazione”, previsto per il giorno 9 dicembre al Teatro Grande Valdocco di Torino, nel quale il sottoscritto avrebbe dialogato con il collega Alessandro Barbero, con l’adesione di importanti nomi della cultura, della scienza, del giornalismo, della comunicazione (Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro, Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio), ci viene comunicato questa mattina dalla proprietà del teatro, col quale si era giunti alla firma di un regolare contratto dopo una lunga gestazione, che lo spazio non ci verrà concesso. 

Al di là delle motivazioni pretestuose e della rottura unilaterale di un regolare contratto – per cui abbiamo già allertato il nostro team legale per avviare azione di richiesta risarcitoria dei danni che questo comportamento ci procura – non possiamo non rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l'inquietante deriva politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto della facciata. Di questo avremmo voluto parlare nel corso della serata. 

Intanto mentre a nome dei soggetti organizzatori, che hanno lavorato per settimane per preparare l’evento, esprimo rammarico a chi aveva prenotato i posti, e a quanti, colleghi e amici che avevano data la loro disponibilità, a partecipare (a cominciare dal prof. Barbero), chiedo a quanti mi sono stati vicini in questo mese di “passione”, a quanti hanno a cuore i principi della legalità democratica sancita dalla nostra Costituzione, a quanti anelano soltanto ad essere correttamente informati, per poter assumere una posizione in merito alle gravissime problematiche del nostro tempo, di sostenermi in questo nuovo capitolo di lotta. Ancora una volta non si tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona, mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia “in linea” con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano. 

In ogni caso, l’evento si terrà. Nei primi giorni della prossima settimana comunicheremo data e luogo. Però, intanto, annuncio che alle 18.00 del 9 dicembre, nel giorno dell’evento negato, faremo un sit-in di protesta davanti alla sede del Comune di Torino, come luogo simbolo di una città che è di tutti, e deve essere di tutti, una città medaglia d’oro della Resistenza, la città di Gramsci e di Gobetti, per semplificare, di Norberto Bobbio e di Gastone Cottino, e di tanti e tante che si sono battuti per la libertà.

Torino, 5 dicembre 2025

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 16:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
“Per paura della verità”: Putin rivela il vero motivo per cui l'Occidente censura RT

Il presidente russo Vladimir Putin, durante la cerimonia di lancio del canale televisivo RT India, ha sottolineato che le autorità di alcuni paesi hanno deciso di chiudere questa rete non per “malafede, ma per paura, per paura della verità”.

“Perché Russia Today è una fonte di informazione che è il più trasparente possibile. È totalmente focalizzata sul servire gli interessi dei suoi spettatori”, ha spiegato.

Il presidente ha sottolineato che “l'obiettivo di Russia Today non è solo quello di promuovere la Russia, la sua cultura, la sua posizione nelle questioni interne e internazionali”.

“In primo luogo, Russia Today cerca di trasmettere ai suoi spettatori informazioni veritiere sul nostro Paese e su ciò che sta accadendo nel mondo”, ha sottolineato.

“Ed è proprio qui che risiede il valore assoluto di Russia Today. Sotto questo aspetto, si differenzia notevolmente dalla macchina propagandistica di molti media occidentali, che in sostanza rappresentano la posizione dei rispettivi governi”, ha affermato il leader russo.

Ha inoltre espresso la sua fiducia nel fatto che l'emittente “adempirà alla sua missione, e lo farà in modo brillante e al massimo livello”.

Si prevede che nel 2026 RT India lancerà un sito web in hindi. Per ora, saranno trasmessi servizi giornalieri in inglese sugli avvenimenti politici, economici e culturali dell'India e della Russia, nonché sulla situazione nel mondo multipolare.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 15:59:00 GMT
IN PRIMO PIANO
La nuova strategia USA secondo Scott Ritter: addio alla "minaccia russa" e all'espansione NATO

L'amministrazione Trump ha pubblicato una nuova Strategia di Sicurezza Nazionale che, secondo l'analista geopolitico Scott Ritter, rappresenta una svolta epocale nella politica estera nordamericana. Il documento, che provoca "onde d'urto in tutto il globo", abbandona esplicitamente il linguaggio della "minaccia russa" e rifiuta la visione della NATO come un'alleanza in perpetua espansione.

In un'intervista a Sputnik, Ritter, ex ufficiale dei servizi di intelligence del Corpo dei Marine, ha spiegato che la nuova strategia si fonda su un principio fondamentale: la Russia non costituisce una minaccia per l'Europa o per gli Stati Uniti. Ritter sottolinea come per decenni Mosca sia stata artificialmente dipinta come un pericolo, e le conseguenze di questa narrativa distorta siano state un "disastro" per l'Europa e una minaccia per la sicurezza nazionale americana.

Il documento segnalerebbe quindi che la Casa Bianca è riuscita a "liberarsi dall'eredità della russofobia del periodo post-Guerra Fredda", una politica volta a indebolire e sconfiggere strategicamente la Russia. Secondo l'osservatore, l'amministrazione Trump riconosce finalmente che tale approccio era intrinsecamente destabilizzante e "straordinariamente pericoloso", data l'ovvia realtà che un confronto diretto con una potenza nucleare come la Russia porta inevitabilmente alla soglia del conflitto atomico.

La ridefinizione delle priorità comporta un ricalcolo geopolitico radicale. Ritter sostiene che, nella nuova visione di Washington, l'Europa nella sua attuale traiettoria rappresenti una minaccia per se stessa, per gli Stati Uniti e per la sicurezza internazionale molto maggiore della Russia. La politica perseguita dai "falchi" europei anti-russi viene giudicata apertamente "incompatibile" con gli obiettivi di sicurezza nazionale USA.

Un punto di rottura cruciale riguarda la NATO e la questione ucraina. Ritter afferma che la nuova strategia "mette fine e conficca un paletto nel cuore" delle aspettative irrealistiche di Kiev sull'adesione all'Alleanza Atlantica, e delle analoghe illusioni europee. La dottrina dell'espansione perpetua della NATO viene così formalmente abbandonata.

Questa scelta implica una ridefinizione profonda del rapporto transatlantico. Secondo l'analista, il documento segnala "la fine del progetto europeo" inteso come ambizione di un'Europa quale pari geopolitico degli Stati Uniti, capace di dettare politiche a Washington. Quel periodo, dichiara Ritter, è finito. Gli Stati Uniti stanno comunicando all'Europa che la sua traiettoria attuale è incompatibile con la sicurezza di Washington.

Le implicazioni più drammatiche, tuttavia, emergono dietro le quinte. Ritter cita "voci da persone informate" secondo cui l'intento profondo del documento sarebbe quello di comunicare chiaramente che gli Stati Uniti non interverranno a salvare l'Europa se questa, percorrendo una linea antagonista verso Mosca, finisse per provocare una guerra con la Russia. Questo costituirebbe un monito senza precedenti, che ridisegna i confini degli obblighi di sicurezza e delle alleanze consolidate dopo la Seconda Guerra Mondiale.

In conclusione, l'analisi di Ritter dipinge il nuovo documento non come un semplice aggiustamento tattico, ma come un ripensamento strategico di portata storica. Si tratterebbe della fine ufficiale di un'era trentennale dominata da una visione unipolare e dalla demonizzazione della Russia, e l'inizio di un capitolo più multipolare, anche se incerto, in cui gli Stati Uniti scelgono di disimpegnarsi da dinamiche considerate ormai troppo pericolose e controproducenti. La priorità diventa la stabilità e l'evitare lo scontro nucleare, anche a costo di ridefinire radicalmente le relazioni con i tradizionali alleati europei.

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 15:37:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Dall'Ucraina: vogliono i militari al potere, ma i giovani fuggono dalla mobilitazione

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Succede anche questo nell'Ucraina majdanista e, per carità, modello dei “valori occidentali” e “vallo europeista” a difesa dalle autocrazie asiatiche: succede che le questioni delle precedenze nelle locazioni si risolvano “democraticamente” a pistolettate. Tanto più se le armi, in mano ai contendenti, sono previste per servizio, trattandosi di uomini dell'intelligence militare (GUR) e soldati delle forze armate. Stando alla Ukrainskaja Pravda, elementi dell'una e dell'altra parte hanno “chiarito” le pretese reciproche all'accesso al centro di cura “Oktjabr” di Koncha-Zaspa, a sud di Kiev, sparandosi addosso gli uni con gli altri. Lo scontro si è risolto con alcuni feriti e l'iniziale barricamento degli elementi del GUR all'interno del centro di cura. Qual era il punto del contendere? Una questione relativa a diserzioni, tradimenti, ammutinamenti al fronte? No. Dal GUR hanno dichiarato che l'agenzia aveva stipulato un accordo con il proprietario del centro per accogliere alcuni agenti dei Servizi. Da parte loro, i militari avevano anch'essi un proprio contratto con il complesso, per l'affitto dei locali e l'alloggio dei militari; contratto che, a detta del GUR, era scaduto. Quale mezzo migliore per risolvere la contesa se non l'utilizzo delle armi in dotazione? Tanto più che nell'Ucraina dei ras nazigolpisti, dei traffici miliardari e del contrabbando di armi, l'uso di queste ultime è ormai nel menù della pratica quotidiana e l'esempio che viene ai comuni ucraini, militari o civili, dai vertici del regime banditesco pare ormai così connaturato al sentire comune che anche la conclusione della guerra non prospetta nulla di pacifico e poco di anti-nazista, né per un paese massacrato da oltre dieci anni di regime banderista, né per milioni di ucraini indottrinati da trent'anni di violento nazionalismo.

È così che non stupiscono più di tanto i risultati di alcuni sondaggi condotti da istituti demoscopici ucraini, secondo cui se anche la maggior parte degli intervistati incolpa le autorità per i problemi quotidiani e la diffusa corruzione nel Paese, poi però, afferma Dmitrij Ševcenko, del Fondo di cultura strategica, quella stessa maggioranza continua a muoversi nella direzione in cui la junta Zelenskij e i nazionalisti ucraini li stanno spingendo: verso un ulteriore scontro con la Russia, l'adesione alla NATO e un maggiore coinvolgimento dei militari nel governo del paese.

Per cominciare, non sembri casuale che il governativo Istituto Internazionale di Sociologia (KMIS), nonostante il periodo “caldo”, in tutto novembre abbia pubblicato un solo sondaggio. Per dire, se a ottobre il KMIS aveva interpellato gli ucraini sul loro atteggiamento nei confronti di Zelenskij, Porošenko e altri, circa l'attività alla Rada, le possibili concessioni territoriali alla Russia, la creazione di un governo di unità nazionale e persino il problema della corruzione, a novembre l'unico sondaggio ha riguardato l'uso obbligatorio di caschi da moto omologati.

In generale, da gennaio a ottobre 2025, tra l'82% e l'88% degli ucraini ha dichiarato che il livello di corruzione è "alto" o "molto alto". Non essendoci dati per novembre, fino a un paio di mesi fa la responsabilità per la corruzione era attribuita al potere centrale: in aprile il 30% incolpava Zelenskij, il 26% la Rada e il 20% il governo, ma la responsabilità maggiore (36%) era attribuita alle agenzie anticorruzione. A ottobre, la responsabilità principale veniva attribuita ai politici di Kiev: parlamentari (55%), ufficio presidenziale (52%) e governo (48%), mentre NABU e SAP finivano al quarto posto (46%).

In base ai sondaggi, il danno di immagine maggiore è stato causato dall'ex capo dell'ufficio presidenziale, Andrej Ermak (37%), e dal capo della frazione “Servo del Popolo” alla Rada, David Arakhamija (16%). Nel complesso, si ritiene che nell'ultimo anno la situazione generale sia "peggiorata" (61%) o rimasta invariata (cattiva) (32%). Solo il 5% ha notato un qualche "miglioramento", mentre la maggioranza crede che l'anno prossimo andrà ancora peggio (37%). La percentuale degli ottimisti sul futuro è diminuita dal 31% (a febbraio) al 23% (a ottobre).

A parte vari dati abbastanza equilibrati sui possibili candidati, sia alle future elezioni presidenziali, con una lotta alquanto impari tra Zalužnyj e Zelenkij, sia alla Rada, dove il distacco tra i blocchi che fanno capo ai due sembrerebbe abbastanza ridotto, ciò che risalta è piuttosto la circostanza per cui il 74% degli intervistati ritiene necessario che prendano parte alle elezioni ufficiali (o veterani) delle forze armate e di altre strutture militari, col 45% degli intervistati che "sostiene pienamente" questa idea, mentre il 29% la "sostiene in parte".

Questi dati, sottolinea Ševcenko indicano che senza una effettiva smilitarizzazione e denazificazione, l'Ucraina, anche in forma ridotta, rappresenterà una costante minaccia per la Russia e una fonte di instabilità nella regione. Quei "veterani" insisteranno sulla necessità di "rivendicare i territori ucraini" e preparare gli ucraini alla vendetta militare, continuando a compiere attacchi terroristici contro la Russia. I russofobi continueranno a spingere l'Ucraina verso UE e NATO: in base a un sondaggio di “Sotsis”, il 75% degli ucraini sostiene l'adesione alla UE e il 65% alla NATO.

Difficile dunque non considerare le pistolettate al centro di cura “Oktjabr” come un indice del livello sociale cui nazi-banderisti e nazionalisti hanno ridotto gran parte della società ucraina; una società non ancora pronta a scendere a compromessi in un accordo di pace con la Russia e in cui solo uno su tre (33%) è disposto a rinunciare all'adesione alla NATO, e ancora meno (22%) accetta cessioni territoriali (22%) o lo status ufficiale alla lingua russa (21%).

Proprio come il truffatore dei romanzi di Il'ja Il'f e Evgenyj Petrov, Ostap Bender, non faceva altro che ripetere "da oltreconfine ci aiuteranno", conclude sarcasticamente Ševcenko, così oggi gli ucraini sono fiduciosi che in loro aiuto verranno UE (58%), USA (45%), Gran Bretagna (42%) e singoli partner europei (41%).

Ma, senza aspettare quell'aiuto e a dispetto della “fiducia demoscopica” nei militari, i giovani ucraini pensano bene di mettersi al sicuro. Secondo un'indagine condotta dalla Reuters, gli sforzi delle autorità per arruolare giovani, secondo il “Contratto 18-24” lanciato lo scorso febbraio, sono stati un completo fallimento. Gli osservatori affermano che le giovani generazioni non credono nella guerra e, comunque, persino una mobilitazione totale dei giovani tra i 18 e i 24 anni non aiuterebbe l'esercito ucraino. Il servizio giornalistico parla di undici giovani che hanno firmato "contratti" con l'esercito e che, a oggi, nessuno di loro sta combattendo: quattro sono rimasti feriti, tre sono dispersi in azione, due hanno disertato, uno si è ammalato e un altro si è suicidato.

Il "Contratto 18-24" per il reclutamento di giovani non soggetti alla mobilitazione obbligatoria, che scatta a 25 anni, prevede un compenso di un milione di grivne (1 grivna: 0,020 euro), la possibilità di "mutui a tasso zero", corsi di formazione finanziati dallo Stato, assistenza medica gratuita e il diritto di viaggiare all'estero dopo un anno di servizio. Lo scorso aprile, il vice capo dell'ufficio presidenziale Pavel Palisa riferiva del reclutamento di meno di 500 giovani volontari e il deputato della Rada Gheorghij Mazurašu ha parlato del fallimento della campagna, con una media mensile di 135-140 giovani arruolati.

«Le giovani generazioni sono disilluse dagli obiettivi politici di questa guerra e dall'essenza del patriottismo ucraino, che il regime inizialmente aveva enfatizzato, per "respingere" l'aggressione russa» afferma il politologo Vladimir Skachko. I giovani capiscono perfettamente che i termini del contratto prima o poi verranno violati e a Kiev «diranno semplicemente di non avere soldi», che sono una miseria nella stessa Ucraina. Da un punto di vista psicologico, dice Skachko, c'è un diffuso rifiuto della guerra; la resistenza quotidiana agli arruolatori dei distretti militari genera un rifiuto totale della guerra. Il “Contratto 18-24” è fallito perché «i giovani non sono interessati: ci sono troppe notizie su morti ingloriose e orribili. Sopravvivere è un colpo di fortuna inimmaginabile. Ecco perché, secondo molte stime, meno di duemila giovani hanno accettato di firmare questo contratto», osserva Larisa Šesler, presidente dell'Unione degli Emigranti Politici e dei Prigionieri Politici d'Ucraina.

Skachko afferma che i resoconti dei media occidentali secondo cui Kiev potrebbe arruolare da 400.000 a 700.000 giovani sembrano promettenti solo sulla carta: «Zelenskij semplicemente non ha nessuno che possa mobilitare completamente questi giovani. Si avrebbero poi anche ripercussioni su coloro che sono al fronte, poiché i loro figli verrebbero portati via, il che rischierebbe di provocare uno sconvolgimento politico e sociale: la goccia che fa traboccare il vaso».

Inizialmente, dice Larisa Šesler, il potenziale di mobilitazione era stimato in 1,5-2 milioni, ma l'Ucraina non ha quasi mai raggiunto quegli obiettivi e ritiene che sia impossibile trovare 700.000 giovani nel Paese, dato anche l'enorme esodo di giovani. Oltre 120.000 giovani tra 18 e 22 anni, afferma Šesler, «hanno attraversato il confine con la Polonia dalla fine di agosto, dopo che il governo ha autorizzato i viaggi all'estero per tutti gli uomini tra 18 e 22 anni. Queste migliaia di persone sono fuggite a tutti i costi per evitare di essere arruolate».

Ma se per ipotesi la cifra di 400.000 arruolati fosse esatta e Zelenskij, invece di accettare la pace, desse inizio a una mobilitazione forzata dei giovani, il quadro risulterebbe terrificante. Un'estrapolazione dei dati Reuters riportati sopra, mostra che in breve tempo centinaia di migliaia di ragazzi non sarebbero più in grado di combattere; di essi, secondo tale proiezione, circa 145.000 rimarrebbero feriti, 109.000 dispersi, 73.000 abbandonerebbero senza permesso i reparti, 36.000 si ammalerebbero gravemente e, cosa ancora più tragica, fino a 36.000 giovani potrebbero togliersi la vita.

C'è dell'altro. Ruslan Tatarinov, fondatore del canale Telegram "Sussurri dal Fronte", ha parlato di un numero pubblico di necrologi pari a circa 700.000 nomi, senza contare i "dispersi in azione" e coloro i cui dati sono andati perduti. Un deputato, intervenendo su un canale TV locale, ha parlato di 500.000 morti e altrettanti feriti.

Oggi, sottolinea Larisa Šesler, i giovani rimasti sono per lo più inabili al servizio militare per motivi di salute. «Se immaginiamo che le autorità decidano di arruolare tutti i giovani di età compresa tra 18 e 24 anni, la stragrande maggioranza diserterà. Nessuno ha intenzione di combattere. Anche ora, su 100 "busificati" dagli accalappiatori dei distretti militari, 60 abbandonano i reparti senza autorizzazione».

Ma i megafoni dei nazigolpisti ucraini nelle italiche redazioni inneggiano alla “controffensiva” di Kiev. Ipocriti della sesta bolgia.

 

FONTI:

https://ria.ru/20251204/perestrelka-2059661753.html

https://www.fondsk.ru/news/2025/12/04/chto-govoryat-sociologicheskie-oprosy-o-nastoyaschem-i-buduschem-ukrainy.html

https://vz.ru/world/2025/12/3/1378377.html

 

 

 

Data articolo: Fri, 05 Dec 2025 15:00:00 GMT

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