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La nuova proposta di pace USA, presentata da Washington come “compromesso realistico”, è stata immediatamente respinta da Vladimir Zelensky. Il motivo è sempre lo stesso: il Donbass. Nonostante la disfatta militare sul campo e l’avanzata russa in più settori, il regime di Kiev continua a rifiutare qualsiasi soluzione che implichi la rinuncia a territori che non controlla più. La bozza USA, che prevedeva il ritiro delle forze ucraine dalle zone residue e la creazione di una “zona economica libera” neutrale, è stata liquidata dal leader ucraino come ingiusta, dimenticando che la “giustizia” non si misura a colpi di propaganda, ma sui rapporti di forza reali. Il contro-piano inviato da Kiev e dalle capitali europee a Washington, ancora una volta senza coinvolgere la Russia, mostra chiaramente che l’Occidente non cerca la pace, ma una tregua utile a prolungare la guerra, fornire al regime di Kiev nuove armi e guadagnare tempo.
Berlino e Londra continuano a recitare il ruolo di paladini della “sovranità ucraina”, ma la loro strategia è palese: combattere fino all’ultimo ucraino. Zelensky, con mandato scaduto e sempre più isolato, tenta ora la carta del referendum: una mossa che non ha nulla di democratico, ma che mira a bloccare ogni dialogo. Perfino alcuni leader europei - come il ministro tedesco Wadephul- ammettono che Kiev dovrà accettare “concessioni dolorose”. Ma il blocco di potere che governa l’Ucraina, penetrato per anni da milizie ultranazionaliste e gruppi apertamente neonazisti, non ha alcun interesse alla fine della guerra: perdere il Donbass significherebbe perdere il pilastro ideologico su cui ha costruito la propria narrativa interna. Mosca, dal canto suo, parla chiaro. Il consigliere presidenziale Ushakov ha ribadito che il Donbass è territorio russo e tornerà sotto pieno controllo di Mosca, negoziando o combattendo.
Dmitri Medvedev ha colto l’essenza del momento: il referendum proposto da Kiev è un diversivo che paralizza i negoziati, un espediente per mantenere la linea oltranzista e continuare a ricevere fondi e armi dall’Occidente. Intanto sul campo la realtà procede in direzione opposta alla retorica occidentale. L’esercito russo avanza con costanza: Seversk è caduta, aprendo la via verso Kramatorsk e Slaviansk, mentre Pokrovsk - altro luogo cruciale - è ormai prossima al collasso. Kiev risponde con attacchi disperati e lanci massicci di droni, mentre l’infrastruttura energetica del Paese subisce colpi sistematici. La diplomazia occidentale si muove in un equilibrio schizofrenico.
Trump non ha nascosto il suo fastidio, definendo Zelensky uno dei principali ostacoli alla pace. Dietro le quinte, però, sono i governi europei a frenare: una pace che riconosca le annessioni del 2022 equivarrebbe a certificare il fallimento di dieci anni di politiche di escalation. In definitiva, la guerra continua perché Kiev non può accettare la pace e l’Europa non vuole accettarla. L’unico attore che oggi possiede una posizione coerente è Mosca: cessate il fuoco in cambio del riconoscimento delle realtà sul terreno. Fino a quando Washington e i governi europei non rinunceranno alla fantasia di usare l’Ucraina come ariete geopolitico contro la Russia, il conflitto rimarrà ostaggio dell’ideologia, dei nazionalisti ucraini e dei guerrafondai che, comodamente lontani dal fronte, continuano a combattere “per la democrazia” sacrificando la vita degli altri.
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La liberazione di Seversk da parte delle Forze Armate russe rappresenta una delle operazioni più significative delle ultime settimane nel conflitto del Donbass. Dopo durissimi combattimenti e una complessa manovra tattica, la città situata in un nodo strategico fra Lisichansk, Slaviansk e Artëmovsk, è passata sotto controllo russo, aprendo nuovi scenari sia militari che politici. Seversk, con poco più di 10.000 abitanti prima della guerra, era stata trasformata dal regime neonazista di Kiev in un hub logistico di primo livello: truppe d’élite ucraine, mercenari occidentali, depositi di munizioni e un sistema di fortificazioni in cemento armato ne facevano un bastione chiave della difesa ucraina nel settore nord-occidentale del Donbass. Da qui partivano attacchi verso le posizioni russe e venivano coperti i collegamenti verso Liman, Kramatorsk e Slaviansk, i principali centri dell’area controllata da Kiev.
L’operazione russa si è basata su una combinazione di accerchiamento, interdizione logistica e assalto urbano progressivo. Per evitare un attacco frontale troppo pericoloso, il comando ha scelto di bloccare la città su tre lati, tagliare le vie di rifornimento e avanzare con una manovra a tenaglia: gruppi d’assalto coordinati hanno preso il controllo della linea ferroviaria e dei cosiddetti “portoni del sud”, mentre altre unità eseguivano una penetrazione profonda per chiudere i corridoi occidentali. Il risultato è stata la ritirata disordinata delle forze ucraine e la caduta completa della città. Dal terreno è arrivata conferma del successo: secondo il tenente Naran Ochirgoriayev, 28 gruppi d’assalto hanno liberato oltre 300 edifici tra residenziali e industriali, affrontando la resistenza più dura in una fabbrica e nella stazione ferroviaria. Le perdite russe, secondo il comandante, sono state minime grazie a tattiche “audaci e non convenzionali”.
A poche ore dalla liberazione, i soldati russi hanno iniziato a fornire aiuti umanitari ai civili rimasti: distribuzione di cibo, acqua, medicinali ed evacuazioni volontarie verso aree più sicure. Parallelamente, i genieri sono impegnati nelle operazioni di sminamento. La presa di Seversk non è un episodio isolato. Putin ha parlato di “buona dinamica” e di piena iniziativa strategica nelle regioni di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporozhie. Nel solo ultimo mese, le forze russe hanno conquistato decine di insediamenti, compresi snodi logistici cruciali come Kupiansk e Krasnoarmeisk (Pokrovsk). Ora l’asse di avanzata punta chiaramente verso Slaviansk e Kramatorsk, cardini della presenza militare ucraina nel Donbass.
La battaglia di Seversk, dunque, non è solo la conquista di una città: è l’indicatore di un equilibrio che si sta spostando con costanza, e potrebbe preludere alle prossime mosse decisive sul fronte settentrionale del Donbass.
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La crisi tra Stati Uniti e Venezuela ha subito un’accelerazione senza precedenti dopo il sequestro (leggi furto), da parte delle forze armate statunitensi, di un petroliera venezuelana nelle acque caraibiche. Caracas definisce l’episodio un atto di “pirateria internazionale” e un attacco diretto alla propria sovranità energetica, denunciando che Washington utilizza la narrativa della lotta al narcotraffico come semplice copertura per appropriarsi del petrolio venezuelano. Il presidente Nicolás Maduro ha accusato gli Stati Uniti di aver portato a termine un’operazione militare contro una nave civile, senza alcuna base giuridica e in violazione del diritto internazionale. Il governo venezuelano denuncia che l’episodio conferma la reale finalità dell’aggressione statunitense: non la difesa dei diritti umani né la lotta alle droghe, ma il controllo delle immense risorse energetiche del paese.
Un’accusa corroborata dal fatto che la stessa ONU e la DEA statunitense indicano che oltre l’80% del narcotraffico verso gli USA utilizza la rotta del Pacifico, non quella caraibica. La condanna non arriva solo dai tradizionali alleati di Caracas. Cina e Russia hanno denunciato l’operazione come una palese violazione delle regole del commercio internazionale e della libertà di navigazione. Pechino ha respinto come illegittime le sanzioni unilaterali USA contro petroliere anche di bandiera hongkonghese, ricordando che solo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può imporre misure restrittive. Mosca ha richiesto pubblicamente chiarimenti sulle motivazioni e sulle prove che avrebbero giustificato l’abbordaggio. Anche Messico, Brasile e Colombia hanno espresso preoccupazione per l'escalation militare statunitense nel Caribe, dove Washington mantiene da agosto un imponente dispositivo navale, formalmente inquadrato nella lotta al narcotraffico. Secondo fonti regionali, tuttavia, l’attività si è tradotta in bombardamenti contro imbarcazioni sospette, con decine di morti e senza evidenze che si trattasse realmente di traffici illeciti.
Parallelamente, Caracas ha presentato una denuncia formale all’Organizzazione Marittima Internazionale, sottolineando che l’attacco contro una petroliera impegnata nel trasporto di greggio costituisce una minaccia diretta alla libertà di navigazione e mira a sabotare il commercio energetico venezuelano. Il governo parla ormai apertamente di “strategia di cambio di regime” mirata a destabilizzare il paese per appropriarsi dei suoi giacimenti di petrolio e gas. Mentre cresce il sostegno diplomatico a favore di Caracas, Washington continua a minimizzare la portata dell’evento.
Tuttavia, l’episodio segna un precedente grave: per la prima volta una potenza occidentale ricorre apertamente alla forza militare per sequestrare risorse energetiche altrui, inaugurando quella che diversi osservatori definiscono una nuova fase imperialista nel Mar dei Caraibi. Il messaggio venezuelano, oggi rilanciato da Mosca, Pechino e da una parte crescente dell’America Latina, è chiaro: non si tratta di narcotraffico né di sicurezza regionale, ma di una disputa globale sulle risorse strategiche in un mondo sempre più multipolare.
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di Fabrizio Verde
Il Consiglio dell'Unione Europea ha compiuto oggi un salto nel buio, trasformando un'azione di coercizione economica in un vero e proprio atto di esproprio perpetuo. Con la scusa di colpire il Cremlino, i governi europei, guidati da una Commissione bellicista, hanno deciso di congelare per sempre 210 miliardi di euro di riserve russe. Non è più una sanzione, è la nazionalizzazione di ricchezza altrui. Una linea rossa del diritto internazionale e della sovranità statale è stata oltrepassata, in un clima di hybris collettiva che ignora i gravi pericoli di questa escalation.
Bruxelles parla di "segnale chiaro" a Mosca. In realtà, lancia un messaggio palese a tutto il mondo: i beni detenuti in Europa non sono più al sicuro. Se domani le relazioni diplomatiche si inaspriscono, qualsiasi paese, con qualsiasi governo, può vedersi privatizzato il proprio patrimonio sovrano per decisione politica di una maggioranza. La fiducia nell'euro e nel sistema finanziario europeo, già traballante, riceve un colpo mortale. Quale paese emergente, quale potenza asiatica o del Golfo, si fiderà ancora di depositare le proprie riserve in un sistema che le sequestra a comando?
La retorica della "giusta causa ucraina" serve a coprire l'abisso giuridico ed etico di questa decisione. Si tratta di un furto. Punto. Lo dice non solo Vladimir Putin, ma anche il buon senso giuridico: confiscare beni di uno Stato sovrano senza una sentenza di un tribunale internazionale competente è arbitrario e pericoloso. L'Europa, che si vanta di essere culla del diritto romano e dello stato di diritto, si trasforma nell'esattore armato di una giustizia sommaria. I timori del Belgio, che teme ritorsioni legali, sono solo l'assaggio delle tempeste che verranno.
Mosca ha già avvertito: prepara contromisure. E non si tratta di semplici ritorsioni diplomatiche. La Russia ha gli strumenti per colpire gli interessi economici europei ancora presenti nel suo territorio, per destabilizzare mercati già fragili, per stringere alleanze con chi, da Pechino a Ryad, guarda con orrore a questa deriva predatoria dell'Occidente. L'Europa si sta giocando gli ultimi brandelli della sua residua autonomia strategica, legandosi ancor più al carro di chi da tempo spinge per questa via estrema.
E per che cosa? Per finanziare un conflitto senza fine? I 140 miliardi del "prestito di riparazione" di cui blatera la von der Leyen sono una goccia nel deserto dei bisogni e delle diffuse ruberie ucraine. Servono a coprire le spese militari, ad alimentare la macchina da guerra e ulteriore crruzione nel regime di Kiev. L'Europa, invece di lavorare per una soluzione diplomatica, sceglie di diventare parte finanziaria attiva del conflitto, scavandosi la fossa della propria sicurezza economica futura.
Questa decisione non indebolisce Putin. Conferma invece la visione di un Occidente rapace e senza principi, cementa il sostegno interno della Russia e giustifica qualsiasi rappresaglia. L'unica cosa che indebolisce, irrimediabilmente, è il prestigio, l'affidabilità e la stabilità del progetto europeo (quanto ne rimaneva). È l'atto di un'Europa guerrafondaia, incosciente e moralmente cieca, che per un vantaggio propagandistico immediato sta ipotecando il futuro dei suoi cittadini, esponendoli a rischi finanziari e geopolitici di portata incalcolabile. Un autogol storico.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 19:12:00 GMT

C’è stato un tempo in cui la crisi greca sanguinava come una ferita aperta, visibile a occhio nudo.
Le immagini delle piazze in rivolta, gli anziani in lacrime fuori dalle banche, le borse in picchiata, le dichiarazioni della politica, i titoli dei giornali, i commenti nei talk show. Un'intera società sotto attacco, chiamata a rispondere. Una reazione incendiaria impossibile da nascondere.
Certo, era anche tutto pesantemente inquinato da una narrazione farsesca, orientata a mistificare la realtà per assolvere cause e mandanti. Ma – quantomeno – la crisi economica più devastante della giovane storia dell'Unione Europea, era qualcosa di tangibile, concreto. Qualcosa che esisteva.
Oggi quella stagione è passata. E la crisi greca – ufficialmente finita – ha lasciato il palcoscenico della storia contemporanea nascondendosi dietro le quinte della vita quotidiana. Diventando l'equivalente del gatto di Schrödinger: viva e morta contemporaneamente. Un fenomeno che esiste soltanto se lo osservi. Non devasta più con l'evidenza della sciagura collettiva, ma lavora in silenzio come un nido di termiti. Si insinua nei muri, nelle case, fino a corroderne le fondamenta dall'interno.
Una nuova crisi invisibile che non è più delle banche e dei mercati, ma che ha colonizzato le città, i quartieri e i suoi abitanti, facendosi austerità urbana.
Il punto di osservazione è Atene, città che ho attraversato molte volte, non da turista ma da testimone. Fino a creare con essa un legame speciale. Fino a sentirmi quasi come a casa. Città in cui, negli anni, ho costruito legami autentici e amicizie sincere: relazioni intese, discorsi seri, chiacchierate spensierate, serate indimenticabili, incontri casuali, passeggiate notturne in solitaria. Città che ho visto evolversi, sprofondare e – per certi versi – rinascere sotto nuove vesti. E mentre la osservavo cambiare si trasformava, paradossalmente, in qualcosa che già conoscevo: un fenomeno a cui assistevo in diretta anche altrove, in Italia.
La tesi di fondo di questo lavoro nasce da tale constatazione: non viviamo più nel tempo della crisi transitoria, destinata a concludersi con l'avvento di un nuovo ciclo economico favorevole. Ma in un'epoca in cui la crisi si è fatta sistema, in cui le profonde ferite che produce non sono emergenze ma nuova normalità. Una fase storica che vede imporsi un nuovo modello economico e di sviluppo, in cui il turismo e la precarietà sembrano operare come una sorta di welfare capovolto. Un dispositivo che ho definito welfare surrogato e, nella terza parte del libro, provo a delinearne il funzionamento.
Un cambiamento radicale che svuota i quartieri, disgrega le comunità, recide i legami personali, fagocita la memoria. E trasforma il diritto a vivere la città e le relazioni umane in pianta stabile, in un privilegio per pochi.
Per tale ragione ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare un passaggio di fase che non è un fenomeno esclusivamente greco, per nominare ciò che accade e non abituarmi al silenzio. E l'ho fatto per il tramite di vicende solo apparentemente scollegate: pignoramenti, aste, sfratti, turistificazione, rigenerazione urbana. Tutte parti di un unico meccanismo, intrinseco al modello neoliberista. Non casi esemplari, non eccezioni, ma epifanie. Luoghi e vite in cui la crisi si manifesta, rendendosi visibile proprio mentre cerca di nascondersi. Il lettore non ceda quindi all'apparenza, perché questo non è semplicemente un libro sulla Grecia. È un libro sull'Europa del Sud.
I luoghi che ho raccontato sono frammenti di Atene: case, strade, quartieri e persone in carne e ossa. Sono realtà e metafora al tempo stesso. Lo specchio in cui si riflette il destino di tante città mediterranee. L'esito ultimo di un processo che – a velocità variabili – è già in moto anche altrove: a Napoli, Siviglia, Marsiglia. Come anche a Bari, Catania, Palermo.
Per testimoniare questa mutazione profonda e rendere al meglio ciò che ho osservato e raccolto sul campo (indagine diretta, conversazioni informali, interviste), ho sentito il bisogno di cambiare stile e registro. Di una scrittura in grado di descrivere e al tempo stesso narrare, immergersi nel dettaglio, evocare immagini e atmosfere. Di restituire le voci autentiche di chi è definitivamente sparito dai radar della denuncia sociale, condannato a sopravvivere senza far rumore.
A volte ho utilizzato immagini forti e passaggi lirici, ben sapendo di assumermi un grande rischio. Il dolore può infatti trasformarsi in trauma porn, il lirismo diventare estetizzazione, trasformando la denuncia in formula di stile e la lotta in coreografia. Ne sono consapevole. Ciononostante, è un rischio che ho scelto comunque di correre, perché ciò a cui assistiamo oggi non si racconta più soltanto con la rabbia. Se con Memorandum, quindi, scrivevo un bollettino, oggi redigo un inventario. Non della crisi, ma del dopo. Di ciò che non si racconta più, di ciò che si è mimetizzato per farsi sistema e metodo di governo su larga scala.
Pertanto, Turisti a casa nostra, non è un reportage. E non è nemmeno un saggio narrativo. Ha l'ambizione di essere una mescolanza di tutto ciò: descrizione, racconto, narrazione, approfondimento e analisi tutto insieme. Un ibrido di cui ho tentato di lasciare una traccia minima nell'indice, offrendo al lettore una lente per interpretare le diverse sezioni.
Alcune pagine nascono con l'ambizione di avere portata generale, in modo che il lettore possa riconoscervi le stesse dinamiche della propria città, del proprio quartiere. Altre le ho immaginate per accompagnarsi a fotografie, musiche, installazioni e – perché no – camminate urbane.
Il desiderio ultimo di questo lavoro, infatti, è andare oltre il testo stesso, diventando parte di un progetto più ampio: visivo, sonoro, performativo. Non per decorare lo scritto, ma per restituire un'esperienza che la lingua, da sola, non riesce più a contenere. Non c'è una trama. Ogni capitolo è come una porta aperta su una stanza diversa dello stesso edificio che va in pezzi. Non ci sono eroi. Solo le voci di chi resiste, soltanto perché non ha ancora finito di crollare. E non c'è neanche un finale. C'è una città svuotata che continua a parlare a quanti hanno ancora voglia di ascoltare, senza illudersi. Questo libro è per loro.
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Lavrov accusa l’Occidente di voler “saccheggiare” la Russia per prolungare il conflitto in Ucraina, facendo dei beni russi congelati l’ultima leva finanziaria a sostegno di Kiev. Il ministro degli Esteri sostiene che Mosca è pronta a reagire a qualunque misura ostile, dalla possibile confisca degli asset russi allo schieramento di contingenti europei sul fronte ucraino.
Intervenendo al Consiglio della Federazione, Lavrov afferma che le capitali europee mirano a mettere le mani su capitali, riserve auree e valutarie russe perché non dispongono più di altri strumenti per sostenere militarmente ed economicamente l’Ucraina. L’uso dei fondi bloccati come garanzia per nuovi prestiti a Kiev viene definito una sorta di “rapina” travestita da meccanismo di riparazioni, in contrasto con i principi del diritto internazionale e delle regole del commercio globale.
Nel mirino del ministro c’è soprattutto il progetto di Bruxelles di far fruttare gli asset russi immobilizzati nelle giurisdizioni occidentali per finanziare un fondo destinato alla ricostruzione e allo sforzo bellico ucraino. A suo giudizio, un simile schema poggia su basi legali deboli e metterebbe a rischio la credibilità finanziaria dell’eurozona, ragione per cui alcuni governi UE e diversi partner esterni al blocco mostrano cautela o aperta contrarietà.
Lavrov parla infine di “cecità politica” dell’Unione Europea, accusata di inseguire l’obiettivo irrealistico di infliggere una “sconfitta strategica” alla Russia mentre, sul terreno, le forze ucraine subiscono nuovi rovesci. Nella sua interpretazione, i leader europei si rifiutano di riconoscere che il loro “protetto” non è in grado di cambiare l’esito della guerra e preferiscono imboccare la strada di misure sempre più radicali, inclusa l’appropriazione dei beni russi, pur di non ammettere il fallimento della strategia adottata.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 18:33:00 GMT
di Giorgio Cremaschi
di Alessandro Orsini*
di Paolo Desogus*
di Jeffrey Sachs - Common Dreams
La recente Strategia per la Sicurezza Nazionale (SSN) del 2025 rilasciata dal Presidente Donald Trump si presenta come un progetto per un rinnovato vigore statunitense. È pericolosamente sbagliata in quattro modi.
In primo luogo, la SSN è ancorata alla grandiosità: la convinzione che gli Stati Uniti godano di una supremazia ineguagliata in ogni dimensione chiave del potere. Secondo, si basa su una visione del mondo spiccatamente machiavellica, trattando le altre nazioni come strumenti da manipolare a vantaggio USA. Terzo, poggia su un nazionalismo ingenuo che respinge il diritto e le istituzioni internazionali come vincoli alla sovranità statunitense, anziché riconoscerli come quadri che rafforzano la sicurezza sia degli USA che globale.
In quarto luogo, segnala una brutalità nell'uso che Trump fa della CIA e delle forze militari. A pochi giorni dalla pubblicazione della SSN, gli Stati Uniti hanno sfacciatamente sequestrato in alto mare una petroliera carica di petrolio venezuelano, con la debole giustificazione che la nave aveva precedentemente violato le sanzioni statunitensi contro l'Iran.
Il sequestro non è stata una misura difensiva per scongiurare una minaccia imminente. Né è minimamente legale sequestrare navi in alto mare a causa di sanzioni unilaterali statunitensi. Solo il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha tale autorità. Invece, il sequestro è un atto illegale progettato per forzare un cambio di regime in Venezuela. Segue la dichiarazione di Trump di aver ordinato alla CIA di condurre operazioni coperte all'interno del Venezuela per destabilizzare il paese.
La sicurezza USA non sarà rafforzata comportandosi da bullo. Sarà indebolita strutturalmente, moralmente e strategicamente. Una grande potenza che spaventa i suoi alleati, costringe i suoi vicini e ignora le regole internazionali alla fine si isola.
La SSN, in altre parole, non è solo un esercizio di hybris sulla carta. Sta rapidamente diventando pratica sfacciata.
Un barlume di realismo, poi una ricaduta nella hybris
A essere onesti, la SSN contiene momenti di un realismo lungamente atteso. Implicitamente concede che gli Stati Uniti non possono e non dovrebbero tentare di dominare il mondo intero, e riconosce correttamente che alcuni alleati hanno trascinato Washington in costose guerre che non erano nei veri interessi degli Stati Uniti. Inoltre, si tira indietro - almeno retoricamente - da una crociata totalizzante tra grandi potenze. La strategia rifiuta la fantasia che gli Stati Uniti possano o debbano imporre un ordine politico universale.
Ma la modestia è di breve durata. La SSN riafferma rapidamente che gli USA possiedono "l'economia unica più grande e innovativa del mondo", "il sistema finanziario più avanzato del mondo" e "il settore tecnologico più avanzato e redditizio del mondo", tutti sostenuti da "l'esercito più potente e capace del mondo". Queste affermazioni servono non semplicemente come dichiarazioni patriottiche, ma come giustificazione per usare il predominio per imporre condizioni agli altri. Paesi più piccoli, sembra, sopporteranno il peso di questa hybris, poiché gli USA non possono sconfiggere le altre grandi potenze, non da ultimo perché dotate di armi nucleari.
Machiavellismo spudorato nella dottrina
La grandiosità della SSN è saldata a un machiavellismo spudorato. La domanda che si pone non è come gli Stati Uniti e gli altri paesi possano cooperare per un beneficio reciproco, ma come la leva USA - sui mercati, la finanza, la tecnologia e la sicurezza - possa essere applicata per ottenere il massimo delle concessioni da altre nazioni.
Questo è più pronunciato nella sezione della SSN dedicata all'emisfero occidentale, che dichiara un "Corollario Trump" alla Dottrina Monroe. La SSN afferma che gli Stati Uniti assicureranno che l'America Latina "rimanga libera da incursioni straniere ostili o proprietà di asset chiave", e che alleanze e aiuti saranno condizionati allo "smantellamento di influenze esterne avversarie". Quella "influenza" si riferisce chiaramente agli investimenti, alle infrastrutture e ai prestiti cinesi.
La SSN è esplicita: gli accordi degli USA con paesi "che dipendono maggiormente da noi e su cui quindi abbiamo più leva" devono sfociare in contratti in esclusiva per aziende statunitensi. La politica USA dovrebbe "fare ogni sforzo per estromettere le compagnie straniere" che costruiscono infrastrutture nella regione, e gli Stati Uniti dovrebbero rimodellare le istituzioni multilaterali di sviluppo, come la Banca Mondiale, in modo che "servano gli interessi statunitensi".
Ai governi latinoamericani, molti dei quali commerciano estesamente sia con gli Stati Uniti che con la Cina, viene sostanzialmente detto: dovete trattare con noi, non con la Cina, o affrontare le conseguenze.
Una tale strategia è ingenua. La Cina è il principale partner commerciale per la maggior parte del mondo, inclusi molti paesi dell'emisfero occidentale. Gli Stati Uniti non saranno in grado di costringere le nazioni latinoamericane a espellere le aziende cinesi, ma danneggeranno gravemente la propria diplomazia nel tentativo.
Brutalità così sfacciata da allarmare persino gli alleati più stretti
La SSN proclama una dottrina di "sovranità e rispetto", ma il suo comportamento ha già ridotto quel principio a sovranità per gli USA, vulnerabilità per tutti gli altri. Ciò che rende la dottrina emergente ancora più straordinaria è che ora spaventa non solo i piccoli Stati dell'America Latina, ma persino i più stretti alleati USA in Europa.
In uno sviluppo notevole, la Danimarca - uno dei partner NATO più leali degli Stati Uniti - ha apertamente dichiarato gli USA una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale danese. I pianificatori della difesa danese hanno affermato pubblicamente che non si può dare per scontato che Washington, sotto Trump, rispetti la sovranità del Regno di Danimarca sulla Groenlandia, e che un tentativo coercitivo statunitense di impadronirsi dell'isola è un'eventualità a cui la Danimarca deve pensare.
Questo è sorprendente sotto diversi aspetti. La Groenlandia ospita già la base aerea statunitense di Thule ed è saldamente all'interno del sistema di sicurezza occidentale. La Danimarca non è antiamericana, né cerca di provocare Washington. Sta semplicemente reagendo razionalmente a un mondo in cui gli Stati Uniti hanno iniziato a comportarsi in modo imprevedibile, persino verso i propri presunti amici.
Il fatto che Copenaghen si senta obbligata a contemplare misure difensive contro Washington è estremamente significativo. Suggerisce che la legittimità dell'architettura di sicurezza guidata dagli USA si stia erodendo dall'interno. Se persino la Danimarca crede di doversi proteggere dagli Stati Uniti, il problema non è più solo la vulnerabilità dell'America Latina. È una crisi sistemica di fiducia tra le nazioni che una volta vedevano gli USA come garanti della stabilità ma ora li considerano un possibile o probabile aggressore.
In breve, la SSN sembra convogliare l'energia precedentemente dedicata al confronto tra grandi potenze nel bullismo verso Stati più piccoli. Se gli USA sembrano un po' meno inclini a lanciare guerre da mille miliardi di dollari all'estero, sono propensi a utilizzare come armi sanzioni, coercizione finanziaria, sequestro di beni e furti in alto mare.
Il Pilastro Mancante: Legge, Reciprocità e Decenza
Forse la lacuna più profonda della SSN è ciò che omette: un impegno per il diritto internazionale, la reciprocità e la decenza fondamentale come basi della sicurezza USA.
La SSN considera le strutture di governance globale come ostacoli all'azione statunitense. Respinge la cooperazione climatica come "ideologia", anzi una "bufala" secondo il recente discorso di Trump all'ONU. Minimizza la Carta delle Nazioni Unite e immagina le istituzioni internazionali principalmente come strumenti da piegare alle preferenze statunitensi. Eppure, sono proprio i quadri giuridici, i trattati e le regole prevedibili che storicamente hanno protetto gli interessi USA.
I padri fondatori degli Stati Uniti lo capirono chiaramente. Dopo la Guerra d'Indipendenza americana, tredici Stati da poco sovrani adottarono presto una costituzione per mettere in comune poteri chiave - in materia di tassazione, difesa e diplomazia - non per indebolire la sovranità degli Stati, ma per salvaguardarla creando il governo federale USA. La politica estera del governo degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra fece lo stesso tramite l'ONU, le istituzioni di Bretton Woods, l'Organizzazione Mondiale del Commercio e gli accordi sul controllo degli armamenti.
La SSN di Trump ora inverte quella logica. Tratta la libertà di coercire gli altri come l'essenza della sovranità. Da quella prospettiva, il sequestro della petroliera venezuelana e le preoccupazioni della Danimarca sono manifestazioni della nuova politica.
Atene, Melo e Washington
Tale hybris si ritorcerà contro gli Stati Uniti. Lo storico greco antico Tucidide riporta che quando l’imperiale Atene si confrontò con la piccola isola di Melo nel 416 a.C., gli ateniesi dichiararono che “i forti fanno ciò che possono e i deboli subiscono ciò che devono”. Eppure, l’hybris ateniese fu anche la sua rovina. Dodici anni dopo, nel 404 a.C., Atene cadde per mano di Sparta. L’arroganza ateniese, l’eccessiva ambizione e il disprezzo per gli Stati più piccoli contribuirono a cementare l’alleanza che alla fine la sconfisse.
La SSN del 2025 parla un linguaggio simile di arroganza. È una dottrina del potere sopra la legge, della coercizione sopra il consenso, del dominio sopra la diplomazia. La sicurezza USA non sarà rafforzata comportandosi da bullo. Sarà indebolita strutturalmente, moralmente e strategicamente. Una grande potenza che spaventa i suoi alleati, maltratta i suoi vicini e ignora le regole internazionali alla fine si isola.
La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dovrebbe basarsi su premesse del tutto diverse: l’accettazione di un mondo plurale; il riconoscimento che la sovranità viene rafforzata, non diminuita, attraverso il diritto internazionale; la consapevolezza che la cooperazione globale su clima, salute e tecnologia è indispensabile; e la comprensione che l’influenza globale degli USA dipende più dalla persuasione che dalla coercizione.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 16:29:00 GMT
Mentre in Italia sembra non si possa più parlare non solo di russofobia, russofilia e verità, ma nemmeno di democrazia, com’è stato dimostrato dal secondo pesante episodio di censura subito in meno di un mese da parte di Angelo d’Orsi e stavolta con lui un parterre de roi che includeva altri 17 professori, studiosi, ambasciatori e giornalisti di fama internazionale; curiosamente si torna a parlare di “democrazia” proprio in Ucraina.
Uso le virgolette perché parlare di democrazia in Ucraina è evidentemente un ossimoro. A farlo è stato Donald Trump che sta disperatamente cercando di spingere un accordo di pace includendo, come impone la diplomazia nonché il buonsenso, anche le ragioni dei russi in quanto parte in causa dello scontro. Per fare questo accordo ha ovviamente bisogno di un rappresentante del popolo ucraino legittimo, cosa che attualmente Zelensky non è più. I termini del suo mandato sono infatti scaduti il 20 maggio 2024 e prorogati da lui stesso ad libitum.
Questa sospensione delle elezioni, che sono solo una parte di ciò che richiede una democrazia minimamente compiuta, è consentita dalla Costituzione dell’Ucraina che prevede l’istituzione della legge marziale e una sospensione di ogni tipo di consultazione politica in caso venga dichiarato lo Stato di Guerra. Zelensky ha per l’appunto approfittato di questa base dell’ordinamento ucraino per estendere il più possibile il suo mandato, nonostante il suo disconoscimento da parte della stessa Rada sia arrivato già la scorso Febbraio (vedi qui: https://www.farodiroma.it/il-parlamento-ucraino-ha-bocciato-qualunque-proroga-della-presidenza-zelensky-ma-lue-non-se-ne-e-accorta-vladimir-volcic/).
Insomma, Zelensky sarebbe politicamente fuori dai giochi, ma è il leader su cui le élite europoidi hanno puntato tutto eleggendolo a vero e proprio eroe della resistenza europea contro l’invasore russo, basti vedere l’ennesimo suo tour per le cancellerie europee. Un tale impegno ed una tale esposizione da parte dei principali premier dell’UE, della Commissione Europea, della NATO, nonché del Vaticano (sic!) hanno reso problematica la gestione all’interno dell’Occidente del caso Zelensky.
Così ora anche la sua sostituzione, che sarebbe probabilmente avvenuta un minuto dopo Anchorage, diventa più difficile.
Qualsiasi ipotesi di accordo con la Russia al momento discende da quest’alternanza al potere in Ucraina. E forte del sostegno ricevuto Zelensky proprio ieri ha accettato la sfida di Trump e Putin con uno dei suoi annunci televisivi a cui ci ha abituato, con tanto di sfondo cartonato: “sono sempre pronto alle elezioni” ha annunciato in risposta al Presidente americano, incalzandolo e provocandolo con un “siamo pronti ad allestire le urne nei prossimi 60 o 90 giorni, se i nostri alleati potranno garantire la sicurezza per lo svolgimento del voto”.
Ecco che come già accaduto in passato in Iraq, ad esempio, l’imperialismo riporta le elezioni come simbolo al centro del fronte di guerra, giustificando l’intervento militare diretto dall’esterno come garanzia “democratica”. Ebbene, occorrono due puntualizzazioni perché qui si sta scivolando lungo un crinale pericoloso, spinti direttamente dall’imperialismo dell’Unione Europea che sta facendo da ventriloquo al pupazzo Zelensky. Il gioco è chiaro: Zelensky accetta la sfida delle elezioni, ma richiede l’intervento militare esterno boots on the ground.
D’altra parte, una tale mossa gli permette di smarcarsi anche dall’accusa di autoritarismo: l’Ucraina ha sospeso le elezioni solamente per motivi di sicurezza interna che non era più in grado di mantenere, impegnando tutte le sue risorse militari al fronte. Dunque, voi volete le elezioni? Benissimo, venite a garantirci la sicurezza con i vostri eserciti.
Occorre tenere presente che cascare in una simile trappola orchestrata dall’UE significa dare il via all’escalation sul fronte orientale che porta dritti all’allargamento del conflitto. L’impeccabile portavoce del Ministro degli Esteri Maria Zakharova ha immediatamente replicato all’ipotesi definendolo un “teatro delle marionette” in cui con un livello di cinismo completamente nuovo “si pretende che altri stati garantiscano lo svolgimento delle elezioni sul proprio territorio, senza dichiarare la perdita della propria indipendenza e sovranità” (vedi qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2025/12/10/mosca-promessa-di-zelensky-di-tenere-elezioni-e-come-un-teatro-delle-marionette_86e79d76-2893-4965-8403-5239c874556d.html).
Per evitare un rischio simile bisognerebbe gettare un po’ più di luce su quello che è l’Ucraina oggi. Si tratta infatti di un regime autoritario nazista, il cui ultimo e non esclusivo rappresentante è Zelensky e che non verrebbe di certo denazificato da una semplice elezione che probabilmente porterebbe direttamente un militare al potere: faccio notare che gli unici altri due contendenti papabili sono due militari, rispettivamente il generale Zaluzhny e il tenente colonnello Budanov. Gli ultimi sondaggi danno l’attuale ambasciatore ucraino a Londra come avvantaggiato in un eventuale confronto elettorale e questo nonostante stia emergendo la sua implicazione nell’attentato al North Stream. La riprova che si sta parlando di un regime nazista è tutta qui: il confronto attualmente è tra Zelensky, il suo ex Comandante in Capo delle Forze Armate mandato a fare l’Ambasciatore a Londra dopo che gli è stata addossata la responsabilità del cattivo andamento del conflitto e il capo dei servizi segreti ucraini.
Difficile chiamare una democrazia compiuta un regime politico che va al confronto elettorale proponendo come alternative politiche dei capi dei vari dipartimenti militari. In Ucraina attualmente non ci sono altri rappresentanti politici in grado di affermarsi, e questo semplicemente perché lo spettro politico democratico è stato silenziato da una repressione radicale e capillare installata immediatamente dopo l’Euromaidan con la prima Presidenza del nuovo corso dittatoriale di Petro Poroshenko. Se la Costituzione ucraina del 1996 ha cancellato le ideologie novecentesche dell’epoca sovietica (in cui esisteva il multipartitismo), il Golpe di Euromaidan ha istituito l’unica ideologia atlantico-europeista con la forza militare.
Il V Presidente dell’Ucraina è stato colui che ha fomentato Euromaidan, sdoganando le organizzazioni paramilitari che hanno iniziato le loro scorribande in tutto il Paese, legalizzandole sino a farle entrare nella Rada come è stato con Pravyj Sektor e Svoboda. Sempre al predecessore di Zelensky è attribuibile la messa fuorilegge del Partito Comunista dell’Ucraina costretto ad operare in clandestinità da ormai 10 lunghi anni, con molti suoi rappresentanti uccisi (il diciassettenne Vadim Papura) o incarcerati (i fratelli Kononovich), oltre ad una serie di altri crimini dovuti allo sdoganamento delle bande criminali in tutto il Paese (strage di Odessa alla Casa dei Sindacati).
Lo stesso ordinamento costituzionale dell’Ucraina è stato completamente stravolto da una riforma portata avanti da Poroshenko che aveva in parlamento le stesse forze neonaziste che hanno approvato il “nuovo corso strategico” dello Stato che prevede “l’adesione all’Unione Europea e alla NATO” come punti insopprimibili della politica ucraina negli anni a venire, indipendentemente dall’alternarsi delle forze politiche al Governo. I danni del Golpe neonazista di Euromaidan si sono istituzionalizzati e sono stati inseriti nell’ordinamento statale ucraino. Difficile pensare che basterà dare una sciacquata alla faccia del regime per renderlo credibile. Anzi, si potrebbe dire l’esatto opposto, cioè che la complicità europea con un simile regime probabilmente non passerà inosservata nei prossimi anni.
Così come dalle indagini della Procura tedesca sta emergendo che la mente dell’attentato al North Stream è nientemeno che l’attuale ambasciatore dell’Ucraina nel Regno Unito Zaluzhny, allargando le fonti della corruzione in Ucraina si intravedono già i fondi europei destinati ai Paesi terzi, soprattutto in ambito energetico. Tralasciamo poi, per carità, tutto quanto potrebbe emergere dal mercato delle armi che farebbero risultare lo scandalo Lockheed Martin degli anni Settanta un giochino per bambini (si vedano in merito le inchieste del criminologo Vincenzo Musacchio per la Rai).
Di certo, anche politicamente la piega dell’Unione Europea sembra seguire quella dell’Ucraina. La risoluzione del Parlamento europeo che nel Settembre 2019 ha equiparato il comunismo al nazismo è di fatto servita a lanciare la più grande ondata di anticomunismo in Europa dal 1925 ad oggi, portando al momento a mettere fuorilegge il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM) e il Partito Comunista Polacco oltreché alla chiusura dei conti del comitato esecutivo del Partito Comunista Tedesco (DKP) che lascia presagire una sua prossima chiusura. Il debanking è una misura repressiva che ha già colpito in Italia i conti di Visione TV, mettendola in serie difficoltà in seguito alle solite segnalazioni. Insomma, il potere politico europeista sull’onda della russofobia dilagante è letteralmente a caccia di dissidenti e, come accaduto storicamente, parte dai partiti comunisti forte di una legislazione che ha dato la stura alla loro repressione, ma che ovviamente non colpisce i partiti nazisti perché funzionali alla chiusura repressiva e militarista, riproponendo così pedissequamente lo schema ucraino anche in Europa.
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 15:30:00 GMT
di Agata Iacono per l'AntiDiplomatico
di Michelangelo Severgnini
Lo scorso sabato 6 dicembre abbiamo trasmesso in premiere sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico, il quinto e nuovo episodio del film in progress, con il titolo “Gaza ha vinto”.
48 minuti di video e audio originali registrati con i telefonini dei nostri ragazzi a Gaza. Una narrazione dal basso, un’auto narrazione, un laboratorio orizzontale tanto unico da sfuggire ai radar di qualsiasi canale, agenzia o redazione in Italia.
Beh, per chi se lo fosse perso, noi consigliamo la visione, anche perché in coda, al termine del documentario, ci sono gli interventi di alcuni graditissimi ospiti, come Loretta Napoleoni, Diana Carminati e Wasim Dahmash, oltre a quelli degli autori, che intervengono sul tema dell’evento: “Dal restiamo umani al restiamo utili”.
Crediamo di aver dato vita ad una discussione coraggiosa, franca, senza filtri e, possibilmente, senza propaganda. Uno stile che ci piacerebbe sperimentare anche altrove.
RIVEDI: "Gaza ha vinto". Dal restiamo umani al restiamo utili
Ma veniamo a Gaza. Si è parlato ancora molto di fase 2 in questi giorni, con alcune sparate e colpi ad effetto che dimostrano quanto il tiro alla fune sia in corso e la battaglia diplomatica all’interno delle larghe maglie del piano Trump stia cominciando ad infuriare.
Come sappiamo da tempo, il piano si regge su una grossa sfida, che molti vedono, appunto, come un bluff: il ritiro di Israele da Gaza e il disarmo di Hamas insieme come premesse alla ricostruzione. Ma entrambe le parti contano di ottenere la resa dell’altro senza recedere dalle proprie posizioni. Comunque, essere arrivati a questo punto, è una vittoria per Gaza. Ma non è ancora garanzia di nulla.
Il capo di Stato Maggiore israeliano, Eyal Zamir, durante una visita per incontrare i riservisti israeliani nel nord di Gaza, ha affermato in questi giorni che “la ‘linea gialla’ è una nuova linea di confine, che funge da linea difensiva avanzata per le nostre comunità e da linea di attività operativa”. Il governo israeliano ha rifiutato di commentare.
Il portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric, sull’uscita del generale israeliano ha commentato: “mi sembra contraria allo spirito e alla lettera del piano di pace di Trump. Siamo fermamente contrari a qualsiasi modifica dei confini tra Gaza e Israele”.
In effetti al momento Israele controlla il 58% della Striscia, ha costruito nuovi avamposti di cemento lungo la “linea gialla” per fortificare le proprie posizioni e l'ha dichiarata confine letale, anche se non è sempre chiaramente segnalata e sarebbe in vigore un cessate il fuoco. I soldati hanno ripetutamente ucciso palestinesi accusati di averla attraversata, compresi bambini piccoli. Nel corso della puntata sentiremo una testimonianza di un eccidio israeliano sul confine con la zona gialla.
I dissuasori in cemento posizionati per segnare alcuni tratti della linea sono stati utilizzati anche per espandere l'occupazione militare israeliana di Gaza. Le immagini satellitari mostrano che alcuni indicatori sono stati posizionati centinaia di metri oltre il confine concordato sulle mappe del cessate il fuoco.
I sogni proibiti di Israele dunque al momento sono questi: mantenere il controllo del 58% di Gaza o chissà lentamente espanderlo.
La pulizia etnica di Gaza è tuttora in corso, sostengono molti. Tra questi Francesca Albanese, special rapporteur delle Nazioni Unite sulla Palestina, che in questi termini si è espressa durante il “Doha Forum” in Qatar, nei giorni scorsi.
Alla stessa conferenza internazionale si è espresso il padrone di casa, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman, primo ministro del Qatar, il quale ha affermato: “Il cessate il fuoco a Gaza è arrivato a un momento critico”.
Da quando è in vigore la tregua, oltre 360 palestinesi sono rimasti uccisi.
Trump ha annunciato che il “Board of Peace”, il Consiglio di Gaza che dovrà supervisionare la fase 2, sarà operativo entro la fine dell’anno.
Per ora si sa solo che Turchia ed Egitto hanno messo il veto su Tony Blair e quindi gli daranno forse solo un strapuntino come consulente. Qualcuno a porre le condizioni c’è.
Nel frattempo Bassem Naim, membro dell’ufficio politico di Hamas, ha fatto sapere che il movimento è pronto a prendere in considerazione l’ipotesi di congelare e depositare le armi da qualche parte sotto la supervisione delle forze internazionali.
Queste forze internazionali però, secondo indiscrezioni, avranno solo il compito di presidiare il confine tra Gaza e Israele.
Quindi non di controllare l’interno della Striscia.
Quindi non di disarmare Hamas.
Quindi di far indietreggiare Israele al di fuori dei confini reali della Striscia.
Come si può vedere, gli estremi di questa curva di possibilità sono lontanissimi. La contesa diplomatica è in corso, mentre a Gaza si muore di freddo allagati sotto la pioggia.
Ma i termini del tiro alla fune sono questi. Noi dobbiamo restare vigili. E restare utili.
VEDI LA PUNTATA QUI:
“Radio Gaza - cronache dalla Resistenza”, ogni giovedì alle 18, sul canale YouTube dell’AntiDiplomatico, è un programma a cura di Michelangelo Severgnini e Rabi Bouallegue.
La campagna “Apocalisse Gaza” arriva oggi al suo 175° giorno, avendo raccolto 122.004 euro da 1.553 donazioni e avendo già inviato a Gaza valuta pari a 121.465 euro.
Per donazioni: https://paypal.me/
C/C Kairos aps IBAN: IT15H0538723300000003654391 - Causale: Apocalisse Gaza
FB: RadioGazaAD
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
«Anche se l’Ucraina ricevesse garanzie di sicurezza, senza concessioni da Mosca avremmo altre guerre»: precetti della fede, quelli snocciolati dall'estone Kaja Kallas per il rosario del Corriere della Sera, secondo cui «l’ostacolo alla pace è solo la Russia». Dunque, starnazza la “ministra” degli esteri UE, se «non ci fossero concessioni da parte russa, avremmo altre guerre, magari non in Ucraina ma altrove» e lacrima poi sulla corona di spine del catechismo liberale, secondo cui «C’è un aggressore e c’è una vittima» e dimentichiamoci pure dei trent'anni di politiche USA-NATO-UE che hanno portato al 2022. È questa la catechesi del liberalismo: “c'è un aggredito e c'è un aggressore”; tutto il resto non esiste. Clausewitz, ricordava Lenin, si batteva contro il pregiudizio per cui sia possibile «separare la guerra dalla politica dei relativi governi, classi, come se sia possibile guardare alla guerra semplicemente come a un attacco che viola la pace, dopo di che si ripristina quella pace interrotta dalla guerra. Si sono azzuffati e poi hanno fatto pace... Ogni guerra è indissolubilmente legata a quell'ordine politico da cui è scaturita». E, nel caso specifico, in occidente se ne sono individuati gli strumenti ben consapevoli nei nazi-nazionalisti ucraini, la cui centuria di comando, come ha dichiarato il Ministro degli esteri russo Serghej Lavròv, da gruppo combattente «ideologicamente carico e alimentato dall'ideologia nazista, si è oggi trasformato in un'organizzazione criminale, impantanata nella corruzione, che sta trascinando con sé i propri sponsor» euro-atlantisti; e anche, guarda un po', i loro megafoni acquartierati nei media e nei vari cosiddetti Istituti di politica.
Ma, schiamazza la signora Kallas, «l’ostacolo alla pace è solo la Russia» e dunque, sembra farle eco la signora Nathalie Tocci su La Stampa, oggi sono USA e Russia che ambiscono a spartirsi l'Europa e «non è un caso che a Mosca piaccia la strategia americana: la condivide e la persegue da anni... L’obiettivo è chiaro: disgregare e indebolire l’Europa. I mezzi lo sono altrettanto. Da un lato, la capitolazione dell’Ucraina. Per la Russia rappresenterebbe l’apripista per ricostituire il proprio impero nell’Europa orientale». Dalla vulgata liberale agli schiamazzi “geo-storicistici” il passo è breve per gli “euro-politologi”.
Avanti quindi con i preparativi volti a rafforzare militarmente la cosiddetta “Europa”, portatrice di quei “valori occidentali” di cui stanno sempre più beneficiando le masse popolari dei paesi europei, tra salari e pensioni di fame, disoccupazione, tagli micidiali ai servizi sociali e sanitari, dittature mediatiche e censure squadristiche.
Ma è la Russia che ostacola la pace, mentre all'Alleanza atlantica si pensa solo a difendere la “libertà dell'Ucraina”. Cosa che, con ogni evidenza, erano impegnati a fare gli alti ufficiali NATO fatti prigionieri dai reparti speciali russi a Guljajpole, cento anni fa, patria dell'anarchico antibolscevico Nestor Makhnò. Secondo quanto rivelato Nikolai Sorokin, direttore dell'Istituto per lo Studio delle crisi, si tratterebbe di alti ufficiali dello SM della NATO, tra cui colonnelli e forse un generale. Pare che all'operazione di cattura degli ufficiali NATO, abbiano preso parte anche uomini dell'unità “Alpha” del FSB, che, dice Sorokin, «come sappiamo, non si presenta mai per niente e non se ne va mai senza trofei».
Ma, è tempo di agire. Non sono solo gli starnazzamenti delle signore Kallas o Tocci a invocare l'azione. Bisogna prendere molto sul serio le dichiarazioni del presidente russo Vladimir Putin, dice il ministro degli esteri tedesco Johann Wadephul, gemendo che «le operazioni ibride russe ci stanno già prendendo di mira in Europa mentre parliamo. I pacchi inviati ai centri logistici tedeschi... droni spia su aeroporti e caserme della Bundeswehr... Queste azioni richiedono una risposta adeguata. La logica della deterrenza militare è il principale imperativo strategico del nostro tempo». Armiamoci, per la miseria.
E non vuol certo esser da meno il suo cancelliere, che esige l'immediata capitolazione della Russia. Moskva, ha detto Merz, si troverà di fronte al fatto compiuto e potrà esaminare la versione europea degli "accordi di pace" preparati a Londra dopo che il documento sarà stato mostrato a Donald Trump. In base a quegli “accordi”, non ci sarebbe bisogno di avanzare richieste a Kiev: basterà che la Russia deponga le armi, perché «solo la Russia può porre fine a questa guerra nel giro di poche ore. Questa guerra non viene condotta dall'Ucraina, ma dalla Russia, unilateralmente, con una continua brutalità contro i civili».
E tuona ancora più forte il Segretario NATO Mark Rutte che, da Berlino, pronostica, alla maniera di un Andrius Kubilius qualsiasi, che lo stesso che sta accadendo in Ucraina potrebbe presto accadere ai paesi NATO. Rifacendosi all'oracolo lituano, Rutte vaticina che «siamo il prossimo obiettivo della Russia, siamo già in pericolo... dobbiamo adottare una mentalità di guerra». Non dormite, ignavi europei, omelia Rutte: «temo che troppi siano compiacenti, troppi non sentano l'urgenza e troppi credano che il tempo sia dalla nostra parte. Non lo è. È giunto il momento di agire... ora, per proteggere il nostro modello di vita. Perché la Russia è diventata ancora più sfacciata, sconsiderata e spietata nei suoi rapporti con la NATO e l'Ucraina». Attenti dunque, europei, che «io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Matteo, 10-16) glorifica Rutte l'evangelista.
Così, spostando in avanti il calendario kubiliusiano, Rutte ammonisce che la Russia sarà pronta ad attaccare i paesi della NATO entro cinque anni: «Immaginate cosa accadrebbe se Putin raggiungesse ciò a cui mira. L'Ucraina sotto lo stivale dell'occupazione russa, le sue truppe al confine con la NATO». Già, perché ormai i confini non si misurano più in aree geografiche, ma in blocchi militari e la NATO “confina”, di tempo in tempo, con quell'area in cui, ogni volta, il blocco di guerra decide di intervenire: che sia in Europa, Medio Oriente, Africa. In sostanza, Rutte esige «cambiamenti davvero colossali al nostro assetto di deterrenza e difesa. La NATO dovrebbe aumentare significativamente la sua presenza militare sul fianco orientale e gli alleati dovrebbero investire molto più rapidamente in difesa e produzione. In uno scenario del genere, ricorderemmo con nostalgia i tempi in cui il 3,5% [+1,5%] del PIL era sufficiente per la difesa. Quella cifra aumenterebbe significativamente. E dovremmo agire rapidamente per affrontare questa minaccia imminente. Dovremmo tagliare urgentemente il bilancio, tagliare la spesa pubblica», cosa che, per inciso, stanno già facendo da anni i governi obbedienti e «sacrifici dolorosi sarebbero inevitabili, ma assolutamente necessari. Quindi non dimentichiamolo: la sicurezza dell'Ucraina è la nostra sicurezza». Amen.
Però sbrigatevi, ossequiosi confratelli della fede, poiché la guerra è già alle porte, tuona Rutte ancora dal pulpito tedesco, esortando a seguire l'esempio della Germania, che sta alacremente incrementando la produzione di armi e rafforzando le proprie forze armate. Ascoltate la parola apostolica: «in due anni, la produzione di proiettili d'artiglieria in Europa è aumentata di sei volte. Quest'anno ho visitato una nuova fabbrica in Germania che prevede di produrre 350.000 proiettili d'artiglieria all'anno! Gli investimenti che la Germania sta facendo nelle sue forze armate sono semplicemente colossali!»: alleluia! E entro il 2029 prevede di stanziare 152 miliardi di euro per la difesa, pari al 3,5% del PIL; «la Germania è una potenza leader in Europa e una forza trainante nella NATO», sia gloria a te o Merz, stava per giubilare Rutte, annunciando che «il conflitto è alle porte! La Russia ha riportato la guerra in Europa e dobbiamo essere preparati ad affrontare lo stesso orrore della guerra che i nostri nonni e bisnonni hanno vissuto» ha detto l'episcopo armato, certamente pensando che anche il suo, di nonni, era forse stato parte di uno dei tanti eserciti europei che nel 1941 avevano aggredito l'Unione Sovietica.
Ma, ammonisce il Ministro degli esteri russo Lavròv, l'Occidente sta esaurendo le risorse per condurre una guerra per procura: finanziarie, tecnico-materiali e militari. Secondo numerose stime indipendenti, le perdite umane delle forze armate ucraine hanno superato da tempo il milione e continuano ad aumentare. In questo quadro, i circoli dominanti occidentali «possono essere grosso modo divisi in due campi. La maggioranza sostiene la militarizzazione delle economie europee e i preparativi per un confronto armato su larga scala in Europa». Al pari del filibustiere Cavo Dragone, che sproloquia di “attacchi preventivi come misure difensive”, ci sono anche altri farabutti, tra cui «non solo militari ma anche politici» dice Lavròv, che «affermano apertamente che dobbiamo prepararci alla guerra contro la Russia entro il 2030, o addirittura il 2029». Anche se, ha aggiunto, ci sono politici in Occidente che non vogliono una pericolosa escalation.
E, aggiungiamo per parte nostra, vorremmo augurarci che in quest'ultima congrega non figurino “anime” che si aggirano tra il sesto e l'ottavo cerchio delle malebolge, gli ipocriti e i consiglieri di frode.
FONTI:
https://politnavigator.news/natovskie-oficery-vzyaty-v-plen-v-gulyajjpole.html
https://politnavigator.news/natovskie-oficery-vzyaty-v-plen-v-gulyajjpole.html
https://politnavigator.news/groznyjj-merc-trebuet-nemedlennojj-kapitulyacii-rossii.html
https://politnavigator.news/nato-otkryto-gotovitsya-k-vojjne-s-rossiejj-k-30-godu-lavrov.html
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 15:00:00 GMT
di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico
La prestigiosa testata americana defenceone.com, specializzata in sicurezza globale e difesa nazionale, dichiara di aver preso visione di una versione segreta e più estesa del Documento di Sicurezza Strategica Nazionale USA (SSN) divulgato in questi giorni, e che già nella versione pubblica ha avuto enorme eco soprattutto in Europa.
Defence One sostiene che nella versione “allargata” (e originaria) che ha potuto leggere sono presenti due ulteriori capitoli di estrema rilevanza. Il primo si intitola eloquentemente “Make Europe Great Again”, mentre il secondo si intitola “Core 5”. Il primo, come è facile intuire delinea le strategie per far rinascere una Europa, ritenuta a Washington, in piena decadenza, mentre il secondo delinea la nascita di un nuovo organismo informale – che di fatto sostituirebbe il G7 – e che avrebbe il compito di gestire gli affari globali. “Core 5”, appunto perchè sarebbe composto da cinque paesi.
Make Europe Great Again
Rispetto alla versione pubblica nella quale Washington per l'Europa sostiene la necessità di rendersi autonoma dagli USA sul piano militare, in questa versione segreta si sostiene anche la necessità di “sostenere i partiti, i movimenti e le figure intellettuali e culturali che cercano la sovranità e la conservazione dei tradizionali stili di vita europei ... rimanendo filo-americani”, afferma il documento [parte estratta direttamente dall'articolo di Defence One, Nda].
Quindi, in sostanza, nella nuova strategia di sicurezza, si sostiene la necessità che gli USA ingeriscano in maniera pesante della politica dei paesi europei a favore degli esponenti conservatori. Ancora più clamoroso è l'altro asse di intervento ipotizzato dall'amministrazione Trump: lavorare con alcuni partner europei al fine di riuscire ad allontanarli dall'UE. I paesi prescelti sarebbero Austria, Polonia, Ungheria e soprattutto Italia. Qualora fosse confermata questa strategia saremmo di fronte ad uno scenario nel quale gli USA hanno deciso di lavorare direttamente per mandare in frantumi l'UE e ciò sarebbe davvero clamoroso; non ci rimane che attendere. tenendo conto però che in paesi come l'Italia il potentissimo blocco filo europeo farebbe muro contro gli USA per difendere la costruzione europea ciò, ovviamente, porterebbe potenti convulsioni politiche a Roma.
Core 5
Non meno clamorosa sarebbe la nascita – prospettata nella versione riservata del piano strategico di sicurezza nazionale - del nuovo organismo che dovrebbe sostituire il G7 ormai ritenuto da Washington disfunzionale e non più adatto a gestire gli affari mondiali. Il nuovo organismo, il Core 5, comprenderebbe gli USA, la Cina, il Giappone, l'India e la Russia.
Una riforma che lascia senza fiato, per la magnitudo con la quale terremoterebbe le attuali gerarchie mondiali. Innanzitutto l'Europa sarebbe fuori gioco, completamente. Dopo secoli di dominio mondiale il Vecchio Continente (fino al 1919 in solitaria, mentre da lì in avanti da Junior Partner degli USA) sarebbe escluso dal ruolo di dominus mondiale per finire relegato tra le aree geografiche non rilevanti su scala planetaria. Bisogna essere onesti, l'ipotesi è plausibile e perfettamente coerente con ciò che gli USA ritengono sia il reale status europeo: quello di un'area marginale, isolata, arretrata economicamente e tecnologicamente e sopratutto, socialmente in grave pericolo a causa di una immigrazione incontrollata proveniente dal resto del mondo.
Inoltre – sempre dal punto di vista USA, l'Europa è un area irrilevante e non in grado di difendere militarmente se stessa in maniera autonoma. Il combinato di tutto questo non può che essere la “retrocessione” tra le aree del mondo che non sono in grado di giocare un ruolo negli affari mondiali e che dovrà accettare quanto disposto dalle nuove grandi potenze.
Non sfugge peraltro che questa entità, il Core 5, non è fondata sulla ricchezza dei suoi componenti, né sulla loro democraticità. Piuttosto si tiene conto della demografia, della forza militare e anche delle prospettive di sviluppo. Una visione molto importate che viene dopo quella economicista che ci ha afflitto in questi trenta anni spingendosi ffino al parossismo proprio in quella Europa sclerotizzata che è riuscita a far venire al mondo una visione nella quale si viveva in ossequio al rispetto di meri parametri contabili come quelli previsti nei vari “MES” e nei vari “patti di stabilità”. Una follia che - a quanto pare - ci sta spedendo nella serie B del mondo, né più e né meno che un Pakistan o un Cile.
L'altro elemento a mio avviso importantissimo è quello che in questo nuovo consesso che dovrebbe dirigere in mondo, gli USA non hanno la maggioranza visto che potranno contare tra i componenti solo sul Giappone come fedele alleato. Mentre, dall'altra parte del tavolo. Cina, Russia e India - ovvero il ben rodato asse asiatico antagonista al cosiddetto “occidente collettivo” - in questo nuovo format, formerebbe un blocco di maggioranza.
Qualora il Core 5 vedesse realmente la luce sarebbe veramente il segno che è nato un nuovo mondo multipolare e inoltre (data l'assenza) che l'Europa sarebbe relegata ad un ruolo di area geografica di secondo ordine come il Sud America.
Lo “strano” discorso del Governatore della Banca d'Italia, Panetta
Che i rapporti tra l'Europa e gli USA siano ormai tesissimi è evidente e ciò aumenta in larga misura la credibilità dello scoop di Defence One. A tale proposito colpisce un discorso tenuto a Dublino il 9 Dicembre dal sempre prudentissimo governatore della Banca d'Italia Panetta nel quale si sostiene come nel prossimo futuro il mondo uscirà dal sistema dollarocentrico nato a Bretton Woods per abbracciare un sistema nel quale una costellazione di diverse monete avrà il ruolo di standard del commercio e degli investimenti internazionali. Fa davvero impressione ascoltare un governatore dell'Euro-sistema anche solo ipotizzare una uscita dal sistema fondato sul dollaro che, peraltro, è il vero punctum dolens degli americani: argomento davvero tabù, che manco paesi antagonisti come la Cina possono affrontare apertamente, figuriamoci se possono i paesi vassalli di Washington.
Per certi versi, l'ipotesi di Panetta, sembra quasi una minaccia (certo nei toni fatta con il guanto di velluto) visto che la perdita dello status del dollaro da parte degli USA immediatamente si rifletterebbe sugli investimenti che affluiscono copiosi in USA. La stessa testata americana Politico.com peraltro sostiene che la BCE si stia segretamente preparando al collasso della leadeship degli USA e del Dollaro a livello mondiale e dunque a consentire un maggior utilizzo dell'Euro fuori dalla stessa area euro.
A mettere in fila tutte queste informazioni appare evidente come il divorzio tra gli USA e l'Europa sia probabilmente irreversibile.
Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 14:00:00 GMT

di FM Shakil - The Cradle
Il 1° dicembre, nella turbolenta provincia iraniana dell'Azerbaigian orientale, il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) ha aperto i cancelli della sua base a un raduno senza precedenti: le forze speciali dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai ( SCO ) erano arrivate per dare il via a "Sahand-Antiterror-2025", un'esercitazione antiterrorismo di cinque giorni nell'ambito della Struttura antiterrorismo regionale (RATS) della SCO.
Al termine delle esercitazioni, il 5 dicembre nella città nordoccidentale di Khoy, l'Iran non solo aveva dimostrato la sua prontezza militare, ma aveva anche segnalato un cambiamento radicale nei suoi schieramenti regionali. Alla presenza di tutti gli Stati membri, tra cui Bielorussia, Cina, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan, erano presenti anche osservatori provenienti da Azerbaigian, Iraq, Oman e Arabia Saudita, con l'Iran che ha dimostrato di essere pienamente integrato nel blocco di sicurezza emergente dell'Eurasia.
I partecipanti hanno dimostrato le loro vaste competenze nella lotta al terrorismo e all'estremismo. Nel corso di cinque intense giornate, hanno dato prova della loro competenza nel salvataggio di ostaggi, nello sgombero delle frontiere, negli attacchi con droni, negli attacchi con elicotteri e nella stabilizzazione, il tutto mentre venivano sparati proiettili veri.
Dalla partecipazione simbolica all'affermazione strategica
L'esercitazione ha messo in mostra le armi e le attrezzature più recenti dei paesi partecipanti, migliorando così la loro capacità di collaborare per affrontare le minacce che attraversano i confini nazionali. È stata un'occasione per condividere esperienze, incoraggiare la cooperazione e intensificare gli sforzi multilaterali tra gli stati membri della SCO per affrontare le minacce terroristiche.
La scelta della sede per l'esercitazione militare della SCO in Iran ha permesso agli acerrimi rivali India e Pakistan di condividere il campo e di evitare una grave frattura all'interno dell'organizzazione.
Sajjad Azhar, analista senior di Islamabad, ha dichiarato a The Cradle: "È fondamentale riconoscere che, tra i paesi più colpiti dal terrorismo, il Pakistan si distingue come membro di spicco della SCO, che sta subendo le profonde ripercussioni di questa sfida".
Sottolinea che, se l'esercitazione si fosse tenuta in Pakistan, l'India avrebbe potuto non parteciparvi, esacerbando le tensioni all'interno della SCO. L'Iran, territorio neutrale per questi rivali dell'Asia meridionale, ha consentito a entrambi di partecipare senza interruzioni.
Un'esercitazione antiterrorismo rivolta all'Occidente
Ma tempi e luoghi nascondevano anche intenti più profondi. Funzionari e commentatori iraniani hanno interpretato Sahand-2025 come un avvertimento alle potenze occidentali. Azhar afferma che le esercitazioni antiterrorismo della SCO segnano un importante punto di svolta per l'Iran, che ha aderito al gruppo nel 2023.
Le tattiche antiterrorismo della SCO hanno ostacolato i tentativi di Stati Uniti e Unione Europea di etichettare l'IRGC come Organizzazione Terroristica Straniera (FTO). L'esercitazione ha evidenziato che l'IRGC è ben lungi dall'essere un'organizzazione terroristica; al contrario, si pone come una formidabile forza antiterrorismo, considerata una solida linea di difesa contro le minacce terroristiche regionali.
Come aggiunge Azhar:
"Questa esercitazione antiterrorismo invia un messaggio chiaro agli Stati Uniti e all'Occidente, sconvolgendo la loro percezione della SCO come un'alleanza economica piuttosto che una coalizione militare. Esercitazioni di questa natura, attualmente classificate come antiterrorismo, potrebbero presto ampliare il loro ambito di applicazione per includere qualsiasi Stato avversario ritenuto pertinente alla definizione di terrorismo. Di conseguenza, le iniziative condotte dalla SCO, riconosciuta come la più grande organizzazione regionale per popolazione e che rappresenta un quinto del PIL mondiale, avranno senza dubbio un impatto significativo".
Sicurezza interna, alleanze esterne
Sul fronte politico, l'Iran mira a sfruttare l'influenza della SCO per dimostrare il suo allineamento con importanti attori eurasiatici e dissipare la percezione di isolamento. La prima esercitazione antiterrorismo della SCO in assoluto mira a trasmettere un messaggio piuttosto che limitarsi a dimostrare la sua potenza militare. Teheran mira a presentarsi come un attore sulla scena globale, dimostrando di possedere una reale capacità multilaterale per affrontare le questioni di sicurezza regionale.
Zahir Shah Sherazi, vicepresidente esecutivo di BOL News, ha spiegato a The Cradle che l'esercitazione antiterrorismo della SCO in Iran è un evento di importanza strategica:
"Sebbene non possa essere classificata come un'esercitazione militare su larga scala in termini di portata e intensità, ha indubbiamente inviato un messaggio da parte di Teheran e degli stati membri della SCO agli Stati Uniti e ai loro alleati, a significare che l'Iran non è più isolato ed è un partner importante delle nazioni della regione".
Sherazi afferma che l'Iran ha tratto beneficio da questa esercitazione attraverso il suo allineamento con il blocco eurasiatico e, sebbene la SCO non svolga un ruolo militare, lo svolgimento di questa esercitazione nella provincia iraniana dell'Azerbaigian orientale funge da messaggio al mondo occidentale e da sostegno morale per l'Iran.
L'esercitazione ha rafforzato la posizione dell'Iran come attore fondamentale per la sicurezza in Eurasia, sfruttando la sua influenza nella SCO per salvaguardare rotte vitali come il corridoio Nord-Sud , che si estende dal Mar Caspio al Golfo Persico, e i collegamenti con il Caucaso e l'Asia centrale.
In un'intervista al Tehran Times, Kazem Gharibabadi, viceministro degli esteri iraniano per gli affari legali e internazionali, ha affermato che l'organizzazione delle esercitazioni Sahand da parte dell'Iran era un'iniziativa volta ad "allineare e costruire una coalizione in linea con una nuova architettura per la sicurezza regionale".
Il 2 dicembre, il Presidente del Parlamento iraniano Mohammad Bagher Ghalibaf ha sottolineato che le estese esercitazioni congiunte antiterrorismo inviano un segnale forte ai principali attori del settore. Le esercitazioni rivelano la ferma determinazione delle nazioni indipendenti a proteggersi dalla pesante mano dell'oppressione in tutto il mondo.
Ghalibaf ha osservato che le esercitazioni dimostrano una forte determinazione delle nazioni indipendenti a proteggersi dall'oppressione globale, evidenziando la costante traiettoria ascendente delle partnership di difesa dell'Iran e gli sforzi di collaborazione con altri paesi della regione.
Integrazione eurasiatica e messaggi del dopoguerra
Intervenendo a una conferenza stampa il 2 dicembre, il Generale di Brigata Vali Ma'dani, vicecomandante delle operazioni dell'IRGC e responsabile dell'esercitazione, ha sottolineato l'enorme importanza delle "Esercitazioni Congiunte Antiterrorismo Sahand-2025", poiché l'Iran è costantemente in prima linea nella lotta contro il terrorismo e le fazioni terroristiche. Ha sottolineato che l'Esercitazione Congiunta Antiterrorismo Sahand-2025 si tiene in Iran dopo la guerra di 12 giorni con Israele di giugno, il che la rende di fondamentale importanza.
Il comandante ha dichiarato: "Abbiamo assistito alla tragica perdita di 17.000 nostri cittadini, tra cui donne e bambini, per mano di questi terroristi e siamo pronti ad affrontare il terrorismo a testa alta".
La scelta dell'Azerbaigian orientale – una regione con una presenza attiva di militanti curdi e con correnti nazionaliste azere – trasmette anche un messaggio di chiusura. Con fazioni curde attive lungo i confini settentrionali dell'Iran con Armenia e Azerbaigian, inclusa l'enclave di Naxcivan, e accusate di contrabbando di armi transfrontaliero, l'esercitazione Sahand rafforza la determinazione di Teheran a reprimere la militanza separatista.
Sherazi racconta a The Cradle che il sottotesto dell'esercitazione ha probabilmente turbato sia i ribelli curdi che i militanti azeri, perché questa esercitazione militare è indubbiamente focalizzata sui gruppi militanti del Nord-Est, che potrebbero percepire una minaccia nell'allineamento dell'Iran con l'Armenia e l'Azerbaigian:
"L'attenzione principale del meccanismo antiterrorismo della SCO è rivolta all'Afghanistan, dove i gruppi militanti operano liberamente, rappresentando una minaccia significativa per Cina, Pakistan, Iran e paesi dell'Asia centrale. L'imminente guerra al terrorismo sarà combattuta in territorio afghano".
Approfondendo ulteriormente la questione, osserva che l'Iran vuole che questo evento serva da leva per stabilire collegamenti con gli stati dell'Asia centrale, in particolare alla luce degli sviluppi in corso in Afghanistan.
"Questa iniziativa della SCO ha dato impulso alle alleanze regionali tra Pakistan, Cina, India, Iran, Russia e le repubbliche dell'Asia centrale, tra cui Bielorussia, Tagikistan e Uzbekistan, sotto l'egida del formato di Mosca. Sebbene sia prematuro in questa fase ipotizzare che questo meccanismo antiterrorismo possa evolversi in una forma di cooperazione militare, tale possibilità non può essere del tutto esclusa."
Verso una futura alleanza militare SCO?
Oltre agli obiettivi immediati di lotta al terrorismo, l'esercitazione Sahand-2025 potrebbe gettare le basi per un'integrazione militare più ambiziosa.
Con la partecipazione di esponenti della Bielorussia e dell'Uzbekistan, e con membri potenti come Cina e Russia che hanno assunto ruoli di primo piano, l'esercitazione ha proiettato un fronte eurasiatico in crescita, pronto a contrastare collettivamente le minacce esterne.
Per l'Iran, le esercitazioni hanno rappresentato un rifiuto degli sforzi di isolamento occidentali e una riaffermazione del suo orientamento strategico verso est.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
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Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 13:30:00 GMT
L'11 dicembre, il ministro degli Esteri taiwanese Francois Wu avrebbe effettuato una visita segreta in Israele, nell'ambito della cooperazione in materia di difesa tra la città di Taipei e Tel Aviv, secondo quanto riferito da alcune fonti alla Reuters.
Le fonti hanno rivelato che la visita è avvenuta questo mese. Il Ministero degli Esteri taiwanese ha rifiutato di commentare se il viaggio abbia avuto luogo.
"Taiwan e Israele condividono i valori della libertà e della democrazia e continueranno a promuovere pragmaticamente scambi e cooperazione reciprocamente vantaggiosi" nei settori del commercio, della tecnologia e della cultura, accogliendo al contempo forme di cooperazione più "reciprocamente vantaggiose", ha affermato il ministero in una dichiarazione alla Reuters.
Il Ministero degli Esteri israeliano non ha risposto alla richiesta di commento.
Le fonti di Reuters non hanno fornito dettagli sulle discussioni svoltesi e non hanno confermato se i colloqui abbiano toccato il nuovo sistema di difesa aerea di Taiwan, il T-Dome, ispirato al sistema israeliano Iron Dome.
Il presidente taiwanese Lai Ching-te aveva affermato il 28 ottobre di quest'anno che Israele serve da modello per l'isola nel rafforzare le sue difese, evocando la storia biblica di Davide e Golia.
"Il popolo taiwanese guarda spesso all'esempio del popolo ebraico quando si trova ad affrontare sfide alla propria reputazione internazionale e minacce alla propria sovranità da parte della Cina. Il popolo di Taiwan non si è mai scoraggiato", aveva ricordato Lai Ching-te.
"La determinazione e la capacità di Israele di difendere il proprio territorio rappresentano un modello prezioso per Taiwan. Ho sempre creduto che Taiwan debba incanalare lo spirito di Davide contro Golia, opponendosi alla coercizione autoritaria".
Qualche settimana prima, Taiwan aveva presentato il sistema T-Dome ispirato all'Iron Dome.
"Speriamo di costruire una rete di difesa aerea più completa, con un tasso di intercettazione più elevato", aveva dichiarato all’epoca una fonte anonima alla Reuters .
In risposta alla presentazione dei piani di difesa aerea in ottobre, la Cina ha accusato Taiwan di "cercare l'indipendenza con la forza", aggiungendo che ciò avrebbe portato solo a un conflitto.
Le difese aeree di Taiwan si basano principalmente sul sistema Patriot degli Stati Uniti e sui missili Sky Bow sviluppati localmente.
Il 21 ottobre il portale Intelligence Online ha riferito che il viceministro della Difesa di Taiwan si è recato segretamente in Israele per chiedere aiuto nello sviluppo del T-Dome.
Secondo l'agenzia di stampa, Israele avrebbe fornito a Taiwan tecnologie e competenze in materia di difesa sotto forma di programmi civili.
Inoltre, Tel Aviv starebbe aiutando Taipei a integrare elementi dei suoi sistemi Green Pine e Arrow per sviluppare il sistema missilistico Tian Gong-4, che farà parte della rete T-Dome.
Secondo il portale, Washington ha dato il via libera alla cooperazione tra Israele e Taiwan.
Taiwan e Israele non intrattengono relazioni diplomatiche formali. Le pressioni della Cina, che considera Taiwan una delle sue province, hanno lasciato Taipei con pochissimi legami diplomatici con altri stati. Le visite all'estero di funzionari taiwanesi sono piuttosto rare.
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Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 13:30:00 GMT
di Giuseppe Giannini
I soliti noti, Google, Amazon e Microsoft, hanno messo le mani sul settore di cui si straparla: l'intelligenza artificiale. Ancora una volta, essi sono i padroni da cui dipenderanno tutte le realtà, aziendali e statali, che vorranno investire per migliorare la loro efficienza.
L'oligopolio tecnologico conferma la tendenza emersa, in passato, nel mezzo della globalizzazione economica dove, sul finire del secolo scorso, pochi grandi gruppi dettevano legge sopra governi e nazioni, imponendo regole basate, unicamente, sulla competitività, e quindi prive di etica. Sacrificando territori, ambiente e popolazioni.
E' avvenuto, soprattutto, nei settori dell'agrobusiness con il monopolio delle sementi, e della fermaceutica con i brevetti. Qualcosa di simile è alle porte. La mancanza di trasparenza e la sudditanza delle classi dirigenti per il profitto di pochi. Abbiamo a che fare con tecnologie e dispositivi immediatamente operativi, usufruibili da tutti (pensiamo alla messaggistica WhatsApp con I.A. incorporata). Un monopolio, quindi, che impatta direttamente sulle vite, rendendo normali le procedure di acquisizione, estrazione e diffusione di contenuti, che, invece, richiederebbero la supervisione delle autorità governative.
Un conto è l'accessibilità in contesti nei quali già sussiste un patrimonio culturale-esperenziale (conoscitivo), nei quali l' I.A. viene vista come supporto, che aiuta a rendere più facili i compiti. Tutt'altra cosa è la diffusione di strumenti autogenerativi di contenuti sostitutivi delle attività umane. Dai quali bisognerebbe diffidare e prendere le distanze ( i video che riproducono le sembianze di persone e che possono essere utilizzati per gli scopi più diversi, anche per nuocere agli avversari). Una sorta di doppelganger, doppio malefico prestazionale, che appare quasi perfetto, presentabile, ma, in quanto tale, irreale.
Urge, dunque, la regolamentazione seria del settore, onde evitare che possa, con le sue infinite possibilità spingere ancora oltre la disumanizzazione delle vite ( modellate e sconvolte dall'internet delle cose nel quale l'orizzontalità, invece che essere sinonimo di democrazia, è diventata strumento di asservimento e dipendenza). Non meno rilevante è l'impatto ambientale. Le energie richieste dai data center, infatti, comportano l'utilizzo eccessivo di elettricità ed acqua. Alla pari delle tecniche di estrazione delle terre rare o delle monete dei circuiti dei mercati paralleli (le criptovalute) si risolvono in meri consumatori di risorse, determinando, di conseguenza, diffuse emissioni di CO2, impatto climatico sui territori, desertificazione, ed impoverimento diffuso, E fenomeni estremi, tra i quali ricomprendere anche possibili blackout elettrici causati dal sovraccarico delle reti.
E' del tutto evidente che il tanto decantato progresso sia qualcosa di riservato per pochi eletti, che ne detengono le redini ed agiscono nelle retrovie da manovratori delle esistenze altrui. Anzi, sarà la causa di forme inedite di sfruttamento. Di cacciata degli indesiderati (il controllo intelligente delle frontiere, l'attacco ai migranti e le nuove guerre ipertecnologiche). E di espulsione dal mercato del lavoro di centinaia di milioni di persone. Posti persi e mai più recuperabili, per i quali non è pensata nessuna forma di risarcimento o di sostegno di base al reddito. L'intelligenza artificiale come la risultante della divisione sociale dei (e nei) lavori. Gerarchie, specializzazioni, inasprimento delle differenze sociali. Con la stessa forza-lavoro che la produce, si impegna nell'apprendimento e, alla fine, viene abbandonata al suo destino.
Il sapere condiviso messo a disposizione dei diktat calati dall'alto. I quali impongono, così come avvenuto con internet, la rimodulazione delle produzioni, dei servizi e dei lavori. La nascita di nuove competenze darà luogo a nuovi lavori, che rimarranno in essere sino a quando il mercato lo vorrà. Altre, vecchie mansioni, scompariranno. Il meccanismo di sostituzione sarà ancora più intensivo. Il fine, malgrado l'apparente leggerezza nella esecuzione delle attività, è sempre quello dell'estrazione del plusvalore.
Se nei settori meno qualificati (riguardo alle competenze dei lavoratori ed ai mancati investimenti nelle innovazioni) permangono antiche forme di sfruttamento, con turni, retribuzioni e scarse protezioni sociali, in quelli adattati al cambiamento il plusvalore è determinato dal risparmio di tempo. Ciò non vuol dire che non vi sia assenza di servilismo che, in questi casi, corrisponde alla prestazione che (e)segue i dettami della macchina-mostro intelligente.
Il lavoratore accetta gli ordini e mette a disposizione le sue competenze per garantire i profitti, mentre gli eventuali miglioramenti sono tutti da verificare. Rimangono contesti (i costi sociali ed ambientali) da sacrificare via via che si scende nella scala dei lavori e le operazioni richiedono manualità a basso costo. Più le innovazioni sono sofisticate maggiori sono le potenzialità dei dispositivi di indurre alla subordinazione ed al controllo di quanti non riescono ad avere la capacità di districarsi all'interno di un mondo che si autoalimenta da se.
Quando il mezzo della tecnica viene a sostituire l'operatività umana ne elimina, conseguentemente, ogni possibile, futura attività. La vita disciplinata dalla tecnologia rende subumane le esistenze, indottrinate dalle magnifiche sorti progressive delle qualità dei soggetti alieni, che trasformano il tempo, lo spazio, la percezione stessa. L'evoluzione che, da internet all'intelligenza artificiale, diventa qualcosa di strumentale per il dominio. Sorveglianza, controllo da remoto, spersonalizzazione. Tutti connessi ma distanti dal sé e dagli altri. L'assenza come fatto normalizzato dal totalitarismo digitale.
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Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 13:00:00 GMT
di Federico Giusti
Nei prossimi giorni entreremo nel vivo della discussione sulla Legge di Bilancio, una discussione blindata a colpi di maggioranza senza alcun confronto sul Riarmo, sulle spese militari, sulla manovra fiscale e su quella del lavoro.
Per tenere buoni i sindacati del comparto sicurezza, e in vista del grande Riarmo, potrebbero congelare i tre mesi in più di lavoro prima della pensione, escludere dall'aumento gli usuranti e i militari ma non tutti gli altri per aggiungere poi qualche misura economica come incremento del welfare per gli uomini in divisa e il pacchetto degli straordinari che ammonta a milioni di euro (forse senza copertura?)
Intanto il governo accelera sul riarmo e lo fa con le solite modalità, trasmettendo vari decreti ministeriali alle commissioni, spacchettando la spesa complessiva perchè sfugga all'umana quantificazione, molte spese afferenti alla difesa le ritroveremo su tanti capitoli di bilancio. Parliamo di acquisti di armi, non di impegni umanitari, per l’osservatorio Milex sarebbero superiori a 4,3 miliardi di euro se consideriamo la intera legislatura gli impegni finanziari complessivi sono di circa 234 miliardi di euro
Una enormità se confrontata con le risorse stanziate con il classico contagocce per la sanità, per la manutenzione del territorio per le assunzioni nella PA.
Primi dati programmatici del MEF: in tre anni 23 miliardi in più per le spese militari - MIL€X Osservatorio sulle spese militari italiane
L'opinione pubblica viene informata a piccole dosi, ad esempio non si racconta che solo tra un anno toccheremo con mano l'aumento della spesa militare quantificata attorno ai 32 miliardi.
Allora decreto su decreto, per ricostruire la spesa militare saranno necessarie migliaia di pagine di documentazione per ricostruire una immagine veritiera, ci potremo imbattere nel supporto manutentivo di sistemi di arma da ammodernare fino alle spese vive o ad altre definizioni dietro alle quali si celano investimenti in campo militare.
Cambieranno i linguaggi e i riferimenti tecnici proprio per rendere suggestivo ed esaustivo l'intervento del Governo, basti pensare che alcuni interventi riguardano navi di 10 anni considerate già vecchie e superate.
I programmi di ammodernamento riguardano tutte le forze armate, poi ci sono i capitoli di investimenti nelle tecnologie di nuova generazione, l'acquisto dei droni e dei missili dagli Usa perché il riarmo auspicato da Trump, anzi imposto, offrirà grande impulso alla produzione di sistemi di arma da parte delle multinazionali statunitensi.
E come già avvenuto nel recente passato, le spese militari potrebbero essere superiori alla quantificazione resa nel Documento programmatico pluriennale della Difesa adducendo magari la motivazione del rincaro dei prodotti generato dall'aumento dei costi energetici (anche questi acquistati, a caro prezzo, dagli Usa).
Urge ricordare ai nostri smemorati giornalisti che alcuni capitoli di spesa afferiscono a ministeri diversi da quello della difesa pur contribuendo direttamente alla spesa militare. E non desti meraviglia che tra le misure a sostegno dell'economia nazionale siano annoverate anche le iniziative a sostegno di tecnologie duali.
Nella audizione in Commissione difesa, al Parlamento italiano, il manager della principale azienda militare tedesca ha ricordato che il futuro delle aziende del vecchio continente sta proprio nel costruire delle alleanze, delle associazioni temporanee di impresa, gli investitori pubblici e privati puntano sulla cooperazione europea per recuperare quelle tecnologie oggi provenienti da altri paesi, Israele e soprattutto Usa in primis. Ercolani, è il nome del manager, punta il dito direttamente sulle falle del sistema attuale, sui tempi burocratici troppo lunghi, sulla necessità di velocizzare le alleanze e le conseguenti pratiche industriali. E non a caso si parla di ampliare le deroghe alle normative vigenti ogni qual volta si parla di nuove basi militari, di interessi nel settore bellico.
La politica da tempo è asservita e affascinata da certi sistemi di potere, del resto in molti paesi nei consigli di amministrazione delle industrie strategiche troviamo esponenti politici, ormai esiste una porta scorrevole a dividere gli incarichi manageriali e quelli a capo di importanti dicasteri. Il modello statunitense si è affermato anche da noi. Non a caso Ercolani parla apertamente di simbiosi (che) serve a facilitare alcune decisioni. Serve un nuovo modello di Stato-industria-apparato militare che facciano parte dello stesso meccanismo
https://www.analisidifesa.it/2025/12/le-criticita-della-difesa-laudizione-di-ercolani-rheinmetall-italia-alla-commissione-difesa-della-camera/
Nel frattempo, il Governo prosegue nella sua corsa verso l'approvazione della Legge di Bilancio e non solo blinda il testo da portare in Parlamento ma impedisce il dibattito sui singoli punti, ad oggi ad esempio non è dato conoscere i contenuti del decreto sugli aiuti militari a Kiev per il prossimo anno che la Meloni pare abbia concordato direttamente con Bruxelles e Trump. Insomma, se queste sono le premesse di motivi per cui preoccuparsi ve ne sono fin troppi.
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Data articolo: Fri, 12 Dec 2025 11:30:00 GMT