Oggi è Martedi' 16/12/2025 e sono le ore 05:57:10
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Martedi' 16/12/2025 e sono le ore 05:57:10
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
di Fulvio Grimaldi per l'AntiDiplomatico
Noi e l’America Latina…
Due parole per chiarire il titolo. Heartland, cuore della Terra, o terra-cuore, era per il mitivo geopolitico USA Zbigniew Brzezinski, nella configurazione della sua Grande Scacchiera, la regione del mondo di cui un impero doveva essere in possesso. per potere esercitare un dominio globale. Si trattava delle immense aree interne dell’Eurasia. Da qui il confronto epocale con l’URSS, divenuto Guerra Fredda.
Ciò che ci ha fatto intendere Donald Trump, con le sue recenti dichiarazioni sui propositi strategici degli USA, è uno spostamento drastico dell’attenzione e delle intenzioni, dall’Eurasia vagheggiata dal politologo di Jimmy Carter, alla più vicina e concreta America Latina. Ce ne siamo accorti, noi italiani? Non crediamo di avere buoni motivi per interessarcene?
Penso che per una volta noi italiani, abituati a denigrarci, a non considerare e neppure a ricordare chi si è speso per il nostro paese e con eccellenti risultati (Guerre e lotte di liberazione tra ‘800 e Resistenza partigiana), possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Parlo della Palestina, di come siamo stati pronti e determinati a conoscerla, sostenerla, difenderla in tutti i creativi modi con cui ci siamo mobilitati in massa, traendone anche consapevolezza politica più vasta e profonda dell’ambito colonialista specifico. Bene, bravi, 7+.
Ma l’America Latina? A suo tempo un discreto movimento per Cuba, poi per il Venezuela molto di meno, qualcosina per il Nicaragua… In America Latina vivono oltre 1,5 milioni di italiani registrati all'AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero), con le comunità più numerose in Argentina (circa 870.000) e Brasile (oltre 470.000), secondo dati aggiornati a circa il 2021/2022, ma il numero totale di persone di origine italiana è molto più elevato, contando decine di milioni di persone (oriundi). In Venezuela gli italiani registrati sono 150mila, ma quelli che si dicono italiani sono almeno 1 milione. Erano cinque, ma sono venuti via in tanti dopo il cambio di paradigma imposto al paese dalla rivoluzione bolivariana di Chavez e Maduro che ha posto fine a una casta di privilegiati di cui imprenditori italiani erano protagonisti.
Allora, lasciando da parte fenomeni planetari ed epocali, tipo Palestina o il conflitto ucraino, com’è che l’annunciato assalto trumpista al Venezuela, paese di 28,5 milioni di abitanti, protagonista del più grande rivolgimento continentale, a rischio di finire come Gaza, non colma né le piazze, né gli schermi, né le pagine dei giornali? E del Nicaragua veniamo a sapere qualcosina, solo perché i vescovi cattolici locali, protagonisti di una controrivoluzione antisandinista scatenata dal solito mercenariato ONG, si dicono perseguitati e repressi dal regime?
Questa situazione di assenza, sconoscenza, ignavia, meticolosamente perseguita dal nostro sistema politico-mediatico integrato, quando non sia il caso di ripetere a pappagallo le calunnie inventate da qualche yankee vorace di risorse naturali, non è casuale e neppure innocente. L’America Latina, superato qualche soprassalto di interesse giovanile per le dittature del Condor kissingeriano e relative resistenze armate, e per la rivoluzione cubana, da tempo catalogata e archiviata, è roba yankee. Roba del padrone. Che non gradisce ingerenze e meno gli altri se ne occupano e più è padrone di occuparsene lui.
Tanto più che, con Trump, ha vigorosamente manifestato una nuova strategia; quella che mette al centro l’America Latina e le sue sconfinate risorse, con simultaneo abbandono dell’Europa, derelitta con poco in dispensa, che di risorse da rapinare non ne ha e che, anzi, a suo tempo ha fatto danno prevalendo nel campo della manifattura. Un rilancio della dottrina Monroe, controllo USA sull’emisfero, che ora qualcuno chiama “Donroe”.

Qui diamo uno sguardo a una serie di sviluppi di stretta attualità, ma che non sembra siano considerati, dai soloni mainstream della nostra geopolitica, degni di notizia o addirittura di approfondimento. E pensare quale scossone darebbe agli equilibri mondiali ì’ipotesi, seriamente studiata, di un canale nell’ istmo tra Caraibi-Atlantico e Pacifico tracciato in Honduras o Nicaragua, che sostituisca quello di Panama, nodo scorsoio nordamericano dai cui porti si sta cercando di cacciare i cinesi.
Anni ’70, non solo Pinochet
Chi era in giro negli anni 70, e credo che siamo in parecchi visto l’invecchiamento della popolazione, si illuminerà al ricordo degli Inti Illimani e gli verrà da canticchiare una canzone che parlò al mondo di Ande, di dittatura e di resistenza. Una resistenza che non fece vincere i cileni, almeno non allora, ma che animò e diede scopo a quella di mezzo mondo. La parte nostra di quella resistenza quelli che se ne videro messi in discussione la chiamarono, per esorcizzarla, “anni di piombo”.
Noi invece avevamo capito, anche grazie agli Inti Illimani e all’altro grande cantore di quella rivoluzione, Victor Jara, che il Cile, dopo la Cuba del Che e di Fidel, aveva fatto della lontana - tenuta lontana apposta dalla cosca politico-mediatica - America Latina, terra anche nostra, un cuore e una volontà unica: El pueblo unido jamas serà vencido! Un canto, un grido che ha superato tutte le sconfitte, accompagnato le rivincite, resistito nell’oscurità. Un grido che si oppose agli artigli e al gracidare del “Condor”, operazione kissingeriana che l’ebbe vinta, ma per poco, fino a quando non fu del tutto spennata dal Venezuela di Chavez.
Il Cile, Cuba, ma anche il Portogallo dei colonelli rivoluzionari (i militari non sono necessariamente tutti dei Cavo Dragone), ci indicarono chi erano i nuovi nemici dell’umanità, quelli che, rimesso in standby il fascismo, ci stavano di nuovo addosso con i suoi succedanei. Nemici d’oltremare, imbellettati da liberatori, che avevano sostituito i vecchi colonialisti, spompati e debellati dalle rivoluzioni africane e asiatiche. Da noi si erano dati da fare per coltivare nuove classi dirigenti che ci tenessero in riga.
Gli anni della resistenza al Condor di Kissinger, che impiantava ovunque nel subcontinente degli orridi Jack Squartatori in divisa, erano anche quelli del riverbero europeo e noi di Lotta Continua ci demmo da fare per esserci, farlo sapere, provare anche di dare una mano. Aprimmo una sede a Lisbona, quando vi fiorivano i garofani che avrebbero strozzato il tiranno Salazar. Andammo in Cile dove, ucciso Allende, a socialisti e comunisti disorientati diede nerbo il MIR, Movimiento de la Isquierda Revolucionaria, che provò a tenere. Andammo per raccontare e portare quanto avevamo potuto raccogliere all’insegna del motto “Armi al MIR”. Nessuno si scandalizzò. Erano tempi in cui i popoli di Congo, Kenya, Mozambico, Angola, Palestina, Vietnam e poi Egitto, Siria, Iraq non permettevano che la parola rivoluzione armata, o resistenza armata, diventasse reato da leggi e neocodici penali e da negazione di sale per convegni.
Cile, la sinistra con le scarpe della destra

Jeanette Jara e Antonio Kast
Mentre scrivo, il risultato del ballottaggio presidenziale cileno non è ancora stato comunicato. Ma è difficile che ci siano sorprese, anche perchè tra i due contendenti, la prima arrivata, comunista, non ha dietro di sé che quel triste 27% del primo turno. Mentre l’avversario postnazista si avvale, oltrechè del suo 23,9% anche di quanto gli portano i successivi terzo, quarto e quinto del primo turno, tutti che non si distinguono essenzialmente che per le facce e gli abiti che portano. Quanto all’essenziale – che Cile, quali rapporti di classe, che fare dei residui del pinochettismo, mai del tutto rimossi dal predecessore Boric, come trattare la minoranza emarginata dei Mapuche, e, soprattutto come rapportarsi a chi da sempre, con le sue forze economiche, militari e d’intelligence, prova a determinare le stagioni del paese – le differenze sono quelle che trovi tra una ‘ndrangheta e una camorra.
In Cile è andata male. Da uno, Gabriel Boric, venuto a galla sui grandi sommovimenti, soprattutto studenteschi contro il tardo, ma irriducibile, pinochettismo della fine del secondo decennio del secolo, ci si erano aspettate grandi cose. Nessuna delle quali si è avverata. Uno stanco e moscio tran tran che non aveva modificato la Costituzione, lasciato l’economia preda dei soliti gruppi interni ed esteri, mantenuto in piedi il vecchio apparato repressivo, non aveva intaccato la presa delle corporation USA sulle risorse del paese, a partire da rame e litio. Ed era quello “de sinistra”. Almeno all’ONU si è dato un tono positivo auspicando l’arresto di Netanyahu.
Così alle elezioni arriva prima una comunista, Jeanette Jara, già ministra del lavoro con Boric, ma appena col 27%. Al ballottaggio era data per scontata la vittoria del primo dei due pinochettisti duri, arrivati secondo e terzo. Il Contendente di Jara è Josè Antonio Kast, del fascistoide Partito Republicano, figlio di un esule nazista della famigerata “Comunità Dignità” di rifugiati del Reich, arrivato al 24%. Sono noti i suoi stretti legami con il partito spagnolo dell’ultradestra VOX, anche intensamente frequentato dalla nostra premier Meloni: “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”….
Il quarto arrivato, Johannes Kaiser, Partito Nazionale Libertario, stessa risma e stessa matrice, contribuisce col 14%.all’affermazione dell’estrema destra. Al potenziale 38% ottenuto dai due al primo turno si dovrebbe sommare il 12,4% di un’altra destrissima, Evelyn Mattei, figlia di un ufficiale membro della giunta di Pinochet e, forse, il sorprendente 19,71% dell’immancabile “populista”, Franco Parisi, “Partito della Gente”, riuscito a scalzare Kaiser dal terzo posto. Ci si prospetta un personaggio che si girerà a seconda del vento che sente tirare.
Quanto ai risultati delle contemporanee elezioni legislative, la tendenza a destra è confermata dalla sua avanzata nella Camera dei Deputati, con 155 seggi, e nel Senato, con 23 seggi su 50.
Con la destra al 70%, anche se per un miracolo dovesse ora arrivare in testa Jeanette Jara, con il suo controverso sforzo di ricupare il voto moderato, vecchia tara, il Cile che neppure il “sinistro” Boric è riuscito ad estrarre dalle secche del pinochettismo diffuso, più o meno mimetizzato, rimane saldo nelle mani dei suoi potentati economici. Salvo una rivoluzione, che però non è alle viste neanche nei programmi del Partito Comunista di Jara. Una preoccupazione di meno per chi ha messo al centro della propria strategia “detta di Sicurezza”, da leggersi come aggressivamente colonialista, la rinnovata dottrina Monroe.
Che poi vuol dire controllo del Sud Pacifico, di buona parte dell’Antartide, rame, litio, molibdeno, prodotti agricoli. E di un rafforzamento della regressione del Cono Sud, Argentina, Bolivia, Paraguay, Ecuador, Perù, nel recinto del famigerato “cortile di casa” Cortile in cui dare spazio ai giochi estrattivi delle multinazionali, sostenuti da regimi “forti”.
A chiusura dei conteggi dei voti per il ballottaggio presidenziale in Cile, è risultato vincitore Jose Antonio Kast con Il 58'3%.
Jeanette Jara, del partito comunista, si è classificata seconda con il 41,7%.
Dopo 35 anni dall'uscita di scena del generale Pinochet, un esponente dell'ultradestra pinochetista conquista la Moncada.
Honduras-Trump, golpe elettorale in corso

Mentre scrivo, in Honduras alle prese dal 30 novembre con le elezioni presidenziali, in seguito a una valanga di calcoli sbagliati, voti spariti e pesanti ingerenze di Trump, il caos è totale. Il Partito al governo, Libre, ha chiesto l’annullamento delle elezioni.
Nel nome di una resistenza di popolo al golpe di Obama e Hillary Clinton, irriducibile per una dozzina d’anni di dittatura fintoparlamentare sotto stretto controllo USA, nel 2022 Xiomara Castro aveva restituito all’Honduras, paese strategico dell’America Centrale, assediato da luogotenenti yankee, libertà, sovranità, dignità. Non è bastato. Troppo gravi le problematiche strutturali economico-sociali, superate solo in misura ridotta. Il tasso di povertà è calato dal 75% al 60%, ma l’insicurezza alimentare colpisce 1,7 degli 11 milioni di honduregni, grazie anche ai danni ai raccolti prodotti da siccità e inondazioni.
Alle elezioni presidenziali del 30 novembre Rixi Moncada, candidata di LIBRE (Libertad e Refundacion), il partito, ispirato alla rivoluzione bolivariana, di Manuel Zelaya, presidente spodestato dal golpe del 2009, e poi di Xiomara, sua moglie e presidente dal 2022, si è dovuta accontentare, dopo metà dei voti contati, di un deludente terzo posto, inchiodata al 19’18%. Segno di quanto poco la popolazione ha apprezzato la gestione del dopo-vittoria del 2022 da parte di Xiomara Castro. Ma segno, forse più forte, di quanto possa l’intervento di Trump in un paese formalmente sovrano.
I conteggi, diventati estenuanti e chiaramente oggetto di manipolazioni, rilevati anche dagli osservatori UE, hanno poi avuto degli sbalzi che però riguardavano le rispettive posizioni dei due arrivati in testa: Nasry Tito Asfura del Partido Nacional Conservador, grande palazzinaro, tycoon di riferimento dei 25 massimi gruppi economici della regione, sospinto senza pudore da Trump, e Salvador Nasralla, Partido Liberal, una specie di Zelensky dagli analoghi trascorsi da divo TV e per Trump seconda scelta. Quasi appaiati dopo i primi conteggi, 40% all’uno, 39,80%, insieme rappresentano una estrema destra di quasi l’80%, Che è oggi la forza della destra nel paese, intimamente legata ai narcos.
Trump, i narcos, quelli veri, non vengono bombardati

Trump e Asfura
Non per nulla Trump si è speso oltre ogni limite di ingerenze abusive a favore di Asfura. Non solo ripetendo la formula servita in Argentina a far vincere Milei, mediante il ricatto: vi do 40 miliardi di dollari, ma solo se fate vincere Milei. Nel caso di Asfura è arrivato a esaltarne la qualità morale offrendo l’amnistia a un suo vecchio sodale, l’ex-presidente Juan Orlando Hernandez, battuto nel 2022 da Xiomara Castro e successivamente condannato da giudici statunitensi a 45 anni di prigione per narcotraffico. Incredibilmente, insieme a un presidente narcotrafficante, ne risulta riabilitato anche questo suo intimo e probabile successore. Liberato dalla sua prigione a New York e trasferito a Tegucigalpa per sostenere il suo emulo nell’attuale corsa al primato, questo ex-presidente narcos è stato fatto immediatamente riarrestare, a esecuzione di un mandato dell’Interpol, da un per niente intimidito ministro della Giustizia honduregno.
Va dunque, per Trump, ripreso il filo a suo tempo tagliato dalla rivoluzione di LIBRE. Basta questa sua iperattività per determinare l’affermazione del candidato tracimante profumo di stupefacenti a mettere in evidenza cosa intenda Trump quando minaccia guerra al Venezuela, o affonda barchini di pescatori, nel segno della “lotta al narcotraffico”? Con la denuncia della candidata apparentemente sconfitta, del suo partito e addirittura del Consiglio Nazionale Elettorale, responsabile della convalida dei risultati, di un golpe elettorale in corso, i giochi si sono riaperti. La situazione resta confusa, Il rifiuto di riconoscere i risultati provvisori della presidente uscente, Xiomara Castro, si fonda su dati concreti. Il meccanismo degli scrutini prevede un duplice conteggio: quello elettronico del TREP, che calcola i risultati preliminari e nella cui pancia pare siano scomparse alcune decine di migliaia di voti, e quella dei verbali con i dati anagrafici, biometrici e le firme degli scrutinatori, di cui altre migliaia appaiono prive di questi accertamenti. Accuse di frodi e manipolazioni, avanzate dalla sinistra si esprimono adesso anche in tumulti di piazza.
Incurante di tutto questo, Trump accentua la sua partecipazione attiva a un processo che non sembra finire mai e assume caratteri surreali. Quando, a 10 giorni dal voto, i conteggi incominciavano a dare atto di un momentaneo superamento di Asfura, Partido Nacional, da parte del liberale Nasralla, a Trump meno gradito, altro intervento a gamba tesa: “Se non vince Asfura, voi narcocomunisti non vedrete più un dollaro di aiuti americani e andrete in rovina…”
Difficile fare la cronaca di un processo che sembra arrotolarsi su se stesso. Assistiamo a un grottesco susseguirsi di colpi di scena, con scoperte di voti sottratti, ricomparsi, svaniti, interferenze esterne sempre più pressanti, con minacce trumpiane fino al livello israeliano della fame come arma di guerra, tumulti popolari davanti alle sedi del potere nella consapevolezza che si sta portando avanti un oscuro tentativo di negare la volontà degli elettori, sospensione temporanea dei conteggi a quasi due settimane dal voto. Evidentemente per chi puntava su un recupero di questo paese uscito dall’orbita USA, la posta in gioco è molto grande.
Un popolo contro i suoi schiavisti…

Juan Orlando Hernandez e papa Bergoglio
Quando arrivai in Honduras, fine giugno 2009, si stava consolidando un colpo di Stato allestito giorni prima da militari felloni su input di Obama e Hillary Clinton e facilitato da un’intelligence del Mossad israeliano di cui le orme sono presenti in ogni operazione di regime change latinoamericano, praticamente dalla Costituzione dello Stato sionista. Provocazioni e spionaggio del Mossad in America Latina, sempre a favore di soluzioni caudilliste, sono uno degli elementi costitutivi dell’interscambio USA-Israele.
Gli honduregni, eleggendo Manuel Zelaya, erano entrati nell’A.L.B.A. Alleanza Bolivariana per le Americhe, cosa che metteva a rischio il ruolo che al paese era stato da Washington assegnato di centro strategico, anche militare, per il controllo statunitense su America Centrale e Caraibi. Incrociai il responsabile Mossad all’aeroporto di Tegucigalpa, io arrivavo, lui aveva finito il lavoro e partiva.
Un golpe, squadroni della morte, un’eroina e 13 anni di lotta
La resistenza honduregna aveva qualcosa che la avvicinava a quella palestinese. Era instancabile, inflessibile, di massa. Non passava un giorno, in tutto il paese, che la mia telecamera non registrasse fenomenali manifestazioni di popolo e che dovesse evitare di essere annebbiata dai gas, o accecata dalle fucilate dei poliziotti. Una repressione feroce, sanguinaria, che non si è riuscita a fermare, per oltre 10 anni e neppure con l’inganno di elezioni prive di qualsiasi carattere di trasparenza e allestite per eliminare, almeno per l’estero, lo stigma della dittatura. Al mio arrivo a poche ore dal golpe, erano già stati uccisi, dai neocostituiti squadroni della morte, 150 esponenti della società civile.

Berta Caceres
Il contrasto alla rivolta popolare si risolse in massacri. Centinaia di persone uccise, incarcerate, fatte sparire. Ebbi occasione di conoscere il livello di elaborazione teorica anticapitalista e anticolonialista di una dirigenza rivoluzionaria fondata su una coscienza politica di massa riscontrabile forse solo in Venezuela, Nicaragua e Cuba. E ovviamente Palestina. La fusione tra istanze ecologiste, strategiche per la maggioranza di indigeni e meticci della popolazione, sociali, economiche, di forma dello Stato e di autodeterminazione nazionale, mi fu ben illustrata da Berta Caceres, figura di punta del movimento antigolpe, della cui amicizia mi potei onorare e che vidi impegnata nella difesa dalla sua comunità dei Lenca, discendenti dei Maya. Fu assassinata nel 2016 da sicari del consorzio di società contro la cui aggressione alle acque dei Lenca aveva eretto una diga di resistenza umana più alta della serie di sbarramenti artificiali programmati.
La situazione, sociale, economica, politica, scossa da inesauribili tumulti e boicottaggi, divenne ingestibile per gli stessi padrini yankee. Finiti particolarmente male dal punto di vista della rispettabilità internazionale per aver appoggiato, con Biden, la scandalosa elezione di Juan Orlando Hernandez, boss narcos tra i più rappresentativi dell’America Latina, dovettero acconciarsi a tenere, nel 2022, una prima corretta elezione presidenziale. Con Hernandez in galera, l’intelligence israeliana messa momentaneamente fuori gioco da questi trascorsi, Xiomara Castro e il movimento LIBRE riuscirono a portare alla vittoria l’Honduras liberato. Gli assassini della più illustre martire della resistenza, Berta Caceres, furono individuati, catturati e condannati a 50 anni di galera. I mandanti restano avvolti nell’oscurità. Diciamo che sono troppo lontani anche per il governo meglio intenzionato. E questo. che uscirà dalle urne del ballottaggio il 13 dicembre. non lo sarà di certo.….Gran parte di tutto questo, e parecchio altro, è raccontato qui.

Va aggiunto che, forse, per il paese di una delle più eroiche resistenze antimperialiste del continente, non tutti i giochi potrebbero essere fatti.
Di fronte alla sproporzione dei numeri del primo turno per Rixi Moncada e gli esponenti dell’estrema destra furiosamente appoggiati da Trump, Rixi, Xiomara e i vertici di LIBRE si erano, in un primo tempo, dichiarati disposti a riconoscere la sconfitta. Passando sopra le incredibili interferenze di Trump che, già da sole, avrebbero dovuto invalidare l’intero processo elettorale. Senza neanche arrivare allo scandalo dell’amnistia a un ex-presidente in galera per narcotraffico e del quale il probabile nuovo presidente si dice orgoglioso figlioccio.
Poi però il Consiglio Nazionale Elettorale, organismo indipendente, aveva registrato alcune forti anomalie. Le ho ricordate qui sopra. A una prima conta superano il mezzo milione di voti. Conteggi sospesi e addirittura comunità richiamate al voto. A questo punto l’accettazione del verdetto pronunciato dagli apparenti sconfitti, si è tramutato in accusa di golpe elettorale.
Si vedrà come andrà a finire. Certo ì che i sodali narcotrafficanti del presunto castigatore di tutti i narcotrafficanti, faranno di tutto per non mollare l’osso. E non gli mancheranno gli aiutini del Nord.
Ecuador, condor in bilico

Rafael Correa con Julian Assange
L’Ecuador, se andiamo indietro nel tempo, lo ricordiamo riscattato, dal 2007 al 2017, da una Revolucion Ciudadana, che aveva portato alla presidenza Raffael Correa. Quell’Ecuador era diventato, nel Cono Sud, insieme al Venezuela, più dell’Argentina di Kirchner e del Brasile di Lula, un faro di resistenza ai tentativi di ricupero controrivoluzionari e di ricolonizzazione yankee. La sua costituzione fondò il paese su principi di rigorosa protezione ambientale, equità sociale, inclusione indigena, sovranità e libertà di rapporti che fossero di utilità al paese.
Lenin Moreno, una mezza promessa già nel nome, era il vice che avrebbe dovuto proseguirne l’opera. Invece la tradisce, si allinea a settori criptogolpisti, rovesciandola gradualmente nel suo contrario. Uno smantellamento proseguito con il successore Guillermo Lasso, dalla barra ancora più decisamente in direzione centrodestra e filo-yankee-
Nel 2023, in una situazione totalmente mutata rispetto all’Ecuador sovrano, liberato da delinquenza e narcoterrorismo, riesce a imporsi il capo dei capi. Per quanto giovane, 38 anni, Daniel Oboa, è esponente principe della massima concentrazione di potere industriale ed economico del paese. Alla sua famiglia fanno capo le maggiori concentrazioni finanziarie ed economiche del paese. E anche nelle successive legislative e presidenziali del 2025, prevale sulla candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, prima in tutti i sondaggi e perfino in tutti gli exit poll, ma sconfitta nel ballottaggio. Cose da dare qualche peso alle accuse di elezioni rubate.
C’è però stata una significativa soluzione di continuità che apre a nuove prospettive Rivelando una coscienza politica coltivata nel decennio rivoluzionario di Rafael Correa ed espressasi in ininterrotte forme di resistenza civile, si è verificata una presa di posizione popolare da mettere in crisi gli assetti che si pensavano cristallizzati.

Daniel Noboa
Con un eccesso di sicumera, Noboa indice, su suggerimento del solito sponsor Trump, un referendum sulla proposta di una sua nuova costituzione, nettamente alternativa a quella progressista di Correa consacrata da uno smisurato appoggio nel 2008. Le proposte prevedevano, tra le altre cose, il rafforzamento dell’esecutivo a danno del parlamento e, annullando un divieto sancito da Correa, il ritorno di basi militari straniere, cioè USA e la permanenza di forze armate straniere, cioè USA, sul suolo nazionale, con tanto di complementare apparato di intelligence e di sorveglianza, Sostanzialmente un’assicurazione sulla vita e prosperità dell’attuale classe dirigente e dei suoi padrini.

Noboa, che a gennaio aveva dichiarato il conflitto armato interno in risposta alle incessanti manifestazioni di piazza, si era illuso di poter indurre i votanti ad accettare la scandalosa riduzione della sovranità grazie a una presunta zolletta di zucchero. Aveva fatto precedere i quesiti strategici da due quesiti “gancio”. Il primo: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (di cui quello del miliardario Noboa, Azione Democratica Nazionale, non ha alcun bisogno) e, secondo, riduzione a metà del numero dei parlamentari (sull’esempio infausto del M5S, ancora grillino)
La risposta degli equadoregni, accorsi a votare in massa, 81,96%, è stato un tonante No a tutti indistintamente i quesiti, con una scala di No che va dal 54% per i quesiti “gancio”, a oltre il 60% per quelli della colonizzazione militare yankee.
Ciò che oggi ci presenta il paese, già faro di giustizia e sovranità lungo la costa del Pacifico, è una realtà che con il voto referendario ha provato a riaccendere un lume in fondo al tunnel. Tunnel che vede imperversare, quasi senza contrasto, una delinquenza di bande criminali, massimamente impegnate nel mantenere al paese il ruolo di tramite tra la coca, che il Perù del golpe USA e la Bolivia del dopo-Morales sono tornate a produrre, e le rotte del traffico verso Nord attraverso il Pacifico. Criminalità organizzata o diffusa, cronaca nera, con i media che ci danno dentro in modo esasperato, ma programmato, sono qui e ovunque lo strumento per l’imposizione di restrizioni alle libertà dei cittadini.
Dal punto di vista del “combattente antidroga” che ha fatto del tema lo strumento per la riconquista del subcontinente, Noboa rappresenta l’asset principale. Secondo inchieste internazionali, condotte anche da un’esperta ONU della sicurezza antidroga, Carla Alvarez, docente al Centro di Alti Sudi sulle Armi di Quito, con Noboa l’Ecuador si sarebbe convertito in una base per le operazioni del narcotraffico internazionale. Mascherato da imprese bananiere, facenti capo alla sua famiglia, e con l’intervento logistico di mafie balcaniche, il 70% della cocaina destinata a USA ed Europa, partirebbe dai porti ecuadoregni.
Con tanti saluti a Donald Trump, fan di Noboa e combattente senza remore contro i narcotrafficanti che solo lui vede in Venezuela. Davanti alle cui coste siamo arrivati, per grazia dei bombardieri USA, a 22 imbarcazioni di pescatori affondate con 87 assassinii extragiudiziali. E al sequestro di una petroliera venezuelana diretta a Cuba, per rifornire il paese amico di energia a condizioni di favore. Pirateria di Stato di cui nessun magistrato pare voglia occuparsi.

_______________________________________________________________
PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 06:00:00 GMT
di Federico Giusti
La scommessa per la Unione Europea sarebbe quella di unificare i mercati e rilanciare investimenti, attirare capitali e gruppi capitalistici disponibili a collocarsi stabilmente nel vecchio continente.
In questi scenari (speculativi) i fondi pensione rappresentano un elemento importante. È ormai acclarata la tendenza a ridimensionare il welfare, vuoi per la riduzione delle tasse sul lavoro e non, vuoi perché l’attuale stato sociale è assai carente e avrebbe bisogno di risorse per incrementare le prestazioni erogate a fronte di una popolazione sempre più avanti negli anni e con giovani alla ricerca di lavoro e per questo bisognosi di servizi. Per scongiurare l’aumento della spesa sociale a carico dello Stato, da tempo ormai, si punta su sanità privata e previdenza complementare.
Ora si tratta, da qui a pochi anni, di accrescere il numero dei lavoratori legati alla previdenza integrativa, numero che attualmente dovrebbe aggirarsi, nei paesi Ue, attorno al 20 per cento della forza lavoro attiva. Per alcune nazioni poi l’obiettivo sarebbe di arrivare a quasi il 50% nell’arco di un decennio e di potenziare, sul modello americano, la dimensione dei fondi pensione, il loro giro di affari complessivo.
In ogni caso lo spazio riservato alla pensione complementare è destinato ad ampliarsi contemporaneamente alla crescita dei pensionati rispetto ai lavoratori attivi. Dando quindi per scontato che in futuro cercheranno di accrescere le adesioni ai fondi previdenziali, una scelta del genere sarà vantaggiosa per la forza lavoro? O, invece, si punterà sull’ampliamento dei mercati finanziari senza prendere in esame i cosiddetti effetti collaterali?
La scelta ormai non è più tra la previdenza integrativa e la conservazione del TFr in azienda, vogliono trasformare il lavoratore in scommettitore seriale, disponibile a costruirsi linee di investimento particolari, al fine di garantirsi una terza età dignitosa senza sacrifici e privazioni. Ma per favorire investimenti azionari o specifici pacchetti individuali in ambito previdenziale sarebbe necessario accrescere il potere di acquisto dei salari, gli stipendi hanno subito continue erosioni del potere di acquisto ma questa ipotesi, utile anche alle lusinghe dei titoli in Borsa, presenta contro indicazioni che scartano in partenza una opzione del genere.
Eppure, tra gli obiettivi della Ue, con tanto di proposte di legge e direttive presentate al Parlamento Europeo, appare sovente la necessità di potenziare i fondi previdenziali per rafforzare gli indirizzi comunitari e lasciando ai singoli paesi il compito dettare il tutto con un apparato normativo. E infatti, viene ribadita la necessità di mobilitare i risparmi delle famiglie per investimenti produttivi; migliorare le opportunità di finanziamento per l'economia dell'UE, anche attraendo fondi pensione in programmi come InvestEU, e aiutare gli istituti finanziari a raggiungere dimensioni, competitività globale e diversificazione. Sostiene quindi la capacità dell'UE di soddisfare le proprie esigenze di investimento a lungo termine, in particolare nel contesto delle transizioni verde e digitale.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:52025PC0842
E sempre dalla Commissione europea arrivano alcune indicazioni degne di particolare attenzione, ad esempio si considera troppo piccolo il settore della previdenza integrativa rispetto agli Usa e da qui la necessità di ampliarlo costruendo dei Fondi capaci di competere nel mondo diversificando il rischio a carico del singolo aderente.
la previdenza complementare nell'UE è fortemente frammentata tra fornitori, sistemi e prodotti, sia all'interno degli Stati membri, dove l'accesso e la copertura variano a seconda del tipo di impiego, sia a livello transfrontaliero, dove le diverse normative nazionali e i diversi regimi fiscali ostacolano la portabilità e la comparabilità. I ??sistemi pensionistici aziendali e professionali, ben consolidati in alcuni Stati membri, sono spesso vincolati a singoli datori di lavoro o settori industriali.
I fondi pensione di grandi dimensioni e su larga scala possono raggiungere significative efficienze in termini di costi e migliori risultati di investimento
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/HTML/?uri=CELEX:52025DC0839
Dopo il lavoratore indebitato per arrivare a fine mese, l’immediato futuro potrebbe conoscere un'altra figura, quella del lavoratore prudente, beneficiario dei piani pensionistici con prodotti diversificati e un margine di rischio medio basso, senza dubbio inferiore a quello dei prodotti Usa. La strategia comunicativa punta sul coinvolgimento emotivo del lavoratore, sulla inesorabile decadenza del welfare, sul senso di responsabilità verso la famiglia, sulla necessità di far fruttare i risparmi. Il vero problema è dato tuttavia dalla quota di risparmi che sta calando da qualche anno ad oggi, le famiglie presentano sempre maggiore difficoltà ad accantonare liquidi, rinunciano perfino a curarsi per evitare di non pagare un mutuo o una spesa straordinaria di manutenzione.
I prossimi mesi potranno fornirci ulteriori novità e sviluppi, intanto la Ue si sta portando avanti.
PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 06:00:00 GMTLe dichiarazioni di Sergej Lavrov mettono a nudo una realtà sempre più difficile da ignorare: oggi l’Unione Europea non appare come un attore di pace, ma come uno dei principali fattori di blocco di qualsiasi soluzione diplomatica sul conflitto ucraino. Secondo il ministro degli Esteri russo, Bruxelles e le grandi capitali europee usano la guerra per affermare il proprio ruolo geopolitico, arrivando persino a sabotare i tentativi statunitensi di avviare un negoziato concreto.
L’UE, o meglio le sue élite, sembra aver trasformato l’Ucraina in uno strumento di potere. Armi, fondi e intelligence vengono riversati senza sosta sul regime di Kiev, mentre ogni ipotesi di compromesso viene respinta come un tabù politico. In questo modo, l’Europa non solo prolunga il conflitto, ma si pone di fatto come parte belligerante, rendendo sempre più lontana una soluzione negoziata.
Emblematiche sono le recenti dichiarazioni del cancelliere tedesco Friedrich Merz sulle “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina, modellate sull’articolo 5 della NATO. Un passo che va nella direzione dell’escalation, non della pace, e che rischia di trascinare il continente in uno scontro diretto, pagato ancora una volta dai cittadini europei. A smontare la narrazione ufficiale interviene anche John Mearsheimer, che sottolinea come molti leader europei sappiano, in privato, che l’Ucraina è destinata a perdere.
L’Europa non ha i mezzi economici né militari per ribaltare la situazione sul campo, eppure insiste nel proseguire una guerra che non può vincere. La domanda diventa allora inevitabile: perché l’UE continua a ostacolare ogni tentativo di pace? La risposta sembra risiedere in una classe dirigente più interessata alla disciplina ideologica e alla prova di forza che alla sicurezza reale dei popoli europei. Così, mentre la pace resta possibile solo attraverso il dialogo, Bruxelles continua a scegliere la guerra come unica linea politica, nonostante sia fallimentare e potenzialmente catastrofica.
LA NOTIZIA CHE HAI LETTO FA PARTE DE "Il MONDO IN 10 NOTIZIE" - LA NEWSLETTER CHE OGNI GIORNO ALLE 7.00 DEL MATTINO ARRIVA NELLE EMAIL DEI NOSTRI ABBONATI.
SCOPRI COME ABBONARTI A L'ANTIDIPLOMATICO E SOSTENERE LA NOSTRA LUNGA MARCIA
CLICCA QUI
Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 06:00:00 GMT
Il ministero degli Esteri venezuelano ha reagito con fermezza alla decisione dell’Unione Europea di prorogare per un altro anno le misure coercitive contro Caracas, estendendole fino al gennaio 2027. In un comunicato ufficiale, il governo venezuelano ha definito le sanzioni “illegittime, illegali e contrarie al diritto internazionale”, accusando Bruxelles di violare apertamente i principi della Carta delle Nazioni Unite.
Come denuncia Caracas, l’UE insiste in una politica punitiva ormai logora, scegliendo una linea di ostilità sterile che accelera la propria decadenza politica. La critica è netta: la politica estera europea viene indicata come erratica, priva di autonomia e subordinata a interessi estranei ai popoli che l’Unione afferma di rappresentare. Le misure prevedono il congelamento dei beni e il divieto di fornire risorse economiche a 69 persone, tra cui figure di primo piano del governo venezuelano come la vicepresidente Delcy Rodríguez e il ministro Diosdado Cabello.
Una scelta che si inserisce in un contesto di crescente pressione internazionale, in parallelo con l’escalation delle azioni statunitensi contro il Paese sudamericano. Ma, sottolinea Caracas, dopo anni di applicazione le sanzioni non hanno prodotto alcun risultato politico concreto.
Al contrario, hanno solo deteriorato i rapporti diplomatici, mettendo in luce l’irrilevanza crescente dell’Unione Europea come attore internazionale capace di agire con indipendenza, razionalità e rispetto della sovranità degli Stati.
LA NOTIZIA CHE HAI LETTO FA PARTE DE "Il MONDO IN 10 NOTIZIE" - LA NEWSLETTER CHE OGNI GIORNO ALLE 7.00 DEL MATTINO ARRIVA NELLE EMAIL DEI NOSTRI ABBONATI.
SCOPRI COME ABBONARTI A L'ANTIDIPLOMATICO E SOSTENERE LA NOSTRA LUNGA MARCIA
CLICCA QUI
La Repubblica Bolivariana del Venezuela, attraverso la sua azienda petrolifera di Stato PDVSA, ha nuovamente respinto e neutralizzato un attacco informatico orchestrato dall'imperialismo statunitense con il supporto di setotri anti-patriottici al servizio degli USA. L'obiettivo dichiarato dell'aggressione era paralizzare il cuore operativo della nazione, ma il tempestivo intervento del personale specializzato venezuelano ha limitato i danni ai soli sistemi amministrativi, lasciando intatte le aree produttive strategiche.
Il governo di Nicolás Maduro non ha esitato a definire l'atto per quello che è: un ulteriore, criminale tentativo nella lunga guerra ibrida condotta dagli Stati Uniti per impadronirsi con la forza delle immense risorse energetiche del paese sudamericano. Questo sabotaggio informatico rappresenta solo l'ultimo anello di una catena di aggressioni illegali, che si inquadra nella stessa strategia della recente e barbara operazione di pirateria internazionale compiuta dalla marina militare USA nelle acque territoriali dei Caraibi venezuelani, dove è stata sequestrata una petroliera, anche se sarebbe meglio utilizzare l'unico termine corretto: rubata. Gli Stati Uniti se ne sono appropriati illegalmente per rubare il petrolio e produrre nei fatti un blocco navale contro il Venezuela.
Caracas denuncia con forza la continuità di un piano di aggressione multiforme. Da agosto, infatti, Washington mantiene una flotta militare di occupazione nel Mar dei Caraibi, sotto il pretesto fallace della lotta al narcotraffico, una narrazione smascherata dai dati stessi delle agenzie ONU che escludono il Venezuela dalle rotte principali del narcotraffico verso il nord. Questa presenza armata ha già provocato oltre 80 morti in esecuzioni sommarie ed extra-giudiziarie contro imbarcazioni civili, in violazione flagrante del diritto internazionale.
La risposta venezuelana è stata di fermezza e unità nazionale. PDVSA ha garantito che l'operatività è mantenuta al 100%, assicurando sia il rifornimento del mercato interno che l'adempimento di tutti gli impegni di esportazione, dimostrando la forza e capacità di resistenza del settore energetico nonostante l'assedio. Il governo bolivariano ha inoltre evidenziato come queste azioni criminali rafforzino, anziché indebolire, il sostegno popolare alla difesa della sovranità e del diritto inalienabile allo sviluppo energetico autonomo.
La Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) condena de la manera más categórica el acto de vulgar piratería cometido por el Gobierno de #EEUU???????? al asaltar y confiscar Ilegalmente un buque petrolero venezolano en el Mar Caribe. pic.twitter.com/mBOeUomNwB
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 11, 2025
La comunità internazionale non è rimasta in silenzio. Le condanne verso le azioni di pirateria e destabilizzazione statunitensi sono giunte da attori globali come la Russia e la Cina, oltre che da nazioni latinoamericane, riconoscendo in queste mosse una pericolosa escalation volta a destabilizzare un paese sovrano per fini di rapina economica. Il Venezuela, con il suo popolo e le sue istituzioni in piena allerta, continua a resistere e a denunciare al mondo la vera natura dell'offensiva imperialista, che non risparmia alcun mezzo, dalla forza militare bruta alla guerra cibernetica, nel suo cieco obiettivo di saccheggio imperialista delle risorse naturali del Venezuela.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 17:01:00 GMTLa rete energetica dell'Ucraina è sull'orlo del collasso, scrive il quotidiano statunitense Washington Post, citando funzionari e analisti che hanno familiarità con la situazione.
Da ottobre, una serie di attacchi con droni e missili ha gravemente danneggiato le infrastrutture energetiche del regme di Kiev, causando significative interruzioni di corrente in tutto il territorio.
Secondo il quotidiano, questi attacchi mettono a rischio il funzionamento dei sistemi di trasmissione elettrica che trasportano l'energia dall'Ucraina occidentale, dove viene prodotta la maggior parte dell'elettricità, verso est, il che potrebbe dividere il Paese in due, secondo quanto avvertono diverse fonti informate sulla situazione.
In questo contesto, un alto diplomatico europeo ha avvertito che l'Ucraina “è, se non sull'orlo”, di un blackout totale nella sua regione orientale o, “almeno, molto vicina ad esso”.
Secondo la società Ukrenergo, da ottobre a dicembre di quest'anno, la Russia ha lanciato otto attacchi massicci con missili e droni contro le infrastrutture energetiche ucraine, mentre gli attacchi contro singoli impianti energetici o regioni specifiche hanno avuto luogo “quasi ogni giorno”. “Siamo a un passo da un blackout totale a Kiev”, ha detto una persona che conosce bene la crisi energetica.
A novembre è stato riferito che tutte le centrali termiche statali ucraine hanno smesso di funzionare e non c'è produzione di energia.
Il Ministero della Difesa russo sottolinea sempre che i suoi attacchi mirano alle strutture militari ed energetiche, nonché alle relative infrastrutture, che servono gli interessi delle forze armate. Inoltre, le offensive sono condotte in risposta ai crimini terroristici commessi dal regime neonazista di Kiev contro i civili.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 16:36:00 GMTIl presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha risposto sul suo account X a un post in cui il presidente argentino Javier Milei elogiava i “progressi della destra” in Sud America dopo la vittoria dell'ultraconservatore fascio-liberista José Antonio Kast nelle elezioni presidenziali in Cile.
“Da sud e da nord arrivano i venti della morte”, ha risposto Petro a un post di Milei che su una mappa del Sudamerica indicava in blu i governi che considera di destra e in rosso quelli di sinistra. Milei celebrava quello che, a suo avviso, è un arretramento delle tendenze di sinistra nella regione.
Por el sur y por el norte vienen los vientos de la muerte.
— Gustavo Petro (@petrogustavo) December 15, 2025
Atenti Grancolombianos, vienen por nosotros y debemos resistir con la espada de Bolívar en alto y paso de vencedores.
Me han bloqueado mi trino sobre la derrota progresista en Chile, espero se recupere. https://t.co/iRWu5fmZjI
“Attenzione grancolombiani, stanno venendo a prenderci e dobbiamo resistere con la spada di Bolívar alzata e il passo dei vincitori”, ha aggiunto Petro, rafforzando i suoi recenti riferimenti alle minacce di intervento degli Stati Uniti in Colombia, Venezuela e altri paesi sudamericani.
Il messaggio del presidente colombiano si inserisce nel contesto dei più recenti avvertimenti di interventismo politico statunitense nelle elezioni del suo paese. Secondo Petro, le continue visite dei politici colombiani negli Stati Uniti hanno a che fare con la decisione di Washington di “entrare nelle elezioni colombiane".
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 16:12:00 GMT
di Marco Bonsanto
Forse la “Guerra mondiale a pezzi” di cui parlava Bergoglio sta per terminare. È stata molto lunga, sanguinosa, per molti aspetti apertamente criminale e senza alcun crisma morale. E l’abbiamo scatenata noi, i “buoni”, contro il resto del mondo. I nostri leader politici, sindacali, intellettuali, per decenni ci hanno convinto con finte provette e continui discorsi emergenziali, che era necessaria e inevitabile, se non volevamo essere mangiati vivi dai cannibali che premevano oltre il “giardino” europeo (© Josep Borrell); e che loro, illuminata e disinteressata élite di filantropi e benefattori, ci avrebbero protetto – in cambio dell’anima.
La National Security Strategy of the United States of America (NSS) appena pubblicata dall’amministrazione Trump, è un documento che potenzialmente rappresenta l’inizio di un nuovo corso storico per il mondo intero. Un mondo che mai come in questi ultimissimi anni è stato così sconsideratamente scosso da venti di guerra atomica e, dunque, dalla catastrofe planetaria. Evitare questo scenario è il primo proposito dichiarato nel documento. Non è poco, crediamo, in un contesto che vede i leader politici accreditati dal nostro corrotto sistema mediatico come i più ponderati e responsabili in circolazione, berciare scompostamente di attacchi preventivi alla Russia e di forniture atomiche a Kiev!
L’importanza della NSS sta nel fatto che non si tratta di un programma elettorale, ma della pianificazione delle politiche estere americane per i prossimi lustri. Politiche che sono in corso già da circa un anno e che si spera saranno perseguite con la stessa energia anche da chi prenderà il posto di Trump nel prossimo futuro. In tal senso, essa costituisce non soltanto l’espressione della volontà presidenziale di ottemperare al mandato ricevuto dalla base MAGA e finanziariamente dai propri sostenitori; ma deve essere inteso come un messaggio rivolto alla comunità internazionale (in primis Russia e Cina), nonché ai popoli del mondo, per lo meno nell’asserita volontà di disimpegnarsi militarmente e politicamente da ampi quadranti dello scacchiere internazionale.
Se si volesse condensare in una sola frase il contenuto della NSS, bisognerebbe dire infatti che in essa è finalmente espressa la rinuncia al “Manifest Destiny” degli Usa, il suo imperialismo messianico; una sinistra ideologia che ha travagliato la storia del Paese fin dalla sua fondazione e che, coltivata in ristretti circoli di sedicenti illuminati, ha costituito la premessa di così tante tragedie più o meno recenti. La NSS riconosce come “l’unità politica fondamentale del mondo” i singoli Stati-nazione, apertamente legittimati a perseguire i propri interessi strategici in collaborazione con gli altri. Dichiara nello stesso tempo la rinuncia ad “imporre loro cambiamenti democratici o sociali che differiscono ampiamente dalle loro tradizioni e dalla loro storia”. È, di fatto, il ripudio della cosiddetta “dottrina Wolfowitz” ed un vero e proprio cambio di paradigma in politica estera. Conseguentemente, sono rifiutati tutti quegli organismi sovranazionali che, calando dall’alto una preconcetta e condizionata idea di “benessere” (FMI), di “salute” (OMS) e di “pace” (ONU), comprimono la sovranità degli Stati per favorire ristrettissime oligarchie di magnati apolidi, uniti tra loro da un ideale di supremazia globale.
Nel documento è chiaramente rinnegata la versione più recente e perniciosa di questo ideale, e apertamente criticati i due pilastri dell’azione statunitense nel mondo durante gli ultimi trentacinque anni: l’imperialismo neocon e l’economia globalista.
La strategia neocon – ma di applicazione bipartisan – di proiettare gli Usa al vertice militare e politico del mondo, è duramente sconfessata. Anzitutto, perché giudicata “impossibile”: una sorta di delirio di onnipotenza che avrebbe comportato una proiezione degli Usa su tutti gli scenari del mondo, con una sovraesposizione militare esorbitante rispetto alle sue reali possibilità (vedi Iraq, Siria e Afghanistan), ma soprattutto alle sue effettive necessità strategiche. È implicita in questa critica l’opinione di buon senso che un pur desiderabile riconoscimento della grandezza americana non debba passare per forza attraverso il tentativo di instaurare un inverosimile e, alla lunga dannoso, predominio militare sul resto del mondo. In secondo luogo, l’imperialismo neocon è definito nel documento un obiettivo “indesiderabile”, perché agente come un potente fattore di impoverimento economico e culturale della nazione, rimasta nei decenni del tutto estranea agli obiettivi di supremazia totalitaria perseguiti dalle proprie élite. Ogni potere comporta delle responsabilità, e quelle globali che la nazione è stata costretta a sobbarcarsi in questo quarto di secolo, recita il documento, sono state superiori alle sue forze (la metafora di Atlante) ed estranee ai suoi bisogni primari. Non solo. Sono state anche profondamente dannose, perché incardinate in istituzioni sovranazionali, che rappresentano interessi completamente avulsi da quelli del popolo e contigui invece a quelle ristrette élite che l’hanno trascinato in questa situazione. L’accusa contro le precedenti amministrazioni è chiara: le risorse dello Stato federale sono state usate per permettere a pochissimi di arricchirsi a dismisura mentre la nazione languiva sopportando sforzi inauditi e guerre non necessarie. È la visione da cui è nato il movimento MAGA e la vittoria elettorale di Trump.
La NSS sconfessa apertamente l’idea che la “sicurezza” e l’interesse degli Usa debbano coincidere con la loro onnipresenza militare nel resto del mondo, né con la diffusione ideologica di uno standard politico ad essi compiacente (“esportare la democrazia” con le bombe, per intenderci). Per tutti coloro che hanno vissuto lo strapotere yankee come un destino ineluttabile, queste asserzioni dovrebbero rappresentare già da sole un fatto enorme! Sì da rendere quasi irrilevante stabilire se questo nuovo corso debbasi attribuire all’encomiabile iniziativa di Trump o alla semplice presa d’atto del fallimento imperialista in corso… In ogni caso, il documento dichiara la volontà della nuova amministrazione di restringere il campo dell’egemonia statunitense principalmente al solo continente americano, rintuzzando con vari mezzi, non per forza militari, la penetrazione di altre potenze nell’area (corollario-Trump alla dottrina Monroe). Ne consegue il ridimensionamento della presenza statunitense nel resto del mondo, con dichiarazioni che mai ci saremmo aspettati fino a pochi anni fa.
Per esempio, che la NATO non deve più concepirsi “come un’alleanza militare in continua espansione”; la qual cosa, nel contesto attuale, significa il progressivo e rapido sfilarsi di Washington dall’Alleanza, lasciata in mano agli Stati europei (non all’UE), se mai siano in grado di ereditarla e riadattarla ad una politica strategica degna di questo nome. In tal senso vanno letti sia la richiesta di alzare il loro contributo militare al 5% del PIL, sia il ritiro di migliaia di uomini dal continente europeo intrapreso dopo l’insediamento di gennaio, sia le recenti dichiarazioni di Trump sulla gestione che gli Europei dovranno assumere della NATO a partire dal 2027.
Stesso discorso per quanto riguarda il progressivo ritiro militare dal quadrante mediorientale. L’esigenza di monopolizzare le fonti di energia fossile dell’area, cede il passo a quella di estrarre e vendere le proprie riserve in un’ottica non solo economica ma di soft power verso i paesi compratori. L’idea sembrerebbe essere quella di “neutralizzare” il Medioriente dalle mire delle grandi potenze, lasciando franchi i suoi passaggi strategici (Hormuz, Suez) e libere le sue alleanze, promuovendo così una sua compattezza di polo geopolitico autonomo. In tale veste, la regione diventerebbe destinataria alla pari di investimenti diversificati in vari settori (nucleare, AI, ecc.), e non più una terra di barbaro saccheggio, quale è stata finora. Ciò significherà probabilmente impedire la realizzazione della nuova Via della Seta cinese, in cambio forse della rinuncia alla Via del Cotone promossa dal governo israeliano col genocidio palestinese. Di là dello show che sono costretti a recitare per i media, è noto che tra Trump e Netanyahu non corra infatti buon sangue. Saldato con il Piano per Gaza il debito coi propri finanziatori sionisti (ma anche con le monarchie del Golfo), Trump potrebbe avere ora le mani libere per riposizionare e diversificare gli interessi americani nella regione senza doverli legare totalmente a quelli dello scomodo alleato. In tale direzione pare vadano lette le dichiarazioni rilasciate a settembre al Daily Caller sullo strapotere della lobby israeliana al Congresso. Se così fosse, non ci stupiremmo di vedere nei prossimi mesi un progressivo e cauto sganciamento degli Usa dalle politiche israeliane nella regione (e in Ucraina).
Stesso discorso la NSS sembra impostare per il quadrante dell’Indo-Pacifico, che ha nella Cina il suo dominus: mantenere aperto il passaggio del Mar Cinese meridionale e di quelli indocinesi, promuovendo negli alleati americani (Giappone, Corea del Sud) un’assunzione di maggiori responsabilità nella deterrenza militare. Taiwan resta strategica per le forniture di tecnologia competitiva e più in generale per il transito degli approvvigionamenti indispensabili all’innovazione.
Riassumendo, la posizione sulla politica militare della nuova amministrazione, è la seguente: pace attraverso la forza (cioè deterrenza) e predisposizione al non interventismo militare. “Poiché gli Stati Uniti rifiutano il concetto fallimentare di dominio globale per sé stessi, dobbiamo impedire il dominio globale, e in alcuni casi anche regionale, di altri”. Politica dell’equilibrio tra blocchi regionali, insomma, e cooperazioni a geometria variabile secondo l’interesse americano (specie nelle supply chain).
Per quanto riguarda invece il globalismo, il documento rigetta esplicitamente l’ideologia neoliberista del “libero scambio”, inteso come strategia economica estera considerata sempre “buona” a prescindere dai risultati. Risultati che invece hanno visto per gli Usa (e l’Europa), dapprima la diffusione di politiche energetiche restrittive (stop alle centrali atomiche, blocco delle trivellazioni, diffusione di tecnologie green rivelatesi insostenibili), poi un rapido e imponente processo di delocalizzazione della produzione, dunque di deindustrializzazione e, infine, di precarizzazione e impoverimento dei lavoratori, specie della classe media. Un quadro di desolante e voluta decadenza, economica e sociale, funzionale all’ascesa delle corporation sovranazionali di matrice finanziaria e tecnologica.
Nella volontà di invertire questa tendenza, il documento afferma esplicitamente dei voler considerare i lavoratori americani come i principali destinatari di una nuova politica economica volta principalmente al benessere della nazione (pro-worker economics). È la direzione intrapresa da Trump con le politiche dei dazi, che sta obbligando i colossi Hightech a ritornare ad investire in patria, ostacolando così il processo di delocalizzazione in Asia delle aziende strategiche. Ma anche con l’attacco diretto alle politiche green, woke e immigrazioniste, tre puntelli ideologici del globalismo economico, che se ne giova per diminuire la resistenza alla propria penetrazione negli Stati-nazione grazie ai conflitti sociali e istituzionali che innescano.
È in questa cornice che va letta la presa di posizione dell’amministrazione Trump nei confronti dell’UE, che viene citata soltanto una volta nel documento come il nemico principale dei popoli europei: “Le questioni più importanti che l'Europa deve affrontare includono le attività dell'Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà politica e la sovranità”. È il de pronfundis di un’istituzione economico-finanziaria, che è nata grazie al globalismo, per il globalismo e che col globalismo è destinata dunque a cadere. La tenaglia russo-statunitense ha denudato il vero volto, dispotico e guerrafondaio dell’UE; la fine della guerra ucraina trascinerà i suoi leader verso l’irrilevanza politica, licenziati dagli stessi circoli globalisti, per i cui interessi hanno sempre operato. L’implosione dell’UE costituisce così per la NSS la premessa indispensabile perché il continente europeo ritrovi la strada della propria grandezza economica ma anche storico-culturale.
Putin ha fatto sapere a stretto giro di posta che la NSS è in accordo con la visione multipolare elaborata e promossa dalla Russia almeno dal 2015 in poi, e in modo accelerato col gruppo BRICS dallo scoppio della guerra ucraina. Ciò non stupisce: è una convergenza con Trump che nasce dal contrasto intrapreso dal 2017 contro il comune nemico globalista.
La Cina, invece, si è mostrata più cauta nelle sue valutazioni, parlando di retorica. E ne ha ben donde. La dichiarata strategia statunitense è – onde evitare la guerra – di riequilibrare il commercio con la superpotenza asiatica, obbligandola ad assorbire attraverso le famiglie cinesi il proprio eccesso di produzione. Ciò si realizzerebbe inducendo gli alleati americani nei vari quadranti (Giappone, Europa, Canada) a politiche commerciali concertate di investimenti e penetrazione nei mercati a medio reddito, nei quali oggi la Cina spadroneggia coi suoi prodotti. Qualora la cosa funzionasse, obbligherebbe Pechino o a rallentare la sua corsa produttiva o a intraprendere una politica espansiva dei redditi, tale da permettere l’assorbimento di una parte della produzione interna. Opzioni entrambe impraticabili per chi, come l’attuale leadership cinese, ha consolidato il proprio potere partecipando attivamente alle politiche globaliste degli ultimi trent’anni attraverso un capitalismo di Stato, che ha contenuto i salari e dunque i costi per le aziende (sia cinesi che straniere), schiacciando il dissenso popolare con un sistema distopico di controllo poliziesco. La politica trumpiana dei dazi e del rifiuto del green deal, ha innescato nei vertici dello Stato cinese una resa dei conti, che per il momento Xi Jinping è riuscito soltanto a scongiurare, ma non a risolvere. Senza la solida sponda delle élite globaliste che l’hanno cooptato e proiettato ai vertici del suo Paese, ma che oggi sono in ritirata, il potere di Xi Jinping resta precario come quello di tutti i leader vassalli del WEF, e potrà proseguire solo grazie ad equilibrismi di corto respiro nel nuovo scenario mondiale.
Resta il fatto che, senza la Cina, la nuova Jalta non potrà essere ratificata, né l’equilibrio delle potenze definitivamente assicurato. La pace mondiale dovrà attendere che il Dragone insorga ancora e trovi un nuovo Timoniere.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 15:51:00 GMTGli Stati Uniti hanno approvato alla fine dello scorso mese la vendita da parte di Nvidia di chip avanzati all'Armenia, nell'ambito di un datacenter per l'intelligenza artificiale da 500 milioni di dollari che riserverà il 20% della sua capacità ad aziende armene e venderà il restante 80% a società statunitensi che operano nella regione, secondo quanto riportato da Bloomberg. Questi ambiziosi piani tecnologici si fondano sul ricco retaggio tecnologico armeno dell'epoca sovietica, sulla precoce educazione tecnologica per i bambini e sull'imminente strategia nazionale per l'alta tecnologia, ma in realtà rappresentano molto più di una semplice opportunità commerciale.
Questa mossa giunge poco dopo che gli Stati Uniti hanno "sottratto" l'Armenia alla sfera di influenza russa, sostituendosi a Mosca nel processo di pace armeno-azerbaigiano, culminato nella mediazione della dichiarazione di pace di agosto tra i due paesi. L'Armenia ha inoltre acconsentito alla creazione lungo il suo confine meridionale della "Rotta Trump per la Pace e la Prosperità Internazionale" (TRIPP), controllata dagli USA. Si prevede che TRIPP porterà a un'iniezione di influenza occidentale guidata dalla Turchia attraverso il Caucaso meridionale e verso l'Asia Centrale.
Non è quindi un caso che due esperti di think tank statunitensi abbiano recentemente co-firmato un articolo sul Washington Post in cui sostengono un maggiore coinvolgimento statunitense in Armenia, presentato insistentemente come mezzo per contenere più efficacemente la Russia. La tecnologia non è stata menzionata in questo contesto, ma c'è una logica stringente dietro la scelta di questo nuovo datacenter per l'intelligenza artificiale come progetto bandiera delle nuove relazioni, che sarà guidato da una nuova società armeno-statunitense, Firebird.AI.
La “Quarta Rivoluzione Industriale”/“Grande Reset” (4IR/GR), incentrata sulle tendenze interconnesse dell’Intelligenza Artificiale, dei Big Data e dell’Internet of Things, sta guidando gli sviluppi economico-tecnologici all’avanguardia in tutto il mondo che gli Stati Uniti intendono condurre, come delineato nel Piano d’Azione per l’IA di luglio. Un mese dopo, alla fine di agosto, diverse settimane dopo la dichiarazione di pace armeno-azerbaigiana mediata dagli USA e l’istituzione di TRIPP, Armenia e Stati Uniti hanno firmato un Memorandum d’Intesa “riguardante una partnership per l’innovazione nell’IA e nei semiconduttori”.
A questo è seguito l’approvazione da parte statunitense del piano ambizioso di Firebird.AI di istituire un datacenter per l’IA da 500 milioni di dollari, alimentato da tecnologia Nvidia, per aziende statunitensi nella regione, sfruttando così la posizione dell’Armenia per trasformarla in un baluardo dell’influenza USA della 4IR/GR in questa parte dell’Eurasia. L’obiettivo è consolidare l’influenza statunitense sul Caucaso meridionale e fare poi dell’Armenia una piattaforma di lancio per espandere la dimensione tecnologica di tale influenza in Asia Centrale, parallelamente all’espansione di TRIPP dell’influenza economica e militare USA.
Alcune aziende armene beneficeranno di questo, ma la nazione nel suo complesso no. La sovranità digitale-tecnologica del suo popolo viene ceduta agli Stati Uniti, poiché i loro dati saranno archiviati su server Dell. Le tendenze socio-politiche potranno quindi essere analizzate da algoritmi della CIA per aiutare gli USA a perfezionare la propaganda finalizzata ad accelerare il distacco dell’Armenia dalla Russia. È rilevante notare che la prima fase del datacenter per l’IA diventerà operativa nel secondo trimestre del prossimo anno, periodo che coincide approssimativamente con le prossime elezioni parlamentari in Armenia.
Il think tank Carnegie ha dichiarato lo scorso mese che “Le Elezioni in Armenia sono una Questione Estera” nel loro articolo che esortava a un’ingerenza de facto a sostegno di Pashinyan. Il datacenter per l’IA in pianificazione dovrebbe svolgere un ruolo in questo, come spiegato. Mantenerlo al potere non significa solo consolidare la nuova sfera di influenza statunitense a spese della Russia - cosa che sarà costosa per l’Armenia, dato che la Russia è il suo principale partner commerciale - ma permettere agli USA di trasformare questa struttura in un hub regionale di spionaggio assistito dall’IA, come parte di una nuova contesa di potere eurasiatica.
(Articolo pubblicato in inglese sulla newsletter di Andrew Korybko)
di Fabrizio Verde
Con il 58,1% dei voti, José Antonio Kast è diventato il presidente più votato nella storia del Cile. La sua vittoria schiacciante su Jeannette Jara, candidata esponente del Partito Comunista ma espressione dell’intero centrosinistra, non è un incidente politico, né un colpo di scena improvviso. È il culmine di un processo lungo sei anni, innescato dal fallimento delle promesse di cambiamento emerse dal cosiddetto ‘estallido social’ del 2019 e accelerato dalle politiche implementate del governo di Gabriel Boric. Il Cile, dopo decenni di tentativi di superare l’eredità di Augusto Pinochet, ha consegnato le chiavi de ‘La Moneda’ a un uomo che non solo ne riconosce apertamente l’eredità, ma la venera apertamente e con orgoglio.
????Aquí el actual presidente electo de #Chile ????????, un joven José Antonio Kast en la campaña por la continuidad del Dictador Augusto Pinochet en 1988. A 37 años, Chile decide volver a ese camino. pic.twitter.com/kgPTPTylVc
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 15, 2025
Kast, fondatore del Partito Repubblicano, ha vinto in tutte e sedici le regioni del paese, compresi bastioni storici della sinistra come Valparaíso e la Regione Metropolitana di Santiago. Il suo trionfo segna il ritorno del pinochetismo al potere, questa volta non attraverso un golpe violento, ma con un processo elettorale. Ed è proprio qui la tragedia: il fallimento della sinistra non è stato tanto elettorale quanto politico, morale e programmatico. Gabriel Boric, eletto nel 2021 sulla scia di un movimento di massa che chiedeva giustizia sociale, una nuova Costituzione e la fine del modello neoliberista, ha finito per diventare il principale artefice della rinascita della destra più dura e fanatica.
Il suo governo, in carica dal 2022 al 2026, è stato un catalogo di contraddizioni. Da un lato, ha approvato riforme simboliche come la riduzione dell’orario lavorativo a 40 ore e alcuni aggiustamenti al sistema pensionistico. Dall’altro, ha tradito le radici del cosiddetto ‘estallido’ ratificando il Trattato Transpacifico (TPP), accordandosi con la famiglia di Pinochet per la gestione delle risorse di litio e mantenendo lo stato di emergenza nella regione della Araucanía. Ha salvato il sistema sanitario privato (Isapres) e consolidato le fondazioni pensionistiche (AFP), senza mai mettere in discussione le strutture economiche ereditate dalla dittatura fascio-liberista. Il tutto mentre la criminalità organizzata e l’insicurezza prendevano piede, temi che la destra ha saputo strumentalizzare con maestria.
Al final Boric terminó haciendo salvataje a Isapres pagado por afiliados a quienes robaron; afianzando sistema de AFP sin ningún cambio de fondo; entregando sin licitación el litio a la nieta de Pinochet hasta el 2060; y pasándole el gobierno a José Antonio Kast… ? #ElLegado ???? pic.twitter.com/Q5z7LM2m2g
— Mauricio Daza (@mdaza_abogado) December 14, 2025
Molti analisti, tra cui il sociologo argentino Lautaro Rivara, non esitano a definire Boric “il maresciallo della sconfitta”. Già nel 2021, settori della destra come il think tank ‘Fundación para el Progreso’ avevano pianificato di favorire la sua elezione, convinti che un governo di sinistra debole e moderato avrebbe reso possibile la sconfitta della nuova Costituzione e il ritorno dell’ordine conservatore. Così è stato. Il plebiscito del 2022, con voto obbligatorio, ha seppellito il sogno costituente: il “Rechazo” ha vinto con il 61,86%, infliggendo alla sinistra la peggiore sconfitta dalla restaurazione della democrazia liberale.
El mariscal de la derrota chilena, desde el salvavidas a Piñera en pleno estallido, pasando por la frustración constituyente de 2022 y su política prescindente, hasta el adverso resultado del domingo (que dejó a un pinochetista como Kast a las puertas de La Moneda) no es otro que… pic.twitter.com/cOGGHd8Ha9
— Lautaro Rivara (@LautaroRivara) November 20, 2025
In questo vuoto, José Antonio Kast ha costruito il suo impero politico. Figlio di Michael Kast, membro del Partito Nazionalsocialista Tedesco dal 1942 e ufficiale dell’esercito di Hitler, José Antonio ha sempre cercato di nascondere, quando non negare apertamente, il passato nazista del padre. Ha addirittura sostenuto che questi fosse un semplice recluta costretto a combattere, travisando i documenti storici che attestano la sua iscrizione volontaria al partito. Emigrato in Cile nel 1950, Michael Kast si stabilì a Paine e contribuì a costruire una famiglia che sarebbe diventata un pilastro del conservatorismo cattolico e autoritario.
José Antonio Kast ,da deputato, ha votato contro la legge sul divorzio, contro la distribuzione della pillola del giorno dopo e contro ogni tentativo di limitare il lucro nell’istruzione. Ma quello che davvero inquieta è la sua aperta ammirazione per Augusto Pinochet. Non solo ha sostenuto il Sì nel plebiscito del 1988, ma ha visitato in carcere noti criminali condannati per crimini di lesa umanità e ha dichiarato con orgoglio: «Se Pinochet fosse vivo, avrei votato per lui. Avremmo preso il tè insieme». Suo fratello Miguel fu presidente del Banco Central durante la dittatura.
Il Kast presidente sarà però soprattutto il campione del neoliberismo più radicale, al pari dell’argentino Javier Milei. Le sue promesse di campagna non riguardano solo la repressione dell’immigrazione - con muri, trincee elettrificate e deportazioni immediate - ma anche una drastica ristrutturazione economica in stile Chicago Boys. Ha annunciato tagli di spesa pubblica per 6 miliardi di dollari, licenziamenti di massa nel settore statale, riduzione delle tasse, deregolamentazione degli investimenti esteri e una politica esplicitamente contraria a qualsiasi forma di intervento pubblico nell’economia. È la stessa ricetta che, negli anni Ottanta, sotto la dittatura, portò il Cile al tracollo: disoccupazione al 19,6%, Pil crollato del 13,4% e quasi la metà della popolazione in povertà entro il 1990.
Il paradosso è che il Cile post-Pinochet non ha mai smantellato quel modello. La coalizione di centro-sinistra della Concertación, al potere dal 1990 al 2010, lo ha solo “addolcito”, senza mai sfidarne le fondamenta. Così, il malcontento accumulato per decenni è esploso nel 2019, chiedendo non solo riforme, ma una nuova Costituzione. Boric ne è stato il simbolo, ma non il realizzatore. E oggi, mentre Kast prepara il suo “governo di emergenza”, il paese si trova di fronte a un bivio storico.
La storia insegna che il neoliberismo, pur presentandosi come soluzione tecnocratica, è una ideologia politica che concentra ricchezza, cancella ogni barlume di democrazia e alimenta il terreno per l’estrema destra. Lo ha dimostrato il Cile sotto Pinochet, lo sta dimostrando l’Argentina sotto Milei e ora lo conferma la vittoria di Kast. La sinistra cilená, frammentata tra burocrati tecnocratici e movimenti senza radicamento istituzionale, non è riuscita a offrire un’alternativa credibile. E così, tra disillusioni e tradimenti, il Cile ha scelto l’autoritarismo economico vestito da ordine pubblico.
Il 11 marzo 2026, José Antonio Kast indosserà la fascia presidenziale. Con lui, il Cile non solo riammetterà il pinochetismo nelle stanze del potere, ma rischierà di ripetere gli errori di un passato che non è mai stato davvero superato. Intanto i mercati applaudono galvanizzati mentre le piazze per adesso tacciono.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 14:49:00 GMTdi Pasquale Liguori
Non è un libro “su Gaza”, non è l’ennesimo titolo che si aggiunge allo scaffale del dolore mediorientale. L’inferno del genocidio a Gaza è un documento che arriva in Italia con il peso preciso di una prova, non con la leggerezza di un prodotto culturale. Il fatto che a pubblicarlo sia LAD edizioni con la mia curatela non è un dettaglio editoriale, ma una scelta di campo: portare qui una voce che non si presta né alla retorica umanitaria né alla commozione di consumo, ma esige di essere ascoltata come atto di accusa, come frammento di verità che non intende integrarsi nella normalità del discorso pubblico, bensì incrinarla.
Per quasi due anni l’Occidente ha guardato Gaza come si guarda qualcosa che disturba: abbastanza a lungo da poter dire di esserne informato, mai abbastanza da mettersi davvero in discussione. La cronaca del massacro è stata seguita con l’aria di chi osserva da lontano un disastro inevitabile, oscillando tra rimozione e finta equidistanza, come se fosse possibile attraversare un genocidio restando neutri, come se l’orrore potesse essere contemplato senza esserne contaminati. Solo quando la scala della distruzione è diventata incontestabile, quando è apparso evidente anche agli occhi più ostinati che si stava tentando di annientare un intero popolo, si è affacciata una consapevolezza tardiva, quasi sempre confinata nel registro dell’emozione e della pietà, molto raramente tradotta in coscienza politica.
In Italia si sono riempite piazze, organizzate assemblee, scritti appelli, prodotti momenti autentici di indignazione. Ma lo si è fatto nella forma di un’onda: potente nel suo culmine, rapidamente dissolta nel ritorno all’inerzia quotidiana. Abbiamo visto cortei generosi che, una volta spenti i cori e ripiegati gli striscioni, non hanno lasciato strutture, organizzazione, continuità. Una solidarietà sincera ma intermittente, che funziona come gesto episodico di coscienza più che come pratica di lotta; un dissenso che non si sedimenta in progetto, ma si consuma nella rappresentazione di sé.
È esattamente questa distanza che la testimonianza di Wasim Said infrange. Scritta tra le rovine di Beit Hanoun, sotto i bombardamenti, nella precarietà materiale di una tenda da sfollato, non è un racconto “sulla” guerra, ma una scrittura che nasce dentro la guerra, nel tempo stesso in cui gli eventi di cui parla accadono. Said non rievoca da un altrove, non commenta dall’alto di una salvezza raggiunta: registra, pensa e resiste mentre gli aerei sionisti sorvolano la sua testa, i droni ronzano, la fame morde e i fratellini piangono. La scrittura si fa gesto fisico contro la cancellazione, tentativo ostinato di strappare alla morte e all’oblio le vite, i nomi, i volti che un potere coloniale vorrebbe ridurre a numeri.
In questo senso L’inferno del genocidio a Gaza non appartiene alla categoria confortevole del “testo commovente”. Non è costruito per far piangere il lettore, non gli offre la consolazione di un’emozione catartica dopo la quale si possa tornare al proprio caffè con l’impressione di aver fatto il proprio dovere morale. Said lo dichiara esplicitamente: non scrive per suscitare pietà, ma per “appendere le parole al collo” di chi legge, perché ne senta il peso, perché porti la responsabilità di aver visto e di aver saputo. Il lettore non è invitato a compatire: è chiamato a rispondere.
La forza di questo libro sta precisamente nella posizione da cui prende la parola. La maggior parte della letteratura sui genocidi è retrospettiva: nasce dopo, quando la violenza si è in qualche modo depositata nella memoria, e chi testimonia lo fa da un luogo che, pur segnato dalle ferite, garantisce una minima distanza dalla macchina di morte. Qui no. Qui la parola si produce sotto il fuoco, nel pieno della carneficina, nel momento in cui la domanda che ossessiona ogni gazawi – “Morirò e sarò dimenticato?” – non è un ricordo, ma una possibilità imminente. Scrivere, per Wasim, è contemporaneamente un atto di sopravvivenza e un atto di responsabilità: se non mette per iscritto ciò che vede e vive, è come se lui e la sua comunità non fossero mai esistiti.
Da questo radicamento nella carne della storia deriva anche il carattere collettivo della testimonianza. Wasim parla di sé, certo, ma a ogni passo si domanda: e chi non ha potuto scrivere? E coloro che sono stati cancellati senza lasciare traccia? È in questo scarto che il suo gesto assume un valore politico più profondo: non si limita a raccontare il proprio inferno, si assume il compito impossibile di scrivere “per” gli altri, a nome di chi non ha più voce o non ha mai avuto la possibilità di averne. È, in questo senso, l’erede naturale dei fedayin palestinesi: non imbraccia un’arma, ma usa carta e penna come strumento di resistenza, come forma di fedeltà a un popolo che, dentro il genocidio, rifiuta di farsi trasformare in oggetto passivo della storia.
Il genocidio, nel libro, non appare mai come una calamità astratta, né come semplice sterminio numerico; ci viene restituito nella sua verità di processo coloniale sistematico. È il tentativo di smantellare non solo le vite fisiche, ma le strutture materiali, istituzionali, morali di una società; di frantumare i legami, di ridurre una comunità a individui isolati costretti a competere tra loro per la sopravvivenza. Ed è proprio qui che la scrittura di Wasim ribalta il disegno del potere: invece di certificare il collasso morale, documenta – con lucidità e senza idealizzazioni – la persistenza di una coesione, di un’etica condivisa, di una solidarietà che continua a manifestarsi nonostante la fame, la paura, il caos. La testimonianza non è solo denuncia dell’orrore, è prova del fatto che il progetto sionista di riforgiare Gaza a propria immagine di ferocia non è riuscito a cancellarne la dignità, la comunità, la coscienza nazionale.
Per chi legge da qui, da un’Europa che ha preferito a lungo l’inerzia alla verità, tutto questo non può rimanere un dato di cronaca. L’inferno del genocidio a Gaza non è un libro che si possa “apprezzare” esteticamente, non si presta a recensioni neutre; è un dispositivo che incrimina. Ci mostra con una chiarezza insopportabile la distanza tra la tenacia di chi resiste sotto le bombe e la prudenza di chi, al riparo, si limita a firmare appelli, a partecipare a una manifestazione, a indignarsi in rete senza mettere in discussione le strutture materiali del proprio mondo. Se loro, sotto genocidio, continuano a lottare per non essere cancellati, qual è la nostra scusa per non combattere almeno politicamente, culturalmente, organizzativamente?
La pubblicazione italiana del volume ha un significato che va oltre la pur fondamentale necessità di rendere accessibile la voce di Wasim. Serve a misurare lo stato della nostra coscienza politica, a capire se siamo ancora dentro la fase infantile della solidarietà episodica o se siamo pronti a trasformare la lettura in impegno, la compassione in direzione, la piazza in continuità. Questo libro non può essere trattato come un oggetto da consumare, ma come un compito da assumere.
LAD edizioni ha deciso di farsi carico di questo compito, non di limitarvisi. Mettendo in circolazione L’inferno del genocidio a Gaza, non offre un titolo in più al mercato editoriale, ma colloca nel dibattito pubblico italiano qualcosa che il dibattito stesso non riesce a digerire: una testimonianza che smaschera la retorica umanitaria, che rende evidente la complicità delle istituzioni internazionali, che rifiuta di riconoscere neutralità a chi ha scelto di stare dalla parte dell’ordine che permette il genocidio.
Questo libro non chiede di essere “valutato”, si schiera e ci costringe a schierarci.
Perché, in definitiva, la domanda che porta con sé è semplice e brutale: che cosa faremo, noi, adesso che non possiamo più dire “non lo sapevamo”? Continueremo a usare la parola “pace” come sinonimo di accettazione del dominio, o sceglieremo di stare dalla parte del diritto all’autodeterminazione della Palestina, non come formula astratta, ma come impegno concreto nelle nostre città, nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre relazioni politiche?
L’inferno del genocidio a Gaza non offre una via d’uscita dall’angoscia. Non promette redenzione, non propone una narrativa riconciliante, non concede il lusso del sollievo. Ci dà qualcosa di molto più duro e, per questo, molto più necessario: ci mette davanti a una verità che non possiamo più aggirare, ci restituisce la Palestina nella sua piena umanità e nella limpidezza della sua resistenza, ci ricorda che la testimonianza non è un gesto letterario, ma una pratica di lotta.
Sta a noi decidere se trattare questo libro come un oggetto da scaffale o come un inizio. Se limitarsi a leggerlo, magari con un nodo alla gola, o lasciare che ci cambi la postura, le parole, le alleanze. L’inferno che racconta non è una metafora: è il nostro presente politico. Portarlo in Italia significa, per chi lo ha pubblicato e per chi lo leggerà, accettare che da questo momento in poi la neutralità non è più nemmeno una menzogna rassicurante: è una resa.
----------------------
L'INFERNO DEL GENOCIDIO A GAZA E' OGGI ORDINABILI SU LADEDIZIONI.IT E SARA' SPEDITO LA PRIMA SETTIMANA DI GENNAIO
In una significativa revisione della propria politica climatica per il settore dei trasporti, l'Unione Europea sarebbe sul punto di abbandonare l'obiettivo di una eliminazione totale dei motori a combustione interna entro il 2035. La notizia, anticipata dal parlamentare europeo Manfred Weber, leader del Partito Popolare Europeo (PPE), indica un'importante correzione di rotta rispetto ai piani precedentemente annunciati.
Secondo quanto riferito al quotidiano tedesco Bild, Bruxelles si appresta a formalizzare la decisione già nella prossima settimana. Il piano originario, concordato nel 2023, prevedeva una riduzione del 100% delle emissioni di CO2 per auto e furgoni nuovi entro il 2035, imponendo de facto il passaggio alla sola mobilità a zero emissioni. La nuova proposta modificherebbe tale soglia a una riduzione del 90%.
"Dal 2035, una riduzione del 90% delle emissioni di CO? sarà ora obbligatoria per gli obiettivi delle flotte delle case automobilistiche", ha dichiarato Weber, confermando una sostanziale diluizione del regolamento.
Le Pressioni dell'Industria e il Contesto Economico
La normativa stringente, adottata formalmente nel marzo dello scorso anno, aveva da tempo incontrato la ferma opposizione dei principali costruttori automobilistici continentali, tra cui i tedeschi Mercedes-Benz e BMW. Le critiche si sono intensificate di fronte a un contesto economico sempre più difficile per il settore.
Un mese fa, come riportato dall'agenzia Reuters, il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha scritto una lettera ufficiale alla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sollecitando maggiore flessibilità. Merz ha sottolineato come "gran parte dell'industria automobilistica in Europa, compresa la Germania... si trovi in una situazione economica estremamente difficile", aggiungendo la necessità di "correggere il più rapidamente possibile le condizioni quadro in Europa affinché questo settore abbia un futuro".
I dati delle consegne del 2024 sembrano confermare le preoccupazioni: colossi come Volkswagen, BMW e Mercedes-Benz hanno registrato cali significativi, trainati dal crollo della domanda nei mercati asiatici e dall'aggressiva concorrenza dei produttori locali di veicoli elettrici.
Il Peso delle Crisi Energetiche e Commerciali
Alla complessa congiuntura industriale si sommano ulteriori fattori di pressione. Le case automobilistiche europee devono affrontare non solo normative climatiche stringenti, ma anche l'aumento dei dazi statunitensi e, soprattutto, i persistenti effetti della crisi energetica.
A seguito dell'escalation del conflitto in Ucraina nel febbraio 2022, l'UE ha infatti drasticamente ridotto le importazioni di petrolio e gas dalla Russia, rivolgendosi a fornitori alternativi a costi notevolmente più elevati. Questo shock sui prezzi dell'energia ha gravato pesantemente sulla competitività dell'industria manifatturiera europea, incluso il comparto auto.
La prevista revisione al ribasso degli obiettivi di CO? rappresenta dunque il riconoscimento, da parte delle istituzioni comunitarie, di una serie di sfide geopolitiche ed economiche intervenute dopo l'approvazione della norma originale. Segna un tentativo di bilanciare gli ambiziosi traguardi del Green Deal con le esigenze di sopravvivenza competitiva di un settore industriale cardine per il continente.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 10:00:00 GMTIl neoeletto premier ceco Andrej Babis chiude le porte agli aiuti finanziari per Kiev, invitando Bruxelles a individuare canali alternativi per supportare il governo ucraino. L'esponente della destra euroscettica, insediatosi come primo ministro all'inizio della settimana, aveva costruito la sua campagna elettorale sul primato degli interessi nazionali. Durante il mandato del suo predecessore Petr Fiala, Babis aveva già espresso forti riserve sull'ampio sostegno destinato a Kiev, criticando in particolare l'iniziativa di acquisizione internazionale di armamenti promossa dall'ex esecutivo.
Attraverso un messaggio video diffuso sabato sul proprio profilo Facebook, Babis ha reso nota una conversazione avuta con l'omologo belga Bart De Wever. Quest'ultimo si è schierato contro il meccanismo proposto dalla Commissione europea: un "prestito riparativo" vincolato agli asset russi bloccati nell'Unione, per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari.
Mentre Bruxelles punta a finalizzare l'operazione entro sette giorni, il primo ministro belga De Wever – preoccupato dal fatto che in Belgio ha sede Euroclear, la società che custodisce gran parte di questi capitali – ha equiparato l'iniziativa a un "furto" di risorse russe.
"Condivido pienamente la sua visione. Bruxelles deve identificare soluzioni diverse per sostenere economicamente l'Ucraina", ha sottolineato il leader ceco. Preoccupato per possibili conseguenze giuridiche da parte di Mosca, il governo belga ha richiesto coperture da parte degli altri partner europei qualora i capitali debbano essere rimpatriati. Le stime della stampa ceca parlano di un impatto potenziale di 4,3 miliardi di dollari per le casse di Praga. Una cifra insostenibile secondo Babis, che ha ribadito l'impossibilità del suo paese di farsi carico di simili obblighi. "Le nostre priorità riguardano la popolazione ceca, non disponiamo di risorse da destinare altrove. Non offriremo alcuna garanzia né contributi finanziari alla Commissione: il bilancio pubblico è completamente prosciugato", ha precisato.
Nel frattempo, l'UE ha dato il via libera ad una normativa che ridisegna i meccanismi di blocco degli asset russi, sostituendo il sistema semestrale basato sull'unanimità con un framework di durata estesa, potenzialmente immune ai veti nazionali. La decisione ha innescato critiche per il possibile indebolimento del principio dell’unanimità che regola le scelte cruciali in materia di politica estera ed economica, tanto da spingere il premier ungherese Viktor Orban a denunciarne l'illegittimità. Numerose capitali europee hanno manifestato perplessità sull'architettura del prestito, evidenziando vulnerabilità sul piano legale e finanziario. Anche Robert Fico, primo ministro slovacco, ha lanciato un monito: proseguire con i trasferimenti monetari verso Kiev significherebbe soltanto allungare i tempi del conflitto.
L'idea dell'Unione Europea (UE) di utilizzare i beni congelati della banca centrale russa come garanzia per nuovi prestiti all'Ucraina è accolta con incomprensione dagli esperti di diritto internazionale: "Il piano di utilizzare i beni congelati dello Stato russo per prestiti di riparazione è assolutamente illegale secondo il diritto internazionale e costituisce una flagrante violazione dello stato di diritto", ha dichiarato Robert Volterra al Berliner Zeitung.
Volterra è socio dello studio legale londinese Volterra Fietta e uno dei più stimati esperti legali di diritto internazionale. È professore ospite di diritto internazionale presso l'University College London (UCL) e docente presso il King's College London. Volterra condanna fermamente la proposta di Bruxelles: "Quando uno Stato utilizza regolamenti per confiscare i beni di un altro Stato, commette una violazione del diritto internazionale grave quanto l'occupazione del territorio di un altro Stato con la forza delle armi".
Le garanzie sono solo retorica?
Per Volterra, la questione cruciale è se il quadro giuridico consenta effettivamente l'accesso ai beni russi. Egli prevede due possibili strategie per l'UE: "O l'UE crea un quadro giuridico che autorizza l'espropriazione dei beni sovrani russi o del loro valore. Qualsiasi tribunale che rispetti lo stato di diritto dichiarerebbe immediatamente tale azione illegale. Oppure l'UE istituisce un sistema in cui i beni rimangono intatti e le reali garanzie provengono dall'UE stessa; in questo caso, si tratta di una cortina fumogena, una mera minaccia diplomatica pubblica contro la Russia, e qualsiasi riferimento a garanzie per i beni sovrani russi non è altro che vuota retorica".
Ricordando la crisi dei mutui subprime
Volterra, canadese di nascita, fornisce consulenza e rappresenta governi, organizzazioni internazionali e privati ??cittadini su un'ampia gamma di questioni, contenziose e non, di diritto internazionale e risoluzione delle controversie internazionali, tra cui confini internazionali, risorse transfrontaliere e accordi bilaterali di investimento. Afferma che il piano dell'UE gli ricorda "un po' i titoli garantiti da ipoteca statunitensi che hanno innescato la crisi finanziaria del 2008": "Il debito ad alto rischio è stato raggruppato e venduto come debito a basso rischio a dentisti, avvocati e pensionati, promettendo loro un rendimento interessante e sicuro". Potrebbe quindi trattarsi di uno "schema Ponzi". Non sorprenderebbe: "Esistono molti schemi Ponzi di cui non siamo a conoscenza e che non falliscono mai", afferma questo esperto di diritto internazionale.
Le azioni dell'UE sono attentamente monitorate a livello internazionale, afferma Volterra: "Tutti i paesi, compresi i potenti concorrenti dell'UE, ne monitorano attentamente le azioni". Questo piano potrebbe in ultima analisi "creare un precedente per altri paesi che disapprovano determinate misure dell'UE". Volterra si chiede: "Cosa succederebbe se una grande potenza respingesse la politica ambientale dell'UE, la dichiarasse illegale secondo il diritto internazionale e poi procedesse a confiscare i beni sovrani degli Stati membri?"
"Violazione dello stato di diritto"
Per l'UE, un simile intervento avrebbe anche conseguenze politiche a lungo termine. Una misura del genere "perseguiterebbe l'UE per generazioni". Volterra ha spiegato: "La deliberata violazione dello Stato di diritto costituisce un attacco ai principi fondamentali su cui l'UE dovrebbe basarsi. Qualsiasi futura affermazione da parte dell'UE di condurre una 'politica estera morale' provocherebbe accuse di 'ipocrisia' da parte di altri Stati. L'UE ne pagherebbe un prezzo elevato per molto tempo".
Ufficialmente, gli europei rimangono imperturbabili: la Commissione europea potrà procedere con gli espropri senza che nessuno Stato possa opporsi, grazie a una "clausola di emergenza". Tuttavia, non è chiaro quali Stati siano effettivamente disposti a garantire questi prestiti, che potrebbero raggiungere i 210 miliardi di euro. Di fronte alla forte opposizione del Belgio, la Commissione europea ha rimosso ogni riferimento a Euroclear dalla nuova legislazione. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, da parte sua, sostiene il progetto. Così facendo, si schiera contro Donald Trump. In un articolo di opinione pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), Merz ha scritto: "Non possiamo lasciare che siano gli Stati non europei a decidere il destino delle risorse finanziarie di un aggressore".
L'Italia respinge il piano, con sorpresa di tutti
Sembra che anche in Italia stiano emergendo serie preoccupazioni legali: secondo un documento interno pubblicato da Politico, la terza economia mondiale non voterà a favore dell'espropriazione. Come Belgio, Malta e Bulgaria, l'Italia respinge il piano. Anche Euractiv e Bloomberg riportano questo rifiuto.
Il Primo Ministro Georgia Meloni ha sempre votato a favore dell'estensione delle sanzioni, ma mantiene anche stretti legami con il Presidente Donald Trump. Gli americani hanno scatenato il panico in Europa perché intendono utilizzare i fondi congiuntamente alla Russia per la ricostruzione dell'Ucraina. Secondo Robert Volterra, qualsiasi misura adottata senza il previo consenso della Russia è illegale. Su questo punto, gli americani hanno colto di sorpresa Ursula von der Leyen e Friedrich Merz.
Questa situazione è particolarmente sgradita ai leader europei: secondo Politico, gli italiani affermano di aver concordato venerdì di concedere poteri di emergenza all'UE per pura solidarietà. Sostengono che ciò non implichi un accordo sull'espropriazione. I quattro membri dissenzienti chiedono eurobond invece dell'espropriazione, il che trasferirebbe il rischio alla Germania. Il cancelliere Merz sembrava aver previsto questo tipo di situazione quando ha concluso il suo articolo sulla FAZ con queste parole fatalistiche: "Ciò che decidiamo ora deciderà il futuro dell'Europa".
Merz parla di "solidarietà europea"
Venerdì, l'UE ha aperto la strada all'Ucraina per l'utilizzo di risorse statali russe. Venticinque dei 27 Stati membri hanno votato a favore dell'invocazione dell'articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea per revocare il veto. Questo articolo stabilisce che, in caso di gravi difficoltà economiche all'interno dell'UE, misure appropriate possono essere adottate a maggioranza qualificata. Ungheria e Slovacchia hanno votato contro questa misura.
Secondo l'accordo raggiunto venerdì, la Commissione riesaminerà la situazione ogni dodici mesi e i fondi rimarranno congelati nell'UE finché non determinerà che le circostanze eccezionali che giustificano questa misura non sussistono più, riporta Bloomberg citando fonti anonime.
L'Alto rappresentante per la politica estera dell'UE, Kaja Kallas, ha dichiarato, secondo l'agenzia di stampa tedesca DPA, che questa decisione garantisce che fino a 210 miliardi di euro di fondi russi rimarranno all'interno dell'UE, a meno che la Russia non risarcisca integralmente l'Ucraina per i danni di guerra. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, sempre secondo la DPA, l'ha salutata come "un chiaro segnale di sovranità europea" e ha sottolineato che persino Italia e Belgio, inizialmente critici, alla fine hanno dato il loro consenso – un'affermazione non del tutto corretta.
Mosca è furiosa e annuncia rappresaglie
La Russia ha reagito con veemenza sabato, secondo l'agenzia di stampa russa TASS: "Bruxelles sta accuratamente nascondendo il fatto che, in ultima analisi, saranno i cittadini dei paesi dell'UE a pagare il prezzo di queste ambizioni politiche. Le nostre misure di ritorsione seguiranno a breve", ha dichiarato Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Affari Esteri. Ha poi aggiunto: "La Banca Centrale di Russia ha rilasciato una dichiarazione dettagliata sulla questione il 12 dicembre. Misure concrete sono già in corso. Lo stesso giorno, l'autorità di regolamentazione russa ha annunciato di aver presentato un ricorso alla Corte Arbitrale di Mosca contro la banca depositaria Euroclear per ottenere un risarcimento per le perdite subite dalla Banca Centrale di Russia.
Nel frattempo, l'Unione Europea stessa non sarà più in grado di risarcire i danni che tali azioni arrecano al proprio sistema finanziario ed economico, né alla sua reputazione internazionale di partner commerciale e di investimento di lunga data e affidabile.
Tali violazioni nelle relazioni internazionali non rimarranno impunite". La signora Zakharova ha affermato che l'azione dell'UE "costituisce un atto del tutto illegale che viola gravemente le norme del diritto internazionale". Si tratta di "un vero e proprio furto".
_______________________________________________________________

PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:30:00 GMT
La Francia ha esortato l'Unione Europea a rinviare il voto su un accordo commerciale con il blocco sudamericano Mercosur, affermando che non ci sono ancora le condizioni per un accordo.
In una dichiarazione rilasciata domenica dall'ufficio del Primo Ministro Sebastien Lecornu, Parigi ha ribadito che gli Stati membri dell'UE non possono votare sull'accordo commerciale nella sua forma attuale.
"La Francia chiede che le scadenze vengano posticipate per continuare a lavorare per ottenere le legittime misure di protezione per la nostra agricoltura europea", si legge nella nota.
La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si recherà in Brasile lunedì per finalizzare lo storico patto commerciale che l'Unione dei 27 membri sta negoziando con il blocco commerciale del Mercosur da oltre 20 anni. L'accordo è in fase di negoziazione con quattro membri del Mercosur: Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay.
Ma la Commissione deve prima ottenere l'approvazione degli Stati membri dell'UE prima di firmare qualsiasi accordo commerciale, e Parigi ha chiaramente espresso la sua opposizione all'accordo con i paesi del Mercosur.
"Dato che è stato annunciato un vertice del Mercosur per il 20 dicembre, è chiaro in questo contesto che non sono state soddisfatte le condizioni per una votazione [da parte degli Stati] volta ad autorizzare la firma dell'accordo", si legge nella dichiarazione di Parigi.
In precedenza, domenica, in un'intervista al quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt, anche il ministro francese dell'Economia e delle Finanze Roland Lescure aveva confermato che il trattato, così com'è, "è semplicemente inaccettabile".
Inoltre, aveva aggiunto che una delle tre condizioni fondamentali che la Francia ha posto prima di dare la sua approvazione all'accordo era quella di garantire clausole di salvaguardia solide ed efficaci.
Ha affermato che gli altri punti chiave sono garantire che vengano applicati gli stessi standard di produzione a cui sono soggetti gli agricoltori dell'UE e che vengano istituiti adeguati "controlli sulle importazioni".
Gli agricoltori francesi e di altri paesi europei affermano che l'accordo creerà una concorrenza sleale a causa di standard meno rigorosi, che temono possano destabilizzare i già fragili settori alimentari europei.
"Finché non avremo ottenuto garanzie su questi tre punti, la Francia non accetterà l'accordo", secondo Lescure.
Secondo fonti dell'UE, si prevede che le nazioni europee voteranno sul patto commerciale tra martedì e venerdì.
Martedì il Parlamento europeo voterà anche sulle misure di salvaguardia per rassicurare gli agricoltori, in particolare quelli francesi, che si oppongono fermamente al trattato.
L'UE è il secondo partner commerciale del Mercosur per quanto riguarda le merci, con esportazioni pari a 57 miliardi di euro (67 miliardi di dollari) nel 2024.
L'UE è anche il maggiore investitore straniero nel Mercosur, con uno stock di 390 miliardi di euro (458 miliardi di dollari) nel 2023.
Se entro la fine del mese verrà approvato un accordo commerciale, l'accordo UE-Mercosur potrebbe creare un mercato comune di 722 milioni di persone.
_______________________________________________________________
19,00€

PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:00:00 GMT
Un tribunale estone ha emesso condanne esemplari per tradimento nei confronti dei leader di un partito politico anti-NATO, in un caso che solleva interrogativi sui confini tra dissenso politico, libertà di espressione e sicurezza nazionale nell'Europa orientale. La sentenza arriva in un contesto di tensioni geopolitiche acuite nel continente.
Giovedì, il Tribunale distrettuale di Harju ha condannato Aivo Peterson, cofondatore del piccolo partito conservatore Koos, a 14 anni di reclusione. I suoi collaboratori, Dmitri Rootsi e Andrei Andronov, hanno ricevuto rispettivamente condanne a 11 anni e 11 anni e sei mesi. Gli imputati hanno respinto tutte le accuse, annunciando l'intenzione di presentare appello.
L'accusa, rappresentata dal Procuratore generale Triinu Olev-Aas, ha sostenuto che i tre hanno agito come agenti al servizio degli interessi della Federazione Russa. Nello specifico, è stato loro contestato di aver "diffuso narrazioni a sostegno della politica estera e di sicurezza della Russia" con lo scopo deliberato di "minare la fiducia dell'opinione pubblica estone nell'Alleanza Atlantica (NATO) e nel sostegno militare di Tallinn a Kiev".
"Il processo ha dimostrato che gli imputati hanno deliberatamente aiutato la Russia in attività dirette contro lo Stato e la società estoni", ha dichiarato Olev-Aas al termine del procedimento.
Il partito Koos, fondato nel 2022, promuove un'agenda apertamente contraria alla posizione ufficiale dell'Estonia. Il suo programma politico chiede infatti l'uscita del Paese dalla NATO, il ritorno a uno status di neutralità, il ritiro delle truppe straniere dal territorio nazionale e l'"astensione dal partecipare direttamente o indirettamente a conflitti militari tra altri paesi". Una piattaforma che risuona con le narrative del Cremlino.
Un elemento chiave dell'accusa è stato un viaggio compiuto da Peterson nel 2023 nella Repubblica Popolare di Donetsk, un'entità secessionista sostenuta da Mosca che Tallinn, in linea con il diritto internazionale, considera territorio ucraino illegalmente occupato. In quell'occasione, Peterson affermò di voler "raccogliere informazioni sul conflitto" per colmare un vuoto informativo. "Ogni conflitto ha due facce, ma le informazioni che riceviamo dai media estoni sono unilaterali. Tutti i nostri giornalisti sostengono Kiev, il che spesso sembra propaganda", dichiarò allora.
La difesa e il partito Koos hanno respinto con forza le imputazioni, sostenendo che l'accusa non sia riuscita a fornire "prove concrete che le loro azioni abbiano causato danni reali all'ordine costituzionale o alla sicurezza dell'Estonia", configurando dunque, a loro dire, un caso di persecuzione politica.
Il verdetto si inserisce in un clima geopolitico particolarmente teso. L'Estonia, ex repubblica sovietica membro di UE e NATO, è tra i più fermi sostenitori di Kiev e ha spinto per un rafforzamento significativo delle difese collettive europee. Questa posizione le è valsa l'aperta ostilità di Mosca. A giugno, la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha definito l'Estonia "uno dei paesi più ostili", accusandola di "diffondere miti e falsità sulla presunta minaccia proveniente dall'Est".
La sentenza stabilisce un precedente significativo, segnalando la determinazione delle autorità estoni e, per estensione, di altri Stati frontalieri dell'UE e della NATO, a criminalizzare quelle attività che vengono percepite come collaborazione attiva con un avversario strategico in tempo di crisi di sicurezza. Il caso riflette le profonde fratture e le nuove, severe logiche di "sicurezza nazionale" che definiscono il panorama post-2022 in Europa.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:00:00 GMT
Il procuratore capo britannico della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha accusato un alto funzionario del governo britannico di aver minacciato di ritirare i finanziamenti e il sostegno del Regno Unito alla corte se avesse presentato mandati di arresto contro i leader israeliani.
Secondo Middle East Eye, il funzionario sarebbe l'allora ministro degli esteri ed ex primo ministro David Cameron.
L'accusa è contenuta in una dichiarazione presentata da Khan alla corte, che descrive i dettagli di una presunta campagna di minacce a cui il pubblico ministero ha dovuto far fronte nel periodo precedente alla richiesta da parte del suo ufficio di mandati di cattura contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant nel maggio 2024 per presunti crimini di guerra a Gaza.
La dichiarazione, presentata mercoledì alla camera d'appello della CPI in risposta alla richiesta israeliana di rimuovere Khan dall'indagine e di ritirare i mandati di cattura, sembra corroborare i precedenti resoconti del MEE che avevano portato alla luce molti dettagli sui tentativi di indebolire Khan, tra cui l'esplosiva telefonata di Cameron al pubblico ministero.
Israele sostiene che Khan abbia emesso frettolosamente i mandati dopo essere stato informato delle accuse di molestie sessuali a suo carico. Ma la dichiarazione di Khan respinge le accuse di Israele, descrivendole come basate su "una nebbia di congetture orientate ai fini e affermazioni fuorvianti o false" e "un miasma di resoconti speculativi".
La sua dichiarazione espone in dettaglio la cronologia degli eventi che hanno portato il suo ufficio a richiedere mandati di cattura contro i due israeliani, nonché contro i leader di Hamas, il 20 maggio 2024, dopo mesi di quello che ha descritto come "un processo meticoloso" da parte del suo ufficio.
Khan, in congedo da maggio di quest'anno, in attesa dell'esito di un'indagine per molestie sessuali attualmente condotta da un team guidato dalle Nazioni Unite, ha respinto fermamente le accuse a suo carico.
Le accuse di molestie sessuali furono rivelate per la prima volta a Khan di persona dai membri del suo team il 2 maggio 2024, lo stesso giorno in cui aveva intenzione di annunciare i mandati di arresto di Netanyahu e Gallant, secondo la cronologia degli eventi delineata nel documento.
Nella richiesta di ricusazione del pubblico ministero, presentata il 17 novembre, Israele ha sostenuto che il pubblico ministero mancava di imparzialità ed era stato spinto da motivi personali a presentare frettolosamente i mandati.
Ma Khan ha affermato che le richieste di mandato erano già state preparate prima delle accuse di cattiva condotta e che la sua indagine sui presunti crimini di guerra commessi da Israele e Hamas è iniziata nell'ottobre 2023, poco dopo gli attacchi di Hamas contro Israele.
Nella sua dichiarazione, come precedentemente riportato da MEE, Khan ha spiegato che entro la fine del 2023 le sue indagini avevano raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato da consentirgli di convocare un gruppo indipendente di sette esperti legali, tra cui figuravano gli avvocati britannici per i diritti umani Amal Clooney e Helena Kennedy, nonché il giurista israeliano Theodor Meron.
Il collegio è stato formalmente istituito nel gennaio 2024 per valutare se fosse stata raggiunta la soglia legale per i mandati di arresto e, in particolare, se vi fossero "ragionevoli motivi per ritenere" che gli individui nominati avessero commesso crimini di competenza del tribunale.
Nel marzo 2024, ha affermato Khan, il comitato aveva concluso all'unanimità che il suo ufficio aveva raccolto materiale sufficiente per richiedere mandati e che il processo era stato "equo, rigoroso e indipendente".
Il 24 marzo 2024, Khan si recò negli Stati Uniti, dove informò alti funzionari statunitensi della sua intenzione di presentare richiesta di mandati di arresto per la situazione in Palestina e che le domande avrebbero dovuto essere presentate entro la fine di aprile.
Pressioni da parte dei funzionari per abbandonare i mandati
Mentre proseguiva la preparazione dei mandati, Khan ha affermato che il suo ufficio è stato sottoposto a crescenti pressioni diplomatiche da parte di diversi stati che lo sollecitavano a ritardare o abbandonare le richieste contro i funzionari israeliani.
Tra queste, il 19 aprile, un alto funzionario statunitense ha lanciato un avvertimento circa le “conseguenze disastrose” se i mandati fossero stati perseguiti, appello che Khan afferma di aver respinto, citando la mancanza di una cooperazione significativa da parte di Israele e l’assenza di cambiamenti nella sua condotta delle ostilità a Gaza.
Seguirono ulteriori pressioni, tra cui una telefonata del 23 aprile a Khan da parte di "un alto funzionario del governo del Regno Unito" che avvertì che i mandati di arresto contro i leader israeliani sarebbero stati sproporzionati e avrebbero potuto portare il Regno Unito a ritirare i finanziamenti alla corte.
MEE può confermare, come già riportato in precedenza, che la telefonata a cui fa riferimento Khan è stata effettuata con Cameron.
Durante la chiamata, secondo fonti a conoscenza della questione, Cameron ha detto a Khan che richiedere mandati di cattura per Netanyahu e Gallant sarebbe stato "come sganciare una bomba all'idrogeno".
Cameron ha affermato che una cosa è indagare e perseguire la Russia per una "guerra di aggressione" contro l'Ucraina, ma un'altra è perseguire Israele mentre si stava "difendendo dagli attacchi del 7 ottobre".
Cameron non ha risposto alle richieste di commento di MEE. In un resoconto dell'episodio nel libro del giornalista di MEE Peter Oborne, "Complicit: Britain's Role in the Destruction of Gaza" , una fonte vicina a Cameron ha confermato che la chiamata con Khan ha avuto luogo ed è stata "solida".
Ma la fonte ha precisato che, anziché minacciare, Cameron ha sottolineato che forti voci all'interno del Partito Conservatore avrebbero spinto per il ritiro dei finanziamenti alla CPI e per il ritiro dallo Statuto di Roma, la carta fondante della CPI.
A giugno, l'ex primo ministro scozzese Humza Yousaf ha dichiarato a MEE che la commissione per gli affari esteri del parlamento britannico avrebbe dovuto indagare su quanto accaduto durante la telefonata.
Yusuf era il primo ministro scozzese, mentre Cameron era il ministro degli esteri britannico.
Ha affermato: "Lord Cameron deve essere chiamato a rispondere delle sue azioni. Stiamo parlando di una questione della massima gravità. Dobbiamo sapere se un ministro degli Esteri britannico in carica all'epoca abbia minacciato di tagliare i fondi alla Corte penale internazionale".
Ad agosto, anche il parlamentare indipendente Jeremy Corbyn, ex leader del partito laburista, ha chiesto al governo britannico di indagare su quanto accaduto nella telefonata tra Cameron e Khan.
"Penso che dobbiamo saperlo e abbiamo anche il diritto di saperlo", ha detto Corbyn a MEE.
Sanzioni al pubblico ministero
Dopo la telefonata di Cameron, Khan ha elencato altri tentativi di fare pressione su di lui affinché non presentasse le domande.
Più tardi, sempre ad aprile, 10 senatori statunitensi hanno scritto a Khan minacciando sanzioni contro di lui e la CPI se fossero stati emessi mandati di cattura. Il 26 aprile, Netanyahu ha criticato pubblicamente la CPI sui social media, respingendo qualsiasi tentativo di minare il diritto di Israele all'autodifesa.
Khan ha anche descritto gli incontri del 30 aprile e del 1° maggio con rappresentanti degli stati occidentali e funzionari statunitensi, che definisce come tentativi di convincerlo a non procedere. In una telefonata del 1° maggio, il senatore statunitense Lindsey Graham ha avvertito che l'esecuzione di mandati di cattura contro funzionari israeliani avrebbe innescato sanzioni statunitensi.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Khan a febbraio. Anche altri membri del suo ufficio e diversi giudici sono stati presi di mira.
Nella sua dichiarazione di mercoledì, Khan ha contestato la richiesta di Israele, definendola inammissibile a causa della mancanza di legittimazione di Israele, ma ha affermato che ciò gli imponeva comunque di chiarire la cronologia degli eventi "nell'interesse della trasparenza".
Un collegio ad hoc di tre giudici sta attualmente esaminando le accuse di molestie sessuali contro Khan, secondo una dichiarazione dell'organo direttivo della corte, visionata da MEE venerdì. Un'indagine esterna delle Nazioni Unite sulle accuse è stata completata e il suo rapporto è stato consegnato ai giudici giovedì. Si prevede che i giudici emetteranno una decisione legale sulle conclusioni del rapporto di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite entro 30 giorni.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
_______________________________________________________________

PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:00:00 GMTData articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:00:00 GMT
!Qualsiasi tentativo da parte dell'UE di attingere ai beni congelati della banca centrale russa sarebbe illegale secondo il diritto internazionale". Lo ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.
All'inizio di questa settimana, la banca centrale russa ha avviato un procedimento legale contro Euroclear, un depositario con sede in Belgio che detiene la maggior parte dei beni congelati della Russia, mentre i sostenitori europei dell'Ucraina discutono su come riutilizzarli per finanziare Kiev. “Le azioni intraprese contro i beni sovrani senza il consenso della Russia - che si tratti di immobilizzazione a tempo indeterminato, confisca o tentativi di presentarli come un cosiddetto prestito di riparazione - sono del tutto illegali secondo il diritto internazionale”, ha dichiarato Zakharova ai giornalisti durante una conferenza stampa sabato.
Zakharova ha sostenuto che, oltre a “finanziare il fallito progetto ucraino”, l'UE sta anche cercando di utilizzare i beni per rafforzare la propria economia, che è stata danneggiata dalle sanzioni contro il commercio della Russia con l'Occidente.
L'Ungheria e la Slovacchia hanno condannato l'UE per aver invocato i suoi poteri di emergenza, raramente utilizzati, per aggirare i potenziali veti dei singoli Stati membri e rendere indefinito il congelamento dei beni. Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha accusato la “dittatura di Bruxelles” di “violentare sistematicamente il diritto europeo”.
Politico ha riferito all'inizio di questa settimana che Italia, Belgio, Bulgaria e Malta hanno chiesto alla Commissione europea di valutare opzioni per fornire prestiti a Kiev diverse dal sequestro dei beni russi. Il primo ministro belga Bart De Wever ha avvertito che la confisca totale dei beni minerebbe la fiducia nel sistema finanziario dell'UE, innescherebbe una fuga di capitali ed esporrebbe il Belgio a rischi legali.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 08:00:00 GMT
di Federico Giusti
_______________________________________________________________
19,00€

PER I PRIMI 50 CHE ACQUISTANO IN PREVENDITA: SCONTO DEL 10% E SENZA SPESE DI SPEDIZIONE!
Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Mon, 15 Dec 2025 07:30:00 GMT