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Editoriali
Sirte, il giorno in cui le urne erano giĂ  piene


di Vito Petrocelli 

Le elezioni comunali di Sirte, città a 450 km ad est di Tripoli, che avrebbero dovuto rappresentare un passo verso la stabilità e il ritorno alla normalità istituzionale, si sono svolte in un clima di forte confusione e tensione sin dalle prime ore.

Secondo quanto riportato dall’agenzia 17Press, il processo elettorale è stato caratterizzato da una situazione caotica e disordinata. I fatti e i dettagli contenuti in questo articolo, ad eccezione della descrizione generale del contesto, si basano in più su informazioni provenienti dall’interno della città, verificate attraverso diversi testimoni e fonti indipendenti.

All’alba, a Sirte, il silenzio non era quello di un giorno qualunque. Era un silenzio carico di tensione e aspettativa, quello di una città che si preparava a votare, convinta – o forse solo speranzosa – che le elezioni comunali potessero rappresentare un passo verso la normalità.

Ma quando i primi osservatori hanno aperto le porte dei seggi, quella speranza si è incrinata.

All’interno delle scuole trasformate in seggi elettorali, nei quartieri di Nouijia, Al-Majd e Al-Farabi, le urne risultavano già sigillate. E all’interno, secondo quanto denunciato dai presenti, vi erano già schede elettorali. Non una, non due. Urne già piene, prima ancora che il primo cittadino potesse esprimere il proprio voto.

La notizia si è diffusa rapidamente: dai corridoi dei seggi alle strade, dai telefoni alle voci concitate. Gli osservatori hanno protestato. I rappresentanti delle liste hanno chiesto spiegazioni. In alcuni quartieri, i cittadini hanno chiuso i seggi con le proprie mani, rifiutandosi di partecipare a quella che consideravano una farsa.

Ma invece di un’indagine immediata, è arrivata la forza.

Secondo numerose testimonianze, la Direzione della Sicurezza di Sirte è intervenuta all’interno dei seggi, ha cacciato gli osservatori e arrestato alcuni di loro, colpevoli di aver denunciato quello che definivano un broglio evidente e documentato. Poco dopo, sempre secondo le stesse fonti, alcuni seghi sarebbero stati riaperti con la forza, nonostante le richieste popolari di sospendere il voto fino al chiarimento delle violazioni.

Mentre la tensione cresceva davanti alle urne, un’altra vicenda emergeva dai resoconti del processo elettorale. 

Nei giorni precedenti al voto, circolavano informazioni considerate “gravissime” da attivisti e cittadini: circa 3.500 nomi di elettori non residenti a Sirte sarebbero stati inseriti nei registri elettorali. Si parlava di militari e di un’operazione organizzata per orientare il risultato finale.

Nelle denunce pubbliche venivano indicati nomi e responsabilità precise:
Mukhtar Al-Maadani, sindaco uscente e candidato;
Abdullah Al-Abdali, responsabile dei mukhtar dei quartieri;
Ibrahim Aghbash Al-Gheddafi, descritto come figura chiave del coordinamento;
e Zayed Hadiya, deputato di Sirte, indicato come parte dell’operazione generale.

Secondo quanto riferito, una visita a Bengasi sarebbe avvenuta nel fine settimana precedente alle elezioni, dopo la convocazione del responsabile locale della Commissione Elettorale. Una mossa che, agli occhi di molti cittadini, ha sollevato più domande che risposte.

Nel mezzo di questo scenario, anche il diritto alla giustizia è finito sotto pressione.

Un avvocato, Ali Al-Sada’i, incaricato ufficialmente da più liste di preparare i ricorsi legali sulle irregolarità elettorali, è stato arrestato. Nessuna spiegazione dettagliata. Nessun chiarimento pubblico. Solo silenzio.

Poi è toccato a un cittadino comune.

Faraj Ahmed Bushoufa, il cui “crimine”, secondo quanto denunciato, sarebbe stato quello di aver filmato le urne già piene. Attualmente risulta detenuto presso la sicurezza interna di Sirte.

La città osservava.

Documentava.

Ricordava.

Persino la tribù Maadan ha sentito il bisogno di intervenire pubblicamente, dichiarando la propria totale estraneità a qualsiasi tentativo di broglio e rifiutando che il proprio nome venisse associato a pratiche illegali o alla manipolazione del voto. 

E mentre tutto questo accadeva, tornava a circolare una frase pronunciata tempo prima dal sindaco uscente in un’intervista televisiva: «Ho già il 50% dei voti».

Per molti cittadini di Sirte, oggi quella frase non suona più come una previsione.

Suona come qualcos’altro.

Sirte non chiede favori.

Chiede una sola cosa: che le elezioni comincino con le urne vuote, come impone la legge, e riempite dalla volontà della gente. Non riempite prima.

E finché questo non accadrà, per molti cittadini, queste elezioni non rappresenteranno un vero voto.

Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 08:00:00 GMT
Mondo grande e terribile
Il nuovo autoritarismo operante negli Usa (e in Europa)



di Paolo Desogus*

Circola con sempre più insistenza l'idea secondo cui nazismo e fascismo sono in realtà espressione della storia del socialismo. La segretaria di AFD ha persino affermato che il Nazionalsocialismo, considerati il nome e le politiche stataliste, era comunista. Solo per per via di storici tendenziosi e di sinistra queste due ideologia sarebbero state inquadrata a destra, tra i conservatori.

Immagino che questa interpretazione faccia quantomeno sorridere. Sembra infatti così scema, così fuori di testa da non poter essere veramente presa sul serio. Si direbbe del resto il frutto avariato di una propaganda che si fa gioco dell'ignoranza diffusa e che si appoggia sul discredito che nel corso degli anni ha accumulato tutto ciò appartiene alla storia della sinistra.

Riflettendoci però un attimo. A me pare che in questo delirio ci sia un elemento tutt'altro che stupido o semplicemente demagogico. Quando l'AFD, Musk, i MAGA e presto gli esponenti della destra italiana e francese dicono che fascismo e nazismo sono espressioni della sinistra stanno in realtà compiendo una ristrutturazione ideologica accompagnata da un messaggio alle élite internazionali sul futuro della nuova ultradestra oggi al potere negli USA e ispiratrice di altre destre come quella meloniana.

Questa nuova ultradestra intende descrivere la sua nuova forma di autoritarismo fondata non più sulla centralità dello stato, com'era per Hitler e Mussolini, ma sul dominio del capitale sganciato da ogni vincolo, da ogni impegno. Per il fascismo lo stato era il compimento della società civile (qui intesa come l’insieme dei rapporti sociali, economici e associativi attraverso cui gli individui perseguono interessi particolari). Era la sua sintesi. La nuova ultradestra porta invece alle estreme conseguenze il neoliberalismo e rovescia i rapporti entro una logica che sottomette lo stato ai privati cittadini.

Aggiungete a questo nuovo schema l'ideologia "egoistica" sposata da Musk, ostile ogni forma di solidarietà e persino di "empatia" tra individui. Metteteci poi le teorie contro l'eguaglianza degli esseri umani, condite da nuove forme di razzismo biologico e sociale. Con questi ingredienti la nuova ultradestra è in grado di legittimare una forma di autoritarismo che trasforma i singoli stati negli strumenti del capitale custodito dalle élite capitaliste, ovvero dai nuovi privilegiati, la nuova aristocrazia internazionale dei Musk, Bezos ecc.

Del resto è già così. L'amministrazione americana è già l'espressione del capitalismo americano. Ha già del tutto integrato élite politiche ed élite economico-finanziarie.
 
Credo dunque occorre non sottovalutare o considerare solo come delle scemenze le interpretazioni sul nazismo e sul fascismo. Si tratta di letture dietro le quali si nasconde un'idea nuova di stato. Un nuovo autoritarismo del resto già operante negli Usa e in Europa.
Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Daniele Luttazzi - Una vittoria tira l’Altra: la diplomazia illusoria di una leader bugiarda


di Daniele Luttazzi - Fatto Quotidiano, non c'è di che

Come ricordava ieri su questo giornale il prof. Orsini, e come dimostra in modo inequivocabile il video postato su Facebook da Giorgio Bianchi il 2 dicembre (t.ly/51PQP), Giorgia Meloni ha mentito spudoratamente, lo scorso marzo, dicendo alla Camera: “Non credo di aver mai usato la parola vittoria rispetto alla guerra in Ucraina”. La bugiardella della Garbatella, infatti, ha usato più volte la parola vittoria rispetto alla guerra in Ucraina. Il 26 aprile 2023, durante la Conferenza Italia-Ucraina, la Meloni disse alle imprese italiane: “Non abbiate paura di scommettere sulla vittoria dell’Ucraina”, aggiungendo che “parlare di ricostruzione significa scommettere sulla vittoria”. E il 13 maggio 2023, a Palazzo Chigi, nella conferenza stampa con Zelensky, la Meloni disse: “Noi scommettiamo sulla vittoria dell’Ucraina”. Ribadiva quanto dichiarato il 21 febbraio 2023 a Kiev: “Sono convinta che l’Ucraina vincerà”.

Dev’esserne tuttora convinta, visto che vuole inviare altri armamenti all’Ucraina per tutto il 2026, dopo averne già inviati per circa 3 miliardi. Questo conteggio, che riguarda la fornitura di mezzi, munizioni, sistemi di difesa e addestramento, è solo stimato: il governo non fornisce dati ufficiali “per non dare vantaggi alla Russia” (il Copasir questi dati ce li ha, mancano i whistleblower). Ci vanno aggiunti 1,4 miliardi di contributo italiano al fondo europeo Epf che finanzia acquisti di armi e supporto militare all’Ucraina; e i 643 milioni di euro in armi vendute all’Ucraina da aziende italiane autorizzate (t.ly/12qvj).

Trumpista opportunista, la Meloni è complice della diplomazia funesta dei vertici europei e partecipa della loro stessa idiozia politica. Poiché il risultato è disastroso (crisi economica da sanzioni boomerang, gas dagli Usa più costoso con bollette aumentate del 25%, dazi trumpiani che fanno pagare agli alleati il disavanzo Usa, 5% del Pil in spesa per la difesa da raggiungere entro il 2035, e sconfitta dell’Ucraina – ovvero soldi buttati, come prevedibile e previsto – con ingenti perdite umane e territoriali che d’altra parte potevano essere evitate se Zelensky avesse accettato l’accordo pre-invasione proposto da Scholz: t.ly/TQKIk, t.ly/MLS71); per allontanare la prospettiva di un tracollo alle prossime elezioni, come meriterebbero queste e altre decisioni scellerate del suo governo (meline della Meloni comprese: la tassa sugli extraprofitti delle banche continuamente rimandata per non dispiacere a Mediolanum e Abi, tassa che nella Spagna del socialista Sánchez ha portato al fisco spagnolo 3 miliardi di euro), anche se è utopistico contare sul popolo italiano, notoriamente di bocca buona: non solo ha votato per 20 anni uno che pagava la mafia, era iscritto a una loggia eversiva, faceva leggi pro domo sua, violava coi bunga bunga i doveri di dignità e onore richiesti a un presidente del Consiglio dalla Costituzione, e per giunta frodava il fisco; ma alla fine l’ha pure onorato del Famedio (no, non sto parlando di De Gasperi); adesso la domestica Meloni cerca di nascondere il rusco sotto un tappeto di balle. Le ultime (sul rating dell’Italia, sull’attuazione del Pnrr, sul taglio delle tasse, sui soldi per la Sanità, sugli sbarchi, sui centri in Albania ecc. ecc.) le ha dette ad Atreju e sono state smontate da Pagella Politica (t.ly/b7h6W) e Fanpage (t.ly/Vd7st). Del resto, a quante cose sbagliate ci hanno fatto credere, da quando siamo al mondo?

Cose sbagliate a cui ci hanno fatto credere

152) Non è vero che se scoreggi in un bicchiere d’acqua diventa Red Bull.

Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Alessandro Barbero - Il nostro paese non è in guerra


di Alessandro Barbero*

Il nostro paese non è in guerra, e non ha nessun nemico che lo minacci o che possa invaderlo. L'Unione Europea e la NATO non sono in guerra, e non sono minacciate da nessuno, al di là del fatto che la NATO rappresenta la più poderosa forza militare mai esistita nella storia dell'umanità, ed è essa stessa percepita come una minaccia da molti altri paesi del mondo. In questo contesto, in cui l'Italia e l'Europa potrebbero vivere pacificamente e investire le loro risorse nel benessere dei loro cittadini, in sanità, istruzione e ricerca, è inspiegabile e spaventoso che la politica e l'informazione vogliano creare un clima di isteria bellicista convincendo la gente che siamo minacciati, anzi secondo un'altra narrazione che siamo già in guerra – o forse è fin troppo spiegabile, se pensiamo agli enormi profitti che una politica di riarmo e di guerra può produrre per l'industria bellica.
 
Di questo clima isterico fanno parte la costruzione di un nemico e la censura strisciante per cui, dimenticando che la libertà di parola e di opinione sono l'essenza di quella democrazia che si pretende di difendere, impunemente si censurano opinioni, si silenziano voci e si impediscono dibattiti – ma in certi paesi dell'Unione già si annullano elezioni e si vietano candidature – col pretesto che sarebbero al servizio del nemico.
 
Che censure del genere si verifichino in una città democratica come Torino è un motivo più che sufficiente per manifestare davanti al Palazzo di Città, e per chiedere a una giunta formata dal partito che si chiama Democratico di prendere una posizione nei confronti di questo slittamento inquietante verso la morte della democrazia.

 

*Testo pubblicato sull'account Facebook del Prof. Angelo d'Orsi

Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 07:00:00 GMT
Dalla parte del lavoro
Legge Fornero: la truffa del governo Meloni


di Giorgio Cremaschi

IMBROGLIONE RIDICOLO… VI ricordate quando Salvini chiedeva e prendeva i voti degli operai opponendosi fieramente alla Legge Fornero?

Oggi il governo Meloni ha definitivamente confermato quella legge iniqua e feroce, anzi l’ha peggiorata. Ancora mesi in più di lavoro e ci si avvicina ai 70 anni, mentre il pagamento della pensione viene ancora più ritardato. Totalmente fregati coloro che avevano riscattato la laurea, che lavoreranno quasi tre anni in più.

E poi ai giovani neoassunti viene rapinato il TFR, la liquidazione, a favore dei fondi pensioni delle compagnie di assicurazione. Infine nessun vero adeguamento all’inflazione delle pensioni, che continueranno a svalutarsi e a impoverirsi.

Un bel regalo alla finanza e alle banche da parte di Giorgia Meloni, che per questo può vantare il calo dello spread, perché taglia la spesa sociale, aumenta quella per le armi e obbedisce a tutti i banchieri e ai guerrafondai occidentali.

Un governo di imbroglioni, finti sovranisti e veri servi di Draghi, Ursula von der Leyen, loro padroni in comproprietà con Trump. Ma tra tutti gli imbrogli e gli imbroglioni il più ridicolo è Salvini; e più di lui fa pena chi ancora sta con lui.
Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Ucraina, il Cremlino avverte: l’ingresso dell’Europa “non promette nulla di buono”

Dal Cremlino arriva un messaggio chiaro: Mosca non ha ricevuto alcun segnale concreto su negoziati tra Europa e Stati Uniti per la risoluzione del conflitto ucraino. A dichiararlo è stato il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov, sottolineando che prima di parlare di nuove date per contatti tra Russia e USA sarà necessario valutare l’esito delle trattative in corso tra Washington e il regime di Kiev, alle quali partecipano anche i guerrafondai europei.

Proprio il coinvolgimento europeo, secondo Mosca, “non promette nulla di buono”. Da quando Donald Trump ha rilanciato un’iniziativa per chiudere la crisi, i leader UE avrebbero intensificato le pressioni sugli Stati Uniti per inserire clausole favorevoli a Bruxelles e a Kiev. L’intelligence russa è arrivata a parlare apertamente di tentativi britannici di “ricatto” nei confronti di Washington per sabotare un accordo ritenuto inaccettabile.

Le ultime consultazioni USA-Ucraina si sono svolte a Berlino il 14 e 15 dicembre, alla presenza di Volodymyr Zelensky e degli inviati di Trump, Steve Witkoff e Jared Kushner. Il presidente ucraino ha definito i colloqui “non facili”, mentre Trump ha ribadito che Kiev ha già perso territori e dovrà accettare concessioni. Parallelamente, il Cremlino segnala apertura sul piano mediatico.

Alla tradizionale sessione di domande e risposte di fine anno con Vladimir Putin, in programma il 19 dicembre, potranno partecipare anche giornalisti di Paesi considerati “non amichevoli”. Un evento che ha già raccolto oltre 1,5 milioni di domande e che, ancora una volta, si propone come vetrina politica e comunicativa della Russia in un contesto internazionale sempre più teso.


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Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Sotto assedio ma in crescita: il Venezuela guida la ripresa regionale

In un contesto regionale segnato da crescita debole e persistente, il Venezuela emerge come un caso sorprendente per osservatori fuorviati dalla propaganda del mainstream. Secondo il Bilancio Preliminare delle Economie dell’America Latina e dei Caraibi 2025 della CEPAL, l’economia venezuelana ha registrato nel 2025 una crescita del 6,5%, la più elevata dell’intera regione. Il dato segue l’8,5% del 2024 e resta nettamente superiore alla media latinoamericana, ferma tra il 2,3 e il 2,4%. Anche considerando un rallentamento previsto per il 2026 (3%), il Venezuela continuerebbe a crescere più del resto del continente.

Un altro elemento rilevante riguarda l’inflazione: in un solo anno è diminuita di oltre l’87%, segnando l’uscita dalla fase di iperinflazione verso livelli ancora alti ma gestibili. Un risultato che la CEPAL indica come uno dei più importanti progressi macroeconomici recenti del Paese. A livello regionale, l’organismo ONU conferma una stagnazione strutturale: quattro anni consecutivi con crescita intorno al 2,3%, segno di una vera e propria “trappola della bassa crescita”, che colpisce in particolare le maggiori economie sudamericane.

In questo quadro, la performance venezuelana assume un valore politico ed economico ancora più significativo: una crescita sostenuta ottenuta nonostante anni di sanzioni, blocco finanziario e pressione sistemica da parte degli Stati Uniti.

Un risultato che smentisce le narrazioni del collasso inevitabile e mostra come, anche sotto assedio, il Paese sia riuscito a stabilizzare i fondamentali macroeconomici e a rilanciare la propria economia, diventando uno dei casi più rilevanti dell’America Latina contemporanea.


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Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 06:00:00 GMT
Il DiSsenziente
Il "welfare surrogato" del turismo di massa


di Antonio Di Siena

Oggi La Gazzetta del Mezzogiorno propone due articoli sulla prima pagina cittadina che raccontano la stessa storia osservandola da due angolazioni diverse ma convergenti.



Da una parte Bari Vecchia, che esplode di turisti e strutture ricettive ma è priva di servizi pubblici adeguati; dall’altra la denuncia di un residente e memoria storica, che evidenzia la perdita - di fatto irreversibile - delle tradizioni del quartiere.

Ciò che emerge è un processo strutturale, che investe l’intera città di Bari così come (a velocità variabili) la quasi totalità delle altre città euromediterranee.
Partiamo da un presupposto: che la proliferazione incontrollata di B&B faccia tabula rasa di residenti, comunità e tradizioni locali non è un’opinione, è un fatto. E non saranno di certo la focaccia e i San Nicola di terracotta elevati a brand internazionale a salvarli.

Quando si sceglie di trasformare un quartiere in una vetrina, infatti, si trasforma un luogo in un prodotto e i suoi residenti in figuranti. Si allestisce uno spettacolo, fatto di luoghi e persone, funzionale a rievocare un passato esotico che non esiste più. Una sorta di “musealizzazione del passato” non molto diversa da un presepe vivente.

Non è un effetto collaterale, ma una conseguenza concreta e diretta del modello stesso che si è scelto di implementare. Che se ne parli, che si prenda posizione e si denunci questa evidente stortura, è certamente un bene. Ma non basta. È necessario fare un passetto oltre, per provare a capire perché un simile modello continui a imporsi nonostante gli effetti distruttivi.

Il turismo ha avuto un’innegabile ricaduta positiva sull’economia cittadina. Quantomeno nel breve periodo. Ed è questo che l’ha reso prima desiderabile e adesso sopportabile nonostante le storture.

In molti infatti hanno investito in attività di accoglienza, commercio e servizi, riuscendo a migliorare la propria condizione economica. Illudendosi di aver trovato la gallina dalle uova d’oro. Ma vi svelo un segreto: altrove ci sono già passati. E col tempo hanno scoperto che quel rendimento è temporaneo e regressivo. Che non esiste la gallina. E nemmeno le uova.

Quando il turismo si impone come fonte economica primaria, siamo infatti di fronte a un sistema economicamente fragile e non diversificato, un modello tipico di paesi privi di capacità ad elevato valore aggiunto (industria, ricerca e sviluppo ecc). Il segnale di una specializzazione al ribasso, fondata sulla rendita e non sulla produzione di valore. Non a caso, di turismo, campa la Thailandia non di certo la Germania, dove il turismo resta un settore complementare e non sostitutivo di una struttura produttiva complessa.

In un contesto economicamente depresso e privo di opportunità e alternative, il turismo diventa una sorta di salvagente. Ed è qui che assume i connotati di ciò che ho definito “welfare surrogato”.

In assenza di pianificazione e politiche pubbliche strutturali diventa la scialuppa di salvataggio su cui si accalcano amministratori pubblici e ceto medio impoverito: i primi lo usano come fonte di gettito immediato e alternativo; i secondi come fonte di reddito ausiliario attraverso gli affitti brevi e i servizi collegati.

A cascata, poi, trovano occupazione (instabile e mal retribuita) il resto dei cittadini che vengono impiegati nella filiera (negozietti di souvenir, ristorazione, deposito bagagli, accoglienza, pulizie, trasporti ecc). Il che genera due effetti immediati: l’illusione del miglioramento delle proprie condizioni (la casa mi rende di più, ero disoccupato oggi ho un lavoro precario) e il consenso politico derivante da una transitoria pacificazione sociale.

Ma il punto è che questo meccanismo non risolve nulla, sposta semplicemente il problema sotto il tappeto. A meno che la massima aspirazione per un figlio laureando ingegnere non sia un impiego stagionale nella ristorazione.

Il turismo infatti non produce lavoro stabile e servizi al cittadino e non garantisce diritti. Al contrario, alimenta un modello che promuove lo sradicamento (non puoi permetterti la casa in centro e finisci a vivere a Loseto), l’instabilità lavorativa (dipendi o vieni impiegato stagionalmente e quindi il tuo reddito dipende dai flussi), la disintegrazione del tessuto sociale e quindi della stessa comunità politica (quella che qualcuno ama chiamare “cittadinanza attiva”). Un modello che - volente o nolente - orienta le stesse politiche pubbliche degli enti locali. In una zona ad altra attrattività turistica, infatti, non si costruirà un presidio medico o un asilo nido, ma un intervento mirato alla valorizzazione immobiliare.

Con risorse pubbliche limitate, si pianificherà prioritariamente la spesa per rendere quelle zone ancora più attrattive. E così le zone turistiche saranno costantemente manutenute e implementate (viabilità, trasporti, arredo urbano) mentre il resto della città (le periferie dove vivono i residenti) viene abbandonata al proprio destino. Alimentando uno squilibrio intra urbano che, alla lunga, fa nascere di fatto due città diverse all’interno della stessa. Una bella e centrale ma pensata per chi arriva e l’altra, degradata, destinata a chi non ha voglia o possibilità di andare a vivere altrove.

La vera domanda, quindi, non è se il turismo “porti ricchezza” oppure no. Ma a chi.

Se affitti e prezzi degli immobili salgono alle stelle, chi può permettersi di vivere in centro o - addirittura- acquistare intere palazzine da convertire in B&B? Non di certo il cittadino medio. Ed è in questo punto che la narrazione ottimistica crolla definitivamente. Il modello che agli albori appariva come una ghiotta opportunità, si rivela essere uno spietato meccanismo di espulsione, in primis delle fasce popolari (l’anima autentica dei rioni), e di redistribuzione e concentrazione di ricchezza verso l’alto: nelle mani di grandi investitori e speculatori (fondi, grandi catene internazionali ecc). Un modello che non costruisce diritti collettivi, ma offre salvezza temporanea e individuale.

Un’illusione a termine che garantisce di tenere insieme austerità, impoverimento diffuso e gestione del conflitto sociale, consentendo di rinviare sine die il problema strutturale: quale città immaginiamo per il futuro dei nostri figli?

Benché non sembrino tali, quindi, le distorsioni della turistificazione non sono effetti collaterali “gestibili”: sono un punto di equilibrio del sistema. Ed è questo che rende così complicato mettere in discussione la questione sistemicamente.

A Bari, si dice da sempre che San Nicola è amante dei forestieri. Vale ricordarsi però che a portarlo in spalla in processione sono i cittadini.

È da questa dicotomia apparentemente insanabile che inizia Turisti a casa nostra, da una domanda semplice quanto apparentemente insolubile: se una città è pensata e governata in funzione di chi la consuma e non di chi la vive, a chi appartiene per davvero? E alla lunga, chi sarà costretto a pagarne il prezzo?




Data articolo: Wed, 17 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Il Cremlino risponde alla proposta Merz di una "tregua per le festivitĂ "


"Se in Ucraina esiste e comincia a prevalere il desiderio di sostituire la ricerca di un accordo con decisioni improvvisate e irrealizzabili, è improbabile che saremo disposti a partecipare". Il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov ha respinto la proposta di una "tregua temporanea" legata alle festività. avanzata dal Cancelliere tedesco Friedrich Merz.

Il portavoce ha sottolineato una distinzione netta tra cessazione delle ostilità e risoluzione definitiva. "Vogliamo la pace, non vogliamo un cessate il fuoco che dia respiro all'Ucraina e le permetta di prepararsi a continuare la guerra", ha affermato, precisando che Mosca persegue una "pace duratura" e non una "cessazione temporanea delle ostilità".

Peskov ha ribadito che la fine del conflitto è legata al conseguimento degli "obiettivi" dichiarati e alla garanzia dei propri "interessi" nazionali, nonché a una "pace in Europa in futuro". Secondo Mosca, il raggiungimento di tale stabilità passa attraverso l'eliminazione delle "cause profonde" della crisi, identificate nell'allargamento della NATO – percepito come una minaccia – e nella tutela dei diritti della popolazione russofona in Ucraina.

La proposta di Merz è stata formulata nel corso di una conferenza stampa congiunta a Berlino, dove Zelensky si trovava per consultazioni. Nella stessa giornata di lunedì, Zelensky aveva incontrato l’inviato speciale americano Jared Kushner e il consigliere Steve Witkoff, rappresentanti dell’amministrazione del Presidente Donald Trump, per discutere il piano di pace statunitense. I colloqui sono proseguiti con la partecipazione di diversi leader europei.

Mosca si dichiara partecipe del processo diplomatico promosso da Washington, ma mantiene la posizione che qualsiasi accordo non può prescindere da garanzie di sicurezza a lungo termine per la Federazione Russa.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 23:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Il Belgio respinge le concessioni UE sul prestito da 210 miliardi per l'Ucraina

 

"Il Belgio ha respinto lunedì le concessioni proposte dalla Commissione europea per sbloccare un prestito di 210 miliardi di euro all'Ucraina finanziato con i beni russi congelati, vanificando le speranze dell'UE di raggiungere un accordo in tempo per il vertice dei leader di giovedì". E' quanto riporta POLITICO, segnalando come a due giorni dalla scadenza, "la Commissione sta compiendo un ultimo tentativo per convincere i paesi membri a sostenere il prestito, affinché i miliardi delle riserve russe detenuti presso la banca Euroclear di Bruxelles possano essere utilizzati per sostenere l'economia di Kiev".

Dopo giorni di negoziati, la Commissione ha suggerito alcune modifiche legali per ottenere il sostegno politico del Belgio. Ha fornito garanzie giuridiche che, in qualsiasi scenario, il Belgio potrebbe attingere fino a 210 miliardi di euro se dovesse affrontare azioni legali o ritorsioni da parte della Russia, secondo l'ultimo testo visionato da POLITICO. Ha inoltre stabilito che non dovrebbero essere concessi fondi all'Ucraina prima che i paesi dell'UE forniscano garanzie finanziarie che coprano almeno il 50% del pagamento.

In un'ulteriore concessione, la Commissione ha ordinato "a tutti i paesi dell'UE di porre fine ai loro trattati bilaterali di investimento con la Russia per garantire che il Belgio non sia lasciato solo ad affrontare ritorsioni", prosegue POLITICO.  Ma il Belgio ha affermato che le rassicurazioni non erano sufficienti durante una riunione degli ambasciatori dell'UE lunedì sera, hanno riferito quattro diplomatici. “Non ci sarà alcun accordo fino all'EUCO [Consiglio europeo]”, ha dichiarato un diplomatico.

Il governo belga si oppone all'utilizzo dei beni russi per timore di dover rimborsare l'intero importo se la Russia tentasse di recuperare il denaro. A complicare la situazione, altri quattro paesi – Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca – hanno appoggiato la richiesta del Belgio di esplorare finanziamenti alternativi, come il debito congiunto. Mentre la Francia continua a sostenere pubblicamente il piano dei beni congelati, una persona vicina al presidente Emmanuel Macron ha affermato che Parigi è “neutrale” sulla questione se l'Europa debba attingere ai miliardi di Mosca o ricorrere agli Eurobond.

I sostenitori del piano, come la Germania, insistono sul fatto che non esiste una vera alternativa all'utilizzo dei beni russi, poiché il debito congiunto richiede l'unanimità e potrebbe essere bloccato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán. “Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di azione dell'Unione Europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo”, ha dichiarato lunedì il cancelliere tedesco Friedrich Merz.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 23:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Il Parlamento europeo potrebbe congelare l'accordo con il Mercosur fino al 2028


L’accordo commerciale tra UE e Mercosur rischia un congelamento di anni a causa di un'azione di parlamentari europei che mira a deferire il testo alla Corte di giustizia dell'UE. Oltre 140 eurodeputati, una coalizione trasversale che spazia dalla destra alla sinistra, intendono richiedere un parere sulla conformità dell'accordo ai trattati europei.

Questa procedura giuridica presso la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) richiederebbe tra i 18 e i 24 mesi, spostando potenzialmente la ratifica finale al 2027 o al 2028. I sostenitori dell'accordo dovranno respingere questa mossa in Parlamento, dove la relativa risoluzione richiederebbe per l'approvazione una maggioranza semplice dei voti espressi.

L'ostacolo giuridico si profila dopo che martedì il Parlamento europeo ha approvato con ampio margine (431 voti favorevoli su 662 presenti) misure di salvaguardia aggiuntive per proteggere gli agricoltori europei da un potenziale eccesso di importazioni agricole a basso costo dal Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), criticate come inadeguate e del tutto inutile dalle principali sigle degli agricoltori europei.

I negoziatori dell'UE mirano ora a concludere rapidamente un accordo sulle salvaguardie, con una votazione degli ambasciatori dei 27 paesi membri prevista per venerdì. Questo passaggio è cruciale per superare le resistenze di paesi come Francia e Italia, aprendo la strada alla firma formale da parte della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, prevista a Sabato in Brasile.

La Germania, principale fautrice dell'accordo, avverte però che ulteriori ritardi sarebbero fatali. Bernd Lange, presidente della commissione Commercio del Parlamento, ha dichiarato: “Se non ci sarà una firma il 20 dicembre, questo accordo sarà morto”. Un funzionario tedesco ha aggiunto che l'accordo “sta già iniziando a sgretolarsi”.

Gli oppositori parlamentari sostengono che le salvaguardie non siano sufficienti a tutelare gli standard climatici, ambientali e gli interessi degli agricoltori europei. Manon Aubry, copresidente del gruppo LEFT, ha dichiarato: “Vogliamo ritardare il più possibile il processo di adozione”.

La presidente del Parlamento, Roberta Metsola, si è impegnata a calendarizzare una votazione sul deferimento alla CGUE non appena il Consiglio dell'UE avrà formalmente approvato l'accordo. Se la richiesta di parere alla Corte fosse approvata, il Parlamento non potrebbe procedere alla ratifica finale in attesa della pronuncia dei giudici.

La Corte di giustizia ha precisato di poter “adeguare il ritmo” dei procedimenti per esigenze istituzionali, ma il processo comporterebbe comunque un rinvio significativo. Secondo il deputato liberale francese Jérémy Decerle, questo tempo permetterebbe alla Commissione di negoziare maggiori garanzie in materia di reciprocità, clima e protezione degli agricoltori.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 23:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Germania in crisi: "Situazione piĂą grave dal 1949"

«La crisi economica più grave dalla fondazione della Repubblica Federale». Con questa sentenza senza appello, Peter Leibinger, presidente della potente confederazione industriale tedesca Bdi in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, fotografa una Germania in affanno storico. Il timore, secondo il leader industriale, è quello di una «deindustrializzazione irreversibile», un processo che mette a rischio le fondamenta stesse del modello produttivo nazionale. Un'allerta che non arriva improvvisa, ma arriva a tre anni di distanza da una scelta epocale che ha ridisegnato i contorni dell'economia tedesca.

Il clima d'impresa nel paese è descritto come «estremamente negativo, in parte addirittura aggressivo e le aziende sono profondamente deluse». All'origine di questo malessere, oltre alle note sfide competitive, vi è un fattore geopolitico ineludibile: la rottura totale con la Russia e la scelta scellerata di abbandonare le forniture energetiche a basso costo che per decenni hanno alimentato l'industria pesante. Una scelta presentata come dettata dagli eventi bellici in Ucraina, che ha però un conto economico preciso e crescente. I prezzi dell'energia restano strutturalmente più elevati, erodendo in modo permanente la competitività di settori cruciali come la chimica, la siderurgia e, non da ultimo, l'automotive.

È proprio l'automotive, pilastro da circa il 5% del Pil, a incarnare la tempesta perfetta in cui si trova la Germania. Stretta tra costi energetici alti, ritardi nell'elettrificazione e una concorrenza cinese sempre più agguerrita, l'industria simbolo del Made in Germany perde terreno sia in Cina, sia in Europa. Il vantaggio tecnologico si è assottigliato e la risposta europea, fatta di dazi difensivi, rischia di aprire nuove guerre commerciali senza curare le cause profonde della malattia. Come avverte Leibinger, «campanelli d'allarme devono suonare».

Il quadro macroeconomico conferma la gravità: crescita a zero e un mercato del lavoro che mostra segni di cedimento, con la disoccupazione che torna a livelli preoccupanti. La scelta di abbandonare il gas russo ha accelerato una crisi già latente causata dal modello neoliberista.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 20:05:00 GMT
WORLD AFFAIRS
USA annunciano tre nuovi attacchi nel Pacifico

Gli Stati Uniti non fanno più solo guerre in Medio Oriente. Ora portano morte e illegalità nel “cortile di casa”, il Mar dei Caraibi.

Oggi il Comando Sud degli USA ha annunciato di aver “eliminato” 8 persone in attacchi a tre imbarcazioni definite “narcolanchas”. Operazione diretta dal Segretario alla Guerra, Pete Hegseth.

Ma la verità è un’altra.

Da agosto, Washington mantiene una forza militare massiccia davanti al Venezuela, sotto la scusa della “lotta alla droga” (Operazione Lanza del Sur). Finora, queste “operazioni letali” hanno causato oltre 80 morti, senza prove che le vittime fossero realmente narcotrafficanti.

In un’escalation pericolosa, i militari USA hanno persino assaltato una nave petrolifera in acque venezuelane. Caracas l’ha definito un “atto di pirateria internazionale”. E Maduro ha chiarito: “Il narcotraffico è una scusa, vogliono rubarci il petrolio”.

La realtà? Secondo l’ONU e la stessa DEA, il Venezuela non è una rotta primaria per il narcotraffico verso gli USA. Più dell’80% passa per il Pacifico.

Questi attacchi sono esecuzioni sommarie, condannate da Cina, Russia, ONU, Colombia, Messico e Brasile. Violano il diritto internazionale e rivelano il vero obiettivo: un cambio di regime per impadronirsi delle immense risorse energetiche venezuelane.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 17:06:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Il Venezuela interrompe le forniture di gas a Trinidad e Tobago

Il governo venezuelano ha annunciato l’immediata cessazione di tutti i contratti per la fornitura di gas naturale a Trinidad e Tobago, accusando la nazione caraibica di essere complice degli Stati Uniti in un atto di "pirateria internazionale" contro le sue risorse energetiche.

La decisione, comunicata ufficialmente il 15 dicembre, segue la denuncia venezuelana del furto di petrolio, perpetrato il 10 dicembre tramite l'assalto a una petroliera da parte degli USA. Caracas accusa il governo di Port of Spain, in particolare la Prima Ministra Kamla Persad-Bissessar, di "partecipazione diretta" a questa operazione, definendola una "grave violazione del diritto internazionale".

Secondo il comunicato, Trinidad e Tobago ha trasformato il proprio territorio in una "piattaforma militare avanzata" statunitense nella regione, ospitando radar militari USA per intercettare navi venezuelane e facilitare l'appropriazione indebita di idrocarburi. Un comportamento che Caracas bolla come "atto inequivoco di vasallaggio".

Il Presidente Nicolás Maduro ha definito l'episodio un "punto di rottura definitivo" nella relazione energetica bilaterale, giustificando il taglio del gas come misura di difesa sovrana. "Il Venezuela si rispetta!", si legge nel testo, che colloca la mossa in una "dottrina di difesa integrale" contro l'offensiva imperialista per asfissiare economicamente il paese.

La tensione si inserisce in un contesto regionale già molto teso, con un massiccio dispiegamento militare statunitense nel Mar dei Caraibi - giustificato da Washington dietro il pretesto della lotta al narcotraffico - e la recente conferma del Presidente Donald Trump della confisca di una nave con petrolio venezuelano. Caracas condanna queste azioni come tentativi di imporre un "cambio di regime" per appropriarsi delle sue ingenti risorse strategiche.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 16:26:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Solo uno scivolone dell'interprete? Truppe UE-NATO o cadaveri in Ucraina....


di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
 

Un mezzo scivolone dell'interprete e le cose si aggiustano nel senso esattamente opposto ai desideri dei “volenterosi”, espressi a conclusione dei colloqui di Berlino tra bellimbusti delle cancellerie europeiste, rappresentanti USA e il cosiddetto presidente ucraino.

A fronte delle due questioni chiave sul tavolo dei colloqui - “garanzie di sicurezza” e cessioni territoriali - il quasi gioco di parole che ha messo alla prova l'interprete alla conferenza stampa conclusiva in Germania riguardava la frase secondo cui “truppe UE e NATO” assicureranno la pace in Ucraina dopo la conclusione di un cessate il fuoco. Già detta così, non potrebbe che ricevere un pronto benservito da parte di Moskva. Ora, per assonanza, quelle “troops” euro-atlantiche, riportate in ucraino suonano come “trupy”, cadaveri e dunque, ironizza Pëtr Akopov su RIA Novosti, solo in quel caso, cioè come “trupy”, la Russia potrebbe accettare il dispiegamento di forze e basi occidentali in Ucraina.

Di fatto, a Berlino, secondo quanto riportato dai media, si sarebbe parlato di garanzie di sicurezza a Kiev, sul tipo dell'articolo 5 della NATO. Al di là di questo, pare confermato lo status di non allineato dell'Ucraina, de jure e de facto: Kiev non riceverà né l'adesione, né una "road map per l'adesione" all'Alleanza atlantica e ciò significa per Moskva il raggiungimento di uno dei principali obiettivi proclamati all'inizio del conflitto. Rimane in ogni caso da specificare, sottolinea Mikhail Karjaghin su Aktual'nye Kommentarii, che la lista dei protagonisti si va riducendo, dato che le “garanzie” sul modello dell'art. 5 saranno fornite solo dai firmatari dell'accordo di pace e tra questi, la domanda è se ci saranno solo gli USA, o anche rappresentanti della "Coalizione dei Volenterosi"?

E, comunque, come notato in più di un occasione e non da ora, la visione “mistica” di un art. 5 che, pare, scatterebbe comunque e integralmente, in ogni circostanza, coinvolgendo tutti i membri della NATO, tralascia di specificare la non piccola clausola secondo cui le parti intraprendono azioni «in base a quanto ritengono necessario». Oltre a ciò, per l'Ucraina si tratterebbe di un “simil art. 5”, che potrebbe dunque prevedere anche altre clausole.

In sostanza, afferma Karjaghin, a Berlino Zelenskij è riuscito a ottenere solo garanzie simboliche, su cui gli USA non si impegnano in alcun modo, mentre la Russia ha potenzialmente ricevuto garanzie sullo status di non allineato dell'Ucraina.

C'è da dire che, stando all'americana “Axios”, la delegazione yankee avrebbe promesso a Kiev garanzie di sicurezza che paiono aver sorpreso persino gli europei e che Trump, secondo un anonimo funzionario USA, «ritiene di poter convincere la Russia ad accettare questa garanzia, simile all'articolo 5 della NATO».

In effetti, il cancelliere tedesco Friedrich Merz aveva rilasciato una dichiarazione a sensazione sui risultati dei negoziati con gli inviati americani Wittkoff e Kushner, secondo cui si tratta di «un accordo davvero di vasta portata e sostanziale, come non se ne erano visti prima: sia gli europei che gli americani sono disposti congiuntamente a fornire a Kiev garanzie di sicurezza. Il presidente Zelenskij ha anche fatto riferimento all'articolo 5 del trattato NATO, cioè garanzie simili per l'Ucraina».

Ma, osserva Pëtr Akopov, Merz ha evidentemente agito frettolosamente: Trump aveva programmato una telefonata con i leader europei e Zelenskij, proprio sui negoziati di pace. Se gli americani avessero davvero promesso a UE e Ucraina quanto dichiarato da Merz, ciò avrebbe significato che «Trump stava abbandonando il piano che Wittkoff aveva discusso con Putin, ponendo di fatto fine a qualsiasi tentativo di negoziare un accordo con Moskva. Poiché la Russia non accetterà alcuna garanzia "simil NATO" sulla sicurezza ucraina e si rischierebbe una guerra: non una guerra per procura con l'Occidente, ma un conflitto militare diretto tra Russia e NATO sul suolo ucraino».

Detto questo, più intricata resta la questione delle cessioni territoriali: Kiev non pare disposta a riconoscere le nuove realtà sul terreno e rifiuta di ritirarsi volontariamente dalle parti della DNR che occupa. Dunque, l'attenzione sembra ora spostarsi sulla forma delle «cessioni territoriali e sul loro nuovo status giuridico: chi, come e in quale forma riconoscerà i nuovi confini».

Come aveva dichiarato alcuni giorni fa Vladimir Putin, la Russia ha bisogno che «la decisione a livello internazionale sia riconosciuta dai principali attori internazionali. Una cosa è se i territori vengono riconosciuti e posti sotto la sovranità russa e, se l'accordo venisse violato, si tratterebbe di un attacco alla Russia, con tutte le conseguenti misure di ritorsione. Oppure se sia visto come un tentativo di rivendicare un territorio che “appartiene legalmente all'Ucraina”. Sono due cose diverse».

Tornano alle “garanzie”, da parte UE, l'imbelle Kaja-Fredegonda-Kallas ha ammesso che l'adesione dell'Ucraina alla NATO non è più sul tavolo ma, in alternativa, l'Europa deve predisporre serie “garanzie di sicurezza”: «Dovranno esserci truppe vere, reali capacità militari», vale a dire basi militari in Ucraina. Ora, oltre a contraddire l'art. 17 della Costituzione, che Zelenskij cita a ogni piè sospinto, questo è proprio ciò cui Moskva potrebbe acconsentire solo nel caso che si trattasse, davvero di “trupy” UE-NATO e non di “troops”, anche se, per il momento, nessuna concreta reazione ufficiale è giunta dal Cremlino.

Questa settimana, dice ancora Akopov, costituirà un momento di verità per l'Europa: secondo “Politico”, i papaveri europei considerano i prossimi giorni “esistenziali”, perché se non riusciranno a proteggere l'Ucraina da un "umiliante trattato di pace" e a trovare i fondi per finanziare Kiev, l'Europa subirà una sconfitta. L'Europa ha «alzato troppo la posta, equiparando la sconfitta nella lotta per l'Ucraina a un duro colpo per il futuro della UE. E ora si rifiuta di accettarlo, continuando i suoi tentativi di sabotare l'accordo».

Tentativi che, al di là dello stretto “campo UE”, vengono anche da Londra; il Premier britannico Starmer ha illustrato i piani dei “volenterosi" per il dispiegamento di forze in Ucraina dopo il cessate il fuoco: un'idea vecchia, che non si adatta a «nessuna versione del piano di Trump, dato che rappresenta una linea rossa assoluta per la Russia, la cui semplice menzione annulla qualsiasi possibilità di raggiungere un cessate il fuoco. E tentare di attuarla arbitrariamente, dopo che un accordo fosse stato raggiunto, porterebbe all'immediato collasso del cessate il fuoco».

D'altronde, nella cosiddetta visione della cosiddetta Europa, quella del confronto pare per qualcuno l'unica strada possibile, tanto più in una situazione in cui, come afferma il signor Gabriele Segre su La Stampa del 16 dicembre, da ovest non arriva che il «disimpegno Usa», mentre da est non c'è che da aspettarsi la secolare «minaccia zarista»; proprio così: “zarista”, con la guerra in Ucraina che, «dal punto di vista strategico, è diventata un confronto diretto tra Russia e Paesi europei. Non era inevitabile, ma era prevedibile: Mosca è considerata una minaccia per il Continente fin dall’Èra degli Zar». Scritto proprio così, tutto maiuscolo e senza soluzione di continuità tra epoca zarista, ordine socialista e attuale Russia borghese: da Torino si conosce solamente lo zarismo quale unico e perenne ordine che debba in eterno dominare la Russia, minacciando tutto quanto stia intorno; o meglio: avvicinandosi pericolosamente «ai confini orientali della NATO», secondo la nuova vulgata geo- bellicista delle cancellerie europee. L'unica differenza, afferma il signor Segre, è che in «epoca sovietica, il conflitto era stato congelato dalla protezione dell’ombrello americano: colpire l’Europa significava colpire gli Stati Uniti. Oggi... quel confronto - rimasto latente per settant’anni - si è riattivato naturalmente». In altre parole: a fronte di un'Alleanza di guerra nata specificamente in vista di un'aggressione a URSS e campo socialista, a detta del signor Segre sarebbero stati proprio questi ultimi che avrebbero mirato a «colpire l'Europa» che, poveretta, non aveva che USA e NATO a fare da “ombrello” protettivo.

Concetti, se così possono definirsi, con rispetto parlando, che fanno il paio con le ormai trite e ritrite starnazzate del Presidente della repubblica italiana a proposito di una Russia che, a suo dire, intenderebbe «ridefinire i confini dell’Europa con la forza». Vien spontaneo chiedersi. Ridefinire i confini come aveva fatto l'Alleanza di guerra nel 1999, bombardando la Jugoslavia con il beneplacito e la partecipazione militare del governo D'Alema-Mattarella? Ohibò.

Perché, a detta del signor Sergio Mattarella, Moskva avrebbe aggredito direttamente quella UE che sarebbe uno «scudo» dei diritti umani. Di quei diritti a salari confacenti, occupazione, pensioni adeguate, servizi sanitari degni delle necessità che nessuno vede più da dcenni; di quei diritti degli studenti presi a manganellate squadristiche, reali e verbali; delle censure mediatiche e simili “valori europeisti”. Diritti, li chiamano. Ipocriti.

«È in atto un’operazione diretta contro il campo occidentale» tuona Mattarella, secondo il resoconto dato dal Corriere della Sera del 16 dicembre, che «vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori». Per cortesia, quali sarebbero i “valori” dell'euro-liberalismo che affama le masse e sottrae fondi ai servizi sociali per destinarli a una guerra voluta da una UE che continua tutt'oggi a sabotare qualsiasi iniziativa di pace? Le solite trite nenie liberali anti-classiste su “diritti”, “democrazia”, “valori”, “libertà” che, sul campo della guerra guerreggiata, significano politica di arricchimento dell'industria militare e persistenza nel cercare a ogni costo lo scontro militare con la Russia.

Uno scontro che potrebbe davvero significare che a essere dispiegati in Ucraina non siano “troops”, ma “trupy” e non solo quelli evocati involontariamente dall'interprete, ma di milioni di uomini, ostaggi di chi, a Bruxelles, Berlino, Parigi, Roma o Londra cerca la guerra a ogni costo.

 

FONTI:

https://actualcomment.ru/slozhnyy-berlin-o-chem-na-samom-dele-dogovorilis-ssha-i-ukraina-2512160926.html

https://ria.ru/20251216/trupy-2062269983.html

 

 

 

 

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 16:00:00 GMT
Difesa e Intelligence
Turchia e USA riprendono i colloqui sull’F-35 mentre Ankara non cede sugli S-400

Nonostante i segnali di distensione e le dichiarazioni ottimistiche provenienti da entrambe le parti, la disputa tra Turchia e Stati Uniti sul programma F-35 e sui sistemi russi S-400 rimane uno dei nodi più complessi all’interno dell’Alleanza Atlantica. Il Ministero della Difesa turco ha confermato che i colloqui con Washington proseguono, ma ha ribadito con fermezza che non vi è stata alcuna modifica alla posizione di Ankara riguardo al possesso dei sistemi di difesa aerea russi, acquistati nonostante le ripetute obiezioni USA.

La crisi risale al 2020, quando gli Stati Uniti, invocando la legge CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act), espulsero la Turchia dal programma F-35, guidato da Lockheed Martin, e imposero sanzioni specifiche contro Ankara. L’amministrazione statunitense ha sempre considerato l’S-400 una minaccia diretta alla sicurezza operativa degli F-35, sostenendo che il radar russo potrebbe raccogliere dati sensibili sui caccia stealth nordamericani, compromettendone l’efficacia. Inoltre, Washington teme che l’integrazione - anche indiretta - di un sistema russo nella sfera della difesa turca possa minare l’architettura tecnologica e strategica dell’intera NATO.

La Turchia, dal canto suo, ha più volte respinto queste accuse come “infondate” e “ingiuste”, ribadendo di non avere intenzione di collegare l’S-400 alle reti di difesa dell’Alleanza. Ankara insiste sul fatto che l’acquisto del sistema russo sia una questione di sovranità nazionale e di necessità operative, soprattutto considerando le lacune nella difesa aerea emerse durante conflitti regionali. Tuttavia, questa linea dura si scontra con le rigidità statunitensi: l’ambasciatore USA ad Ankara, Tom Barrack, ha ricordato mercoledì scorso che la legge USA proibisce esplicitamente a un paese in possesso di sistemi russi avanzati di partecipare al programma F-35. Una posizione chiara, che lascia poco spazio a interpretazioni.

Però, entrambe le parti sembrano guardare con speranza al futuro. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha dichiarato la scorsa settimana che le sanzioni potrebbero essere revocate “molto presto”, suggerendo l’esistenza di canali diplomatici discreti ma attivi. In particolare, fonti diplomatiche hanno accennato alla possibilità che Donald Trump - noto per il suo approccio più flessibile nei confronti di Ankara - possa aprire la strada a un compromesso. L’obiettivo di Ankara non è solo rientrare come acquirente nel programma F-35, ma anche recuperare il ruolo industriale perduto: prima dell’espulsione, la Turchia era parte integrante della catena di fornitura globale, con aziende nazionali coinvolte nella produzione di componenti chiave per il caccia di quinta generazione.

Il Ministero della Difesa turco ha ribadito che i colloqui con Washington proseguono “nel rispetto dello spirito dell’Alleanza”, auspicando che un dialogo costruttivo possa rafforzare le relazioni bilaterali. Tuttavia, la strada resta impervia. Finché Ankara non offrirà garanzie concrete - o addirittura provvedimenti concreti - sul futuro degli S-400, difficilmente Washington andrà verso la revoca delle sanzioni o riaprirà le porte del programma F-35. Nel frattempo, la Turchia continua a sviluppare il proprio caccia nazionale, il TF-X Kaan, segnale di una crescente autonomia strategica che, pur non sostituendo l’F-35 a breve termine, potrebbe ridisegnare gli equilibri della difesa regionale.

La partita tra Ankara e Washington non riguarda solo aerei e missili, ma la credibilità dell'autonomia strategica più volte rivendicata dalla Turchia.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 15:57:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Nuove prove contro l’Unità 731: confermati i crimini di guerra batteriologici del Giappone

Nuovi documenti d’archivio consegnati dalla Russia e resi pubblici in occasione del dodicesimo Giorno nazionale della Memoria per le vittime del massacro di Nanchino gettano ulteriore luce sugli orrori commessi dall’Unità 731, l’infame reparto di guerra batteriologica dell’esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale. In una conferenza stampa tenutasi lunedì, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun ha definito tali prove “irrefutabili e inconfutabili”, ribadendo con forza che i crimini contro l’umanità perpetrati da questa unità non ammettono alcuna forma di negazionismo.

Gli archivi, recentemente declassificati, contengono interrogatori condotti dalle autorità sovietiche su membri dell’Unità 731 e rapporti investigativi raccolti in occasione del processo per crimini di guerra di Khabarovsk, tenutosi nella città dell’Estremo Oriente russo. Questi documenti non soltanto confermano le notizie già note, ma ne approfondiscono la portata, rivelando con crudezza la natura sistematica e pianificata delle atrocità perpetrate: esperimenti umani su larga scala, test batteriologici, prove con liquidi corrosivi, esperimenti con gas vescicanti e studi sul congelamento di esseri umani ridotti a cavie. Le vittime, cinesi, sovietiche e coreane, furono sottoposte a torture in nome di una ricerca militare criminale.

Per la prima volta, emergono anche dettagli e registrazioni in cui alti ufficiali dell’Unità 731 ammettono pienamente le proprie colpe. Tra questi spicca Kiyoshi Kawashima, ex capo del dipartimento di produzione dell’unità, che ha confessato senza mezzi termini l’impiego su vasta scala di armi batteriologiche da parte dell’esercito giapponese in tre occasioni precise: 1940, 1941 e 1942. Tali ammissioni dimostrano inequivocabilmente che le ricerche criminali non rimasero confinate ai laboratori, ma furono tradotte in azioni di guerra con l’obiettivo dichiarato di annientamento di massa.

I documenti di Khabarovsk, secondo Guo Jiakun, integrano e rafforzano le prove già conservate in Cina, tra cui i resti delle strutture dell’Unità 731 e i fascicoli sui suoi crimini. Insieme, formano una catena probatoria coerente e inattaccabile, che qualifica la guerra batteriologica condotta dall’esercito giapponese come un crimine di Stato, organizzato gerarchicamente, premeditato e sistematico. Non un atto isolato né l’iniziativa di fanatici, ma una politica deliberata dello Stato imperiale giapponese.

Ulteriori rivelazioni riguardano la costituzione, nel 1942, dell’Unità Oka 9420 a Singapore, un altro centro di sperimentazione e guerra batteriologica operativo in diversi Paesi del Sud-Est asiatico. “Gli orrori commessi dall’esercito giapponese - ha dichiarato Guo - resteranno per sempre inchiodati al pilastro della vergogna storica.”

Il portavoce ha poi espresso preoccupazione per il persistente negazionismo da parte di forze di destra in Giappone, che continuano a minimizzare, negare o addirittura glorificare questi crimini. “Dimenticare la storia è tradimento; negare la colpa è preparare il terreno per ripetere gli stessi crimini”, ha ammonito. Ha quindi esortato la comunità internazionale a unirsi nel richiedere al Giappone di estirpare definitivamente ogni residuo ideologico del militarismo, al fine di preservare gli esiti della Seconda guerra mondiale, l’ordine internazionale postbellico e la pace globale, duramente conquistata ma ancora fragile.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 15:41:00 GMT
OP-ED
Il massacro degli australiani... e quello dei palestinesi

 

Caitlin Johnstone*

Il 16 marzo di quest'anno, la Reuters ha pubblicato un articolo intitolato "Gli attacchi israeliani hanno ucciso 15 persone a Gaza nell'ultimo giorno, affermano i medici palestinesi".

Qualcuno ricorda i 15 palestinesi morti il ??16 marzo 2025?

Quel giorno rimane nella memoria di qualcuno come particolarmente significativo in termini di omicidio di massa?

NO?

Lo stesso qui.

Onestamente non riesco proprio a ricordarlo. Questo dev'essere avvenuto durante la coda del primo falso "cessate il fuoco", un paio di giorni prima che Trump autorizzasse Israele a riprendere i bombardamenti su larga scala a Gaza, quindi non è stato uno di quei giorni con enormi massacri e un bilancio delle vittime impressionante. Non è esattamente un ricordo che rimane impresso nella mia memoria.

Non ho idea di chi fossero quelle persone. Non conosco i loro nomi. Non ho mai visto le loro foto comparire nel mio feed di notizie. Non ho mai visto funzionari occidentali denunciare la loro morte, né istituzioni mediatiche dare ampia copertura alla notizia della loro uccisione. Quindi non li ricordo.

Ieri ho visto un tweet di Aaron Maté:

"15 civili sono stati uccisi nel massacro che ha preso di mira la comunità ebraica di Sydney. Un giorno in cui Israele massacra 15 civili palestinesi a Gaza sarebbe il minimo della media in oltre 2 anni di genocidio.

"Le atrocità commesse da Israele e l'impunità di cui godono sono senza dubbio il principale motore dell'antisemitismo in tutto il mondo. E a dimostrazione di quanto poco Israele e i suoi apologeti si preoccupino dell'antisemitismo, molti stanno sfruttando il massacro di Sydney per giustificare il rifiuto di Israele di uno Stato palestinese; per incolpare senza fondamento l'Iran; e per chiedere maggiore censura delle proteste contro il genocidio".

In effetti, le persone peggiori al mondo stanno usando la sparatoria di Bondi Beach per chiedere repressioni della libertà di parola e di riunione, per mettere a tacere i critici di Israele online e nelle strade, in Australia e in tutto il mondo occidentale. E quando 15 palestinesi sono stati uccisi da Israele il 16 marzo, l'Occidente se n'è accorto a malapena.

Non ricordo i 15 palestinesi morti in quelle 24 ore a metà marzo, ma ricorderò sempre la sparatoria di Bondi Beach. Qualcuno potrebbe parlarmene tra trent'anni e saprò esattamente di cosa sta parlando. La mia società ha dato molta più importanza alla morte di 15 occidentali a Sydney, in Australia, che alla morte di 15 palestinesi a Gaza, quindi rimarrà sempre impressa nella mia memoria.

Cavolo, non posso dare tutta la colpa alla società; a essere sincero, io stessa ne ho fatto una questione molto più grande. Mi sento male al pensiero della sparatoria da quando è avvenuta, in parte perché so che verrà usata per attuare misure autoritarie e reprimere la libertà di parola nel mio Paese, ma anche perché mi sono sentita così dispiaciuta per le vittime e per i loro cari. Anche dopo aver passato due anni a denunciare il modo in cui la società occidentale normalizza l'omicidio di arabi e attribuisce più importanza alle vite degli occidentali che a quelle dei palestinesi, fondamentalmente sto ancora facendo la stessa cosa. Sono un maledetto ipocrita.

Non sono nata così. È un comportamento acquisito. Se avessi ripulito la mia lavagna e potessi vedere il mondo con occhi nuovi, non mi verrebbe mai in mente che io e la mia società considereremmo l'omicidio di 15 persone in Australia più significativo dell'omicidio di 15 persone in Palestina. Mi aspetterei che fossero percepiti esattamente come terribili.

E a ragione. I palestinesi non amano le loro famiglie meno degli australiani. Le vite degli australiani non sono più significative o preziose di quelle dei palestinesi. Non c'è una ragione valida per cui il mondo avrebbe dovuto concentrarsi meno sulle 15 persone uccise a Gaza il 16 marzo rispetto alle 15 persone assassinate a Bondi Beach. Eppure l'ha fatto.

Domenica è stata una giornata terribile e buia. Centinaia di vite sono state direttamente devastate da questa tragedia, migliaia indirettamente, e in un certo senso l'intera nazione è cambiata. Il trauma riecheggerà nelle famiglie delle vittime per generazioni. Il dolore è palpabile e onnipresente. È ovunque: per le strade, al supermercato. C'è una catastrofe nell'aria e le persone in tutto il mondo la stanno percependo.

Ed è appropriato. Ecco cosa dovrebbero provare 15 morti. Ecco cosa si prova quando si assiste a un omicidio di massa inflitto a una popolazione il cui omicidio non è ancora diventato la normalità per te.

Questo è tutto ciò che ho da offrire al momento. Solo l'umile suggerimento che ogni massacro di palestinesi dovrebbe scuotere la terra tanto quanto il massacro di Bondi. Ogni bilancio delle vittime a Gaza dovrebbe colpirci con la stessa durezza del bilancio delle vittime a Sydney. Sentite quanto duramente colpisce questo, e poi traducetelo nella gente di Gaza. Questo accade lì ogni singolo giorno.

Nel tentativo di far sì che le persone si interessino al bellicismo e all'imperialismo, ciò che stiamo realmente cercando di fare è far sì che le persone allarghino il più possibile la loro cerchia di compassione. Estendere la loro attenzione verso le persone che le circondano, includendo la preoccupazione per la violenza e gli abusi contro persone anche dall'altra parte del mondo, che potrebbero non avere lo stesso aspetto, parlare e vivere come loro. Magari estendendola fino a interessarsi agli organismi non umani che condividono con noi il nostro pianeta.

Come scrisse Einstein in una lettera di condoglianze verso la fine della sua vita,

“Un essere umano è parte di un tutto, da noi chiamato 'Universo', una parte limitata nel tempo e nello spazio. Egli sperimenta se stesso, i suoi pensieri e i suoi sentimenti come qualcosa di separato dal resto – una sorta di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è una sorta di prigione per noi, che ci limita ai nostri desideri personali e all'affetto per poche persone a noi più vicine. Il nostro compito deve essere quello di liberarci da questa prigione ampliando il nostro cerchio di compassione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e l'intera natura nella sua bellezza. Nessuno è in grado di raggiungere questo obiettivo completamente, ma l'impegno per tale risultato è di per sé parte della liberazione e fondamento della sicurezza interiore.”

L'umanità non sopravviverà nel lontano futuro se non diventeremo una specie consapevole, e parte di questa crescita includerà necessariamente l'ampliamento della nostra cerchia di compassione per includere i nostri simili in tutto il mondo. Se non ci riusciamo, non ce la faremo. Siamo troppo distruttivi. Feriamo troppo gli altri e l'ambiente. Distruggiamo tutto ciò che ci circonda nel tentativo di accumulare ricchezza e risorse per noi stessi, e questo semplicemente non è sostenibile. Prima o poi ci ucciderà tutti.

Dobbiamo diventare migliori. Dobbiamo diventare più attenti. Più intelligenti emotivamente. Meno suscettibili alle manipolazioni della propaganda. Una società guidata dalla verità e dalla compassione, piuttosto che dalle bugie e dalla ricerca del profitto.

È l'unico modo in cui riusciremo a uscire da questa imbarazzante fase di transizione adolescenziale, con questi cervelli grandi e capaci ancora immersi in un residuo condizionamento evolutivo basato sulla paura. È l'unico modo in cui realizzeremo il nostro vero potenziale e costruiremo insieme un mondo sano.

_______________

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

*Giornalista e saggista australiana. Pubblica tutti i suoi articoli nella newsletter personale: https://www.caitlinjohnst.one/

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 11:30:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Mosca: siamo sul punto di raggiungere un accordo

In un'intervista esclusiva ad Abc News, il viceministro degli Esteri russo Sergej Ryabkov ha tracciato le linee rosse invalicabili del Cremlino in vista di un possibile accordo di pace con l'Ucraina. Le condizioni russe per la pace escludono categoricamente qualsiasi presenza militare della Nato sul territorio ucraino, anche nell'ambito di garanzie di sicurezza o come parte della cosiddetta Coalizione dei Volenterosi.

"Non sottoscriveremo, né accetteremo qualunque presenza di truppe Nato sul territorio ucraino", ha dichiarato Ryabkov, chiudendo la porta a qualsiasi compromesso su questo fronte.
Sulla questione della Nato, però, anche le recenti dichiarazioni di Zelensky sembrano cedere alle richieste del Cremlino.
Quella che resta sul tavolo invece è la questione dei territori: Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhya, Kherson e la Crimea restano innegoziabili per Mosca.
"Non possiamo assolutamente scendere a compromessi su di essi", ha ribadito il viceministro.

Nonostante l'apparente rigidità, Ryabkov si è mostrato ottimista sulla possibilità di raggiungere presto una soluzione diplomatica. "Siamo sul punto di raggiungere un accordo", ha affermato, dichiarando che le parti prossime a trovare un'intesa. Alle sue dichiarazioni fanno eco quelle di alcuni funzionari statunitensi che, sotto anonimato, hanno riferito ai giornalisti che "letteralmente il 90%" delle questioni in sospeso tra Russia e Ucraina sarebbe stato risolto”.

Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 10:54:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Sono queste le garanzie di sicurezza proposte dall'Europa per l'Ucraina

 

A seguito dei colloqui ad alto livello tenutisi lunedì a Berlino, diversi leader europei hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui delineano le garanzie di sicurezza che sarebbero disposti a fornire all'Ucraina.

In particolare, i leader europei si impegnano a fornire un "sostegno duraturo e significativo" alle Forze armate ucraine, che in tempo di pace saranno limitate a 800.000 soldati.

Inoltre, si offrono di guidare "una forza multinazionale" con il supporto degli Stati Uniti, che "contribuirà alla rigenerazione delle forze ucraine, alla sicurezza dei cieli ucraini e alla protezione dei mari, anche attraverso operazioni all'interno" del paese slavo.

I leader europei propongono di istituire un meccanismo guidato da Washington per monitorare e verificare il cessate il fuoco,  al fine di "fornire un preavviso di eventuali attacchi futuri".

Essi sostengono inoltre un "impegno giuridicamente vincolante" per "ripristinare la pace e la sicurezza in caso di un futuro attacco armato".

Si impegnano inoltre a "investire nella futura prosperità dell'Ucraina", anche "considerando la necessità che la Russia risarcisca l'Ucraina per i danni causati", e a  sostenere l'adesione del paese slavo all'Unione Europea .  

La dichiarazione è stata firmata dal cancelliere tedesco Friedrich Merz; il presidente francese Emmanuel Macron; i primi ministri danesi, Mette Frederiksen; Italia, Giorgia Meloni; i Paesi Bassi, Dick Schoof; Norvegia, negozio Jonas Gahr; Polonia, Donald Tusk; Svezia, Ulf Kristersson; e del Regno Unito, Keir Starmer, nonché dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e dal presidente del Consiglio europeo, António Costa.

Il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky, ha incontrato domenica a Berlino Jared Kushner, genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, e il suo inviato speciale, Steve Witkoff, per proseguire le discussioni sul piano di pace di Washington. Le consultazioni sono proseguite lunedì con la partecipazione di diversi leader europei. 

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UNO SGUARDO DAL FRONTE

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Data articolo: Tue, 16 Dec 2025 08:00:00 GMT

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