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Le recenti dichiarazioni di Donald Trump segnano un’ulteriore escalation nella lunga offensiva statunitense contro il Venezuela. Alla domanda se Washington possa aprire un vero e proprio fronte di guerra, il presidente USA non ha escluso l’opzione militare. Un’affermazione che arriva dopo attacchi letali contro imbarcazioni, definiti da organismi internazionali come possibili esecuzioni extragiudiziali, e dopo l’annuncio di un blocco totale delle petroliere dirette da e verso il Paese. La giustificazione ufficiale resta la “guerra al narcotraffico”, ma Caracas la bolla a ragion veduta come pretesto.
Nicolás Maduro parla apertamente di una strategia già vista: impossibilitati a evocare armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti costruiscono un nuovo Afghanistan o una nuova Libia usando la narrazione fallace del narcotraffico. Al centro, ancora una volta, c’è il petrolio. La storia venezuelana dimostra che non si tratta di una novità. Sin dalla fine dell’Ottocento, con l’asfalto del lago Guanoco utilizzato per pavimentare Washington e New York, le risorse del Paese sono state sistematicamente integrate nello sviluppo statunitense. Le grandi compagnie nordamericane ed europee hanno operato per decenni come “Stato nello Stato”, influenzando governi, finanziando colpi di mano politici e imponendo regimi concessori estremamente favorevoli. Quando il Venezuela ha provato a spezzare questa dipendenza - dalla riforma del 50/50 del 1943 alla fondazione dell’OPEC nel 1960, fino alla nazionalizzazione del 1976 e alla rinazionalizzazione bolivariana del XXI secolo - la risposta è stata univoca: pressione economica, destabilizzazione politica, sanzioni.
L’attuale “assedio strutturale” a PDVSA, culminato con il sequestro di CITGO e il blocco navale di fatto delle esportazioni, rappresenta una forma moderna di nuova colonizzazione energetica. Le parole di Trump sul “petrolio che ci hanno rubato” rivelano senza filtri la logica sottostante: la sovranità venezuelana viene messa in discussione non per presunte e mai avvenute violazioni del diritto internazionale, ma perché Caracas rivendica il controllo delle più grandi riserve petrolifere del pianeta. In questo senso, la minaccia militare non è un’anomalia, ma la prosecuzione coerente di oltre un secolo di interventismo.
Il Venezuela continua a esportare, a resistere e a cercare appoggi internazionali, come dimostra il sostegno di Russia e Cina. Ma il quadro è chiaro: la crisi attuale non riguarda solo Maduro o Trump, bensì il conflitto strutturale tra sovranità nazionale e capitalismo energetico globale. Una lezione storica che, ancora una volta, viene scritta con il petrolio e con il sangue.
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Nel suo tradizionale appuntamento annuale di domande e risposte, quest’anno integrato con la conferenza di fine anno, Vladimir Putin ha delineato uno scenario coerente e politicamente denso sul conflitto ucraino e sul rapporto con l’Occidente. Il messaggio centrale è chiaro: Mosca rivendica di aver cercato a lungo una soluzione negoziata e sostiene che oggi l’uscita diplomatica sia ancora possibile, a precise condizioni di sicurezza. Particolare rilievo è stato dato al ruolo di Donald Trump. Putin ha affermato che il presidente statunitense starebbe compiendo “sforzi seri e sinceri” per porre fine al conflitto e ha rivelato che, durante l’incontro di Anchorage, la Russia avrebbe “praticamente accettato” le proposte avanzate da Washington.
Una dichiarazione che mira a ribaltare la propaganda occidentale (principalmente europea) di una Mosca indisponibile al compromesso. Il presidente russo ha però ribadito quella che definisce la causa strutturale della guerra: l’inganno occidentale seguito agli accordi farsa di Minsk e l’espansione della NATO verso est. Secondo Putin, non si tratta di nuove richieste, ma della pretesa che vengano rispettate promesse già fatte. In questo quadro, la Russia non esclude la fine delle operazioni militari, ma solo se trattata “con rispetto” e senza ulteriori forzature strategiche.
Sul piano militare, il Cremlino rivendica un netto vantaggio sul terreno: avanzata lungo tutta la linea del fronte, perdita dell’iniziativa da parte ucraina e quasi totale esaurimento delle riserve strategiche del regime di Kiev. A ciò si accompagna una denuncia estremamente dura sulle violenze contro i civili compiute dai soldati del regime neonazista di Kiev. Putin ha anche attaccato l’Unione Europea sul tema degli asset russi congelati, definendo apertamente l’eventuale confisca come un “furto” destinato a produrre gravi conseguenze giuridiche e reputazionali. Parallelamente, ha accusato i leader europei di sostenere Zelensky in modo “rabbioso” per mascherare i propri fallimenti interni.
Non sono mancati toni ironici, come la battuta sulla cometa interstellare 3I/ATLAS descritta come “arma segreta russa”, ma il sottofondo resta serio: Mosca si dice pronta a cooperare con Stati Uniti ed Europa, ma solo su basi paritarie, in un sistema di sicurezza condiviso. Il messaggio finale è duplice: apertura negoziale sul breve periodo e fermezza strategica sul lungo. La palla, evidenzia Putin, è ora nel campo dell’Occidente.
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In Palestina, la scrittura è sempre stata intrecciata con la sopravvivenza. Per un popolo espulso dalla propria terra, privato della cittadinanza e reso superfluo dal consenso globale, l’atto di registrare diventa un atto di rifiuto. È un mezzo per rifiutare la scomparsa. È il modo in cui un popolo a cui è stata negata una storia insiste sulla propria esistenza.
Finché queste parole esisteranno, Gaza non potrà essere Cancellata.
SCRIVERE NELLA MORTE: LE CONDIZIONI MATERIALI DEL GENOCIDIO

La seconda compagnia di trasporto marittimo al mondo, Maersk, è stata smascherata nel 2024 per aver trasportato milioni di libbre di carichi militari dagli Stati Uniti a Israele.
Questo è il mondo che le parole di Wasim ci costringono ad affrontare: un mondo in cui il Genocidio non è l’atto di un singolo Stato, ma una divisione globale del lavoro, una collaborazione internazionale.
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MEMORIA VIVA, RESPONSABILITÀ ATTIVA
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di Francesco Dall'Aglio*



*Post Facebook del 19 dicembre 2025
di Vito Petrocelli
19 dicembre 2025. Una data triste nella già famigerata storia dell'Unione Europea. Il Consiglio europeo che doveva rilanciare "l'indipendenza" degli stati membri si è concluso con la sensazione degli ultimi colpetti dei violinisti del Titanic e con la grande assenza di una strategia di pace.
All’ordine del giorno, ovviamente, vi era la questione ucraina. Sul tavolo il tema dei finanziamenti all’Ucraina e l’utilizzo degli asset russi, che si preannunciava spinoso già alla vigilia. La proposta della Commissione di utilizzare gli asset russi congelati era infatti già stata duramente osteggiata, oltre che da Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, soprattutto dal primo ministro belga De Wever.
Bruxelles, infatti, risulta essere tra le più esposte alle possibili ritorsioni russe poiché gli attivi russi sono, in gran parte, depositati presso la società di capitali Euroclear con sede in Belgio. Alla fine, la scommessa del conservatore fiammingo è stata vincente e la proposta Merz-Von der Leyen di finanziare il governo di Zelensky con i fondi russi è naufragata.
Il Consiglio europeo ha sì deciso di mantenere i fondi russi congelati ma ha optato per una formula diversa per finanziare Kiev: un prestito di 90 miliardi di euro sui mercati di capitali, ossia con l’emissione di debito comune, garantito dal bilancio europeo. Quella che, andando ben oltre il semplice supporto economico, doveva essere la dimostrazione di compattezza dell’Unione nel sostegno a Kiev, è stata invece la cartina di tornasole della frammentazione dei paesi membri e della scarsa credibilità della classe dirigente europea.
Il vincitore indiscusso è Viktor Orban, che riesce in un colpo solo ad evitare l’utilizzo dei fondi russi e a garantirsi, insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia, una clausola di opt-out dalla nuova tranche di finanziamenti a debito. Come ha dichiarato un diplomatico europeo ad Al Jazeera: “Siamo passati dal salvare l’Ucraina a salvare la faccia”. Neanche quella, aggiungiamo.
Ci troviamo di fronte alla debacle dell’Europa. Un’Unione di Stati vassalli di Washington, che pur di obbedire hanno sacrificato tutto. Letteralmente tutto.
La doccia fredda che Trump gli ha riservato, nel momento stesso in cui ha dichiarato che l’Ucraina non è più una priorità per gli Stati Uniti, ha messo a nudo la frammentazione e la debolezza del discorso europeo sul sostegno a Kiev. Tre anni di guerra per procura, venduti come minaccia alla sicurezza europea – i russi arriveranno fino a Lisbona dicevano – e che, nonostante tutto, hanno prodotto nient’altro che una sconfitta sul campo e centinaia di migliaia di morti, non sono bastati ai vari Merz, Macron, Von der Leyen e Kallas, per tornare sui propri passi.
Se 90 miliardi di debito comune sono, a detta delle delegazioni europee e viste le premesse della proposta della Commissione, un modo per salvarsi la faccia nei confronti di Kiev, cosa rappresentano dinanzi ai milioni di cittadini europei che non arrivano a fine mese? Ai disoccupati? Ai malati a cui viene negata un’assistenza sanitaria degna? Solo quindici anni fa ci imponevano l’austerità lacrime e sangue come l’unico modo per superare la crisi. E oggi? Possiamo indebitarci a cuor leggero per continuare a finanziare una guerra già persa?
E qui arriviamo al triste esultare del governo Meloni. Un esultare di chi ha impegnato i soldi delle giovani generazioni di italiani per i prossimi cessi d'oro degli oligarchi ucraini. Il triste esultare di chi sceglie la via guerrafondaia dei "volenterosi" fino all'ultimo ucraino. Lo stridulo esultare di chi non vuole fare i conti con la realtà, continuando a vaneggiare di integrità territoriale, guerra ibrida, supporto incondizionato all’Ucraina. Come una Ursula qualunque...
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 15:00:00 GMTdi Geraldina Colotti
Il 16 dicembre 2025, il Teatro Teresa Carreño di Caracas non era solo un palcoscenico, ma l’epicentro di una nuova epopea proletaria. Oltre cinquemila delegati e delegate, eletti dalle oltre 22.000 assemblee di base, hanno chiuso il gran Congresso costituente della classe operaia, insieme al ministro del Lavoro, Eduardo Piñate, a quello dell'Educazione, Héctor Rodríguez, e la presidente della Centrale bolivariana socialista dei lavoratori e delle lavoratrici, Wills Rangel. In platea, un mare di berretti rossi con lo slogan No war yes peace lanciava un messaggio inequivocabile al mondo: il Venezuela non vuole la guerra, ma non teme di difendere la propria dignità.
Il calore della solidarietà internazionale è stato palpabile grazie alla presenza e ai messaggi di sostegno dei popoli e dei sindacati di ogni continente, che hanno riconosciuto in questo congresso il cuore pulsante della resistenza globale contro il capitale.
Mentre la classe operaia discuteva di indipendenza tecnologica e della creazione del Consiglio scientifico, oltre i confini si riaffacciava lo spettro di una nuova Dottrina Monroe. Una dottrina che, a 200 anni di distanza, usa le stesse categorie coloniali: la presunta incapacità dei popoli latinoamericani di autogovernarsi e la necessità di una polizia internazionale statunitense attraverso la pretesa di extraterritorialità delle leggi di Washington.
Donald Trump, nel suo stile suprematista e xenofobo, ha gettato la maschera, mostrando i veri interessi imperialisti. Non si tratta di democrazia — un termine svuotato di senso dal genocidio in Palestina, dalle bombe e dai blocchi — ma di una pretesa coloniale pura e semplice. Trump ha affermato che le aziende USA rivogliono i loro diritti petroliferi, trattando le risorse del sottosuolo venezuelano come proprietà privata della Casa Bianca. Siamo di fronte a quella che lo storico Juan Romero definisce necropolitica: l'imperialismo si arroga il diritto di decidere chi deve vivere e chi deve morire attraverso il blocco navale e il sequestro di navi petroliere come la Skipper.
È un’aggressione che ignora il diritto internazionale, lo stesso che proprio in Venezuela, nel 1929, vedeva il Maresciallo Sucre firmare i primi trattati di regolarizzazione della guerra. Maduro ha risposto con fermezza: un governo colonialista non durerebbe 48 ore di fronte alla coscienza del popolo erede dei libertadores e delle libertadoras.
Per comprendere la portata di questo attacco, è necessario tornare alla lezione magistrale di Alí Rodríguez Araque, il cui pensiero è oggi difeso e attualizzato da figure come lo storico Juan Romero e l'esperto David Paravisini. Il punto di concordanza tra questi analisti è cristallino: il petrolio è l'essenza del problema perché rappresenta lo scontro storico tra la proprietà nazionale del suolo e il capitale transnazionale.
Romero sottolinea come l'imperialismo utilizzi il pretesto del debito e della crisi per ripristinare il corollario Roosevelt, cercando di trasformare la risorsa in un bene extraterritoriale sotto giurisdizione USA. Paravisini, dal canto suo, evidenzia come la lotta per la sovranità operativa di PDVSA sia la chiave per smantellare il cavallo di Troia della vecchia tecnocrazia meritocratica.
Insieme ad Araque, essi concordano che la rendita petrolifera non è un dato contabile, ma un territorio di lotta politica: chi la controlla decide se finanziare la vita o la guerra. Questa triade di pensiero ribadisce che il Venezuela non è un debitore insolvente, ma un proprietario sovrano che amministra la propria risorsa in base alle leggi di miniera nate con Bolivar già nel 1829.
Nel programma Sin Truco ni Maña, condotto da Tania Díaz, questo scontro è stato sviscerato attraverso la voce di Yelitze Santaella, Ministra della Donna. Santaella ha denunciato come l'aggressione imperiale colpisca al cuore il nucleo della vita quotidiana, ma ha anche sottolineato la resilienza delle donne venezuelane, avanguardia nella difesa della pace e della sovranità familiare e territoriale. La ministra ha ricordato che la resistenza non è solo militare, ma è la capacità di sostenere il tessuto sociale contro la coercizione economica e il terrore del blocco.
In questa battaglia per la verità, un ruolo cruciale è svolto dai media comunitari e alternativi, organizzati e presenti, per esempio, nella piattaforma Rompiendo fronteras comunicando alternativas (rompiendofronterasmundial@
Il gran Congresso della costituente operaia ha prodotto una dichiarazione-manifesto che delinea i pilastri della resistenza. In primo luogo, la sovranità tecnologica attraverso il nuovo Consiglio scientifico della classe operaia, per garantire l'autosufficienza e sostituire le importazioni strategiche nel campo industriale e informatico. Segue il piano di riattivazione industriale sotto gestione operaia diretta, per rispondere al blocco con l'incremento della produzione nazionale. Il manifesto sancisce l'impegno dei lavoratori e delle lavoratrici come moltiplicatori della difesa territoriale nell'unione civile-militare, e riafferma il petrolio come risorsa inalienabile per il finanziamento dei diritti sociali conquistati dalla rivoluzione.
In questo clima, il Presidente Nicolás Maduro ha annunciato la convocazione di una nuova tappa della Costituente Operaia per il 9 e il 10 gennaio 2026. Questo organo di potere costituente permanente avrà il compito di blindare l'economia nazionale contro ogni attacco esterno, trasformando definitivamente la classe operaia nel soggetto dirigente della nuova fase produttiva e politica del paese.
Il prossimo 23 dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU diventerà il campo di battaglia dove il Venezuela, sostenuto da Russia e Cina, smaschererà l'illegalità delle sanzioni e dei sequestri navali. Si discuterà dell'atto di pirateria contro il petroliero Skipper e del tentativo di Trump di imporre una giurisdizione globale attraverso il gran garrote.
Anche il fondatore del sito Wikileaks, Julian Assange, perseguitato per aver rivelato i crimini di guerra degli Stati uniti, ha denunciato come il Venezuela sia nel mirino non per mancanza di democrazia, ma per il suo esempio di alternativa al modello neoliberista. Il giornalista ha anche sottolineato l'ironia di assegnare un premio per la pace a una figura come Maria Corina Machado, che ha apertamente invocato l'intervento militare e l'applicazione della Dottrina Monroe contro il proprio paese: azioni che porterebbero inevitabilmente alla guerra e non certo alla pace.
In Venezuela, il fronte della patria si presenta unito: l'Assemblea Nazionale ha visto l'accordo unanime di tutti i deputati, chavisti e di opposizione, in difesa della nazione contro l'aggressione. Il governo bolivariano risponde con la geopolitica della pace, stringendo accordi con l'asse multipolare e chiamando alla unione perfetta con i militari della Colombia per rinnovare il sogno di Bolivar di una Patria grande. E, intanto, come diceva Alí Rodríguez Araque, in tempi difficili occorre spiegare l'ovvio: il petrolio appartiene al popolo venezuelano. “Abbiamo visto la luce e non torneremo mai più alle tenebre del passato coloniale”, dice la rivoluzione bolivariana, ricordando le parole del Libertador.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 14:00:00 GMT
Venticinque anni fa, quando ero una studentessa di livello avanzato con un profondo interesse per le questioni politiche, ricordo di aver partecipato a un evento della comunità musulmana in cui un avvocato fu chiamato sul palco per fare una presentazione improvvisata sul nuovo Terrorism Act del 2000, recentemente introdotto nel Regno Unito.
Mise in guardia dal cambiamento che questa nuova legge comporta, spostando l'antiterrorismo dall'ambito della legislazione di emergenza a un quadro giuridico primario, insieme alla sua nuova attenzione alla definizione del terrorismo in relazione all'ideologia, piuttosto che al conflitto.
All'epoca mi sembrò agghiacciante, ma nella sala aleggiava anche un senso di sconcerto. Non credo che nessuno tra il pubblico avrebbe potuto immaginare quali sarebbero state le implicazioni durature, non solo per la libertà di espressione, ma anche per la condizione dei musulmani nel Regno Unito.
Molti dei gruppi proscritti da questa legge operavano nel mondo musulmano, alcuni con una visione apertamente islamica. Cosa significherebbe per i musulmani questa potenziale associazione tra l'azione politica musulmana e il terrorismo ideologico?
L'anno successivo, si verificò l'11 settembre, e le sue conseguenze immediate furono avvertite visceralmente nelle comunità musulmane di tutto il mondo. Un argomento di grande costernazione tra i raduni musulmani del Regno Unito divenne la domanda: "Abbiamo un futuro in questo Paese?"
In un'epoca in cui la legislazione antiterrorismo si stava esplicitamente concentrando sul demone popolare islamista, la preoccupazione era che intere comunità sarebbero diventate capri espiatori: che l'ingerenza statale e le leggi draconiane avrebbero alimentato e aggravato un clima di sospetto, rendendo la vita insostenibile per molti musulmani di origine immigrata nel Regno Unito. Il ricordo del genocidio bosniaco era ancora fresco nella mente delle persone.
Le organizzazioni e gli attivisti musulmani si sono occupati di questo tema in vari modi. Alcuni hanno investito molto nello sviluppo di una narrazione e di una strategia politica incentrate sulla lealtà allo Stato-nazione. La logica era che le nostre comunità si sono stabilite qui da generazioni; questa è la nostra casa e dobbiamo accoglierla con forza come tale.
Molti grandi gruppi e istituzioni musulmane diedero priorità all'obiettivo di garantire legittimità presso l'opinione pubblica, piuttosto che impegnarsi in campagne a favore di comunità e individui vittimizzati e assediati. Guardare all'esterno per affermare che l'Islam e i musulmani non erano una minaccia, erano autoctoni e rappresentavano una risorsa per la nazione era considerata una strategia più astuta in quel momento, e che avrebbe avuto maggiori probabilità di garantire stabilità e longevità nelle attuali circostanze politiche.
Questo approccio è stato manifestato attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica che sottolineavano la capacità di relazionarsi con i vicini musulmani e che esploravano la lunga storia dell'Islam nel Regno Unito, incluso il servizio musulmano nelle forze armate, oltre a evidenziare il valore economico della "sterlina musulmana".
Grande enfasi è stata posta anche sull'articolazione degli strumenti teologici relativi al dovere civico di un musulmano in un Paese non musulmano. Tra questi, l'obbligo di onorare la nostra cittadinanza obbedendo alle leggi del Paese e rimettendoci alle norme sociali e politiche prevalenti.
Si è discusso dell'obsolescenza delle categorizzazioni territoriali classiche: si sosteneva che avremmo potuto considerare il Regno Unito come "dar al-shahada", la dimora della testimonianza e un luogo in cui, nonostante i suoi difetti, avevamo lo stato di diritto e l'opportunità di praticare la nostra fede apertamente e in sicurezza.
Ne consegue che i musulmani dovrebbero impegnarsi con tutto il cuore, e per alcuni, esclusivamente, ad accettare la cittadinanza britannica. Dopotutto, i loro Paesi di origine erano dittature autoritarie in cui l'azione religiosa e il dissenso politico venivano spesso perseguitati spietatamente, senza alcun ricorso al giusto processo o alla trasparenza.
Questa spinta intenzionale e palese a dimostrare visibilmente la lealtà allo Stato, alla sua storia e alla sua cultura – a sposare una particolare forma di britannicità – sperava di trovare risonanza e rassicurare i media e l'establishment politico, entrambi apparentemente incessantemente affascinati dall'interrogarsi su dove risiedesse realmente la lealtà dei musulmani. In breve, abbiamo assistito a una politica di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione.
Facciamo un salto in avanti di un decennio e, nel 2010, successivi aggiornamenti alla legislazione antiterrorismo avevano sancito per legge restrizioni alla parola e all'espressione, ampliando al contempo la portata dello stato di sicurezza nei settori della sorveglianza e della detenzione senza accusa.
In particolare, gli anni 2010 sono stati quelli in cui abbiamo assistito all'emergere di una massiccia privazione della cittadinanza, anche per motivi di "bene pubblico", che, come sottolinea un nuovo rapporto del Runnymede Trust e di Reprieve, colpisce principalmente i musulmani di origine sud asiatica, mediorientale o nordafricana.
Sebbene inizialmente scioccante, col tempo l'idea di privare della cittadinanza è diventata una caratteristica normalizzata delle prerogative del Ministro degli Interni. I casi più eclatanti sono stati quelli che i media e le istituzioni politiche hanno cospirato per demonizzare nell'immaginario pubblico, come Abu Hamza al-Masri e, forse il più importante, Shamima Begum.
Per rappresentare entrambe queste figure come mostri agli occhi del grande pubblico, sono stati utilizzati stereotipi islamofobi. Sono stati caricaturati a causa di aspetti del loro aspetto fisico considerati sgradevoli, minacciosi e alieni.
"Capitan Uncino" è il nome con cui i titoli hanno ritratto Abu Hamza e, naturalmente, Begum è stata adulterata come una "sposa jihadista", un modo per ottenere il consenso pubblico per misure draconiane e autoritarie che, in circostanze normali, avrebbero suscitato incredulità per la loro erosione dello stato di diritto.
Tutti i musulmani coinvolti nella crescente rete di securitizzazione del Regno Unito venivano ora associati a queste figure "mostruose" e, quindi, rappresentavano plausibilmente una minaccia ideologica, anzi esistenziale, che poteva essere esclusa se ritenuta appropriata dallo Stato, lasciandoci con un regime di cittadinanza a due livelli.
La neutralizzazione degli atteggiamenti pubblici e politici non è stata l'unica conseguenza di questo regime. Ho trascorso gli ultimi quattro anni esplorando e mappando con i colleghi aspetti del panorama digitale musulmano britannico. Nel farlo, ho notato un numero significativo di influencer che utilizzano i social media per discutere e approfondire il concetto di "hijra".
Questo termine arabo si traduce letteralmente con "migrazione", ma è utilizzato da alcuni per descrivere uno spostamento da un ambiente in cui si sperimentano ostilità o persecuzioni a un luogo o una comunità in cui è possibile praticare più liberamente la propria fede, evocando la migrazione del profeta Maometto e della prima comunità di musulmani dalla Mecca a Medina.
Il sottotesto di questi discorsi è la sensazione che, per molti musulmani britannici, il Regno Unito non sia la patria che loro (o i loro genitori) avrebbero potuto immaginare, e che sia saggio predisporre un piano di fuga, per ogni evenienza. Tali piani si stanno sempre più avvicinando alla categoria del "quando", non del "se".
L'idea che il Regno Unito offra sicurezza e stabilità per una vita appagante ha meno presa su molti musulmani.
Vedo questo discorso nei resoconti "come fare", che offrono consigli passo dopo passo su luoghi, processi e procedure, cosa fare e cosa non fare. Ma ci sono anche discussioni teologiche e sociologiche, che analizzano e collegano momenti storici e offrono consigli ai cittadini con doppia cittadinanza su come affrontare i pericoli specifici del loro status.
Pertanto, il recente rapporto Runnymede/Reprieve, che rileva che le persone di colore hanno 12 volte più probabilità rispetto ai britannici bianchi di essere a rischio di revoca della cittadinanza, non è stato accolto con allarme, ma piuttosto come un'annoiata ammissione di ciò che molti musulmani britannici hanno già interiorizzato.
Nel 2025, molte delle persone che languiscono nelle carceri del Regno Unito per la loro presunta partecipazione ad azioni dirette contro i produttori di armi che riforniscono Israele del genocidio in Palestina , sono le stesse cresciute all'ombra di questo regime a due livelli. Per loro, il più ampio contesto politico di draconiana estensione e sospensione del giusto processo non è un'aberrazione scandalosa, come io e i miei coetanei della generazione dei Millennial avremmo potuto considerare i suoi precursori nel 2000.
Loro, e altre voci dissenzienti, vengono ritratti come sovversivi e anti-britannici, esponenti della quinta colonna, e sono quindi ben consapevoli della precarietà del loro status. Guardando oltre Atlantico, arresti arbitrari e molestie da parte dei funzionari dell'immigrazione statunitensi sottolineano la sensazione che l'accesso al giusto processo per i cittadini musulmani o i residenti in Occidente non sia una questione di diritti, ma di opportunità politica.
Questa generazione è molto meno interessata a dimostrare la propria gradimento e simpatia a un sistema che li ha disumanizzati per fini politici. Le strategie di rappresentanza, rispettabilità e rassicurazione dei loro genitori devono sembrare lontanissime dalla loro realtà attuale.
(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Nonostante la sua opposizione diplomatica al genocidio dei palestinesi di Gaza da parte di Israele, il Sudafrica ha aumentato drasticamente le esportazioni di carbone verso Israele, contribuendo a compensare la perdita delle importazioni di carbone dalla Colombia.
Secondo i dati sulle spedizioni citati da Reuters il 16 dicembre, le esportazioni di carbone dal Sudafrica verso Israele sono aumentate dell'87 percento su base annua nei tre mesi fino a novembre, fornendo circa il 55 percento delle importazioni di carbone via mare di Israele.
Le spedizioni sudafricane hanno aiutato Israele a soddisfare il suo fabbisogno energetico in tempo di guerra, dopo che le esportazioni di carbone colombiano sono scese a zero a novembre.
Il presidente colombiano Gustavo Petro ha annunciato la sospensione delle esportazioni di carbone verso Israele nel giugno 2024, più di un anno fa.
"Il carbone colombiano viene utilizzato per costruire bombe destinate a uccidere i bambini palestinesi", aveva scritto Petro all'epoca in un post su X.
Petro aveva ribadito che le spedizioni di carbone non riprenderanno finché Israele non avrà obbedito all'ordine della Corte internazionale di giustizia (ICJ) di interrompere l'assalto a Rafah, nella striscia di Gaza meridionale.
Tuttavia, nel 2025 la Colombia continuava a inviare carbone a Israele, rappresentando il 42 percento delle importazioni, a causa di scappatoie legali che consentivano la consegna nell'ambito di accordi di fornitura a lungo termine.
Petro ha adottato ulteriori misure nell'agosto 2025, ponendo di fatto fine alle esportazioni colombiane entro novembre.
Il ministro del Commercio sudafricano, Parks Tau, ha giustificato la continuazione degli scambi commerciali con Tel Aviv, affermando che sanzionare Israele potrebbe violare le norme dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Tuttavia, secondo quanto riportato da Reuters, la Colombia, che è anche membro dell'OMC, non avrebbe dovuto affrontare alcuna contestazione formale in seguito al divieto di esportazione del carbone.
Il governo del Sudafrica è stato uno dei pochi ad adottare misure diplomatiche contro Israele dopo l'inizio della guerra genocida contro Gaza nell'ottobre 2023. Nel dicembre dello stesso anno, Praetoria ha intentato una causa contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, accusando Tel Aviv di aver violato la Convenzione sul genocidio.
A distanza di oltre due anni, la Corte internazionale di giustizia non ha ancora emesso una sentenza definitiva, mentre Israele ha ignorato le ingiunzioni temporanee della corte che chiedevano la fine delle operazioni militari.
Nonostante la condanna internazionale delle azioni di Israele, che hanno causato la morte di almeno 71.000 palestinesi a Gaza, la maggior parte dei quali sono donne e bambini, molte nazioni continuano a fornire risorse per alimentare l'economia e l'esercito di Israele.
Sebbene il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sia stato uno dei principali critici di Israele in pubblico, continua a consentire che il petrolio azero destinato a Israele venga trasportato attraverso l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan.
La Turchia è tra i 25 paesi che hanno fornito a Israele petrolio greggio e petrolio raffinato, nonostante il genocidio in corso a Gaza.
L'8 dicembre, il Sudafrica ha posto fine all'esenzione dal visto di 90 giorni per i titolari di passaporto palestinese, citando voli "misteriosi" provenienti da Israele che trasportavano centinaia di palestinesi nel Paese.
Il dipartimento aveva lamentato in una nota che gli attori israeliani stavano abusando dell'esenzione per promuovere la cosiddetta "emigrazione volontaria" dei palestinesi dalla Striscia di Gaza.
A novembre, un aereo charter proveniente da Israele, con scalo in Kenya, ha trasportato 153 rifugiati palestinesi da Gaza al Sudafrica. A fine ottobre, un altro aereo ha trasportato 176 palestinesi.
Israele ha cercato di distruggere la Striscia di Gaza, inclusi alloggi, moschee, scuole, ospedali e infrastrutture, per rendervi la vita impossibile. I funzionari israeliani sperano che la distruzione non lasci ai palestinesi altra scelta che abbandonare la loro patria, lasciandola "ripulita" e disponibile per l'insediamento degli ebrei israeliani.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avevano coordinato congiuntamente la guerra di giugno contro l'Iran mesi prima, organizzando al contempo una campagna di inganni sui media volta a presentare Washington come opposta ai piani di Tel Aviv contro Teheran, hanno riferito alcune fonti al Washington Post il 17 dicembre.
Secondo le fonti, Netanyahu ha incontrato Trump a febbraio e gli ha fornito quattro opzioni su come potrebbe avvenire un attacco all'Iran.
"Il primo ministro israeliano ha innanzitutto mostrato a Trump come sarebbe stata l'operazione se Israele avesse attaccato da solo. La seconda opzione era che Israele prendesse il comando, con un supporto minimo da parte degli Stati Uniti. La terza era la piena collaborazione tra i due alleati. L'ultima opzione era che gli Stati Uniti prendessero il comando", si legge nell’articolo.
"Sono iniziati mesi di pianificazione strategica furtiva e intensiva. Trump voleva dare una possibilità alla diplomazia nucleare con l'Iran, ma ha continuato a condividere informazioni di intelligence e a pianificare le operazioni con Israele", ha aggiunto. "L'idea era: se i colloqui falliscono, siamo pronti a partire".
Un giorno prima dell'inizio della guerra, Trump dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero potuto potenzialmente colpire l'Iran, ma che preferiva una soluzione diplomatica.
"Lui e Netanyahu hanno manovrato per lasciare gli iraniani impreparati a ciò che sarebbe successo dopo", hanno continuato le fonti.
Tel Aviv ha fatto trapelare la notizia che il ministro degli Affari strategici di Netanyahu, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, avrebbero presto incontrato l'inviato statunitense Steve Witkoff.
Un round di colloqui nucleari tra Stati Uniti e Iran era previsto per il 15 giugno. Tuttavia, il 13 giugno Israele lanciò attacchi preventivi contro strutture militari e nucleari in Iran, innescando la guerra.
"Israele aveva deciso di colpire, come gli Stati Uniti sapevano bene. La diplomazia pianificata era uno stratagemma, e i funzionari di entrambi i Paesi incoraggiavano le notizie dei media su una frattura tra Stati Uniti e Israele. Tutte le notizie che circolavano sul fatto che Bibi non fosse sulla stessa lunghezza d'onda di Witkoff o Trump non erano vere. Ma è stato positivo che questa fosse la percezione generale, ha contribuito a far procedere la pianificazione senza che molti se ne accorgessero", hanno affermato le fonti.
Dopo l'inizio della campagna indiscriminata di Israele, Washington ha proposto un accordo irrealistico, chiedendo a Teheran di rinunciare al sostegno a Hezbollah e Hamas e di sostituire i principali siti nucleari con impianti che non consentano l'arricchimento dell'uranio, come rivelato per la prima volta dal rapporto.
"Poco dopo che gli Stati Uniti hanno trasmesso la proposta all'Iran tramite diplomatici del Qatar, Teheran l'ha respinta e Trump ha autorizzato gli attacchi statunitensi", ha dichiarato una fonte diplomatica di alto livello al Washington Post.
Almeno 1.000 persone, tra cui centinaia di civili, sono state uccise in Iran durante i 12 giorni di guerra.
Gli assassinii di importanti scienziati nucleari da parte di Israele hanno causato la morte di decine di civili, tra cui il figlio adolescente di uno scienziato che non si trovava in casa al momento dell'attacco.
I media ebraici avevano già confermato a giugno che Trump aveva finto di essere contrario a un attacco all'Iran, mentre in segreto aveva dato il via libera alla campagna di Israele.
Fin dall'inizio della guerra a Gaza, i resoconti dei media statunitensi e occidentali hanno regolarmente tentato di inquadrare Washington come "frustrata" dalle azioni di Israele, nonostante il suo palese sostegno militare a Tel Aviv durante tutto il genocidio.
Tra ottobre 2023 e settembre 2025, almeno 46 articoli sono stati pubblicati sui media occidentali in cui si descrivevano l'ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Trump come "frustrati" dalle azioni di Israele.
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
La NATO deve contrastare uno dei principali obiettivi proclamati dalla Russia all'inizio dell'operazione speciale e cioè la smilitarizzazione dell'Ucraina e, al contrario, deve renderla «più forte possibile», ha dichiarato Mark Rutte. Questo, perché se la Russia riuscisse a riportare l'Ucraina nella propria orbita, se la Russia ottenesse l'accesso a tutta l'Ucraina, accrescerebbe le proprie risorse a tal punto che persino un aumento della spesa militare al 5% del PIL dei paesi NATO sarebbe insufficiente. Oggi, ha proclamato Rutte, «siamo più forti, ma se non adempiamo ai nostri obblighi, tra un paio d'anni saremo più deboli dei russi. E questo è molto pericoloso». Perché, come va ripetendo l'oracolo Andrius-Merlino-Kubilius, la Russia «tra cinque anni, o forse anche prima, attaccherà un paese europeo, o forse più di uno». A Delfi, perlomeno, erano un po' più precisi.
Sempre il bellimbusto Rutte ha sentenziato che, in ogni caso, l'Ucraina banderista rimarrà nella sfera d'influenza occidentale e, quantunque non membro della NATO, contingenti francesi e britannici saranno schierati sul suo territorio. Proprio l'esatto contrario di quanto richiesto da Moskva per addivenire a un accordo di pace. Ma, chiede Rutte, ancorato all'asserto secondo cui la Russia non può non attaccare di nuovo, che sia l'Ucraina o una qualunque “democrazia” europea, «se si raggiunge un accordo di pace, si raggiunge un cessate il fuoco a lungo termine o si conclude un trattato di pace a tutti gli effetti, come possiamo impedire alla Russia di attaccare nuovamente l'Ucraina? Le garanzie di sicurezza attualmente in fase di sviluppo, dice, si articolano su tre livelli. La prima linea di difesa è rappresentata dalle forze armate ucraine. La seconda linea è quella sviluppata negli ultimi mesi dalla coalizione di paesi disposti a fornire assistenza, guidata da Gran Bretagna e Francia... gli Stati Uniti sono il terzo elemento. Ad agosto, il presidente americano ha dichiarato di volere che gli Stati Uniti facciano parte di queste garanzie di sicurezza. Sono attualmente in corso discussioni su cosa significherà esattamente e come sarà strutturato questo pacchetto collettivo di garanzie di sicurezza... Putin deve sapere che dopo la conclusione dell'accordo di pace, se tenterà di attaccare di nuovo l'Ucraina, la risposta sarà devastante». A Moskva si sono avvertiti tremiti di terrore...
Da parte sua, il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha delineato la propria visione di un “accordo di pace”, con truppe NATO che, con il pretesto delle “garanzie di sicurezza”, sono pronte a occupare l'Ucraina lungo le linee del fronte e a garantire la salvaguardia del regime nazigolpista, anche al punto di lanciare un attacco militare contro la Russia. «Noi, europei e americani, siamo pronti a fornire insieme queste garanzie di sicurezza» ha detto; «quando si tratta, ad esempio, di rinunciare a territori, l'Ucraina non può farlo senza una garanzia di sicurezza... garantiremmo una zona demilitarizzata. E, più specificamente, risponderemmo anche a eventuali attacchi russi... Gli americani hanno fatto una promessa del genere, ovvero quella di difendere l'Ucraina in caso di cessate il fuoco, come se fosse territorio NATO» ha affermato Merz.
In effetti, sostiene da Mosca il politologo ucraino Konstantin Bondarenko, l'intelligence americana è molto più importante per l'Ucraina che non le forniture di armi: «la cosa più importante non sono nemmeno i soldi, o le armi fornite dagli Stati Uniti, ma le informazioni di intelligence: immagini satellitari, sistemi di guida satellitare e così via, senza le quali nessun missile può essere lanciato o raggiungere il suo obiettivo... se l'Ucraina perdesse il supporto di tali informazioni, ciò potrebbe avere un impatto molto grave sul potenziale e sulle capacità delle forze ucraine».
Dunque, tra proclami di Rutte, plateali assicurazioni di Merz e dati di fatto evidenziati da Bondarenko, sembra che le cose per il regime banderista non siano messe poi così male. Sembra. Ma, avverte il colonnello ed esperto militare ucraino Oleg Starikov, chi assicura che, subito dopo la cessazione delle ostilità, i paesi europei non dichiareranno di non dover nulla all'Ucraina e non rifiuteranno di fornire aiuti per la sua ricostruzione? «Se pensiamo che i nostri partner strategici continueranno a fornirci assistenza dopo la fine della guerra, voglio deludere tutti. Non succederà nulla. Tutti si dilegueranno... e guarderemo con orrore Germania, Francia, Gran Bretagna fuggire a rotta di collo dopo la guerra. La storia militare lo conferma: la maggior parte degli alleati diventano avversari dopo una guerra.... affidarci a un buon compagno straniero non ci aiuterà... Per qualche ragione, hanno deciso che stavamo difendendo l'Europa. Ma la guerra finirà e diranno: “Non vi abbiamo chiesto di difenderci”. Vedrete. Sarà terrificante».
E anche il colonnello Roman Kostenko, segretario del Comitato difesa della Rada, ha dichiarato a Ukrainskaja Pravda di non nutrire alcuna fiducia nelle promesse occidentali di garanzie di sicurezza. Ripetendo quello che è ormai l'assioma ukro-europeista, di una Russia che attaccherà nuovamente l'Ucraina dopo il cessate il fuoco, Kostenko sostiene che «Ci inganneranno. E poi, quando la Russia si muoverà di nuovo, non saremo nemmeno in grado di trovare la persona che ha firmato quelle garanzie. Cambieranno tutti. Arriveranno altri, come quelli in Ungheria e nella Repubblica Ceca, e diranno: “Non vi abbiamo promesso nulla. Non ci sono garanzie che la Russia non andrà oltre"». E una volta ceduti i territori, dice Kostenko, si dovrà cedere anche il sud e bisogna sottolineare che «nemmeno l'articolo 5, contrariamente a quanto si crede, non garantisce l'assistenza militare a un membro della NATO sotto attacco. Sì, l'attacco sarà considerato contro l'intera alleanza, ma a forma di assistenza (incluso l'uso della forza armata) è decisa individualmente da ciascun paese».
Ricordiamo che alla vigilia dell'inizio delle operazioni militari, scrive Igor Škapa su PolitNavigator, Vladimir Zelenskij, intervenendo il 19 febbraio 2022 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, aveva minacciato di invalidare il Memorandum di Budapest, ripristinando lo status nucleare dell'Ucraina e rendendo così nullo l'intero pacchetto di decisioni del 1994 e fornendo in tal modo a Moskva ulteriori argomenti per l'avvio delle operazioni.
Ma, in sintesi, al di là delle spacconate dei “lattonzoli” europei e dei piagnistei dei media loro megafoni, quali possono essere le condizioni per la sottoscrizione tra Moskva e NATO di garanzie di sicurezza? La Russia, ha dichiarato a RIA Novosti il vice Ministro degli esteri Alexandr Gruško, è pronta a formalizzare garanzie giuridicamente vincolanti coi paesi NATO solo su base di reciprocità. Anch'egli menzionando la vigilia del febbraio 2022, Gruško ha ricordato come, a fine 2021, la Russia avesse proposto a USA e NATO accordi per garanzie di sicurezza, respinti però da Washington e Bruxelles. Quelle bozze di accordo escludevano un'ulteriore espansione dell'Alleanza atlantica verso est e l'adesione di Kiev a essa, il dispiegamento di truppe e armi aggiuntive al di fuori dei paesi in cui si trovavano al maggio del 1997 e chiedevano la rinuncia a qualsiasi attività militare NATO in Ucraina. Moskva chiedeva inoltre di rinunciare formalmente alla decisione del vertice NATO di Bucarest del 2008 per l'adesione di Kiev e Tbilisi.
E oggi, ha osservato Gruško, Mark Rutte dichiara che «dopo l'Ucraina», il «prossimo obiettivo della Russia siamo noi». Effettivamente, i passi dell'Alleanza atlantica e dei paesi «europei suoi membri confermano queste parole. Si stanno preparando attivamente a quello che considerano un conflitto armato “inevitabile” con il nostro paese».
Vi si preparano dirottando miliardi dalle spese sociali agli armamenti e, però, urlano di disperazione contro un Vladimir Putin che, scrivono i pennivendoli del Corriere della Sera, «insulta gli europei», quando li definisce “lattonzoli”, piccoli esseri generati dalla femmina di suino, la maiala, incapaci di muoversi e orientarsi da soli e destinati solo a soddisfare le esigenze di un sistema che, oggi, risponde direttamente alle brame di profitto del complesso militare-industriale. Oltre a questo, ai lattonzoli non è chiesta altra funzione, forse insieme a quella di stridere a più non posso sul “pericolo dell'aggressione russa”, mentre affamano le masse dei propri paesi e tolgono occupazione, riducono salari e pensioni, tagliano i servizi socio-sanitari. Vien da chiedere ai farabutti dei fogliacci di regime chi sia che, nei fatti di ogni giorno, «insulta gli europei», le masse europee. E mentre le affama, insulta le loro coscienze instillandovi la necessità di «adottare una mentalità di guerra» per esser pronti a quando la Russia «tra cinque anni, o forse anche prima, attaccherà un paese europeo, o forse più di uno».
Non sembri strano che la galoppante “ucrainizzazione” banderista dell'Europa si muova anche su questo terreno, quello delle profezie. L'Ucraina, afferma l'ex vice comandante delle Forze speciali ucraine, Serghej Krivonos, sta vivendo un aumento senza precedenti di ogni sorta di indovini, cartomanti e occultisti.
Per l'appunto, a proposito dei negoziati di pace, «la maggior parte di noi può dire molto di più con i tarocchi... gli psicologi sanno bene che rivolgersi ai cartomanti rivela una mancanza di fiducia nella società e nella percezione del rapporto tra governo e popolo. Alle autorità non importa nulla della gente e quando quelle tacciono sul fronte dell'informazione, la gente inizia a cercare chi può decifrare qualcosa... Ecco perché indovini, cartomanti e occultisti sono oggi in aumento».
Insieme a loro, i Rutte, i Kubilius, i Merz, i “lattonzoli” che, come cuccioli ciechi e privi di orientamento, errano nel pantano del porcilaio euro-atlantista, stridendo con la voce sguaiata dei porcari annidati nelle redazioni.
FONTE:
https://politnavigator.news/gensek-nato-nado-sorvat-odnu-iz-glavnejjshikh-celejj-svo.html
https://politnavigator.news/nato-ugrozhaet-rossii-sokrushitelnym-otvetom-za-ukrainu.html
https://politnavigator.news/glavnyjj-priznak-togo-chto-ssha-vrut-o-mire-na-ukraine.html
https://ria.ru/20251219/mid-2063092881.html
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 12:00:00 GMT
di Federico Giusti e Valentina Salada
Il dato più inquietante è ormai evidente e non potrà essere eluso da chicchessia: in diversi Atenei, il numero dei ricercatori e lavoratori non strutturati è superiore al personale stabile. Un sistema inefficiente, ingiusto e anche iniquo. Non possiamo parlare di "formazione" quando si vanno espellendo migliaia di ricercatrici e ricercatori dopo anni di attività, di lavoro e di pubblicazioni, non potremo definire "merito" una competizione costruita su criteri che ignorano la precarietà strutturale di chi produce la maggior parte delle pubblicazioni e dei progetti.
Sul definanziamento prosperano poi interferenze esterne sempre più marcate: fondazioni private, poli industriali e persino apparati militari tramite il paradigma europeo del "dual use" che spinge la ricerca verso finalità tecnologico-militari. La semplice disponibilità di fondi diventa leva di pressione per cercare di orientare l'offerta formativa. Come nel recente caso dell'Accademia Militare di Modena che, tramite un corridoio di influenze, aveva cercato un accordo con il Magnifico Rettore dell'Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, successivamente respinto dal Consiglio di Dipartimento di Filosofia, che non ha voluto garantire le risorse di docenza. Tale accordo, se attuato, avrebbe di fatto trasformato l'Ateneo bolognese in un campo di addestramento della retorica militare.
In un contesto già minato da carichi di lavoro insostenibili, salari stagnanti, tagli ai diritti economici e sociali e con appalti al massimo ribasso, appare paradossale discutere di riforme della struttura istituzionale e organizzativa delle università o di strategie per intercettare finanziamenti destinati a bilanci ormai al collasso, mentre ciò che realmente serve è stabilizzare, assumere, finanziare.
Le università sono fatte di persone. Tutte. Chi apre le aule, chi pulisce i corridoi, chi fa funzionare laboratori, biblioteche, servizi, chi insegna e chi fa ricerca. La qualità dell'università coincide con la dignità riconosciuta a chi contribuisce alla sua funzione pubblica e non con la brillantezza dei suoi documenti strategici.
Per questo, come delegati della Cub siamo convinti che sia indispensabile considerare il sapere alla stregua di un bene comune, che la precarietà non possa essere normalizzata, che senza un finanziamento stabile e adeguato non esiste alcuna autonomia possibile dell'università e della ricerca.
Allora pensiamo indispensabile aprire una discussione nel mondo universitario perseguendo alcuni obiettivi, ad esempio
– ribadire che l'Università rifiuta la guerra rafforzando invece il boicottaggio accademico contro chi è complice in genocidio e guerre;
– contro la più grande espulsione di massa nella storia della ricerca universitaria, con la scadenza di decine di migliaia di contratti precari; una deroga ai tetti di spesa per assumere migliaia di precari da qui a un paio di anni
– contro le nuove direttive governative che vogliono disciplinare gli Atenei;
- assunzioni e aumenti salariali di almeno 500 euro al mese con scatti biennali automatici,
-per un’Università pubblica e adeguatamente finanziata.
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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Il 2025 segna una fase di particolare importanza nel percorso di modernizzazione della Cina. Ripercorrendo l’ultimo anno, lo sviluppo economico e sociale del Paese ha continuato a procedere con passo sicuro, mentre le riforme e l’apertura si sono ulteriormente approfondite, mostrando una notevole resilienza e vitalità in un contesto internazionale complesso e in rapido mutamento.
La recente Conferenza Centrale sul Lavoro Economico ha tracciato con chiarezza le priorità strategiche per il prossimo anno. Oggi abbiamo il piacere di ospitare diversi esperti per analizzare come l’economia cinese possa mantenere una crescita stabile e sostenibile nel lungo periodo e quali nuove opportunità di sviluppo essa sia in grado di offrire ai partner globali.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha definito il prestito dell'Unione Europea (UE) all'Ucraina uno spreco di denaro, sostenendo che continua a finanziare il conflitto tra Kiev e Mosca anziché la sua risoluzione pacifica.
"È un bene che non partecipiamo. Sono soldi sprecati", ha dichiarato durante una breve conferenza stampa dopo la riunione del Consiglio europeo, dove i leader dell'Unione hanno deciso di ricorrere a una nuova emissione congiunta di debito invece di utilizzare i beni russi congelati per finanziare il prestito a Kiev. "Con questo evidente onere di debiti inesigibili, potrebbero non essere gli attuali decisori a pagarlo, ma i loro figli e nipoti per molti, molti anni", ha affermato Orbán.
Orbán ha anche definito il prestito una "sfortunata decisione che avvicina l'Europa alla guerra ". "Un prestito per le riparazioni significherebbe una guerra immediata . Pensateci: ci sono due parti in guerra. Tu sei una terza parte che va lì, prende una grande quantità di denaro da una parte e la dà al suo nemico. Cosa significa? È guerra", ha spiegato il primo ministro.
È stata quindi approvata la decisione di erogare 90 miliardi di euro (quasi 105,5 miliardi di dollari) attraverso una nuova emissione congiunta di debito. Questo schema, tuttavia, sarebbe stato concepito senza la partecipazione di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, Paesi che si sono opposti all'utilizzo di risorse russe.
"Orbán ha ottenuto ciò che voleva: nessun prestito di riparazione. E un'azione dell'UE senza la partecipazione di Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia", ha spiegato un diplomatico europeo alla Reuters.
Secondo il testo approvato, gli Stati membri dell'UE e il Parlamento europeo continueranno a lavorare per fornire all'Ucraina un prestito finanziato con fondi russi congelati. Questo prestito a Kiev, basato sull'emissione di debito congiunto, verrebbe rimborsato dall'Ucraina solo una volta ricevute le riparazioni; fino ad allora, i beni russi rimarrebbero congelati e l'Unione si riserva il diritto di utilizzarli per rimborsare il prestito, si stima.
Secondo alcune fonti, la difficoltà principale nel prendere la decisione sull'utilizzo del denaro russo è stata quella di fornire al Belgio, dove si trova la maggior parte dei fondi russi, garanzie sufficienti per affrontare i possibili rischi finanziari e legali derivanti da un'eventuale rappresaglia da parte di Mosca per la confisca del denaro.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Un eroe russo, che ha partecipato alla liberazione della città strategica di Seversk, situata nella Repubblica Popolare di Donetsk, ha fornito dettagli su come l'esercito russo è riuscito a conquistare la città.
Durante la tradizionale maratona annuale di domande e risposte con il presidente russo Vladimir Putin, tenutasi questo venerdì, al presidente è stato chiesto della situazione nella città appena liberata, al che ha risposto che c'è la possibilità di sentire tutto in prima persona, dato che il comandante che ha partecipato a queste operazioni è presente all'evento.
In risposta, Naran Okhir-Goryayev, eroe della Russia e comandante di una compagnia d'assalto, ha raccontato che la parte più difficile della liberazione della città è stata raggiungerla senza essere scoperti , perché "il terreno era aperto e non c'era quasi nessuna copertura naturale", quindi "si decise di avanzare in piccoli gruppi senza attirare l'attenzione". "E la missione fu compiuta", ha spiegato il soldato.
Rispondendo a una domanda su come i soldati ucraini trattassero i civili rimasti a Seversk, ha ricordato che i residenti locali erano stati a lungo sottoposti a "pressione costante" e che, quando hanno liberato la loro area di responsabilità in città, si sono resi conto che i soldati dell'esercito ucraino stavano sparando ai civili che si rifiutavano di andarsene con loro. "La gente non aveva armi; venivano semplicemente fucilati per essere rimasti lì ", ha detto, aggiungendo che quando sono entrati, le persone erano in condizioni critiche, " fisicamente e moralmente esauste".
Ha aggiunto che hanno giustiziato principalmente giovani civili tra i 30 e i 40 anni , senza processo né indagini. "[Hanno giustiziato] giovani, soprattutto giovani tra i 30 e i 40 anni. Li hanno semplicemente portati fuori e li hanno fucilati senza processo né indagini, tutti senza eccezione", ha affermato.
Il comandante russo ha anche osservato che 24 gruppi, 84 persone, hanno preso parte alla cattura di Seversk e che quattro soldati sono morti in combattimento.
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Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 11:30:00 GMT
Come l'AntiDiplomatico vi abbiamo dato una grande copertura ieri sui nostri social della grandissima giornata di lotta degli agricoltori di Belgio e Francia contro l'accordo tra Mercosur e Unione Europea.
Ursula Von Der Leyen avrebbe dovuto firmare l'accordo nella giornata del 20 dicembre in Brasile, ma il dissenso di un numero sempre crescente di paesi pone a rischio la conclusione dell'accordo.
Intanto oggi il Consiglio ha sancito l'azzeramento dell'attuale Commissione, aggiungendo al fallimento sul Mercosur la capitolazione sugli asset russi, sui quali Ursula aveva deciso di giocarsi il tutto per tutto. L'accordo partorito - e di cui vi daremo aggiornamenti su l'AntiDiplomatico durante la giornata - elimina i beni russi dalla partita e prevede un prestito su debito comune molto più esiguo, 90 miliardi di euro, che copriranno la corruzione interna di Kiev sulle spalle dei contribuenti europei per alcuni mesi, ma rappresentano un piccolissimo e inutile palliativo rispetto al crollo sistemico del paese. Senza gli Stati Uniti, i paesi dell'UE al collasso socio-economico non sono in grado di andare oltre i prossimi sei mesi. Questo è emerso nel Consiglio in modo inequivocabile.
C'è un video che sta diventando virale e che esemplifica alla perfezione il disastro attuale dell'Unione Europea. La capitale dell'Ue, Bruxelles, si è risvegliata oggi con le Bmv dei tecnocrati intrappolate dalle patate lasciate sulle strade dagli agricoltori.
???????? Potato Aftermath, Brussels, Belgium
— Concerned Citizen (@BGatesIsaPyscho) December 19, 2025
The farmer protest against the EU, saw them line the streets of Brussels with potatoes everywhere.
What is this BMW get stuck the morning after! pic.twitter.com/vJdFWPKvGh
Una immagine che vale più di ogni parola. Nella speranza che i popoli europei seguano il risveglio partito dagli agricoltori del Belgio.
Il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, interviene come di consueto con i giornalisti nel contesto della tradizionale "linea diretta" combinata con la conferenza stampa annuale del Presidente. Secondo il Cremlino, per l'edizione di quest'anno, caratterizzata da una forte componente tecnologica e dalla pre-selezione delle domande tramite l'intelligenza artificiale GigaChat di Sberbank, sono pervenute oltre due milioni di richieste. Il portavoce presidenziale Dmitry Peskov ha evidenziato come le questioni relative all'operazione militare speciale siano state prioritarie e come sia stato garantito spazio anche ai media stranieri, "per dare loro l'opportunità di vedere e ascoltare il nostro Presidente".
Nelle sue prime risposte, Putin ha riaffermato la posizione di Mosca riguardo alla risoluzione del conflitto in Ucraina, attribuendo le origini della crisi agli eventi del 2014 e al successivo fallimento degli accordi di Minsk. "Desidero ricordare come tutto ebbe inizio: con il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e l'inganno circa una possibile soluzione pacifica a tutti i problemi dopo gli accordi di Minsk", ha dichiarato il leader russo. Ha poi aggiunto che nel 2022, quando le tensioni raggiunsero l'apice e il regime di Kiev scatenò la guerra nel sud-est del paese, la Russia si trovò costretta a riconoscere le repubbliche separatiste. "Fu detto loro: sarebbe stato meglio permettere semplicemente alle persone di vivere in pace come desiderano, senza colpi di Stato e senza russofobia. Allora non lo vollero", ha affermato Putin.
Il Presidente ha sottolineato che, in seguito ai negoziati di Istanbul, l'Ucraina avrebbe inizialmente accettato una roadmap negoziale, per poi rifiutarsi e respingere tutti gli accordi. "Al momento – ha osservato Putin – non vi è alcun segno della volontà di Kiev di porre fine al conflitto". Tuttavia, ha ribadito la disponibilità di Mosca: "Siamo pronti e disposti a terminare questo conflitto con mezzi pacifici, sulla base dei principi che ho esposto lo scorso giugno al Ministero degli Esteri russo, affrontando le cause profonde che hanno portato a questa crisi".
La Situazione sul Fronte Militare
Sul piano operativo, il Presidente ha fornito un'analisi dettagliata della situazione sul campo, dichiarando che le truppe russe continuano ad avanzare lungo l'intera linea del fronte. "Le nostre truppe stanno avanzando su tutta la linea del combattimento. In alcuni settori più rapidamente, in altri più lentamente, ma in tutte le direzioni il nemico si sta ritirando", ha detto.
Putin ha attribuito un significato strategico particolare alla liberazione della provincia russa di Kursk, affermando che essa ha segnato il passaggio completo dell'iniziativa strategica nelle mani delle Forze Armate Russe. Nel contempo, ha riferito che circa 3.500 soldati ucraini risulterebbero accerchiati nell'area di Kupiansk.
Parallelamente, il leader russo ha commentato lo stato delle riserve strategiche ucraine, sostenendo che subirebbero perdite gravissime a causa delle azioni russe. "Sembra che il nemico abbia subito perdite molto serie nelle sue riserve strategiche. Praticamente non ne sono rimaste", ha dichiarato.
Sulle Risorse Congelate: "Non è Furto, è Rapina"
In merito ai piani dell'Unione Europea di confiscare le attività russe congelate, Putin ha risposto a una domanda definendo l'eventuale atto non come "furto", bensì come "rapina". "Il furto è la sottrazione segreta della proprietà, mentre qui si cerca di farlo apertamente. È rapina", ha chiarito. Ha quindi avvertito che tale azione potrebbe avere "conseguenze serie per i ladri", colpendo i bilanci dei paesi coinvolti e infliggendo "un colpo alla loro immagine, minando la fiducia". "Ma, soprattutto – ha concluso – qualsiasi cosa rubino e in qualsiasi modo, un giorno dovranno restituirla", assicurando che la Russia difenderà i propri interessi in sede giudiziaria.
Data articolo: Fri, 19 Dec 2025 10:00:00 GMT



Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha espresso forte preoccupazione per l’escalation di tensioni tra Stati Uniti e Venezuela provocate dalle mosse ostili di una Washington sempre più tracotante, ribadendo che l’America Latina è una regione di pace e che una guerra sarebbe inaccettabile. Lula ha dichiarato di non comprendere le reali ragioni dell’ostilità degli Stati Uniti verso Caracas: “Nessuno dice chiaramente quali interessi ci siano dietro questa aggressione”.
Il leader brasiliano ha confermato di aver parlato sia con Nicolás Maduro sia con Donald Trump, sottolineando la necessità di una soluzione diplomatica. Con oltre 2.000 chilometri di confine con il Venezuela, il Brasile - ha spiegato - ha una grande responsabilità nella stabilità del continente. “Non vogliamo una guerra nel nostro continente”, ha ribadito. Lula si è detto disponibile a svolgere un ruolo di mediatore, ricordando la sua esperienza passata nel favorire il dialogo tra governi contrapposti. A suo avviso, la diplomazia “dà molti più risultati delle posizioni belliciste”.
Il presidente brasiliano starebbe valutando un nuovo colloquio con Trump prima di Natale per capire come contribuire a un accordo pacifico. Le dichiarazioni arrivano mentre gli Stati Uniti intensificano le operazioni militari nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico, giustificate come parte della lotta al narcotraffico, ma contestate da Caracas e da diversi Paesi, oltre che in palese violazione del diritto internazionale.
Il Venezuela denuncia un tentativo di cambio di regime e accusa Washington di usare il pretesto della droga per accaparrarsi le sue ingenti risorse energetiche. In un contesto di condanne internazionali e crescenti tensioni, Lula insiste: il dialogo è l’unica strada per evitare una “guerra fratricida” in Sudamerica.
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