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di Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico
https://www.youtube.com/watch?v=OuhiaHuPBsE (si combina bene con la lettura)
https://youtu.be/n1S-1XCrSnM (qui s’impara anche lo spagnolo)
Di Zeta in Zeta
Ma guarda un po’, Zeta è l’etichetta di quanto viene fatto passare per nuova “generazione” e che, inalberando il vessillo dei pirati, sta provando a buttare per aria un po’ di governi. Essenzialmente quelli che agli USA e rispettivi stipiti stanno sul piloro, tipo Serbia e, soprattutto, da 200 anni, il Messico. Ma Z è anche il logo dell’ omonimo narcocartello messicano. Un cartello che, prima dell’avvento dei presidenti Obrador e Sheinbaum, era, assieme a quello dei Sinaloa, il più feroce e sanguinario e il più vicino agli interessi dei predecessori dei presidenti arrivati nell’ultimo decennio. Vedi un po’, le coincidenze…
Ho studiato e ammirato il Messico dalle sue prime rivoluzioni, Benito Juarez, Emiliano Zapata, Pancho Villa. Poi l’ho incontrato, amato, compianto, negli anni neri dei presidenti commissariati dagli USA e dai narcocartelli, quando dal Chiapas è partito un movimento che le nostre sinistre incantava con passamontagna, fucili e cartucciere e storie e vesti colorate. Un movimento di sacrosanta rivendicazione dei Maya, persi nelle foreste del Chiapas, ma che, alla resa dei conti storici, ha sostanzialmente impedito che si unificasse quella sinistra nazionale che pur scorreva impetuosamente nelle vene del paese. La sinistra rivoluzionaria di Benito Juarez, nel tardo ‘800 primo indigeno presidente in America Latina, e di Emiliano Zapata, autore della prima rivoluzione del ‘900 nel mondo. Quanti, ancora oggi, portano in suo onore quel nome, compreso mio figlio! Rivoluzioni alle quali tanto sangue è stato fatto versare da farci annegare, alla fine, chi ha provato a divorarle.
Ora c’è chi di quella sconfitta si risente e prova a riavvolgere il nastro. Dopo un secolo di Messico tristemente (“Messico e nuvole…”) subalterno agli USA, spietatamente repressivo e convivente/connivente con i narcocartelli, in questi dieci anni due mandati consecutivi di presidenze socialiste (alla messicana) e antimperialiste, rompono l’odine delle cose, sono intollerabili.
Rivoluzione colorata Zeta

Così Trump, sistemato il Venezuela con l’attivazione del killeraggio CIA, la minaccia aeronavale dell’imminenza di un intervento e con 50 milioni di dollari di taglia su suo “narcopresidente “Maduro, boss del cartello “Dei soli”, peraltro inesistente, dichiara qualche settimana fa, tra una buca di golf e l’altra: “ Ho dato un’occhiata a Città del Messico. Ci sono dei grossi problemi laggiù… Non sono affatto contento del Messico. Lancerò delle operazioni contro il Messico per fermare la droga? Mi sta bene. Qualsiasi cosa, pur di fermare la droga”.
Passano pochi giorni ed ecco che, puntuale, fa la sua epifania in Messico la Generazione Zeta. Prima una serie di chiassate antigovernative – corruzione, troppa violenza criminale, aver lasciato ammazzare un bravo sindaco anti-droga, Carlos Manzo – poi la prova di forza il 15 novembre. L’assalto violento a Città del Messico al Palazzo Presidenziale – 120 feriti, di cui 100 quasi inermi poliziotti –con l’abbattimento delle barriere di protezione e tentativo di penetrare nel palazzo. Decine di migliaia di “giovani Zeta” (Zeta come coloro che, con lo stesso vessillo pirata, hanno buttato per aria il governo di sinistra del Nepal e ci stanno provando con quello di Belgrado), di cui le immagini mostrano però soprattutto facce attempate, tipi da agiato ceto medio. Il che non toglie che all’evento dedichi il suo entusiastico commento la grande stampa che sta in, e guarda a, un Occidente in marcia verso i suoi migliori decenni della prima metà del ‘900, oggi condominio di Deep State, Trump, Netaniahu e Ursula.

Punta di lancia Zeta in Messico, Carlos Bello, padrone della prima TV messicana, “Azteca” e del Gruppo Salinas, potente aggregato di media, telecomunicazioni, attività finanziarie e supermercati, inquisito per un’evasione fiscale da 2,6 miliardi di dollari. Impunito, come usa da noi. Bello è anche sostenitore del neo partito “Forza e cuore per il Messico”, successore dei discreditati e sconfitti partiti di destra, PRI e PAN, che hanno tenuto la barra nazional-coloniale privatista, liberista e narcotraffichista, da cent’anni a questa parte.
Non potevano non annuire alle parole di Donald Trump, gli ex-Vicente Fox (il cui capo della Sicurezza, Genaro Luna, fu condannato per traffico di droga in combutta col cartello Sinaloa) e Felipe Calderon, vecchi sodali di Clinton, Bush e Obama nel Palacio Nacional, sempre pronti a spostarsi tra Neocon democratici, il secondo Bush e il taumaturgo giallociuffato, a seconda di chi, dalla Casa Bianca, gli intimava di stare sull’attenti e non disturbare né CIA, né DEA, nè i loro narcoriferimenti messicani. Tra i quali nel Palacio si privilegiavano i cartelli Sinaloa e, ristupitevi delle coincidenze, lo Zeta.
C’è da meravigliarsi che in tutto questo abbiano svolto un ruolo di sostegno e “approvvigionamento” enti caritatevoli come CIA, Fondazione Ford, Open Society di George Soros, l’Atlas Network, una rete di centinaia di Think Tank pro-libero mercato, legata al Dipartimento di Stato (che finanziò pure il golpe anti-Chavez del 2002), il portale “Animal Politico” generosamente finanziato dalla National Endowment for Democracy (NED), braccio del regime USA per le iniziative di regime change?
Tra Chiapas, Belgrado e salvataggi in mare
Non è la prima volta che un movimento, con forti appoggi internazionali multilaterali, mette in discussione l’assetto istituzionale del paese. Nel 1998 mi accodo da cronista del TG3 a una spedizione in Chiapas organizzata dal gruppo di Luca Casarini, detto allora delle “Tute Bianche” e che si sarebbe fatto notare al G8 del 2001 a Genova. Lo avrei rivisto, segnato da analoga coloratura politica, nella Serbia dell’attacco Nato, ospite di una radio-tv di George Soros, B 92, impegnata contro il governo socialista di Milosevic. L’attualità lo vede processato per reati legati al traffico di migranti e, finalmente, coccolato da papa Bergoglio, per i meriti conseguiti con la supernave “Mediterranea, Saving Humans”. Un’altra nave, la Mare Jonio, con lo stesso Casarini, fu poi scoperta essersi fatta trasbordare 27 migranti, per 127mila dollari, da un mercantile dell’armatore danese Maersk, suscitando un processo della Procura di Ragusa, tuttora in corso, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Perché questa deviazione casariniana dalla spedizione delle Tute Bianche in Messico? Perché non potei evitare di constatare come la spedizione di Casarini tra gli indigeni Maya, mobilitati dal “Subcomandante Marcos”, già studente dell’università autonoma di Città del Messico, UNAM, fosse in qualche modo in sintonia politica con le altre sue imprese. E pure questa benvista e sostenuta dalla Chiesa.
Dopo la clamorosa occupazione, da parte dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), di San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas, in segno di protesta contro l’appena approvato NAFTA, accordo nordamericano di libero scambio, che consegnava l’economia messicana nelle mani di Wall Street, il movimento zapatista fu da noi considerato una specie di avanguardia anticapitalista. Arrivarono compagni entusiasti da mezzo mondo ad abbeverarsi alle fonti rivoluzionarie de La Realidad, municipio zapatista nella selva Lacandona.
Così noi con le Tute Bianche. Momento apicale e rivelatore fu un incontro con il leader spirituale del movimento, Samuel Ruiz Garcia, vescovo di S. Cristobal. Ci indirizzò a “liberare” la comunità oppressa del villaggio di Taniperla. Scoprimmo all’arrivo che pure quelli erano Maya, pure quelli autorganizzati, ma restii a inserirsi nel gruppo di Marcos. Motivo? Erano convinti protestanti, mentre quelli del “Sub” erano rigorosamente cattolici. Il nostro mandato era di aiutare Taniperla a tornare dalla parte dei buoni.
L’indirizzo politico di Marcos, segnato da un intransigente localismo indigenista che non gradiva commistioni con quanto di pur valido si muoveva in ambito nazionale messicano, trascinò la comunità maya a un’ostilità sempre più pronunciata verso le sinistre messicane. Al punto di organizzare spedizioni propagandistiche in moto, a cavallo, in giro per tutto il Messico, contro la candidatura di Andres Manuel Lopez Obrador, amatissimo – da operai, proletari e mondo antimperialista - sindaco di Città del Messico, leader del partito progressista “Morena” e candidato alla presidenza. “Obrador? ”, chiedeva retoricamente, “ma se sono tutti uguali!, parlano parlano, ma finiscono col fare le stesse cose dei liberisti”. Collocava il politico, sostanzialmente zapatista e rivendicatore della sovranità del Messico, a fianco di soggetti criminali come i narcopresidenti Salinas de Gortari, Vicente Fox e Felipe Calderon.
Queste spedizioni di Marcos e dei suoi seguaci contribuirono non poco a che Obrador fallisse alle elezioni presidenziali sia del 2004 (queste pesantemente manipolate), che del 2008. Ma non in quelle 2018, quando Marcos si era ritirato dalla scena (ricomparirà brevemente, nel 2024, per osteggiare la nomina di Claudia Sheinbaum, ingegnere, accademica, ecologista, erede di Obrador, a candidata alla presidenza) e ogni opposizione e tentativo di ripetere i trucchi del passato venne travolta da una marea incontestabile di voti.
Messico, i demoni

Mi ritrovai in Messico per un nuovo documentario una dozzina d’anni dopo, regnante Felipe Calderon, da tutti considerato vicino al cartello Sinaloa – ma neanche tanto lontano dagli altri cartelli, Juarez, Tijuana, Beltrán Leyva, del Golfo, Caballeros Templarios - e vicinissimo al Dipartimento di Stato che qui aveva dislocato alcune unità di forze speciali. Non certo per disturbare la sinergia tra cartelli, polizia messicana e DEA (ente USA “’per la lotta al narcotraffico”), visto che sono oltre 100 miliardi i dollari che entrano ogni anno nel sistema bancario USA, ma per dare una mano alle forze di sicurezza nazionali nel disciplinamento di eventuali rigurgiti antagonisti. Che c’erano, irriducibili.
Nei mesi da me trascorsi in Messico, tra 2008 e 2010, in un paese militarizzato oltre ogni misura, si contano 30.196 morti ammazzati, 23.500 donne in media ogni anno, 3.200 desaparecidos. Il 93% di questi delitti non viene indagato grazie all’intreccio omertoso e di interessi tra criminalità e autorità Ogni anno arrivano dal Sud 600.000 migranti. 20.000 risultano poi sequestrati, torturati, stuprati, uccisi, spesso decapitati, fatti sparire. Da 200 a 300 in media, sui due lati del confine USA, finiscono nelle mani di tagliagole a questo scopo reclutati.
Nella “guerra al narcotraffico” e nella caccia al migrante sono impiegati 180.000 effettivi, tra esercito, marina polizie federali e locali, più gli “specialisti” allora spediti in appoggio da Obama. Il cartello degli Zeta, il più efferato, è composto da ex-effettivi delle truppe d’èlite messicane, addestrate a Fort Bragg, Carolina del Nord. Almeno metà dei.2.500 municipi messicani erano sotto il controllo dei cartelli della droga.
In 3000 miliardi di dollari sono calcolati gli utili annuali del traffico di droga. Questo passa per i corridoi Colombia-Centroamerica-Messico, via terra, mare o aria (parallelo a quello che allora correva dall’Afghanistan, occupato dalla NATO, l’Iraq, pure occupato, Kosovo, Calabria. Sicilia, Occidente. Ne sapeva qualcosa Buscetta. Soldi che finiscono nelle disponibilità della finanza USA, a sostegno dell’economia più indebitata del mondo. Destinazioni privilegiate: New York, Florida, Texas e Arizona, stati che sostengono con donazioni l’80% delle campagne presidenziali. Sono 5 trilioni i dollari sporchi entrati neri circuiti finanziari USA nel primo decennio del secolo. Superavano tutti i trasferimenti da petrolio e armi. Coca e Fentanyl servono qui come servì l’oppio alla Regina Vittoria contro la Cina. Chi da noi se ne occupava con grande perizia e competenza era Pino Arlacchi, vicesegretario dell’ONU e responsabile della lotta al narcotraffico. Sono funzionari ONU che non hanno lasciato successori, come non li hanno lasciati segretari indipendenti e decisi come Kurt Waldheim, o Boutros Ghali.

Maquiladoras
E anche questo stato di cose che garantisce che il 19% più ricco superasse negli USA di 50 volte quello del 10% più povero, mentre il 60% dei messicani viveva sotto il livello di povertà. L’1% possedeva il 50% della ricchezza nazionale, il 70% raggiungeva a malapena i 2 dollari al giorno. Zero previdenza e assistenza sanitaria per metà della popolazione. Un dato quest’ultimo che riguardava anche le migliaia di operaie che, con contratti di mese in mese, anche per 10 anni, cacciate al primo errore e spesso consegnate ai boia narcos se provavano a protestare o sindacalizzarsi, impiegate nella maquiladoras, la catena di stabilimenti che le grandi industrie USA avevano dislocate a Chihuahua, nel nord del Messico. E che Trump aveva promesso di riportare a casa. Prima di preferire di dedicarsi alle guerre geopolitiche.
La terra, solo nel mio ieri, apparteneva al 97% a una trentina di latifondisti che di tutto si curavano fuorchè dell’alimentazione di base della popolazione. Il 3% restava a 400.000 piccolissimi contadini. 12 milioni di questi erano senza terra. Il 70% dei lavoratori erano sottoimpiegati e sottopagati.
Tutto questo alla faccia della prima rivoluzione del ‘900, quella di Emiliano Zapata e Pancho Villa, unici vincitori latinoamericani degli USA sul terreno di battaglia, prima di Cuba. La dittatura di Porfirio Diaz, solito fantoccio yankee, allora abbattuta, si ricostituì dopo un decennio. Un’altra spallata fu tentata dagli studenti nel ’68, sull’onda del movimento che in tutto l’Occidente, a partire dal Vietnam (oggi Palestina), prova a minare le basi fondanti del capitalismo imperialista. E fu la strage della Piazza delle Tre Culture in Città del Messico, 400, forse 800 (il regime non li volle contare) ragazzi massacrati da esercito e politizia. Oggi li ricorda un museo cosparso di scarpe, borsette, libri, quaderni, bottiglie Molotov, barriere carbonizzate, foto di morti e feriti, facce. Presidente Gustavo Diaz Ordaz, dell’eterno PRI (Partido Revolucionario Istitucional).

Era questo il paese che attraversai dall’estremo sud, dove Messico e Guatemala sono separati dal fiume Suchiate. Da questo enorme corso d’acqua arrivava, attraversatolo su pneumatici di camion, l’alluvione dei disperati delle Repubbliche delle Banane diretti nel “paradiso nordamericano”. Quel “paradiso” promesso e oggi da Trump negato, aveva la sua anticamera nel cimitero dei vivi di Chihuahua e Ciudad Juarez, terreno di cacciatori statunitensi di teste, attestati sui due lati del confine. E lo zapatismo, ormai ombra di se stesso, ridotto a viale dello “zapaturismo” a San Cristobal per nostalgici e reduci di illusioni e sconfitte, ha provato a svolgere un ruolo in occasione della rivoluzione colorata degli Zeta (intesi come movimento). Ha riattivato in Chiapas una certa mobilitazione anticentralista, accompagnata dalla solita condanna di tutte indistinte le forze politiche, “tutte uguali”, anche quelle che stavano riscattando dignità e giustizia, diversamente dagli attivisti Zeta degli assalti ai palazzi del governo a Città del Messico nella prima metà di novembre.

Passa un treno merci. Sopra e ai lati, abbarbicati, centinaia di migranti centroamericani. Al confine sono scampati alle pandillas, le bande di giovani delinquenti che li spogliano di tutto, Qualcuno, a gambe divaricate, pende sospeso tra un vagone e l’altro. Viaggiano così per giorni, senza biglietto, assieme a sacchi di soia, zucchero, cemento. Qualcuno crolla e finisce sotto le ruote. Il treno rallenta. Un signore in disarmo che dimostra settant’anni, ma ne ammette 61, dice di andare in Nordamerica, da un nipote, per trovare quel lavoro che a casa sua non gli danno più: “Dopo i 40 ti buttano. Ma se non c’è speranza, non c’è più niente…”. Tanti che non ce l’hanno fatta a prendere il treno, li ho visti, tra cani inscheletriti e neri avvoltoi, rovistare tra i rifiuti della grande discarica di Tapachula, prima città dopo il confine. Arrivano caporali in auto e li pagano per aver ricuperato qualcosa di commerciabile. Al confine nord li aspettano i cacciatori di teste.
Messico, angeli contro demoni

Sono a Oaxaca nel centrosud del paese, città e Stato della perenne resistenza, sia indigena, degli indios Triqui, cui l’estrazione nordamericana sottrae acqua e foreste, sia creola e bianca. Nel 2006, al cambio tra i presidenti Vicente Fox e Felipe Calderon, una gigantesca rivolta di popolo, studenti, giovani e soprattutto, come poi vedrò ovunque nel Messico, donne. Calderon è stato insediato, grazie al fatto che aveva sottratto 1 milione di voti a Obrador, fatto provato dal Tribunale Supremo Elettorale. Ma lasciato correre.
La lucha sigue. la lotta continua, mi assicurano, con un termine che mi è famigliare, le donne, perlopiù operaie e insegnanti, che animarono una rivolta per la conquista di diritti fondamentali, sociali e ambientali, per l’istruzione e la sanità pubblica, contro la manomissione del territorio da parte delle multinazionali minerarie. Una sollevazione che, tenne in scacco le forze della repressione per settimane, Continuano a percorrere il territorio, a invitare delegazioni fraterne straniere, sfidano minacce e repressione.
Una repressione che, più a sud, Chiapas, è costata arresti e maltrattamenti alla comunità agricola “Lopez Hernandez” di mezzo migliaio di persone, parte della rete “Organizacion Campesina Emiliano Zapata”, che nulla ha a che fare con gli zapatisti dell’ex-Marcos. La loro autonomia, che aveva ridato vita e coltivazioni a 215 ettari di terre ancestrali, a suo tempo sottratte da un unico latifondista al quale gli spagnoli avevano assegnato 1.600 ettari. Il regime gli negava riconoscimento, scuola, sanità, l’acqua andava presa a 130 minuti di cammino. Quando gli uomini della comunità furono tutti arrestati, sono state le donne a mandare avanti i lavori sui campi e all’interno della comunità. La lucha sigue. Si capisce perché il Messico fosse allora il paese a più alto tasso di femminicidi.
Il cuore dell’elaborazione politica e della lotta al sistema totalitario che le presidenze PRI e PAN hanno continuato a rafforzare sono sempre state le università, in testa l’UNAM, Universita’ Nazionale Autonoma del Messico e l’UNAC, Università Autonoma di Ciudad Juarez. Nella prima incontro i ragazzi del Comitato Cerezo, sono quattro fratelli e una sorella tra i 22 e i 30 anni, tutti con alle spalle chi 5 e chi 7 anni di galera, comprese le torture, punizione di attività politiche nonviolente. Sono figli di una coppia tuttora latitante che militava nell’ERP, Esercito Revolucionario del Pueblo, una formazione guerrigliera marxista, diffusa in molti paesi latinoamericani in risposta alle dittature installate dal colonialismo yankee. All’UNAM hanno aperto uno sportello per l’assistenza agli studenti, in materia di corsi, controversie burocratiche, carenze accademiche, conflitti con le autorità dell’ateneo, o della città, o dello Stato. Continuano a rischiare, ma si espongono ed esprimono la certezza che prevarrà quanto va crescendo nel paese, attraverso anche la rivisitazione di rivoluzioni e riscatti passati e in collegamento con nuove realtà alternative emerse nel mondo.
La loro fiducia mi viene confermata a Chihuahua e nella città di confine Ciudad Juarez, dirimpetto a El Paso texano che, con i suoi 17 negozi di prodotti militari, è la generosa e semiufficiale fornitrice di armi alle gang sull’altro lato del Rio Grande/Rio Bravo e della penetrabilissima cortina USA di ferro e torrette che lo affianca. Allora qualcuno chiamava questa regione El infierno del Norte. E a buon titolo.
Discesa all’inferno

La prima cosa con cui, arrivando a Chihuahua, capitale dello Stato omonimo, ci si scontrava, con tanto di trambusto emotivo, era un monumento. Monumento raffazzonato come da chi lo mette su in fretta, guardandosi alle spalle, forse inseguito, disperato. Una specie di quadro gigante, in faccia al grande palazzo barocco governativo, dalla cornice e base color sangue, costellata di chiodi, stracci di vesti intime insanguinate, manichini nudi spezzati e arti sparsi. E’ il monumento, non so se c’è ancora, al femminicidio. Quella strategia dell’intimidazione e del terrore che, assieme alle teste mozzate dei rivali nella lotta per il controllo degli stupefacenti, serviva ai poteri di allora – e dalle nostre parti anche adesso – per tenere in ceppi di paura i sudditi.
Terra allora desertificata, abbandonata da dio e dagli uomini che dovrebbero coltivarla e custodirla. Ricordo periferie vuote, case mezze costruite, sterpaglie dappertutto. Ricordo un angolino di quartiere, cento metri per venti, dove la gente si ritrovava a passeggiare, a far giocare i bambini con dei grossi pupazzi gonfiati, a chiedere e dare l’elemosina alla solita mamma india con due bimbetti appesi, ad ascoltare e fare musica, perfino a ballare. E ricordo una madre cui avevano ammazzato la figlia e che davanti al palazzo del governo protestava, protestava, finchè qualcuno non l’ha portata via. Ora figura su una delle croci rosa che ricordano donne ammazzate e che fioriscono dalla periferia di Chihuahua fino a quella di Ciudad Juarez, il cimitero dei vivi, a nord, sul confine. E, entrandovi, il più bel monumento a Don Chisciotte che abbia mai visto. Continua a lottare contro mulini a vento.
Qui ti devi muovere circospetto. Di giorno i padroni del luogo, quelli del traffico tra qui e la El Paso delle banche e dei corrieri verso l’interno degli States, impongono il coprifuoco per quando devono fare grossi spostamenti, o retate di importuni. Quando vedi passare automobili sfacciatamente senza targa, sai chi passa. C’è vita di notte, ombre seminude lungo viali bui, locali dove si balla e, al piano di sopra, dei video glorificano, davanti a maschi compiaciuti e sghignazzanti, le imprese dei narcos. Prostituzione e droga. E ciò di cui si nutrono i padroni. Ecco perché i femminicidi. Si rapisce, si abusa, di rifornisce la tratta, si uccide, si butta. E’ anche questa la guerra dei ricchi ai poveri.
Ed ecco perché non dimenticherò mai Miriam Valdiviero, operaia, Marisela Ortiz, direttrice di una scuola, Irene Miramontes, Norma Ledezma, Norma Andrade, Virginia Berthaud: tutte madri di figlie perdute, scoperte, a volte dopo anni, senza vita e senza vesti, o mai ritrovate, ancora attese. Tutte impegnate in organizzazioni per la lotta al femminicidio, al sistema, al governo, a Felipe Calderon, presidente fellone. Associazioni che fanno elenchi, ricerche, denunce, mostre di foto con storie di donne, ma anche informazione, cultura, convegni, musica, manifestazioni. Si chiamano “Justicia para nuestras fijas”, ““Nuestras fijas del regreso a casa” e in tanti altri modi.
Con Marisela, nella cui scuola insegnanti donne offrono ai ragazzi vita, valori, soddisfazioni, alternativi a quelli per i quali i boss provano a reclutarli, ci spostiamo in macchina. Dalla radio c’è il bollettino del mattino su quanto è successo nella notte: di quartiere in quartiere, di paese in paese, un interminabile rosario di morti, sparizioni, bagni di sangue.
Chi non si lascia intimidire, nel cimitero dei vivi, sono i ragazzi dell’Università Autonoma di Ciudad Juarez. Leonardo Alvarado, loro professore di informatica e capo di un Comitato di Lotta, parte del Fronte Nazionale contro la Repressione che regolarmente sfida con manifestazioni i guardiani del finto ordine, ci parla, attorniato da ragazze e ragazzi, di un “Cuore della resistenza che batte, a dispetto degli emboli che gli spara il sistema”.

Maria Davila contesta il presidente Calderon
Ma chi non dimenticherò mai è una piccola donna, Maria Davila di Ciudad Juarez, di una modestia pari alla sua granitica determinazione. E’ lei il Messico. Riassumo il racconto che mi ha fatto. Il 31 gennaio 2010 una classe di ragazzi delle superiori festeggia un compleanno. La polizia fa irruzione, spara a casaccio, ne uccide 17. Due erano figli di Maria. Il clamore del massacro costringe il presidente a intervenire. Dal palco, Felipe Calderon giustifica l’assurda mattanza accusando i ragazzi di aver fatto parte di una banda di malviventi. Maria Davila non ci sente più, si erge davanti al palco, da piccola diventa grandissima. Accusa il presidente di mendacio per coprire i suoi sicari. Costringe Calderon a ritrattare e poi ad allontanarsi sotto una grandine di fischi e improperi.
Siamo all’oggi, agli altri Zeta, a Claudia Sheinbaum, prosecutrice del riscatto lanciato nel 2018 da AMLO, Andres Manuel Lopez Obrador, quando finalmente i maneggi elettorali e di Marcos non sono riusciti a sottrargli la vittoria. I militari USA, che, fingendosi anti-narcos, contribuivano a mantenere l’ordine costituito, sono stati rimandati a casa. E subito Trump, come con Venezuela e Colombia, ha tuonato contro il paese, da sempre considerato appendice del grande vicino, attribuendo al suo governo il ruolo di capo narcotrafficante.
La lotta degli USA ai narcos è come la loro lotta ai terroristi islamici: li creano, fingono di combatterli attribuendoli agli Stati che hanno programmato di abbattere.
Il ritorno di Emiliano Zapata, subito “narcotrafficante” anche lui

Lopez Obrador e Claudia Sheinbaum
E così, dopo alcuni tumulti di preparazione, il 3,7,12 e 19 ottobre, essenzialmente destinati a impostare la narrativa dei media, ecco, il 15 novembre, gli Zeta assaltare il Palazzo, alla nepalese, serba, georgiana, primavera araba, ucraina, alla Otpor, quando si trattava di finirla con la Jugoslavia. Pretesti? I soliti stereotipi delle rivoluzioni colorate,buoni per ogni occasione. corruzione, violenza, autoritarismo, qui anche l’assassinio dell’anti-narcos sindaco di Uruapan Carlos Manzo, i
Il problema vero è che né Obrador, primo presidente di sinistra dopo Lazaro Cardenas negli anni ’30, né Sheinbaum, per quanto avessero fatto, in un mandato e un pezzetto, non erano riusciti ad estirpare del tutto il cancro secolare che era servito a imporre alla società la sottomissione al diktat del capitale nazionale e, soprattutto, nordamericano. Epperò, con la proclamata “Quarta Trasformazione”, 4T, si erano permessi di rafforzare le nazionalizzazioni (petrolio, elettricità), ripubblicizzare quanto era stato privatizzato, la riduzione delle spaventose diseguaglianze sociali con provvedimenti di ricupero sociale come l’aumento di tutte le prestazioni sociali, il ripristino delle risorse idriche e forestali, la promozione di infrastrutture come le ferrovie, provvedimenti per porre fine allo stillicidio della violenza sulle donne, un piano ambientale radicale di 6 anni con la fornitura di servizi idrici a tutte le abitazioni, la messa al bando della plastica monouso. E, priorità assoluta, migliaia di arresti di esponenti e manovalanza del narcotraffico, senza che ciò abbia significato la tradizionale militarizzazione di società e territorio.
E, particolarmente odiosi per il grosso vicino, fin dai tempi di Biden, i rapporti fattivi, o di solidarietà e condivisione, con entità invise ai Stelle e Strisce, come Palestina, Russia, Cina, Iran, BRICS. La vicinanza concreta con lo schieramento sovrano e antimperialista dell’America Latina, da Cuba al Nicaragua, dal Venezuela alla Colombia e all’Honduras. Sheinbaum, ebrea, dichiara di riconoscere lo Stato di Palestrina, accoglie il primo ambasciatore palestinese in Messico, stigmatizza il genocidio di Gaza. Da sindaco aveva reso irriconoscibile la capitale, disinquinandola e decongestionandola con corridoi preferenziali per autobus elettrici e l’ammodernamento della metro e la moltiplicazione di alloggi popolari, in una metropoli dagli affitti irraggiungibili. Oggi Claudia Sheinbaum ha il torto di godere di un indice di approvazione di oltre il 70%, in alcuni settori e stati federali, dell’80%.
Le donne che ho incontrato e quella che oggi regge le sorti di un Messico da restituire a Emiliano Zapata ci fanno riconoscere che oggi l’America Latina è donna.
Tutto questo basta e avanza per galvanizzare i nostri media a tratteggiare del Messico lo stesso quadro onesto, consapevole e rispettoso, proposto per il Venezuela del “narcos Maduro” (vedi il disinformato Pino Corrias sul Fatto Quotidiano del 27 novembre, un inconcepibile assist alle cannoniere di Trump). Siamo bravissimi a farci riconoscere.
Data articolo: Tue, 02 Dec 2025 06:00:00 GMT
Durante un recente dibattito alla Dieta giapponese, il Primo Ministro Sanae Takaichi ha sostenuto che il Giappone, in base al Trattato di San Francisco, avendo "rinunciato a tutti i diritti" su Taiwan, non sarebbe "in grado di riconoscere lo status giuridico" dell'isola. Questa narrazione di uno "status indeterminato di Taiwan" rappresenta una deliberata distorsione della storia e rispecchia la precedente, erronea asserzione secondo cui una "contingenza di Taiwan" potrebbe minacciare la sopravvivenza del Giappone. Queste dichiarazioni, come rilevato in un commento di Zhong Sheng sul Quotidiano del Popolo – pseudonimo spesso utilizzato dal giornale cinese per esprimere le proprie opinioni sulla politica estera – rivelano l'intenzione di sfidare l'ordine internazionale del dopoguerra e di preparare il terreno per un coinvolgimento militare giapponese nello Stretto di Taiwan.
Il contesto storico e i fatti giuridici riguardanti Taiwan sono inequivocabili. Nel 1895, il Giappone occupò illegalmente Taiwan attraverso un trattato ineguale. Nel 1943, la Dichiarazione del Cairo stabilì la restituzione alla Cina di tutti i territori sottratti dal Giappone, tra cui Taiwan. Tale principio fu ribadito nella Dichiarazione di Potsdam del 1945, poi accettata dal Giappone con lo Strumento di resa. Questi documenti formano la solida base giuridica internazionale per il ritorno di Taiwan alla madrepatria, un risultato fondamentale della vittoria antifascista nella Seconda Guerra Mondiale. Affermare uno "status indeterminato" significa quindi mettere in discussione l'ordine postbellico.
Il Trattato di San Francisco citato da Takaichi, come sottolinea il commento, è un documento parziale nato nel clima della Guerra Fredda, stipulato senza la partecipazione di importanti nazioni vittoriose come la Cina. Esso viola la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942 e i principi dello Statuto ONU, risultando quindi illegittimo e inefficace per quanto riguarda qualsiasi disposizione sui diritti territoriali della Cina, incluso Taiwan. Fare affidamento su tale trattato ignorando gli accordi fondamentali come Cairo e Potsdam non è solo una distorsione storica, ma un palese disprezzo per le norme internazionali.
Quando si sente proclamare che "il Giappone è tornato", sorge una domanda cruciale: quale Giappone sta tornando, chiede retoricamente il quotidiano cinese. Se un Giappone che ha imparato la lezione della storia, ripudiato il militarismo e abbracciato una via pacifista, ciò sarebbe benvenuto. Se, invece, allude a una rinascita delle ambizioni militaristiche, la comunità internazionale deve essere vigile.
La storia del colonialismo giapponese a Taiwan, come ricorda Zhong Sheng, è una testimonianza di quelle ambizioni: decenni di dominio oppressivo, privazione dei diritti, sfruttamento delle risorse e sanguinose stragi come quelle di Yunlin, Taoyuan Sanjiaoyong e Xiaolong, che hanno segnato a fuoco la memoria dell'isola. Oggi, parlare nuovamente di "contingenza" e di interessi strategici su Taiwan non è solo un'ingerenza negli affari interni cinesi, ma anche uno sfregio a quella memoria.
Taiwan è da sempre parte inalienabile del territorio cinese. La riunificazione completa è un'obiettivo fondamentale della nazione cinese. Come evidenzia il commento del quotidiano cinese, ottant'anni fa la Cina, insieme agli alleati, sconfisse il militarismo giapponese. Oggi, il governo e il popolo cinese hanno la ferma determinazione, la piena fiducia e la capacità necessaria per proteggere la sovranità e l'integrità territoriale, sventando qualsiasi interferenza esterna e portando a compimento la storica causa della riunificazione nazionale.
L'avvertimento è chiaro: giocare con il fuoco sulla questione di Taiwan è estremamente pericoloso. Il Giappone, data la sua grave responsabilità storica, dovrebbe agire con grande prudenza, riflettere profondamente sul proprio passato e astenersi da qualsiasi azione provocatoria riguardo a Taiwan, per non ripetere tragici errori e per contribuire invece alla stabilità e alla pace nella regione.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 16:37:00 GMTIl partito al governo in Georgia, Sogno Georgiano, ha annunciato che presenterà una denuncia internazionale contro la BBC per un articolo in cui si sosteneva che le autorità georgiane avrebbero utilizzato agenti chimici risalenti alla Prima Guerra Mondiale contro i manifestanti durante le proteste antigovernative a Tbilisi nel 2024.
"Questa mattina la BBC ha pubblicato un articolo che, oltre a contenere informazioni assurde e false, accusa il governo georgiano di aver utilizzato una ‘sostanza chimica’ contro i manifestanti violenti durante le proteste illegali. [...] Abbiamo deciso di avviare una controversia legale contro i media falsi nei tribunali internazionali. Utilizzeremo tutti i mezzi legali possibili per chiedere conto ai presunti media che diffondono menzogne per aver diffuso accuse infondate e false", si legge nel comunicato sui social media.
Secondo il partito, “i presunti media, che sono diventati uno strumento di propaganda dello Stato profondo, non hanno presentato alcun fatto che dimostri la loro grave accusa. Inoltre, tutte le supposizioni si basano sulle opinioni di persone specifiche”.
Il partito politico ha inoltre sottolineato che il proprio servizio di comunicazione ha mantenuto un dialogo attivo con la BBC prima della pubblicazione dell'articolo e ha inviato al media britannico “risposte esaurienti a tutte le domande senza eccezioni”. “In cambio, abbiamo ricevuto una miriade di menzogne, gravi accuse contro il governo che […] non hanno alcun legame con la realtà”, ha affermato Sogno Georgiano.
In questo contesto, Sogno Georgiano ha dichiarato che l'obiettivo è quello di “diffamare il governo, la polizia e, soprattutto, lo Stato georgiano”.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 16:20:00 GMTRisposta diplomatica di Caracas alle minacce belliche portate da Washington. Il presidente dell'Assemblea Nazionale venezuelana, Jorge Rodríguez, ha annunciato la creazione di una commissione speciale parlamentare per indagare quello che il governo di Nicolás Maduro denuncia senza mezzi termini come "l'assassinio di venezuelani" nel Mar dei Caraibi per mano delle forze militari statunitensi. La decisione arriva dopo un incontro con i familiari delle vittime e promette di portare la vicenda, già esplosiva, all’atenzione dell’opinione pubblica internazionale.
Il caso, che ha iniziato a scuotere gli ambienti politici e militari di Washington, affonda le sue radici nel primo attacco statunitense del 2 settembre scorso, definito contro una "narcolancha". Secondo ricostruzioni apparse su The Washington Post e riprese da media latinoamericani, in quell'occasione il Segretario alla Guerra di Donald Trump, Pete Hegseth, avrebbe dato un ordine verbale inequivocabile: "Uccideteli tutti". Un ordine che sarebbe stato eseguito alla lettera: dopo un primo missile, i militari USA avrebbero osservato via drone due sopravvissuti aggrapparsi ai relitti dell'imbarcazione in fiamme. Per ottemperare alle direttive, un comandante delle operazioni speciali avrebbe quindi autorizzato un secondo attacco, eliminando i superstiti.
Quella che Hegseth e la Casa Bianca descrivono come una campagna antidroga ("Operazione Lancia del Sud") iniziata ad agosto con un massiccio dispiegamento militare al largo del Venezuela, viene dipinta da Caracas e da una parte crescente della comunità internazionale come una serie di "esecuzioni sommarie". Il bilancio, secondo fonti venezuelane, supera i 70 morti, senza che sia mai stata fornita pubblicamente alcuna prova che le imbarcazioni colpite fossero effettivamente dedite al narcotraffico. Una circostanza che getta un'ombra pesante sulle operazioni, tanto più che organismi come l'ONU indicano che la principale rotta del traffico di droga verso gli USA non passa dal Venezuela, bensì dall'Oceano Pacifico.
Ma il terremoto più forte si sta registrando dentro gli Stati Uniti. Le rivelazioni sull'ordine di Hegseth hanno scatenato una reazione bipartitica rara nell'attuale clima politico polarizzato. Sia il Comitato dei Servizi Armati del Senato, a guida repubblicana, che quello della Camera, hanno chiesto con urgenza al Pentagono l'accesso a tutti gli ordini e alle informazioni di intelligence relative alle operazioni caraibiche. La preoccupazione tra i legislatori va oltre il fatto in sé: stabilire il precedente di uccidere naufraghi o presunti tali, al di fuori di un conflitto armato formalmente riconosciuto, metterebbe a rischio qualsiasi militare USA in futuri scenari di guerra, privandoli della protezione del diritto internazionale umanitario.
Ad alimentare le critiche è anche il parere tecnico-giuridico del "Former JAGs Working Group", un collettivo di ex avvocati militari destituiti da Trump che monitora le azioni del Pentagono. In un documento del 29 novembre, il gruppo è unanime nel giudicare le istruzioni di Hegseth come "manifestamente illegali", configurando crimini di guerra o omicidi. Sottolineano che ogni militare ha il dovere di disobbedire a ordini del genere e che chi li dà o li esegue è perseguibile.
Il Pentagono si trova così in un labirinto strategico e legale senza una via d'uscita semplice. Se si sostiene l'esistenza di un conflitto armato, l'uccisione di naufraghi è un crimine di guerra. Se si nega l'esistenza di tale conflitto, le uccisioni diventano omicidi extragiudiziali. Intanto, mentre il Venezuela prepara la sua commissione d'inchiesta e paesi come Russia, Messico, Brasile, Cina e Colombia hanno condannato le azioni USA, l'"Operazione Lancia del Sud" rischia di trasformarsi in un insostenibile incubo politico e giuridico per l'amministrazione Trump.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 16:01:00 GMTIl presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha confermato di aver avuto una conversazione telefonica con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
“Sì... non direi che sia andata bene o male. È stata una telefonata”, ha precisato a una giornalista a bordo dell'Air Force One, aggiungendo: “Non voglio commentare la questione. La risposta è sì”.
Bisogna ricordare che lo scorso venerdì i media statunitensi avevano riportato di una conversazione tra i due leader avvenuta la settimana scorsa.
Secondo il New York Times, il primo media a dare la notizia, la telefonata, alla quale ha partecipato anche il segretario di Stato USA Marco Rubio, non ha portato a piani concreti per un possibile incontro personale.
Da parte sua, il presidente Trump non ha fornito ulteriori dettagli su quanto discusso tra i due leaderin questo momento dove le minacce USA aumentano.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 15:36:00 GMT
La profezia si è autoavverata, e lo ha fatto con numeri che sembrano studiati per generare il massimo conflitto. L’Honduras è precipitato nella precisa crisi post-elettorale delineata dagli audio filtrati, una crisi fabbricata attorno a risultati provvisori così risicati da essere esplosivi. Mentre il conteggio ufficiale procede a singhiozzi, i dati diffusi dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) dipingono un quadro di una tensione calcolata: il candidato del Partido Nacional, Nasry "Tito" Asfura, mantiene un microscopico vantaggio di 4.176 voti sul suo rivale Salvador Nasralla del Partito Liberal.
Con solo il 55,87% delle schede scrutinato dopo oltre 24 ore dalla chiusura dei seggi, Asfura raccoglie 735.703 suffragi, pari al 40% del totale provvisorio. Nasralla lo incalza da vicino con 731.527 voti, che rappresentano il 39,78%. Una differenza dello 0,22% che trasforma ogni nuovo pacchetto di verbali in una potenziale bomba, in un sistema che assegna la presidenza in un unico turno. Questo stallo numerico, perfetto per alimentare la contestazione, relega in terza posizione la candidata del partito al governo, Rixi Moncada del Partido Libre, ferma al 19,23%, un dato che la esclude dalla contesa ma non dal suo ruolo cruciale di denuncia.
È qui che il copione rivelato dalle intercettazioni prende vita. Gli audio svelavano la strategia: creare una situazione di incertezza e sfiducia tale da giustificare il non riconoscimento degli esiti. I numeri attuali - l’esiguità del distacco, la lentezza sospetta dello spoglio, la doppia proclamazione di vittoria dei due rivali - sono la materializzazione di quella strategia. Nasralla ha immediatamente denunciato una manipolazione del CNE a favore di Asfura, esortando i suoi sostenitori a presidiare i seggi “fino all’ultimo”. Moncada, a sua volta, ha rilanciato l’allarme sul “piano di sabotaggio” e sul presunto hackeraggio del sistema di trasmissione TREP, invitando a resistere fino al conteggio del 100% delle schede. La scena è esattamente quella del “caos controllato” necessario per delegittimare il voto.
????????? Actualización del CNE con resultados preliminares: Nasry Asfura mantiene la delantera con 735,703 votos.
— Televicentro HN (@televicentrohn) December 1, 2025
???? Actas procesadas: 10,701 en total.
????Recuerda encontrar toda la información en https://t.co/AJPHbL2sVk pic.twitter.com/KGjr8VZLxV
In questo scenario perfettamente predisposto, l’intervento esterno è arrivato come la firma sul progetto. L’ex presidente statunitense Donald Trump, nelle ore critiche pre-voto, ha alterato la campagna con un ultimatum esplicito: il suo sostegno e gli aiuti economici solo in caso di vittoria di Asfura. Ha simultaneamente promesso la grazia per l’ex presidente honduregno condannato per narcotraffico, Juan Orlando Hernández. Questo doppio atto non è stata una semplice ingerenza, ma il segnale di una regia più ampia, che allinea gli interessi della destra locale a quelli di Washington, trasformando le elezioni in un test di obbedienza geopolitica.
Todo esto estaba previsto; sucedió como un mecanismo de relojería de la derecha fascista. Hace días RECHAZAMOS EL TREP porque sabíamos todo su PLAN. Vamos a contar TODAS LAS ACTAS, y lucharemos sin descanso por defender NUESTRA VICTORIA.
— Ricardo Salgado (@RicSalgadoB) December 1, 2025
Hoy más que nunca, luchar contra el…
I primi bollettini parziali del CNE, che già mostravano Asfura in vantaggio con il 34,25% delle schede scrutinato, sono stati bollati da Libre come il frutto della “guerra psicologica” denunciata. La situazione rispecchia in modo inquietante la trama delineata negli audio: un risultato non definitivo e contestabile, usato per proclamare una vittoria parziale, mentre si gettano le basi per la mobilitazione della piazza e si invoca l’intervento di “settori delle Forze Armate allineati”.
I numeri, quindi, non raccontano solo una competizione elettorale. Raccontano la precisione chirurgica di un’operazione di destabilizzazione. Ogni decimale di percentuale, ogni voto di distacco, ogni ora di ritardo nello spoglio non sono casuali: sono gli strumenti per creare la nebulosa di illegittimità in cui può attecchire la soluzione finale del piano: dichiarare fallito il processo e costringere il paese a ripeterlo in un clima di ancor maggiore ingovernabilità. La volontà popolare dell'Honduras è ostaggio di un copione scritto altrove, e i dati provvisori ne sono il primo, allarmante capitolo.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 15:02:00 GMT¡SALIÓ EL PEINE! ASÍ PLANEAN EL FRAUDE
— POLÍTICO HN???? (@PoliticoHN504) November 26, 2025
Circula un audio en el que Tomás Zambrano, jefe de bancada del Partido Nacional, conversa con técnicos sobre alteraciones en la señal móvil que podrían afectar el funcionamiento del TREP.
En el material, el técnico explica cuáles antenas… pic.twitter.com/K2yJWrMd2k
di Fabrizio Verde
Dallo scorso ottobre, per la prima volta nella sua storia, il Giappone ha un Primo Ministro donna: Takaichi Sanae. Nata il 7 marzo 1961 a Yamatokoriyama, nella prefettura di Nara, è una figura ben nota della politica giapponese contemporanea e anche la prima donna a guidare il Partito Liberal Democratico (PLD). Laureata all’Università di Kobe e con seccessive esperize di formazione negli Stati Uniti, Takaichi ha intrapreso inizialmente una carriera nel mondo dell’informazione e dell’analisi politica, lavorando come scrittrice-autrice, assistente parlamentare e conduttrice televisiva, esperienze che le hanno fornito una solida base comunicativa e una profonda conoscenza del panorama istituzionale.
Il suo ingresso in politica avviene nel 1993, quando viene eletta alla Camera dei Rappresentanti come indipendente. Tre anni più tardi aderisce al Partito Liberal Democratico, partito con cui si è affermata come una delle voci più influenti della destra conservatrice giapponese. Nel corso degli anni ha ricoperto numerosi incarichi ministeriali, in particolare durante i governi di Shinzo Abe e Fumio Kishida: tra questi, Ministro di Stato per gli Affari di Okinawa e dei Territori Settentrionali, per la Politica Scientifica e Tecnologica, per l’Innovazione, per gli Affari Giovanili e l’Uguaglianza di Genere, nonché per la Sicurezza Alimentare. Tali ruoli le hanno permesso di consolidare competenze trasversali, con un’enfasi crescente su questioni di sicurezza economica, sovranità tecnologica e strategia.
La sua ascesa al vertice del governo giapponese nel 2025 rappresenta una svolta storica non solo per il suo valore simbolico - la prima donna a guidare il paese - ma anche per il profilo ideologico che incarna. Takaichi è infatti nota per le sue posizioni fortemente conservatrici, allineate con l’ala più tradizionalista del PLD, e per un approccio pragmatico e assertivo alle sfide geopolitiche ed economiche del Giappone nel contesto indo-pacifico. Il suo impegno per la "sicurezza economica" - intesa come protezione delle catene di approvvigionamento, promozione dell’innovazione strategica e rafforzamento dell’autonomia tecnologica, è diventato un punto cardine della sua agenda politica.
Prima di dedicarsi a tempo pieno alla politica, Takaichi ha maturato esperienze internazionali significative, tra cui un periodo come ‘congressional fellow’ negli Stati Uniti, e ha collaborato con importanti think tank giapponesi, affinando una visione globale della politica estera e di difesa. La sua retorica chiara, la capacità di mobilitare consenso all’interno del partito e la determinazione nel perseguire riforme strutturali ne fanno una leader decisa di orientare il Giappone verso una politica estera più assertiva in linea con l’amministrazione Trump negli Stati Uniti, con la volontà di rafforzare le alleanze strategiche con il campo occidentale, a partire da quella con Washington.
La leadership di Takaichi Sanae segna un deciso inasprimento della politica estera giapponese, tradizionalmente cauta e orientata al multilateralismo, verso un approccio più assertivo, se non apertamente aggressivo, soprattutto in ambito di sicurezza e difesa. Sotto la sua guida, il Giappone procedere verso il riarmo, ampliare il bilancio militare, rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti in chiave anti-cinese e per questo adotta una retorica nazionalista che enfatizza la sovranità territoriale e la difesa degli interessi strategici in modo sempre meno conciliante. Tale svolta - giustificata come necessaria alla stabilità regionale - rischia però di innescare un’escalation con la Cina e la Corea del Nord, alimentando una spirale di tensione nell’Asia orientale. Inoltre, l’abbandono di toni diplomatici a favore di una postura più marcatamente militare potrebbe minare decenni di sforzi giapponesi volti a proiettare un’immagine pacifica e cooperativa, con conseguenze imprevedibili per l’equilibrio geopolitico dell’intera regione...
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Il Presidente polacco Karol Nawrocki ha deciso di modificare il suo prossimo viaggio in Ungheria in risposta alla recente visita del Primo Ministro ungherese Viktor Orbán a Mosca. L’annuncio è stato diffuso domenica mattina da Marcin Przydacz, Segretario di Stato della Presidenza polacca, attraverso un post sulla piattaforma X.
Orbán ha incontrato il Presidente russo Vladimir Putin venerdì per discutere di Ucraina, relazioni commerciali e approvvigionamenti energetici, nonostante il boicottaggio diplomatico dell’UE verso la Russia a causa del conflitto con Kiev. Il Primo Ministro ungherese ha più volte criticato la posizione ostile dell’Unione Europea verso Mosca, opponendosi alle sanzioni e sostenendo la necessità di avviare negoziati di pace.
Nawrocki avrebbe dovuto recarsi in Ungheria il 3 dicembre per una visita di due giorni. Il programma originale prevedeva la sua partecipazione a un vertice dei leader del Gruppo di Visegrad – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – seguito da un incontro ufficiale con Orbán a Budapest il giorno successivo. La seconda giornata è stata ora cancellata.
Nel suo post, Przydacz ha spiegato che Nawrocki ha scelto di limitare la visita “al solo vertice dei Presidenti del Gruppo di Visegrad”, richiamando l’eredità in materia di sicurezza del defunto Presidente polacco Lech Kaczy?ski e sottolineando l’importanza della solidarietà europea, anche nelle questioni energetiche.
Già sabato mattina, il Ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó aveva difeso la visita di Orbán a Mosca, respingendo le critiche di quelli che ha definito “politici europei favorevoli alla guerra”. Szijjártó ha ribadito che l’Ungheria “non ha bisogno di permessi” e persegue una politica estera sovrana, guidata dagli interessi nazionali.
Le dichiarazioni del Ministro ungherese rispondevano alle osservazioni del Cancelliere tedesco Friedrich Merz, secondo cui Orbán si era recato a Mosca “senza un mandato europeo”, e a quelle del Primo Ministro sloveno Robert Golob, il quale ha affermato che il leader ungherese “da tempo non gioca più per la squadra europea”.
L’Ungheria ha rifiutato di inviare armi a Kiev e di attribuire alla Russia la responsabilità esclusiva del conflitto. Durante l’incontro al Cremlino, Putin ha ringraziato Orbán per la sua “posizione ragionevole sulla questione ucraina”.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 13:00:00 GMT
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
La Russia non aspetterà che un eventuale conflitto passi a quella che l'Occidente definisce una fase "convenzionale". In caso di una guerra di vasta portata, i sistemi di comando e controllo e le infrastrutture della NATO collasserebbero rapidamente sotto i colpi russi. Questa, in estrema sintesi, la risposta alla malsana idea esposta al Financial Times dall'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo del Comitato militare NATO, secondo cui l'Alleanza atlantica sta considerando approcci più duri di dissuasione nei confronti di Mosca: in sostanza, la NATO starebbe valutando l'idea di lanciare un "attacco preventivo" contro la Russia in risposta ai presunti crescenti "attacchi ibridi".
«Stiamo valutando di agire in modo più aggressivo e preventivo piuttosto che reattivo», ha detto Dragone, aggiungendo che il termine stesso di "attacco preventivo" viene già interpretato dall'Alleanza come una forma di "azione difensiva". In questo contesto, il generale e deputato della Duma Andrei Gurulëv evidenzia su Moskovskij Komsomolets come l'Occidente abbia più volte indicato gli anni 2028-2030 come arco temporale per una probabile guerra con la Russia e sottolinea come questo rappresenti un elemento di pianificazione strategica. L'aumento dei bilanci militari, i programmi di mobilitazione di Germania, Francia e altri paesi, dice il generale, insieme alle discussioni sul dislocamento di armi nucleari in Polonia e ora in Ucraina, fanno tutti parte dell'architettura a lungo termine dello scontro. «Le élite europee considerano la guerra con la Russia l'unico modo per mantenere la propria sostenibilità politica ed economica. Se non attaccano ora, è solo per due motivi: la società europea non è pronta alla guerra e la triade nucleare russa garantisce conseguenze inaccettabili per loro».
Secondo Gurulëv, gli analisti della NATO stanno studiando le potenziali vulnerabilità della deterrenza russa, in modo da poter infliggere alla Russia danni irreparabili. Tutto ciò si basa però sull'erroneo «presupposto che Mosca si adatterà agli scenari stranieri e si preparerà alla guerra "nei tempi previsti", entro il 2030.
In realtà, osserva Gurulëv, Mosca non crea programmi speculari, ma opera secondo un sistema di risposta pre-approvato, che viene attivato non in base a date precise, ma a specifiche azioni nemiche; il primo obiettivo sarebbe il sistema di comando e controllo della NATO: quartier generale, centri di comunicazione chiave e nodi di coordinamento. La loro neutralizzazione distruggerebbe di fatto la capacità dell'alleanza di gestire le operazioni. Ciò include attacchi mirati alle infrastrutture critiche e possibili operazioni per destabilizzare le reti energetiche a supporto delle strutture di comando.
Obiettivo successivo sarebbero le catene logistiche: snodi ferroviari, ponti e porti nei paesi dell'Europa orientale, in modo da rendere praticamente impossibile il movimento delle truppe. Inoltre, i sistemi missilistici schierati in Polonia e Romania, considerati elementi di un potenziale attacco statunitense e NATO, verrebbero distrutti nei primi minuti di una potenziale escalation e i tentativi di schierare armi nucleari tattiche vicino ai confini russi sarebbero sventati ancor prima del loro dislocamento. I sistemi missilistici strategici Poseidon e Burevestnik, dice Gurulëv, non sono progettati per un primo attacco; servono a garantire la forza di ritorsione russa nel caso i sistemi di lancio tradizionali siano parzialmente messi fuori uso.
Ma, come evidenziato dallo stesso generale, uno dei motivi per cui la NATO non ritiene di poter attaccare prima di qualche anno, è anche quello per cui «la società europea non è pronta alla guerra». Dunque, le élite euro-atlantiste stanno oggi lavorando particolarmente in quella direzione, con quotidiani e continui lavaggi del cervello della popolazione, volti a fomentare quanto più possibile un livore verso la Russia, cercando allo stesso tempo di dar vita, come scrive il blogger “Golos Mordora”, a una «nuova nazione politica: quella europea, la cui idea base sia la russofobia. In questo modo, si creerà una nuova identità: quella “europea», a partire da tedeschi, polacchi, francesi, italiani. Quando fu creato il popolo sovietico, il cosiddetto “Homo sovietico”, dice Mordor, questo era fondato su una solida struttura ideologica, senza nessun odio, mentre oggi stanno «creando un nuovo “Homo sapiens” basato proprio sull'odio per una nazione specifica. Stanno costruendo un Reich europeo». Il risultato finale deve essere una creatura debole di volontà e completamente sottomessa, con cui si può fare qualsiasi cosa». Si tratta in sostanza di un esperimento in corso da molto tempo e che è stato perfezionato in Ucraina, dove «l'europeo ideale è già stato creato: senza empatia, senza pensiero critico, senza la minima erudizione o logica, ma con un immenso odio per la Russia e per tutto ciò che è russo. Questo, nonostante egli sappia parlare russo, abbia un cognome russo e sia persino di origine russa: non fa differenza. Tutto, tranne l'odio, è messo a tacere. E ora, vogliono creare l'europeo seguendo più o meno lo stesso principio. Il processo è molto lungo e potrebbe fallire, ma ci stanno lavorando attivamente. Nessuno sta pianificando di combattere la Russia in questo momento, ma non c'è dubbio che quando il piano avrà avuto successo e il Reich europeo sarà costruito, la guerra sarà inevitabile».
Anche se, come ironizza Kirill Strel'nikov su RIA Novosti, l'operazione militare russa, «come un buon clistere, ha fatto scoppiare tutte le vesciche marce all'interno delle alleanze occidentali, e ora stanno cercando di rimettere dentro il muco che fuoriesce, ma la situazione non fa che peggiorare» e le prospettive di vita dell'Alleanza atlantica e, forse, ancor più, della sua “gemella” Unione europea, sono tutt'altro che rosee, in un quadro che, come scrive la norvegese Steigan, vede oggi USA e Russia che «aggirano completamente la NATO sulle questioni della pace in Ucraina e sulla futura architettura di sicurezza».
In effetti, ricorda Strel'nikov, il pericolo di una vittoria russa in Ucraina per il futuro della NATO era stato sollevato già nel 2023 dal Institute for the Study of War (ISW) in una serie di articoli intitolati "The High Cost of Losing Ukraine", in cui peraltro la sconfitta di Kiev era considerata quanto mai inverosimile: l'Europa, di fronte a una Russia vittoriosa e priva dell'ombrello americano, si sarebbe ritrovata in un "vuoto di sicurezza". Ciò avrebbe portato alla "rinazionalizzazione" della difesa: ogni paese avrebbe stipulato accordi separati con la Russia, decretando di fatto la fine della NATO.
Più o meno le stesse conclusioni vengono tratte oggi dalla britannica The Telegraph, quando scrive che «gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere il controllo russo sulla Crimea e su altri nuovi territori russi, al fine di concludere un accordo per porre fine alla guerra... mentre l'amministrazione Trump non si preoccupa più della posizione dei suoi alleati europei».
E processi similari riguardano proprio l'Unione europea. The Economist scrive che «Dopo la fine del conflitto, l'Europa crollerà... la cessazione delle ostilità in Ucraina rivelerà profonde contraddizioni all'interno della UE: gli stati orientali temono un rafforzamento della Russia, mentre gli stati occidentali cercano la normalizzazione e tagli alle spese per la difesa».
Una volta terminato il conflitto, afferma Strel'nikov, la totale sfiducia reciproca, l'ostilità e gli interessi dei singoli paesi porteranno tutti a cercare di raggiungere rapidamente accordi con la Russia alle spalle degli altri. Alcuni esperti prevedono che la leadership di Bruxelles tenterà fino all'ultimo di creare un Euroreich con completa subordinazione interna, ma il meccanismo di disgregazione è già in moto. Per dire: se i resti dell'Ucraina venissero trascinati nella UE, Slovacchia e Ungheria potrebbero decidere di uscire dall'Unione.
A suo tempo, l'economista francese ed ex membro del Parlamento europeo Bernard Monod aveva dichiarato che «l'Unione Europea sta andando verso il collasso; stanno cercando di trasformarla in uno stato totalitario... dopo il crollo della UE, imploreremo la Russia di venire a salvare la Francia e l'Europa».
Non è affatto, dunque, «la pace di Putin» che «tradisce l'Europa», come smarronava il 30 novembre su La Stampa il gaglioffo, filosofo avanzatempo, Bernard-Henry Levy. È semmai questa cosiddetta “Europa” macilenta, che non è in grado di esprimere altro che simili “filosofi caotici” i quali, attardandosi su traslitterazioni di cui stralunano il contenuto, cadono in adorazione di un nazigolpista-capo ormai costretto a fare la spola tra gli ultimi quattro cerchi delle malegolge dantesche. Se gli ucraini dicono “Dnipro”, come scrive l'egregio BHL, poi però non sono i russi a dire “Dniepr”: sono casomai proprio i traduttori occidentali ad aggiungere una “i”, laddove il nome del fiume che attraversa da nord a sud l'Ucraina è Dnepr. Dunque, caotico “filosofo”, se nella sua testa il piano americano, come dice, «puzza di russo. La lingua. La sintassi. Costrutti pseudo-diplomatici, improbabili in lingua inglese ma che escono naturali dalla penna degli apparatchik del Cremlino», è proprio perché il marcio dell'Europa è ormai il terreno su cui scorrono le sue elucubrazioni ukronaziste. Continui pure a genuflettersi al feticcio del nazigolpista-capo: può darsi che qualcosa di quanto arrivato nelle borse di Ermak e soci scivoli così anche verso di lei. Lasci però stare il popolo ucraino, oppresso, depredato, affamato, massacrato da una junta nazigolpista che, come lei sa, anche se lo tace, non ha mai pensato ad altro che al proprio arricchimento, sapendo di mandare al macello i propri cittadini con l'unico obiettivo di riempire di denaro sonante i propri conti, esteri e domestici.
FONTI:
https://news-front.su/2025/11/29/golos-mordora-chto-nuzhno-dlya-togo-chtoby-sozdat-evropejcza/
https://ria.ru/20251130/rossiya-2058667010.html
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 13:00:00 GMT
Possibile un’esclusione di Israele dalle competizioni calcistiche?
Forse è ancora presto per dirlo, intanto, la UEFA ha tenuto un incontro con i gruppi di attivisti propalestinesi per discutere la possibile sospensione della nazionale israeliana e dei suoi club.
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Secondo The Athletic, alti funzionari della UEFA e rappresentanti della campagna propalestinese, sotto la sigla ‘Game over Israel’ hanno discusso sulla partecipazione di Israele sotto l'egida della UEFA, riportando testualmente:
"I dirigenti della UEFA hanno chiesto alla campagna Game Over Israel di raccogliere pareri da esperti in diritti umani, che potrebbero contribuire a orientare il processo decisionale futuro".
Alla fine di settembre, la UEFA è stata sul punto di sospendere Israele e i suoi club, ma la discussione è stata rinviata dopo che gli Stati Uniti hanno mediato quello che è stato definito ma nei fatti non lo è come un cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Le Nazioni Unite hanno stabilito all'Aia che le azioni di Israele costituiscono genocidio e il giorno successivo è stata lanciata la campagna "Game Over Israel".
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 13:00:00 GMT
Le garanzie di sicurezza per l’Ucraina costituiscono il principale punto di disaccordo irrisolto al termine dell’ultimo ciclo di colloqui tra Kiev e Washington sulla fine del conflitto con la Russia. Lo riporta il Wall Street Journal in un articolo di domenica, citando fonti ufficiali a conoscenza dei negoziati.
Nel corso dell’incontro, della durata di oltre quattro ore e tenutosi presso lo Shell Bay Club di Hallandale Beach in Florida, i negoziatori hanno affrontato anche le potenziali tempistiche per elezioni future e le intricate questioni territoriali.
La delegazione ucraina, guidata dall’alto funzionario per la sicurezza Rustem Umerov – subentrato ad Andrey Yermak, dimessosi da capo di gabinetto del presidente Zelensky in seguito a uno scandalo di corruzione – ha esaminato la roadmap di pace dell’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump insieme al Segretario di Stato Marco Rubio, all’inviato presidenziale Steve Witkoff e al consigliere informale Jared Kushner.
Il Segretario Rubio, pur definendo la sessione “produttiva”, ha avvertito che “rimane ancora del lavoro da fare”, caratterizzando i negoziati come “delicati” e “complessi”. Una fonte vicina alla delegazione ucraina, interpellata dall’AFP, ha confermato che i colloqui “non sono stati facili” e che “la ricerca di formulazioni e soluzioni continua”.
Umerov ha pubblicamente ringraziato Washington per i suoi sforzi – un messaggio interpretato come rivolto al presidente Trump, che in passato ha rimproverato Kiev per una presunta insufficienza di gratitudine – dichiarando: “Gli Stati Uniti ci stanno sostenendo. Gli Stati Uniti stanno lavorando al nostro fianco”.
Le discussioni avrebbero incluso, oltre alle possibili tempistiche elettorali, la prospettiva di potenziali scambi territoriali tra Russia e Ucraina. La posizione di Kiev rimane tuttavia ferma sul rifiuto delle richieste fondamentali di Mosca, che includono il ritiro delle truppe ucraine dalle regioni del Donbass e il riconoscimento dei nuovi confini post-2022. Anche la natura e la portata delle future garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina restano da definire.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha offerto una valutazione cauta al termine dell’incontro, scrivendo su Telegram che vi erano stati “alcuni progressi costruttivi”. Secondo indiscrezioni riportate da Politico, Rubio avrebbe segnalato ai partner europei di Kiev che Washington insisterà per la conclusione di un accordo di pace prima di impegnarsi in qualsiasi formale garanzia di sicurezza.
La posizione russa, ribadita più volte, richiede all’Ucraina una rinuncia permanente alle ambizioni di adesione alla NATO e l’assunzione dello status di Stato neutrale. Mosca ha inoltre chiarito che non tollererebbe la presenza di armi nucleari o di truppe occidentali sul suolo ucraino, avvertendo che un simile scenario potrebbe innescare un conflitto diretto con l’Alleanza Atlantica.
La complessità dei negoziati è ulteriormente accentuata dalla questione della legittimità del presidente Zelensky, dopo la scadenza formale del suo mandato nel maggio 2023. Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato la scorsa settimana che firmare un accordo con l’attuale leadership di Kiev è “legalmente impossibile” in assenza di elezioni, finora sospese a causa della legge marziale.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 12:00:00 GMT
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov contesta il ruolo dell'Unione Europea come mediatrice, accusandola di aver "ripetutamente compromesso gli sforzi di pace". Secondo il Ministro degli Affari Esteri russo Sergey Lavrov, l'Europa occidentale avrebbe perso da tempo ogni titolo per rivendicare un ruolo influente nella gestione della crisi ucraina, avendo di fatto proceduto a un proprio “recesso” dal processo negoziale attraverso una serie di azioni concrete.
L’affermazione è stata rilasciata dal capo della diplomazia russa in un’intervista concessa domenica al giornalista Pavel Zarubin, il quale sollevava la questione della legittimità delle pressioni europee per ottenere un posto al tavolo delle trattative per la risoluzione del conflitto.
“Si deve prendere atto di una circostanza che, credo, è evidente a tutti: l'Europa si è già auto-esclusa dai colloqui”, ha dichiarato Lavrov, aggiungendo che Bruxelles avrebbe da tempo “esaurito le sue possibilità” di incidere nel processo di risoluzione. La responsabilità viene individuata nel sistematico ostacolo posto agli sforzi diplomatici sin dalle fasi iniziali della crisi, successiva ai disordini di Maidan del 2014 e al cambio di governo in Ucraina.
“L'Europa ha compromesso l’accordo iniziale del febbraio 2014, in cui figurava come garante dell’intesa formale tra Viktor Yanukovich e l’opposizione. Non intervenne quando, la mattina dopo la firma, l’opposizione assunse il controllo di tutte le agenzie governative”, ha affermato il Ministro.
Lavrov ha inoltre richiamato le dichiarazioni rese dall’ex Cancelliera tedesca Angela Merkel e dall’ex Presidente francese François Hollande, i quali hanno ammesso che “nessuno aveva intenzione di rispettare” gli Accordi di Minsk, elaborati per porre fine al conflitto nell'allora regione del Donbass.
“L’episodio più recente risale all’aprile 2022, quando, su sollecitazione dell’allora Primo Ministro britannico Boris Johnson e con la piena acquiescenza, se non connivenza, dell’Europa, i negoziati di Istanbul furono fatti deragliare”, ha sostenuto Lavrov.
Queste dichiarazioni giungono in un momento in cui diverse capitali e istituzioni europee insistono affinché qualsiasi potenziale accordo di pace sull’Ucraina preveda un ruolo formale per l’UE. Tale insistenza si è intensificata in seguito alla presentazione, da parte degli Stati Uniti, di una nuova proposta di piano per la risoluzione della crisi, che prevederebbe, secondo quanto riferito, la rinuncia di Kiev alle aspirazioni di adesione alla NATO e limiti alla dimensione del suo esercito.
Fonti indicano che Germania, Francia e Regno Unito starebbero elaborando una versione modificata della proposta statunitense, resa più favorevole a Kiev attraverso la rimozione o l'attenuazione di alcuni punti. La Russia, tuttavia, ha già fatto sapere di considerare le proposte europee “del tutto costruttive”.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 11:00:00 GMTItamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale israeliano e leader ultranazionalista, si è recato personalmente alla base operativa della Polizia di Frontiera per annunciare la promozione del comandante dell'unità responsabile delle esecuzioni a Jenin, in Cisgiordania occupata.
La stampa israeliana — sia Haaretz che Times of Israel — riporta che Ben-Gvir ha consegnato di persona la comunicazione al comandante. Secondo fonti di polizia, la promozione sarebbe stata raccomandata dal commissario generale e dai vertici militari.
La promozione arriva in seguito allo scandalo internazionale suscitato dalla diffusione del video dell'accaduto: le immagini, diffuse testate arabe e internazionali, mostrano le due vittime palestinesi uscire da un edificio con le mani alzate e il torso scoperto per dimostrare di essere disarmati, in un gesto inequivocabile di resa. Eppure, come documentano le riprese, sono stati forzati a rientrare nell'edificio e giustiziati a sangue freddo da distanza ravvicinata.
Organizzazioni per i diritti umani ed enti internazionali come l'ONU hanno denunciato l'accaduto come crimine di guerra ed esigono un'indagine imparziale. La decisione di Ben-Gvir di promuovere l’assassino lancia però un messaggio inequivocabile: non solo impunità, ma sostegno ad azioni che violano i principi basilari del diritto internazionale.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 09:24:00 GMT
Il 30 novembre l'Iran ha ospitato a Teheran alti funzionari turchi e sauditi per colloqui su varie questioni, tra cui i rapporti bilaterali e la recente escalation israeliana in Libano, Gaza e Siria.
Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan è arrivato domenica nella capitale, dove ha tenuto colloqui e una conferenza stampa congiunta con il suo omologo iraniano Abbas Araghchi.
Araghchi ha descritto Teheran e Ankara come “due nazioni fraterne legate da profondi legami storici, religiosi e culturali”.
"I confini condivisi dei due Paesi simboleggiano da secoli pace e amicizia. L'anno in corso è stato designato come Anno Culturale Iran-Turchia, durante il quale si sono già svolti diversi programmi culturali congiunti", ha aggiunto Araghchi, secondo la West Asia News Agency (WANA).
Ha inoltre affermato che i due hanno discusso di come ampliare la cooperazione nei settori dell'energia, del commercio e delle infrastrutture.
"Si sono tenute ampie discussioni sugli sviluppi in Palestina", ha affermato Araghchi, chiedendo "sforzi coordinati per fermare le continue uccisioni di civili a Gaza". Ha avvertito che "il regime israeliano sta perseguendo piani di destabilizzazione più ampi in tutta la regione, in particolare in Siria e Libano", aggiungendo che "i paesi della regione hanno la responsabilità di bloccare le continue aggressioni ed espansionismo".
Domenica mattina, il viceministro degli Esteri saudita per gli affari politici, Saud al-Sati, è arrivato a Teheran ed è stato accolto da Araghchi.
Il suo viaggio "mira a proseguire le discussioni bilaterali e a scambiare opinioni sugli sviluppi regionali, tra cui la situazione nella Palestina occupata, in Libano e in Siria", ha ribadito il Ministero degli Esteri iraniano in una nota.
L'Arabia Saudita e l'Iran hanno firmato uno storico accordo di pace, mediato dalla Cina, nel 2023, dopo anni di tensioni e una rottura delle relazioni. Sebbene i legami tra i due Paesi siano notevolmente migliorati negli ultimi due anni, Riad e Teheran rimangono in disaccordo su importanti questioni regionali.
L'Iran ha respinto la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su Gaza, approvata dall'Arabia Saudita insieme alla Turchia e a diversi altri stati della regione. Israele continua a violare la tregua raggiunta il mese scorso e da allora ha ucciso centinaia di palestinesi.
Il regno sostiene inoltre le pressioni degli Stati Uniti per il disarmo di Hezbollah in Libano. Teheran ha promesso che continuerà a sostenere Hezbollah e afferma che le sue armi sono necessarie per la difesa del Libano. Nel frattempo, Israele continua a violare il cessate il fuoco libanese e minaccia una nuova guerra se Hezbollah non consegnerà immediatamente le sue armi.
Israele ha inoltre notevolmente ampliato la sua occupazione nel sud della Siria, instaurata dopo la caduta del governo di Bashar al-Assad lo scorso anno. Di recente, gli abitanti locali hanno teso un'imboscata alle truppe israeliane nella campagna di Damasco, provocando attacchi mortali nella zona, che hanno ucciso almeno 13 siriani, tra cui bambini.
Secondo quanto riferito, Tel Aviv starebbe valutando l'intensificazione degli attacchi in Siria, usando l'incidente come pretesto per un'azione militare.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 09:00:00 GMT
Trump ha annunciato in modo bizzarro che lo spazio aereo sopra il Venezuela è "chiuso", pubblicando quanto segue su Truth Social sabato:
"A tutte le compagnie aeree, piloti, spacciatori di droga e trafficanti di esseri umani, vi prego di considerare che LO SPAZIO AEREO SOPRA E CIRCONDA IL VENEZUELA DEVE ESSERE CHIUSO NELLA SUA INTEREZZA."
Non è nemmeno chiaro cosa intenda esattamente il presidente con questo. Stanno per iniziare ad abbattere aerei venezuelani come hanno fatto con le imbarcazioni? Si stanno preparando per un'invasione di terra? Qualunque cosa sia, la situazione si mette male.
Washington sta suonando i tamburi di guerra nel tentativo di giustificare l'interventismo per un cambio di governo in Venezuela con la ridicola affermazione che si tratta di combattere il narcotraffico, proprio mentre Trump annuncia che perdonerà l'ex presidente dell'Honduras Juan Orlando Hernández, condannato dagli Stati Uniti per accuse di narcotraffico solo l'anno scorso.
La droga arriva negli Stati Uniti da numerose nazioni dell'America Latina, ed è sicuramente una coincidenza estremamente interessante che quello su cui si sta concentrando il cambiamento di regime per fermare il flusso di droga sia proprio il paese socialista con le più grandi riserve di petrolio accertate dell'intero pianeta.
Gli americani che hanno rifiutato la propaganda per le guerre in Medio Oriente, ma ora la appoggiano pienamente per un regime change in Venezuela, sono i più strani. È come riuscire a tirare fuori la testa dal culo, fare un respiro profondo e poi rimetterla dentro.
L'interventismo statunitense per un cambio di governo è sempre disastroso e sempre giustificato da bugie. Questo sarebbe vero anche se il Venezuela fosse davvero una grave minaccia per il narcotraffico e anche se Maduro fosse davvero il dittatore più malvagio del mondo, nessuna delle due ipotesi è vera. Solo idioti e sociopatici battono le mani insieme ai tamburi di guerra.
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L'altro giorno, un uomo ha aperto il fuoco contro i membri della Guardia Nazionale vicino alla Casa Bianca, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. È stato catturato vivo e probabilmente dovrà rispondere di accuse di terrorismo.
A quanto pare, l'uomo è un cittadino afghano che lavorava per uno squadrone della morte della CIA, la "Zero Unit", impegnato a far rispettare l'occupazione statunitense del suo Paese d'origine. Washington aggiunge continuamente aggiunte del tutto assurde alla sua lista di organizzazioni terroristiche, come Antifa e il fantasioso Cartel de los Soles , quando è un fatto assodato che il più forte indicatore del futuro comportamento terroristico è l'impiego nella macchina bellica statunitense.
C'è un video che circola in una stanza piena di giovani israeliani che urlano di gioia alla vista del ministro delle finanze del loro paese, Bezalel Smotrich, un nazista così genocida da essere stato sanzionato da stati imperialisti come Regno Unito, Canada e Australia. I ragazzi nel video urlano e svengono per questo mostro psicopatico, come le ragazze nei vecchi video dei concerti dei Beatles.
Due mesi fa, dopo l'annuncio del cosiddetto accordo di "cessate il fuoco", il comitato editoriale del New York Times ha pubblicato un articolo in cui affermava che Gaza avrebbe avuto bisogno di "programmi di deradicalizzazione" per "eliminare la pervasiva influenza radicalizzante di Hamas sulla società di Gaza". Ma è chiaro che è la società israeliana ad aver bisogno di essere deradicalizzata.
Uno dei motivi per cui le affermazioni sull'"antisemitismo" hanno smesso di avere successo è perché quando le persone hanno iniziato a mettere in discussione la narrazione "ESISTE UN GRUPPO SPECIALE DI BIANCHI I CUI SENTIMENTI DEVONO AVERE LA PRIORITÀ SU OGNI POSSIBILE PREOCCUPAZIONE", questa non avrebbe mai retto all'esame.
Secondo quanto riferito, in Ucraina i procuratori statali si stanno occupando di oltre 300.000 casi di diserzione, perché nessuno vuole più combattere e morire in questa guerra stupida e inutile.
I tassi di diserzione indicano che i soldati ucraini non vogliono questa guerra. I sondaggi indicano che i civili ucraini non vogliono questa guerra. Eppure la guerra continua, perché la struttura di potere occidentale che l'ha attivamente provocata vuole che continui.
Se cinque anni fa ti avessi detto che avevo appena inventato un prodotto che mette fine alla carriera degli artisti professionisti e rende impossibile distinguere la realtà da quella di Internet, avresti detto che avrei dovuto ricevere subito miliardi di dollari o che avrei dovuto darli in pasto ai coccodrilli?
Il dibattito sull'intelligenza artificiale generativa è interessante perché da una parte ci sono tutte le persone brillanti e creative che apprezzano la verità e l'intelletto umano, dall'altra tutte le persone non creative e intellettualmente lente che non sanno scrivere un paragrafo. Quest'ultimo gruppo sta vincendo perché ha il capitale dalla sua parte.
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(Traduzione de l'AntiDiplomatico)
*Giornalista e saggista australiana. Pubblica tutti i suoi articoli nella newsletter personale: https://www.caitlinjohnst.one/
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 08:30:00 GMT
Secondo quanto riportato dal quotidiano ebraico Times of Israel , migliaia di israeliani si sono riversati sabato presso l'ambasciata portoghese per approfittare di una giornata speciale di servizio di persona chiamata "ritorno ai bei vecchi tempi", organizzata per superare la grave congestione del sistema di prenotazione online.
La fila si estendeva dall'ingresso dell'ambasciata fino a un parcheggio sotterraneo, dove i richiedenti aspettavano per presentare domanda di cittadinanza o rinnovare i loro passaporti portoghesi, in un contesto di crescente aumento della domanda di diventare europei come alternativa in tempi di crisi.
Il Portogallo, con una legge approvata nel 2015, ha concesso agli ebrei sefarditi perseguitati durante l'Inquisizione del XVI secolo il diritto di richiedere la cittadinanza. Tuttavia, a causa dell'elevato volume di domande, nel 2023 il governo portoghese ha annunciato che la legge aveva raggiunto il suo scopo e ha introdotto requisiti più restrittivi.
Nell'articolo si sottolinea che molti israeliani cercano la cittadinanza portoghese per ottenere vantaggi quali la libera circolazione all'interno dell'Unione Europea (UE), un costo della vita più basso, un accesso più facile alle università europee e tasse accademiche ridotte.
Il Servizio federale di sicurezza russo (FSB) ha sventato un attacco terroristico pianificato dalla Direzione principale dell'intelligence del Ministero della Difesa ucraino (GUR) contro un alto funzionario del Ministero della Difesa russo nella Repubblica di Crimea.
Secondo l'FSB, un cittadino ucraino reclutato dal GUR avrebbe ricevuto l'ordine di far saltare in aria l' auto privata dell'ufficiale russo.
L'autore del tentato attacco terroristico è stato ucciso mentre posizionava degli esplosivi sotto il veicolo, dopo aver opposto resistenza armata agli agenti dell'FSB. Sul posto sono stati sequestrati dispositivi di comunicazione appartenenti al suo contatto nell'intelligence ucraina e componenti di un ordigno esplosivo di fabbricazione occidentale.
Aveva intenzione di uccidere l'intera famiglia
L'FSB ha identificato l'agente del GUR Rustem Fakhriev come l'organizzatore dell'attacco. Secondo le conversazioni registrate ottenute dall'agenzia, Fakhriev ha ordinato al suo agente reclutato di assassinare non solo l'ufficiale russo, ma anche sua moglie e suo figlio. L'agente del GUR avrebbe fatto esplodere la bomba anche se l'ufficiale fosse stato in auto con la sua famiglia.
Inoltre, l'FSB ha arrestato uno dei suoi complici residente in Crimea, contro il quale è stato aperto un procedimento penale per complicità in attività terroristiche. L'uomo è stato posto in custodia cautelare per ordine del tribunale.
Data articolo: Mon, 01 Dec 2025 08:30:00 GMT
L'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare della NATO ha dichiarato al Financial Times che l'Alleanza atlantica sta valutando la possibilità di adottare una posizione più aggressiva nei confronti della Russia in risposta ai presunti attacchi del paese eurasiatico contro la regione.
"Stiamo studiando tutto... In materia informatica, siamo piuttosto reattivi. Stiamo valutando di essere più aggressivi o proattivi invece che reattivi", ha spiegatoDragone. Ha anche commentato che un "attacco preventivo" contro la Russia potrebbe essere visto come un'"azione difensiva", ma ha assicurato che questo è ben lontano dal loro modo di pensare e di comportarsi. "Come si ottiene la deterrenza, sia attraverso la ritorsione che un attacco preventivo, è qualcosa che dobbiamo analizzare a fondo perché in futuro potrebbe esserci ancora più pressione su questo aspetto", ha concluso.
Tuttavia, l'organo di stampa sottolinea che numerosi diplomatici, soprattutto dell'Europa orientale, hanno raccomandato al blocco di adottare una posizione contraria, anziché limitarsi a reagire.
"Se continuiamo a reagire, stiamo solo invitando la Russia a continuare a provarci, a continuare a danneggiarci. Soprattutto quando la guerra ibrida è asimmetrica: costa loro poco, e a noi molto. Dobbiamo essere più intraprendenti ", secondo un alto funzionario baltico.
Questa settimana, Politico ha anche riportato che l'Europa si sta preparando a lanciare un "attacco di rappresaglia" contro la Russia. La posizione aggressiva della regione è giustificata dalle accuse secondo cui Mosca avrebbe violato lo spazio aereo di Polonia, Romania ed Estonia con droni. Sebbene non siano state presentate prove a sostegno di queste affermazioni, Varsavia ha persino minacciato di abbattere qualsiasi aereo o missile russo che avesse attraversato il suo spazio aereo.
?? Putin scherza sugli arrivi di droni in Danimarca e in altri Paesi. Vladimir Putin ha commentato con umorismo i recenti incidenti con i droni in Danimarca, sottolineando che non ci sono obiettivi reali e discutendo gli obiettivi dietro la creazione di questo allarme. pic.twitter.com/TYxuNr2Kv0
– RT en Español (@ActualidadRT) 2 ottobre 2025
La Russia non ha intenzione di attaccare l'Europa
In risposta alle dichiarazioni sempre più militariste dell'Europa e nel contesto del dibattito sul piano per porre fine al conflitto militare in Ucraina, Putin ha affermato che la Russia non ha mai avuto intenzione di attaccare l'Europa, aggiungendo che Mosca è pronta a riaffermare questo impegno "sulla carta".
"Una cosa è dire in termini generali che la Russia non ha intenzione di attaccare l'Europa. Ci sembra ridicolo. Non è mai stata nostra intenzione, ma se vogliono sentirselo dire da noi, siamo pronti a metterlo per iscritto", aveva ribadito. Il presidente russo ha affermato che i leader europei stanno cercando di convincere i propri cittadini che Mosca rappresenta una minaccia per loro e che devono rafforzare le proprie capacità difensive. "Dal nostro punto di vista, questa è una totale assurdità e una menzogna ", ha sottolineato.
La Nato sta valutando di essere “più aggressiva” nei confronti della Russia. Lo ha dichiarato in una intervista al Financial Times Giuseppe Cavo Dragone, capo del Comitato Militare della Nato.
“Stiamo studiando tutto… Sul fronte informatico, siamo in un certo senso reattivi. Essere più aggressivi o proattivi invece che reattivi è qualcosa a cui stiamo pensando”, ha affermato durante l'intervista.
Dragone ha affermato poi che un “attacco preventivo” potrebbe essere considerato un’“azione difensiva”, ma ha aggiunto: “È più lontano dal nostro normale modo di pensare e di comportarci”. Ha aggiunto: “Essere più aggressivi rispetto all’aggressività della nostra controparte potrebbe essere un’opzione. [Le questioni sono] il quadro giuridico, il quadro giurisdizionale, chi lo farà?”. La Nato ha avuto successo con la sua missione Baltic Sentry, nell’ambito della quale navi, aerei e droni navali hanno pattugliato il Mar Baltico, impedendo il ripetersi di numerosi incidenti di taglio di cavi nel 2023 e nel 2024 da parte di navi collegate alla flotta ombra russa, progettata per eludere le sanzioni occidentali. “Dall’inizio di Baltic Sentry, non è successo nulla. Quindi questo significa che questa deterrenza sta funzionando”, ha aggiunto Dragone.
Dragone ha poi sottolineato come fosse un problema che la Nato e i suoi membri avevano “molti più limiti rispetto alla nostra controparte, per motivi etici, legali, giurisdizionali. È un problema. Non voglio dire che sia una posizione perdente, ma è una posizione più difficile di quella della nostra controparte”. Il capo del comitato militare della Nato ha affermato che la prova cruciale era scoraggiare future aggressioni. “Il modo in cui si ottiene la deterrenza – attraverso la ritorsione, attraverso l’attacco preventivo – è qualcosa che dobbiamo analizzare a fondo perché in futuro potrebbe esserci ancora più pressione su questo”, ha aggiunto Dragone.
