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Nativi
La Battaglia per la restituzione dei Tesori Sacri Nativi: il Vaticano e papa Leone XIV

 

Negli ultimi anni, le comunità indigene del Nord America, in particolare quelle rappresentate da organizzazioni come la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN), hanno intensificato le richieste per la restituzione di manufatti, regalia, tesori sacri e oggetti cerimoniali custoditi nei musei e nelle collezioni del Vaticano. Questi oggetti, che includono piume sacre, pipe cerimoniali, vesti tradizionali e altri elementi di profonda importanza spirituale, sono considerati parte integrante dell’identità culturale e religiosa dei popoli nativi. La loro presenza in istituzioni lontane, spesso acquisita in contesti coloniali, è percepita come una ferita aperta, simbolo di spoliazione culturale. Esploriamo il contesto di queste richieste, gli sviluppi recenti, i progressi compiuti e il ruolo del nuovo papa, Leone XIV, eletto nel 2025, in questa vicenda.

Il Contesto Storico: Una Lunga Storia di Appropriazione

Molti oggetti nativi americani custoditi dal Vaticano, in particolare nei Musei Vaticani e nelle collezioni etnologiche, furono raccolti tra il XVI e il XIX secolo, durante l’espansione coloniale europea e le missioni cattoliche nelle Americhe. Missionari, esploratori e funzionari coloniali spesso acquisivano questi manufatti – a volte tramite donazioni, altre attraverso confische o acquisti in contesti di coercizione – per inviarli in Europa come trofei culturali o come parte di studi etnografici. Per le comunità indigene, tuttavia, questi oggetti non sono semplici “reperti”: sono incarnazioni di spiritualità, storia e identità collettiva. La loro rimozione ha interrotto pratiche cerimoniali e indebolito il legame con le tradizioni ancestrali.

La FSIN, che rappresenta 74 nazioni indigene della Saskatchewan, Canada, insieme ad altre organizzazioni come l’Assembly of First Nations, ha sottolineato che la restituzione non è solo una questione di giustizia storica, ma un passo essenziale per la riconciliazione e la guarigione culturale. Le pipe sacre, ad esempio, sono considerate vive e indispensabili per le cerimonie, mentre le regalia (abbigliamento cerimoniale) incarnano il rapporto con gli antenati e la terra.

Cosa È Successo Finora: Progressi e Ostacoli

Le richieste di restituzione al Vaticano sono emerse con forza negli ultimi decenni, in parallelo al movimento globale per la repatriation di beni culturali indigeni. Alcuni momenti chiave:

Visita di Papa Francesco in Canada (2022): Durante il suo viaggio apostolico, Papa Francesco ha chiesto scusa per il ruolo della Chiesa cattolica nelle scuole residenziali, istituzioni che hanno inferto un colpo terribile alla perdita culturale indigena. In quell’occasione, leader indigeni canadesi hanno sollevato la questione della restituzione di manufatti custoditi dal Vaticano. Sebbene il papa abbia espresso apertura al dialogo, non sono stati presi impegni concreti immediati.

Mostra “Anima Mundi” (2019-2022): I Musei Vaticani hanno esposto oggetti indigeni, inclusi manufatti nativi americani, nella collezione etnologica “Anima Mundi”. La mostra, pur celebrando la diversità culturale, ha riacceso il dibattito sulla legittimità della custodia di questi oggetti. Leader indigeni hanno chiesto che tali esposizioni fossero accompagnate da discussioni sulla restituzione, ma il Vaticano ha risposto sottolineando il ruolo dei musei come “custodi universali” del patrimonio culturale.

Pressioni politiche: Nel 2024, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha pubblicamente esortato il Vaticano a restituire gli oggetti indigeni, rafforzando le richieste delle comunità native. Questo appello ha dato visibilità internazionale alla causa, ma non ha prodotto risultati concreti prima della fine del pontificato di Francesco.

Casi di restituzione parziale: Sebbene non specifici ai Nativi Americani, il Vaticano ha compiuto gesti simbolici in passato. Ad esempio, nel 2023, ha restituito frammenti dei Marmi del Partenone alla Grecia e ha avviato dialoghi con altre nazioni per la restituzione di beni coloniali. Questi precedenti hanno alimentato le speranze delle comunità indigene, ma anche la frustrazione per la lentezza del processo.

Nonostante questi sviluppi, il Vaticano ha finora adottato un approccio cauto, citando la complessità legale e logistica della restituzione, oltre alla necessità di bilanciare il ruolo dei Musei Vaticani come istituzioni di conservazione globale. Le comunità indigene, tuttavia, sostengono che la custodia di oggetti sacri in contesti non cerimoniali viola i loro diritti spirituali e culturali.

Il Ruolo del Nuovo Papa Leone XIV

Con l’elezione di Papa Leone XIV nel 2025, le aspettative delle comunità indigene si sono rinnovate. Subito dopo la sua nomina, la FSIN e altri leader indigeni canadesi hanno rivolto un appello diretto al nuovo pontefice, chiedendo la restituzione di migliaia di manufatti sacri, tra cui pipe cerimoniali, vesti tradizionali e altri oggetti culturali custoditi nei musei e archivi vaticani. Questi appelli, espressi attraverso comunicati stampa, lettere aperte e piattaforme social, sottolineano che la riconciliazione richiede azioni concrete oltre le scuse, come la repatriation del patrimonio culturale.

Ad esempio, il 15 maggio 2025, la FSIN ha dichiarato pubblicamente:

“Chiediamo a Papa Leone XIV di restituire gli oggetti sacri rubati alle nostre nazioni, per onorare il cammino verso la verità e la riconciliazione.” Leader indigeni hanno evidenziato che molti di questi manufatti, come le pipe sacre, sono essenziali per cerimonie ancora praticate, e la loro assenza rappresenta una perdita spirituale continua.

Finora, non ci sono indicazioni pubbliche di una risposta diretta di Papa Leone XIV a queste richieste, né di incontri formali con rappresentanti indigeni. Tuttavia, il suo pontificato è ancora agli inizi, e la pressione internazionale, amplificata da media e organizzazioni come il COMACH (Council for Museum Anthropology), potrebbe spingerlo a prendere una posizione.

Alcuni osservatori suggeriscono che Leone XIV, consapevole del crescente movimento per la decolonizzazione dei musei, potrebbe considerare gesti simbolici di restituzione come parte della sua agenda pastorale, ma ciò dipenderà dalla volontà del Vaticano di affrontare le complessità burocratiche e politiche interne.

Prospettive e Sfide Future

Le richieste di restituzione si inseriscono in un movimento globale più ampio, che vede musei in Europa e Nord America confrontarsi con il loro passato coloniale.

Tuttavia, il caso del Vaticano presenta sfide uniche:

Natura degli oggetti: Molti manufatti nativi americani non sono semplici opere d’arte, ma oggetti vivi con un ruolo attivo nelle cerimonie. La loro esposizione in musei è vista come una profanazione da alcune comunità.

Inventario e provenienza: Il Vaticano non ha reso pubblico un catalogo completo dei manufatti indigeni in suo possesso, complicando le richieste specifiche di restituzione. La FSIN e altre organizzazioni hanno chiesto trasparenza su questi inventari.

Precedenti legali: A differenza di restituzioni tra stati (es. i Bronzi del Benin), gli oggetti indigeni coinvolgono comunità non statali, richiedendo un quadro giuridico innovativo.

Resistenze interne: Alcuni funzionari vaticani potrebbero opporsi alla restituzione, temendo che apra la porta a richieste simili da altre culture.

Dall’altro lato, ci sono segnali positivi. Il dialogo avviato durante il pontificato di Francesco, unito alla crescente consapevolezza globale sui diritti indigeni, potrebbe favorire progressi.

Conclusione: Un Appello per la Giustizia Culturale

La richiesta di restituzione di manufatti, regalia e tesori sacri da parte di organizzazioni come la FSIN rappresenta una lotta per la sovranità culturale e spirituale dei popoli nativi americani. Sebbene il Vaticano abbia compiuto passi verso il dialogo, le azioni concrete rimangono limitate, e la pressione sul nuovo papa Leone XIV è in aumento. La restituzione di questi oggetti non è solo una questione di patrimonio, ma un atto di riparazione per le ferite del colonialismo e un passo verso una vera riconciliazione.

Per il futuro, sarà cruciale che il Vaticano collabori con le comunità indigene per identificare gli oggetti, stabilire protocolli di restituzione rispettosi e riconoscere il loro significato spirituale.

Nel frattempo, le voci dei leader indigeni continuano a risuonare, ricordando al mondo che la giustizia culturale è una responsabilità condivisa. Come ha dichiarato un rappresentante della FSIN: “Questi oggetti non appartengono ai musei. Appartengono alle nostre cerimonie, ai nostri popoli, alla nostra terra.”

Ricordiamo che la rubrica “Nativi” di Raffaella Milandri, qui consultabile, contiene una grande varietà di articoli esclusivi su Nativi Americani e popolazioni indigene e su temi inerenti storia e attualità.

 

 

Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
Attenti al Lupo
Ursula e Al Jolani: destini paralleli. Terrorismo: Il Re è nudo, ma regna

 

di Fulvio Grimaldi

Torno su due eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici, quasi sempre sconvolgenti, rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di questa fase sullo spicchio di pianeta nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente passato, e che minacciano di incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e verità.

Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.

La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.

Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità. Per il suo operato da ministro sarebbe tuttora inseguita da un’inchiesta giudiziaria relativa all’ assegnazione, nel segno dell’amichettismo, di varie consulenze ministeriali, redditizie ma indebite. Inchiesta che il suo ruolo a Bruxelles ha fatto rapidamente finire sotto le sabbie del Baltico brandeburghese.

Dipanando un curriculum di assoluta coerenza, la Von der Leyen degli utili di 90 miliardi generati dalla supposta pandemia e dal dubbio vaccino con allegato tampone PRC manipolato a forza di moltiplicazione dei cicli, ne avrebbe indirizzati ben 60 agli amici vaccinari, in primis all’amico Albert Bourla, AD di Pfizer.

Compenso per ben 900 milioni di dosi, con opzione per ulteriori 900, con centinaia di milioni in eccesso e quindi da buttare. Ma pagati. Non ne venimmo a sapere quasi nulla. Ci furono nascosti sotto omissis sui prezzi e sulle clausole relative agli indennizzi dovuti per effetti avversi (poi moltiplicatisi in misura esponenziale), messi interamente a carico del committente pubblico, cioè noi.

Pratica subito stigmatizzata dalla Corte dei Conti europei. Ma che riuscì a superare, grazie alla nonchalance della baronessa e dei suoi valletti, le richieste-proteste di alcuni volenterosi dell’altrimenti parco di buoi di Strasburgo. Fino alla resa dei conti del Tribunale UE che, ritenuta illegittimo il rifiuto al più autorevole giornale d’Occidente, il New York Times, di rivelare gli accordi con Pfizer, ha imposto a Ursula di rendere noti i celebri omissis messi a copertura di quanto - e come e perché – Ursula aveva concordato. motu proprio, col partner in affari Albert Bourla.

Copertura cui qualche ufficio UE aveva poi portato il soccorso della “sparizione” degli accordi stessi, tutti disinvoltamente formulati con scambi di sms tra Ursula e Albert, Che peccato, erano stati cancellati, perchè “irrilevanti”, dalla documentazione di ciò che la Commissione fa o non fa…Documentazione, ricordiamo, che avrebbe dovuto mantenerci al corrente sull’esborso di nostri 60 miliardi di euro per un eccesso strepitoso di dosi, perlopiù inutili. Miliardi e dosi oltretutto serviti, più a che a salvare i nonni dal contagio dei nipotini, a ridurci tutti a gregge obbediente anche in vista dell’arrivo di cani in armi e pastori armaioli, con conseguente disciplinamento ed economia di guerra.

Rappresentanti nel parlamento UE delle sinistre hanno ora chiesto la “dimissioni di tutti i parlamentari europei che hanno sostenuto la Von der Leyen nella grave violazione dell’obbligo di trasparenza e legalità”. Ovviamente, la cosa è rimasta lì, Vox clamantis in deserto.

La corte europea, sollecitata dal New York Times, ci ha svelato qualcosa che inerisce ai nostri soldi e alla nostra salute, oltrechè all’anima democratica dell’Unione di cui facciamo parte, ponendoci forse in condizione di saperci guardare meglio da vannemarchi, imbonitori e tappetari politico-farmaceutici che svolazzano tra le sale del Berlaymont.

Ma l’incontro a Damasco del 14 marzo, all’ombra benedicente di Mohammed bin Salman, tra Donald Trump e Al Jolani, riciclato nel democratico Ahmed al Sharaa, va molto oltre. Ci sbatte in faccia, con la rozza improntitudine che Trump manifesta in ogni sua iniziativa, una verità che alcuni di noi avevano visto incisa a chiare lettere (esplosive) sulle immagini del crollo delle Torri Gemelle e del muro del Pentagono, ma di cui la maggioranza s’era bevuta la paternità islamica di terroristi sauditi evolutisi, durante le ferie in USA, da viveur bevaioli e donnaioli in ascetici combattenti pronti al martirio.

Abbiamo ingoiato l’invereconda versione ufficiale poi confezionata a Washington, a dispetto dell’incancellabile, per quanto occultata, sequenza video degli israeliani che, evidentemente avendo saputo (fatto?) tutto in anticipo, su un terrazzo di fronte filmavano l’evento, corredando le riprese con balzi e girotondi di soddisfazione. Un indizio degno di prosecuzione, non meno di quanto lo fossero gli addestramenti in carcere di certi bombaroli di certi attentati europei.

Arrestati da disinformati poliziotti metropolitani, si rivelarono agenti del Mossad e, di conseguenza, vennero immediatamente liberati e imbarcati verso il paese e gli organismi di provenienza. Paese e organismi che, comunque sia, sono tra coloro che maggiormente hanno tratto incoraggiamento e vantaggi da quella che ha poi segnato tuti gli anni successivi: la guerra globale al terrorismo: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libano, Siria, Yemen. A rifletterci, tutte operazioni che hanno fatto molto comodo allo Stato del Dio degli Eserciti e che ora guardano con appetito all’Iran.

Al Jolani, ex-capo terrorista, nella sequenza para dinastica che viene fatta partire da Osama bin Laden, è l’erede dei conclamati genitori dello Stato Islamico (ISIS), Al Zawahiri e Al Baghdadi, proclamati teste (pensante e operante) del serpente terrorista da tutti i presidenti USA successivi all’11/9. 

Nello specifico, è’ l’emissario combattente del sultano neo-ottomano Erdogan, i cui miliziani feriti Netaniahu curava negli appositi ospedali sul Golan. E’ colui al quale il committente turco aveva affidato la conquista e il controllo della vasta regione di Idlib, nel nord della Siria, in vista di Aleppo, cuore della Siria e porta spalancata sul resto del paese. E’ colui per il quale Erdogan aveva sapientemente allestito campi per 2 milioni di profughi siriani da usare, sia per spremere miliardi all’UE, sia da addestrare, a forza di pagnotte e ricatti, alla militanza aljolaniana contro il paese da spartirsi tra Ankara e Tel Aviv, con il compenso di una rappresentanza formale a Damasco al mercenariato sunnita che aveva eseguito il compito.

Ma Al Jolani è anche, se permettete un ricordo personale, colui che al sottoscritto, in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi che accompagnavano l’assalto allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Ne fanno parte anche l’assassinio di Nicola Calipari che s’era permesso di liberare – e far parlare, anche se poi non ha detto molto - la giornalista Giuliana Sgrena, ma anche altri episodi poi ripetutisi in Libia e Siria. Fu di un tasso di criminalità pari alla distruzione della Biblioteca di Alessandria e all’assassinio di Ipazia su mandato del vescovo Cirillo, la devastazione dei siti millenari assirobabilonesi e la depredazione del Museo Nazionale Archeologico e della Biblioteca Nazionale, in combutta con terroristi reclutati nel Kuwait.

In Iraq la componente interna dell’offensiva sion-imperialista contro la nazione unita e sovrana era limitata ai curdi, da sempre debole quinta colonna della CIA. La guerra fu, come da tradizione, tra esercito colonizzatore e forze nazionali di resistenza. Anche qui con un certo corredo terrorista, ma della componente NATO, rivelatasi nelle torture di Abu Ghraib e nelle meno note dei militari britannici sui prigionieri.

Al Jolani è anche, mi sia permesso, un ricordo personale, colui che al sottoscritto in Siria alla ricerca delle condizioni, dei motivi e dei modi dell’assalto in corso allo Stato più evoluto, civile, colto, laico, socialmente equo, della comunità araba, ha mostrato una nuova forma di intervento commissionato dall’Occidente.

Con pochi altri colleghi con cui ci erano avventurati in una guerra senza precisi fronti e con pericoli incombenti a 360 gradi,

ebbi diretta esperienza dei metodi con cui il neopresidente siriano conduceva la sua guerra per procura, liberato dall’onta dei 10 milioni di taglia e dalle sanzioni imposte a una Siria che, da lui e dall’aggressione colonial-terrorista, si difendeva. A Damasco, un giorno, arrivai 2 minuti dopo che un edificio era stato fatto esplodere alla maniera delle Torri Gemelle, Ospitava alcuni uffici della polizia metropolitana e le abitazioni delle loro famiglie. Arti di agenti e pezzi di passanti spiaccicati sui muri degli edifici circostanti, fin sotto il soffitto di un alto cavalcavia, pozze di sangue come pozzanghere dopo un diluvio. 80 morti di cui due terzi civili.

A Oms, con un gruppo di giornalisti, visitammo un ospedale. Si, tipo quelli che Israele polverizza con tutti dentro, dicendo di colpire Hamas. Anche qui intendevano colpire i soldati di Assad, che ovviamente non c’erano. Ma c’erano pazienti, sanitari, visitatori, e noi giornalisti. Fummo bersaglio di scariche di proiettili che, infrante le finestre, si ficcarono nei soffitti e nelle pareti.

Ma, come altre volte ho raccontato, gli orrori dei miliziani di Al Jolani, ora ricuperati al ruolo di liberatori dalla “dittatura” di Assad e democratici interlocutori per la rapina delle risorse del paese, avevano ben altri mezzi per diffondersi e provocare un terrore finalizzato alla resa e alla sottomissione. Che per 14 anni non riuscì. Catturavano, uccideva, mutilavano, stupravano, scuoiavano, impiccavano agli alberi, annegavano in gabbie di ferro sprofondate nei fiumi, lanciavano dai ponti e, strafatti di droga, sistematicamente giubilavano.

Riprendevano tutto con i cellulari, si scambiavano le prodezze e, soprattutto, giravano i video delle atrocità ai cittadini delle zone da conquistare. Stesso costume oggi praticato dai militi sionisti a Gaza.  A me famigliari, amici, esponenti politici delle vittime, Oms riuniti in un’assemblea da cui la protesta avrebbe dovuto esplodere sul mondo, hanno mostrato quelle immagini strazianti. Quali con l’amico, quali col figlio, quali con la moglie, quali con un mucchio di corpi.

Questa era l’opera di Mohammed Al Juliani. Un fiduciario del campo sion-occidentale e, dunque, di tutti noi, quelli della parte giusta e buona del mondo. Oggi riconosciuto e frequentato capo di quel frammento di Siria che i committenti esterni gli hanno concesso.

Ma la stretta di mano di Trump a questo personaggio, va oltre l’ammissione che il terrorismo va bene, o comunque lo si può assolvere, quando sia praticato da noi, tipo Guantanamo, Mi Lay, o Dresda. Non però quando siamo sempre noi, Occidente politico, a praticarloe e, fingendoci vittime, lo facciamo rivendicare ai nostri proxy, tipo Al Jolani.

Non solo Torri Gemelle. A partire da quell’episodio del 2001, non certo la prima delle False Flag su cui rigogliano le aggressioni, basti ricordare le BR reinventate e Moro, momento culminante della nostra stagione delle stragi mafio-fasci-statali, abbiamo conosciuto due lustri e passa di terrorismo endemico in Occidente a fuori.

Abbracciando Al Jolani, protagonista di quella strategia scellerata, il presidente degli USA ha rivelato al mondo ciò che la stragrande maggioranza degli umani si rifiutava di accettare. Che, se il terrorismo era il male assoluto, come sentenziavano Bush, Obama, Biden e tutto la cortigianeria mediatica a reggere lo strascico, quel male assoluto è stato riconosciuto degno di governare a Damasco nell’interesse della nostra parte del mondo.

Tutti gli attentati rivendicati dallo Stato Islamico e da altre targhe della jihad islamica, a partire dall’11 settembre e a finire con la frantumazione della Siria, hanno la stessa firma, travisata nel nome de plume “terroristi islamici”. Dal riconoscimento del capo jihadista in Siria da parte della massima autorità USA e occidentale, vera lacerazione del velo di Maja, dovrebbe discendere la consapevolezza in tutta l’opinione pubblica della vera e univoca responsabilità della stagione degli attentati, definiti islamici e svoltisi nelle prime due decadi del millennio con strascichi nella terza.

Ne dovrebbe conseguire un’altra certezza cambia-mondo: Dovremmo pensare a cosa è derivato, o, piuttosto, è stato tratto, dalla catena di stragi terroristiche successive a quella delle Torri Gemelle e che, nelle rivendicazioni, o attribuzioni, è perlopiù risultato consanguineo delle prodezze di Al Jolani in Siria e del combinato Isis-Al Qaida qua e là.

Che ne è stato di tutti noi dopo i due decenni di spargimento di dolore e sangue tra la gente? Nella Parigi del Bataclan e di Charlie Hebdo, o nella Mosca del teatro, a Magdeburgo dei mercatini di Natale, a Londra della metro e di London Bridge, a Bruxelles, Boston, Monaco, Mumbai, Barcellona…

Bataclan

Teatro Mosca

 

Attentato Boston

Bruxelles Aeroporto

E vai e vai e vai, per tutte le prime due decadi del secolo. E se non c’era l’avvertimento ignorato di qualche agenzia della Sicurezza, c’erano i precedenti da carcerato del sicario, schedato ma non vigilato, c’era la rivendicazione dell’ISIS, o c’era il retroterra iraniano o arabo, comunque musulmano. Salvo qualche fisiologico diversivo europeo, tipo quello del 2011 in Norvegia, con 877 morti. Poi, di colpo, tutto è finito. Neanche più un mortaretto. E’ cambiata la formula.

Noi abbiamo creduto a quanto ci spiegavano e loro, i potenti, hanno metabolizzato nelle istituzioni rinnovandosi in Stato necessariamente di sorveglianza, controllo e limitazione del libero andare e fare. E il primo capitolo del libro che si è poi continuato scrivere con la penna intinta nel Covid letale e poi nella crisi climatica-colpa nostra e poi nella guerra universale per via della minaccia russa… 

E così siamo andati perdendo pezzi di Habeas Corpus, di Carta dell’ONU, di Costituzione, di democrazia UE, di diritto internazionale e nazionale e cittadino. Senza neanche farci troppo caso.                                                                  

Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
Diritti e giustizia
Diritto allo studio. Cominciare dal dire NO all'alternanza scuola - lavoro.

 

di Michele Blanco

Fino quando  a scuola ci andavano solo i figli dei ricchi e delle élite  dominanti, tutti sapevano che andare a scuola era fondamentale e importantissimo per formare  persone più capaci e forti, con più possibilità e capacità nella vita. Ma da quando hanno incominciato ad andarci anche i figli degli operai e delle classi subalterne,  si è cominciato a dire: ma in fondo in fondo siamo proprio sicuri che studiare serva?
 
E così adesso siamo arrivati al punto che questa grande e fondamentale conquista di civiltà,  l'istruzione  gratuita  per tutti, viene messa in discussione. Invece è  giustissimo che tutti devono avere il diritto fondamentale a una istruzione  garantita come afferma l'articolo 34 della Costituzione  italiana che: "la scuola è aperta a tutti" e che "l'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita", noltre, garantisce che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, abbiano diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. Ma per molti oggi tutto  questo sacrosanto diritto non va più bene.
 
Si è voluto e cominciato a dire e a pensare che per mandare la gente a scuola però deve essere spendibile sul mercato del lavoro prima possibile, e si è arrivati, di conseguenza, adesso all’assurdità di dire ai  ai ragazzi come ai loro nonni analfabeti: anche se avete 15 o 16 anni, dovete lavorare, produrre perché questo vi tocca fare.  In fondo ci vogliono imporre che per i figli dei poveri: "
 
Che è questo lusso di studiare e basta?" No noi dobbiamo  ribellarci a queste assurdità e cominciare  a ribadire l'importanza  fondamentale  del diritto  allo studio a cominciare dal dire NO all'alternanza scuola lavoro.
Data articolo: Tue, 20 May 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
La telefonata Trump - Putin riapre la strada alla pace in Ucraina?

Dopo una telefonata durata oltre due ore, il presidente russo Vladimir Putin ha definitofranca e costruttiva” la conversazione avuta con Donald Trump, sottolineando la volontà comune di rilanciare i negoziati di pace tra Mosca e il regime di Kiev. Un’apertura diplomatica che segna una svolta significativa, proprio mentre i contatti tra le delegazioni russe e ucraine riprendono anche a Istanbul. Putin ha confermato la disponibilità della Russia a lavorare su un memorandum per un futuro trattato di pace, che includerebbe principi condivisi, un calendario per l’intesa e un possibile cessate il fuoco temporaneo.

Trump, dal canto suo, ha annunciato che le trattative tra le due nazioni partiranno “immediatamente”, come comunicato anche a Zelensky e ai leader europei. Il Vaticano, rappresentato dal papa Leone XIV, si è detto pronto a ospitare i colloqui, segnale di un crescente interesse internazionale per una soluzione pacifica. Trump ha inoltre evidenziato l’enorme potenziale economico di una Russia postbellica e il ruolo cruciale della ricostruzione ucraina, sottolineando che una pace stabile aprirebbe nuove opportunità di sviluppo e commercio per entrambi i Paesi.

Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha lodato l’approccio “neutrale” di Trump, in netto contrasto con quello, a suo dire, apertamente schierato dell’Europa. Resta da vedere se adesso siamo di fronte a un nuovo inizio che possa finalmente condurre alla costruzione di una nuova architettura di sicurezza europea.

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Deputato ucraino: “Zelensky ha trasformato l'Ucraina in un campo di concentramento”

Alexei Goncharenko, deputato della Rada Suprema (Parlamento ucraino), ha accusato duramente il leader del regime di Kiev, Volodymyr Zelensky, per i metodi utilizzati dai Centri Territoriali di Reclutamento e Supporto Sociale (TCC) nella mobilitazione forzata. In un post sul suo canale Telegram, Goncharenko ha scritto: "La mobilitazione è stata stravolta dall'alto commissario ucraino Zelensky. È lui che ha trasformato il paese in un campo di concentramento, dove nel marzo 2022 la gente pagava per unirsi all'esercito, mentre a maggio 2025 i TCC uccidono persone per strada".

Il legislatore ha denunciato che "quando la gente viene picchiata, mutilata e catturata, non si può parlare di Stato, ma solo di un campo di concentramento". Ha aggiunto: "Dobbiamo cambiare approccio. [...] Serve un limite temporale al servizio militare. Questo aiuterà a costruire un sistema di qualità, basato sulla libertà, non sulla schiavitù".

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
La UE prepara il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia

Mentre il 17° pacchetto di sanzioni contro la Russia dovrebbe essere adottato il 20 maggio e il 18° è ancora in fase di revisione, l'Unione Europea guarda già al 19°, alimentando una spirale sanzionatoria che sembra non avere fine. Lo ha confermato il Parlamento Europeo, sottolineando che l’obiettivo resta quello di esercitare pressione su Mosca fino al raggiungimento dei propri obiettivi politici.

Nonostante segnali di dialogo tra Russia e Ucraina, Bruxelles continua a spingere per nuove restrizioni, che non verranno rimosse nemmeno in caso di cessazione del conflitto. Tra le prossime misure in discussione, figurano l’innalzamento dei dazi sui fertilizzanti da Russia e Bielorussia e persino un embargo totale sul commercio con Mosca, ispirato alla proposta estrema del senatore USA Lindsey Graham di imporre un dazio del 500% sulle esportazioni russe.

Tuttavia, secondo l’esperto Ivan Timofeyev del Russian International Affairs Council, queste nuove sanzioni avranno un impatto economico marginale, essendo perlopiù simboliche. Serviranno piuttosto a rafforzare la coesione interna dell’UE e a marcare le distanze dagli Stati Uniti di Trump. Resta il nodo politico: fino a quando la UE riterrà possibile "sconfiggere" la Russia, continuerà a colpire, anche a costo di penalizzare sé stessa.

*Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

Data articolo: Tue, 20 May 2025 05:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Trump oltre Trump: i benefici di una momentanea tregua globale


di Diego Angelo Bertozzi per l'AntiDiplomatico

L'attivismo diplomatico che caratterizza in queste ultime settimane l'amministrazione Trump, solo in parte legata alla questione russo-ucraina, è certamente dettata dagli interessi di sopravvivenza dell'impero statunitense in un periodo di crisi, vale di dire di profondi cambiamenti nei rapporti di forza internazionali. L'aver umiliato l'Unione europea e i principali alleati del Vecchio Continente, escludendoli dalle discussioni e dai negoziati sui fronti diplomatici più caldi, è certamente parte di una chiara strategia. L'ipotesi di una temporanea tregua tra le tre principali potenze globali (Usa, Russia e Cina popolare) - il che non significa termine della conflittualità e di improvvise provocazioni - non può essere considerata peregrina. Anche perché l'attivismo di cui parliamo ha inevitabili conseguenze che vanno ben oltre i benefici di Washington.

Pensiamo, infatti, al principale avversario politico, eonomico e militare, vale a dire quella Pechino che porta avanti, per quanto in sordina e minore enfasi, l'iniziativa strategica della Nuova via della seta. Facciamo alcuni esempi per dare maggiore concretezza a quanto affermato in queste righe, soffermandoci sull'area Mediorientale o dell'Asia occidentale, settore delicato, nonché conflittuale, nel quale è crescente la presenza cinese per motivazioni tanto economiche quando di sicurezza delle rotte commerciali. Il viaggio di tre giorni di Trump nel Golfo - negli Emirati Arabi Uniti, in Arabia Saudita e Qatar - non si è certo caratterizzato per importanti iniziative/accordi in ambito di difesa o energia nucleare che avrebbero ben radicato la presenza statunitense. Il primo incontro con il neo presidente siriano Ahmed Sharaa - ex tagliagole con colletto bianco ripulito - e la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti e la conclusione del criminale regime sanzionatorio potrebbe vedere nella Cina uno dei principali attori per la ricostruzione delle infrastrutture di un Paese devastato. Poco prima dell'incontro con Trump, infatti Sharaa aveva ospitato a Damasco la terza delegazione cinese da quando è al potere.

Per quanto riguarda lo Yemen è l'accordo raggiunto tra Usa e Houti per fermare gli attacchi alle navi a stelle e strisce - di fatto la presa di coscienza da parte di Washington della impossibilità di sconfiggere coriacei e coraggiosi "resistenti" nonostante "spettacolari" bombardamenti - dà maggiore garanzia di sicurezza alla navigazione marittima e al transito della imponente flotta commerciale cinese che, a sua volta, gode già da un anno dei benefici di un simile accordo stretto dal governo di Pechino. Interessante sottolineare che l'accordo di questi giorni esclude Israele, che resta possibile bersaglio. L'unico settore che potrebbe, invece, causare qualche preoccupazione a quest'ultimoè l'accordo Usa-Riyad in materia di sviluppo dell'intelligenza artificiale, con la società saudita Humain (finanziata dallo Stato) interessata ad inserirsi nell'orbita tecnologica statunitense, mentre è già attivo una collaborazione con la Cina da parte della saudita Alat. C'è inoltre la possibilità di un accordo tra Stati Uniti e Iran in materia di nucleare. Per quanto si sia agli inizi e persistano forti resistenze e subitanei passi indietro, un esito positivo aprirebbe prospettive di pacificazione in un'area centrale per gli sviluppi della Nuova via della seta cinese.

Per concludere, invece di limitarsi alle battute e all'ironia sulla scorta di cammelli che ha accolto e accompagnato il presidente Usa in Arabia Saudita, è necessario comprendere quali siano le ricadute delle iniziative diplomatiche angli sugli altri attori presenti in quanto poteri globali. 

 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 18:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
I pronostici di Arestovic: un futuro funesto per l'Ucraina nazi-banderista

 


di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Al momento di scrivere, l'unica cosa che è dato sapere a proposito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin (a quanto pare, tuttora in corso) è quanto dichiarato dal portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, e cioè che non si prevede ancora un incontro diretto tra i due presidenti.

In compenso, pare si sprechino i pronostici su colloqui russo-ucraini a Istanbul e su prospettive del conflitto. Per parte russa l'osservatore Maksim Ševcenko ritiene che il conflitto possa durare fino al 2029, con una UE che oscilla ancora tra i punti di vista di Washington e Mosca e «cesserà di essere indecisa quando andranno al potere forze che la Washington trumpista identificherà come alleate», come Viktor Orbán, Robert Fitso, l'austriaca “Libertà”, AfD” in Germania e Rassemblement National in Francia, col romeno George Simion, che si oppone alle forniture di armi all'Ucraina, quale segnale importante della vittoria dei trumpisti in Europa: «questo è un passo avanti verso la fine della guerra anche senza un cessate il fuoco», afferma Ševcenko.

Putin e Trump soffocheranno l'Unione Europea, dice: la «UE non ha molte possibilità. Il conflitto ucraino è una trappola in cui è caduta la Russia, ma ne sta uscendo con l'aiuto di Trump. La UE ci è però finita molto più a fondo. Non è ancora certo che possa ottenere qualcosa in caso di pace sull'attuale linea del fronte, perché Trump sta mettendo le mani su centrali nucleari, porti e giacimenti di uranio, finora rivendicati dalla Francia».

Sulla stessa linea di Ševcenko anche l'ex deputato ucraino Oleg Tsarëv, secondo il quale i colloqui di Istanbul sono stati il risultato di una complessa partita tra Russia e Stati Uniti, che ha aperto la strada a un incontro diretto tra Vladimir Putin e Donald Trump e ha ridotto a zero «gli sforzi di Zelenskij e dei leader europei della NATO... I colloqui sarebbero dovuti iniziare 100 giorni dopo l'insediamento di Trump, ma il processo si è trascinato perché Zelenskij non firmava l'accordo sulle risorse ucraine... una volta firmato e ratificato dal parlamento, si è immediatamente passati alla fase successiva». In ogni caso, afferma Tsarëv, Trump non è al di sopra della mischia; «non è così importante come si concluderanno i negoziati: Trump li spaccerà come una grande vittoria. Ha firmato un accordo sulle risorse ucraine, ha fatto sedere Russia e Ucraina allo stesso tavolo, e questa è una grande vittoria» e per lui è fondamentale incontrare Putin per far progredire ulteriormente la questione: “la gente deve smettere di morire!”; Trump parlerà più o meno così, indipendentemente da come si concluderanno i negoziati, afferma Tsarëv, evidentemente pronosticando un molto prossimo incontro Trump-Putin che, come detto, al momento non appare così vicino.

E, però, The New York Times scrive che i negoziati con la parte russa sono diventati un vero banco di prova per Washington, mentre Mosca punta alla debacle delle élite ucraine. La Russia sta trasformando i suoi attuali successi tattici al fronte in un ultimatum politico a Kiev e all'Occidente che la sostiene, basato sul principio "vinciamo noi, e dettiamo le condizioni". I rappresentanti russi, dicono gli yankee, stanno avanzando «richieste massimaliste», non in linea con l'attuale situazione al fronte; la Russia «non può aspettarsi che le vengano restituiti territori che non ha nemmeno conquistato», dice a Fox News il vicepresidente USA Vance.

La questione viene però chiarita da Putin stesso: la Russia si considera vincitrice e, su questa base, pretende il massimo. Già lo scorso marzo Putin aveva dichiarato che «le forze russe hanno la superiorità su tutta la linea del fronte», mentre l'Ucraina è vicina alla sconfitta finale. Secondo il NYT, il Cremlino «continua a credere che la situazione sia in mano sua. La Russia dispone del più grande arsenale di armi nucleari al mondo e capacità di produzione di armi su larga scala e nel caso gli USA riducano gli aiuti a Kiev, questa risorsa diventa ancora più importante. Il Cremlino ritiene che l'Ucraina si stia esaurendo e la sua resistenza si stia gradualmente indebolendo»: Putin conta sul crollo psicologico delle élite ucraine.

Secondo Tat'jana Stanovaja, (secondo Mosca, agente straniero) del Carnegie Russia Eurasia Center, Putin punta non a un collasso militare dell'Ucraina, ma morale: «Putin ritiene che prima o poi le linee difensive dell'Ucraina non reggeranno, e questo sarà un colpo psicologico così forte che le élite ucraine cacceranno Zelenskij» per negoziare direttamente con Mosca.

Anche l'ex ambasciatore ucraino in USA, Valerij Chalyj, ritiene che le avventate misure diplomatiche della squadra di Zelenskij mirino solo all'impatto emotivo, non ai risultati. «È un bene che anche Putin sia caduto nella trappola. Credo che sia stata una mossa inaspettata da parte di Zelenskij la sua pretesa di incontrare Putin. Questa è una strategia classica: prima si respinge fermamente ogni possibile incontro e poi, quando il nemico non se lo aspetta, lo si mette in una posizione difficile. È stata una buona mossa». Sì: così buona che lo stesso Chalij, da fantomatico “diplomatico” della junta golpista, subito dopo non può far altro che ammettere che quel passo «non ha dato nulla, perché, a differenza dell'approccio emotivo da parte nostra, in Russia esiste una preparazione sovietica molto tradizionale per tutti gli incontri, un'attenta preparazione, con molti percorsi. È un modello vecchio, ma più preparato. A volte perde in velocità, ma alla fine non è una questione di velocità, ma di risultato», tanto che, povero Chalyj, lui stesso ha proprio l'impressione che «le concessioni le debba fare sempre l'Ucraina». Mosca non ha fatto alcuna concessione: a Istanbul Putin non ci è andato; i russi «non hanno cambiato affatto la loro posizione. Hanno persino rafforzato le loro richieste. Hanno rilasciato una dichiarazione affinché il mondo intero potesse sentire che sono pronti a combattere per sempre». Povero Chalyj, ha fatto tutto da solo: ha detto una cosa e se l'è smentita.

Ancora sul fronte dei pronostici, il politologo ed ex funzionario dell'ambasciata ucraina in USA (oggi emigrato) Andrej Teliženko sorpassa in “velocità” i tempi previsti da Maksim Ševcenko: la guerra in Ucraina continuerà per tutto il 2025, dichiara. Può accadere, dice l'ex diplomatico ucraino, che si formi un governo neutrale, senza più Zelenskij; un governo provvisorio concordato da Washington e Mosca e abbia quindi inizio il processo di pace. Questo governo provvisorio «firmerà l'accordo di pace, si impegnerà a indire elezioni entro sei, sette o otto mesi, a ripulire l'Ucraina dalle formazioni neonaziste, dopo di che l'opposizione potrà partecipare a questo processo, sapendo di non correre pericoli a rientrare in Ucraina per prendervi parte. Quindi l'intero processo potrà svolgersi immediatamente. E poi inizierà il cammino verso la pace», afferma Teliženko: forse un po' troppo ottimisticamente, ma a ben guardare non senza fondamento.

Molto più pessimista (a dir poco) il politologo ucraino Ruslan Bortnik, secondo il quale Kiev non intende soddisfare alcuna  richiesta russa, così che la prossima fase dei negoziati «potrebbe concludersi con una provocazione o non aver luogo affatto». A Istanbul, le parti hanno «concordato di mettere a punto proprie proposte per il cessate il fuoco, dopodiché le delegazioni si sarebbero di nuovo incontrate per discuterle. Ma non ci sono scadenze chiare per lo scambio dei piani sul cessate il fuoco, sebbene ci si sia accordati per tale scambio».

Bortnik suppone che possano sorgere enormi problemi, perché le richieste russe possono apparire come precondizione per il cessate il fuoco, mentre Kiev esige un cessate il fuoco incondizionato: proprio per questo c'è «un rischio enorme che, dopo lo scambio dei piani, il prossimo incontro venga rinviato, o che si trasformi in uno scandalo e in una baruffa, o non si tenga affatto». Questo, a meno che non intervenga il «fattore Trump, e prima di allora, non si raggiungano accordi russo-americani che possano immediatamente avvicinare le posizioni russo-ucraine». Ma tutto, a detta di Bortnik, appare molto aleatorio.

Cambiano le tempistiche delle predizione di stampo ucraino, ma i pronostici si fanno sempre più funesti: l'ex “consigliori” presidenziale golpista Aleksej Arestovic (per Mosca: estremista e terrorista) predice che se Kiev continuerà a ignorare le richieste russe, entro un paio d'anni la guerra sarà persa e scoppierà una guerra civile in ciò che resta del paese. Ciò che attende l'Ucraina, dice Arestovic, è una combinazione di «dittatura e rovina, con atamani che spadroneggiano e saccheggiano» tutto e tutti. Si assisterà a «guerre di veterani mercenari per la terra, il potere, per qualunque cosa. L'apice si verificherà intorno al 2027... e nel '27-'29, la Russia interverrà per la seconda volta».

Metà degli ucraini sani di mente fuggirà, dice Arestovic – ma, viene da chiedere: se già oggi la popolazione ucraina è ridotta quasi alla metà di quella del 1991, vuol dire che nel paese rimarranno solo le imprese yankee che si accaparrano terreni agricoli e risorse naturali? Non ci sarà più nessun ucraino - «per non tornare mai più. E la Russia finirà col liquidare definitivamente questa quasi-entità, impadronendosi di tutto quanto è a est del Dnepr», fino a Kiev.

Tutto questo lo pronostica quell'Arestovic che nel 2022 prometteva una rapida vittoria sulla Russia: «Metà di noi scapperà e gli altri deprederanno tutto e nessuno fornirà protezione. I nostri eroi dicono che non appena la guerra finirà, i confini si apriranno, ce ne andremo immediatamente e diremo a tutti gli amici di fare altrettanto».

Qualcosa suggerisce che buona parte dei pronostici di Arestovic siano già realtà quotidiana in alcune aree dell'Ucraina occidentale e possano diventarlo, in generale, quando le élite militari golpiste - probabilmente, a quel punto, abbandonate anche dagli sponsor “euro-volenterosi”, non più in vena di sortite anti russo-americane - vedranno prossimo il crollo del fronte e si daranno a far man bassa del poco rimasto.


FONTI:

https://politnavigator.news/tramp-s-putinym-dodushat-es-poverte-shevchenko.html

https://politnavigator.news/igra-ssha-i-rossii-perecherknula-plany-bryusselya-i-kieva-carev.html

https://politnavigator.news/strategiya-putina-ne-voennyjj-a-moralnyjj-krakh-ukrainy-the-new-york-times.html

https://politnavigator.news/my-proigryvaem-rossii-diplomaticheski-ehks-posol-ukrainy-v-ssha.html

https://politnavigator.news/podpisyvat-mir-budet-vremennoe-pravitelstvo-ukrainy-bez-zelenskogo-telizhenkorossiya-ehkspert.html

https://politnavigator.news/est-ogromnyjj-risk-masshtabnojj-provokacii-i-sryva-sleduyushhikh-peregovorov-bortnik.html

https://politnavigator.news/pozitivnogo-budushhego-u-ukrainy-net-tolko-krovavaya-grazhdanskaya-vojjna-arestovich.html

 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 17:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Polonia verso il ballottaggio presidenziale: scontro tra Trzaskowski e Nawrocki

Le elezioni presidenziali in Polonia si avviano verso un ballottaggio il 1° giugno, dopo che nessun candidato ha superato la soglia del 50% dei voti nel primo turno svoltosi domenica. Trzaskowski, sindaco di Varsavia e rappresentante della Coalizione Civica (alleata del premier Donald Tusk), ha ottenuto il 30,8% dei consensi, mentre il liberale Karol Nawrocki del partito Diritto e Giustizia (PiS) si è fermato al 29,1%, secondo i dati preliminari diffusi dalle televisioni nazionali. I risultati ufficiali, come confermato dal presidente della Commissione Elettorale Sylwester Marciniak, saranno resi noti martedì pomeriggio, nonostante il rapido spoglio delle oltre 32.000 sezioni elettorali nel paese.

Trzaskowski, sostenuto dall’alleanza al governo, ha espresso fiducia: «Questo risultato dimostra che dobbiamo essere determinati. C’è ancora molto lavoro per vincere». Nawrocki, pur riconoscendo di essere in svantaggio, ha dichiarato di non demordere: «Queste elezioni sono ingiuste, ma presto sarò presidente, voce di migliaia di cittadini». L’attuale capo di Stato Andrzej Duda, in scadenza di mandato ad agosto, ha esortato i polacchi a partecipare al ballottaggio per «scegliere democraticamente il nuovo leader».

A stupire, tuttavia, è stato il forte consenso ottenuto dai candidati di estrema destra, in particolare Slawomir Mentzen (15,4%) e Grzegorz Braun (6,2%) del partito Confederazione, che hanno polarizzato il dibattito su temi nazionalisti e critiche verso l’Ucraina.

Nawrocki, già critico verso il regime di Kiev, ha insistito sul blocco dell’adesione ucraina a NATO e UE finché non verranno affrontate questioni storiche come il massacro di Volyn del 1943, compiuto da nazionalisti ucraini. Ha accusato il presidente Volodymyr Zelensky di «mancanza di gratitudine» e di abilità diplomatiche, puntando il dito contro le «élite europee» e Donald Tusk, definito «maggio­rdomo» di Bruxelles. Ha inoltre promesso protezione per agricoltori e camionisti polacchi dalla concorrenza «sleale» ucraina.

Mentzen, da parte sua, ha chiesto il disimpegno totale della Polonia e della NATO dal conflitto in Ucraina, condannando il sostegno militare e definendo «delirante» la coalizione europea pro-Kiev. Braun, noto per gesti provocatori come la rimozione della bandiera ucraina dal monumento a Kosciuszko a Cracovia, ha lanciato il programma «Stop all’ucrainizzazione della Polonia», definendo il regime di Kiev «corrotto e letale» e sostenendo che gli aiuti militari «prolungano solo la guerra».

Data articolo: Mon, 19 May 2025 14:16:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Zakharova sottolinea l'“interferenza diretta” della Francia nelle elezioni rumene

La Russia accusa la Francia di ingerenza negli affari interni della Romania e di manipolazione elettorale attraverso la richiesta di bloccare canali conservatori su Telegram prima delle presidenziali. Lo ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, commentando le rivelazioni del cofondatore di Telegram Pavel Durov. Quest'ultimo ha denunciato le pressioni ricevute da Nicolas Lerner, capo dell'intelligence francese, per censurare voci conservatrici romene - proposta che avrebbe rifiutato.

Zakharova ha bollato il fatto come "violazione della libertà d'espressione e interferenza diretta in uno Stato sovrano", mentre il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha definito "alquanto strane" le elezioni romene, vinte a novembre dall'anti-NATO Calin Georgescu. I suoi successivi annullamenti e l'esclusione di Georgescu dai nuovi scrutini hanno scatenato proteste e critiche internazionali.

In Romania è stato eletto presidente - nella tornata elettorale di domenica - il filoeuropeo Nicusor Dan, sindaco di Bucarest, in un contesto segnato da accuse di campagne estere contro il suo rivale euroscettico George Simion. Il politologo Eduardo Luque Guerrero commenta: "La comunità internazionale sta assistendo a uno sviluppo autoritario dell'Unione Europea".

Data articolo: Mon, 19 May 2025 13:57:00 GMT
L'America sconosciuta
Loretta Napoleoni - Il crollo del mito Moody's


di Loretta Napoleoni

Moody’s declassa il debito sovrano degli Stati Uniti e la corsa a svendere i titoli e gli investimenti americani riprende con forza. Ma c’e’ davvero da fidarsi delle agenzie di rating? Sono veramente infallibili, imparziali ed al disopra di ogni sospetto? Vediamo di rispondere a questa domanda.

Nel cuore pulsante della finanza globale, Moody’s è un attore che da decenni gioca un ruolo cruciale nel determinare chi è meritevole di fiducia e chi no. Ma in passato, anche in un passato molto vicino, Moody’s ha fatto gravi errori, con conseguenze disastrose, ad esempio nel 2008. Quando il mondo si trovò inaspettatamente travolto dal crollo del sistema finanziario americano, le agenzie di rating, tra cui Moody’s, vennero accusate di non aver fatto il loro lavoro.  Non solo non avevano visto arrivare la crisi, avevano mentito nei loro rapporti e cosi’ facendo l’avevano alimentata, assegnando valutazioni massime a prodotti finanziari tossici. Potrebbe succedere oggi la stessa cosa? E perché no? Il vizio di forma è nella struttura stessa dell’economia canaglia: un sistema autoreferenziale in cui chi vende titoli paga anche per farli valutare e compra dalle agenzie di rating i rapporti e le valutazioni finanziarie. Un circolo chiuso che facilmente diventa vizioso

Durante gli anni precedenti alla crisi del 2008, Moody’s, insieme a Standard & Poor’s e Fitch, le altre agenzie di rating, giocarono un ruolo fondamentale nell’innescare la bolla dei mutui subprime a causa di questo meccanismo autoreferenziale. Vale la pena ricordarne i punti chiave. Titoli altamente rischiosi venivano impacchettati in strumenti finanziari complessi come le mortgage-backed securities (MBS) e i collateralized debt obligations (CDO), e ricevevano valutazioni massime – spesso la famigerata tripla A – da parte delle agenzie di rating. Il paradosso era che in questi titoli la percentuale di mutui o prestito concessi a mutuatari senza garanzie solide, spesso incapaci di rimborsare, era alta. Le false valutazioni crearono l’illusione di sicurezza che a sua volta attirò investitori istituzionali da tutto il mondo. Quando i mutuatari iniziarono a non essere piu’ in grado di pagare, l’intero castello crollò. 

È sconvolgente che anche in questo contesto le agenzie di rating, lungi dal suonare un campanello d’allarme, contribuendo cosi’ a gonfiare ulteriormente la bolla immobiliare. Un fallimento sia dal punto di vista tecnico che etico: invece di valutare il rischio reale degli strumenti finanziari, queste istituzioni avevano venduto fiducia. Ma come puo’ un’organizzazione a scopo di lucro vendere un tale bene?

Ora Moody’s torna alla ribalta, declassando gli Stati Uniti da Aaa ad Aa1, scatenando una reazione a catena: rendimenti in aumento, caduta degli indici, scetticismo sul dollaro. Ma questa volta il declassamento arriva dopo che i mercati hanno già scontato l’instabilità fiscale, dopo che le politiche fiscali espansive, i tagli alle tasse non finanziati e l’aumento della spesa pubblica hanno portato le proiezioni del  deficit verso il 9 per cento del PIL entro il 2035. Moody’s, ancora una volta, arriva dopo la tempesta. Non previene, registra. Non guida, insegue. Come ha dichiarato il Segretario al Tesoro Scott Bessent, “Moody’s è un indicatore ritardato”. Una frase che sintetizza perfettamente l’ironia di un sistema che pretende di prevedere il rischio ma opera secondo logiche politiche, commerciali, e – soprattutto – reattive. 

In questo scenario si inserisce anche l’impopolarità crescente di Donald Trump nei mercati internazionali. La sua linea economica aggressiva, basata su protezionismo, tagli fiscali non finanziati e conflitti commerciali, ha eroso la fiducia di molti investitori globali. La sua instabilità politica, le tensioni con i partner storici, e l’incapacità di contenere il debito pubblico minano la percezione di affidabilità degli Stati Uniti. È plausibile che Moody’s sia influenzato da questa atmosfera politica tesa e incerta, e che il declassamento rifletta, almeno in parte, non solo i numeri del bilancio federale, ma anche il deterioramento della leadership e della reputazione americana sul piano globale nell’immaginario collettivo delle borse. Ma non è questo il compito delle agenzie di rating.

La loro credibilità si fonda sull’illusione di imparzialità e competenza tecnica non sul giudizio politico. Ma come dimostrano sia la crisi dei subprime che l’attuale downgrade, queste istituzioni riflettono le contraddizioni del sistema neoliberale: sono arbitri che giocano nella stessa squadra delle multinazionali finanziarie, parte integrante di quel “capitalismo relazionale” che ha sostituito la concorrenza con il clientelismo. 

Il problema non è solo Moody’s. È l’intero sistema che ha delegato il potere di giudizio a entità private, opache, a scopo di lucro e spesso colpevolmente lente. Il risultato è che i mercati oscillano sull’eco di decisioni tardive, mentre la politica fiscale – priva di controllo – continua a gonfiare bolle destinate a scoppiare. E mentre si discute della fine dell’eccezionalismo americano, come suggeriscono gli strategist di Bloomberg, il mondo assiste impotente a un’altra scena dello stesso dramma: un’agenzia che arriva in ritardo, una finanza che gioca d’azzardo con il debito pubblico di un’intera nazione, una società che paga il conto. 

In un sistema dove le valutazioni si comprano e le crisi si ignorano finché non è troppo tardi, forse è tempo di togliere la parola “rating” dal vocabolario della fiducia. E iniziare a costruire un nuovo modello di trasparenza, responsabilità e controllo democratico sulle leve del potere finanziario. Perché se Moody’s ha perso la sua autorità, il vero rischio è che a perderla – presto – sia anche la nostra capacità di reagire.

Data articolo: Mon, 19 May 2025 13:10:00 GMT
Difesa e Intelligence
Sputnik 2.0? Il test cinese che ha spaventato gli Stati Uniti

Negli ultimi anni, il mondo sta assistendo a un’accelerazione impressionante nello sviluppo di nuove tecnologie militari, con particolare attenzione alle armi ipersoniche, ai sistemi missilistici avanzati e all’utilizzo dello spazio come nuovo fronte strategico. Tra i Paesi che stanno facendo passi da gigante in questo settore, la Cina si distingue per capacità sempre più sofisticate che stanno cambiando le regole del gioco nel panorama della difesa globale. 

Secondo uno studio recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Acta Aeronautica et Astronautica Sinica, condotto dal professor Guo Yang del Laboratorio chiave per il controllo intelligente presso l’Università dell’Esercito Popolare di Liberazione, le armi ipersoniche cinesi possono viaggiare a velocità estreme, fino a Mach 20, equivalenti a circa 21.000 chilometri orari. Alcuni modelli potrebbero essere lanciati direttamente dallo spazio, rendendoli in grado di colpire qualsiasi obiettivo al mondo entro mezz’ora e di compromettere drasticamente i tempi di reazione dei sistemi di allerta nemici. Questo tipo di armamento, noto come veicoli ipersonici a planata balistica (HGV), viene solitamente lanciato da missili balistici ma, una volta nell’atmosfera, mantiene una traiettoria meno prevedibile rispetto ai tradizionali ICBM, aumentando così la sua capacità di penetrazione. 

Nonostante queste caratteristiche all’avanguardia, lo studio ha anche evidenziato alcune debolezze: firme infrarosse molto intense che facilitano il rilevamento a distanza, manovrabilità limitata a causa di una bassa tolleranza al carico dinamico e restrizioni nella banda di comunicazione durante la fase terminale dell’attacco. Tuttavia, il loro impatto strategico è innegabile, poiché sono in grado di ridurre drasticamente i tempi di reazione del nemico, un fattore cruciale in scenari bellici moderni. 

Un altro aspetto che desta grande preoccupazione tra gli analisti statunitensi è il ritorno del cosiddetto Fractional Orbital Bombardment System, o FOBS. Si tratta di un sistema missilistico che entra in orbita terrestre bassa prima di riportarsi verso il bersaglio, permettendo rotte imprevedibili e difficili da intercettare. La Cina avrebbe già effettuato un test avanzato di questa tecnologia nel luglio-agosto 2021, lanciando un veicolo ipersonico con un razzo Long March 2C. Il Pentagono è rimasto sorpreso da questa dimostrazione, mai vista prima: un sistema capace di combinare capacità orbitali con quelle ipersoniche. L’ex capo congiunto dei capi di stato maggiore statunitensi, generale Mark Milley, ha descritto l’evento come “molto vicino a un momento Sputnik”, richiamando alla memoria il primo satellite artificiale sovietico che nel 1957 diede inizio alla corsa allo spazio. 

Sebbene il FOBS non sia ancora pienamente operativo, l’Agenzia per l’Intelligence della Difesa degli Stati Uniti (DIA) stima che Pechino possa schierare fino a 60 unità entro il 2035, mentre Mosca potrebbe arrivare a disporne una dozzina. Questo tipo di minaccia, già esplorata durante la Guerra Fredda, è tornata improvvisamente d’attualità, soprattutto dopo il test cinese che ha fatto suonare campanelli d’allarme a Washington. 

Parallelamente, la Cina sta espandendo anche altre componenti del proprio arsenale nucleare. Secondo le stime della DIA, entro il 2035 il numero di missili balistici intercontinentali dotati di testate nucleari potrebbe crescere da 400 a 700, mentre i sottomarini lanciamissili balistici passeranno da 72 a 132. Ancora più significativa appare l’espansione dei veicoli ipersonici, che potrebbero salire da 600 a 4.000 entro il prossimo decennio. Molti di questi veicoli sarebbero in grado di colpire l’Alaska con testate convenzionali, segnando una presenza strategica avanzata. 

Di fronte a questa crescente minaccia, gli Stati Uniti hanno reagito varando il progetto Golden Dome, un ambizioso scudo missilistico concepito per proteggere il territorio nazionale da ogni tipo di attacco, compresi quelli provenienti dallo spazio. Annunciato poco dopo l’insediamento del presidente Donald Trump con un ordine esecutivo del gennaio 2017, Golden Dome mira a sviluppare una rete satellitare avanzata in grado di intercettare minacce durante la fase iniziale del lancio. Tra i programmi chiave inclusi nel piano figurano il sistema HBTSS (Hypersonic and Ballistic Tracking Space Sensor) e l’architettura satellitare diffusa PWSA, insieme a intercettori orbitali e forse armi a energia diretta. 

Il finanziamento iniziale per il progetto è stato di circa 24,7 miliardi di dollari, ma secondo il Congressional Budget Office il costo totale potrebbe superare i 542 miliardi nei prossimi venti anni. Nonostante l’enorme investimento, molte domande rimangono aperte riguardo alla struttura e alla fattibilità del sistema. Come ha osservato il deputato Ken Calvert, responsabile del Comitato Appropriazioni della Camera, nessuno sembra avere un quadro chiaro di cosa significhi davvero “Golden Dome” né come verrà implementato. 

In ultima analisi, possiamo affermare che la competizione globale nel campo delle armi ipersoniche e spaziali stia accelerando rapidamente. Cina e Russia guidano uno sviluppo tecnologico senza precedenti, costringendo gli Stati Uniti a rispondere con iniziative innovative ma complesse. Ogni progresso in questi settori ridefinisce continuamente la geografia strategica mondiale, ponendo nuove sfide per la stabilità internazionale. Il futuro della sicurezza globale sarà sempre più dominato dalla tecnologia, dall’intelligenza artificiale e dall’uso dello spazio come teatro strategico. Un futuro in cui la deterrenza richiederà innovazione continua, investimenti massicci e una visione globale. 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 12:50:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Bloomberg - Trump potrebbe imporre nuove sanzioni alla Russia

Il presidente statunitense Donald Trump sta valutando l’adozione di un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia qualora Mosca non compia progressi nei negoziati per il cessate il fuoco con l’Ucraina. Lo riporta Bloomberg, citando fonti europee al corrente della situazione. La proposta, avanzata dal senatore repubblicano Lindsey Graham, noto per le sue posizioni anti-russe, segnala un possibile cambio di strategia dell’amministrazione Trump, finora aperta a dialogare con il Cremlino.

Il testo, elaborato da Graham, prevede sanzioni economiche "devastanti", tra cui dazi del 500% sui beni provenienti da Paesi che continuano a commerciare con Mosca. Graham, storico sostenitore di politiche aggressive verso la Russia, ha definito la guerra in Ucraina un "conflitto per procura" a vantaggio degli Stati Uniti, arrivando in passato a definire la morte di soldati russi come "il miglior investimento fatto". Il senatore sostiene che la sua proposta abbia già il sostegno della maggioranza del Senato.

Dal 2022, sotto l’amministrazione Biden, gli USA hanno imposto sanzioni estese alla Russia in risposta all’escalation del conflitto. Trump, tuttavia, ha più volte espresso la volontà di ripristinare i contatti bilaterali e di revocare le misure punitive in cambio di un accordo di pace. Secondo Bloomberg, funzionari USA avrebbero avvertito in privato i partner europei che Trump potrebbe appoggiare il piano di Graham se la Russia "non cederà", con un possibile avvertimento diretto al presidente Vladimir Putin durante il colloquio telefonico in programma.

Il segretario di Stato Marco Rubio ha ribadito la possibilità di nuove sanzioni in un’intervista a CBS, sottolineando di aver sollecitato una tregua immediata durante un confronto con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Mosca, però, ha respinto le richieste di un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni, temendo che il regime di Kiev approfitterebbe della pausa per riarmarsi. Il Cremlino insiste invece su un negoziato che affronti le "cause profonde" del conflitto.

Intanto, l’Unione Europea ha approvato il 17° pacchetto di sanzioni contro la Russia, strumento di pressione per ottenere concessioni. La risposta russa non si è fatta attendere: il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha bollato come "inaccettabile" il "linguaggio degli ultimatum" occidentale. L’ex presidente Dmitrij Medvedev ha lanciato un monito sulle conseguenze di tale approccio: "Trattative fallite potrebbero portare a una fase più terribile della guerra, con nuove armi e partecipanti".

Mentre i colloqui di pace rimangono in stallo, la minaccia di sanzioni aggiuntive e le tensioni diplomatiche lasciano intravedere il rischio di un’ulteriore escalation.

Data articolo: Mon, 19 May 2025 12:23:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Cina e Pakistan rafforzano il partenariato strategico

In risposta a una domanda sulle relazioni attuali tra Cina e Pakistan e sulle aspettative per la visita imminente del Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri pakistano Mohammad Ishaq Dar in Cina, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha dichiarato che i due paesi sono "partner strategici cooperativi a tutto campo", caratterizzati da stretti scambi ad alto livello e cooperazione in vari settori.

La Cina intende sfruttare questa visita per attuare i consensi raggiunti dai leader, rafforzare la comunicazione strategica, approfondire la collaborazione e promuovere una comunità condivisa più stretta nel nuovo contesto internazionale.

Il Ministero degli Esteri cinese ha confermato che Dar visiterà la Cina dal 19 al 21 maggio, su invito del Ministro degli Esteri Wang Yi. Durante il soggiorno, Dar e Wang Yi discuteranno l'evoluzione della situazione regionale in Asia meridionale e il suo impatto su pace e stabilità, oltre a riesaminare le relazioni bilaterali e confrontarsi su sviluppi globali di interesse comune. La visita rientra negli scambi ad alto livello continuativi tra i due paesi, evidenziando l'impegno condiviso a rafforzare il partenariato strategico.

Sul tema India-Pakistan, Mao Ning ha ribadito la posizione cinese, sottolineando la disponibilità a mantenere un dialogo con entrambi, incoraggiando moderazione e cessazione delle ostilità per garantire stabilità regionale.

Data articolo: Mon, 19 May 2025 12:10:00 GMT
IN PRIMO PIANO
La lezione rumena: se il voto non piace a Bruxelles, si cambia il risultato

Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare”.
Una citazione che troppo spesso, e in maniera del tutto errata, viene attribuita allo scrittore statunitense Mark Twain.  In verità la frase in questione sembra essere senza paternità, ripresa spesso sui social network per sintetizzare il gap, la distanza incolmabile, tra espressione della volontà popolare e i rappresentanti eletti nell'ambito della cosiddetta democrazia parlamentare di stampo occidentale.

Ma questo epigramma è ormai del tutto superato.

L'illusione che il popolo potesse esprimere una qualsiasi legittimazione di un programma politico e dei suoi portavoce è stata smentita da tempo. Solo per restare in Italia, il governo dell'assemblaggio Draghi ha dimostrato plasticamente come maggioranza e opposizione non fossero altro che due facce della stessa medaglia (mi si perdoni il luogo comune).

La sovranità nazionale è del tutto svuotata e delegittimata dal vincolo esterno, dal potere sovranazionale: in parlamento si dibattono argomenti vuoti, atti a offrire la sensazione che vi sia effettivamente uno scontro tra visioni e programmi, ad esclusivo uso e consumo dei media di regime.

Ma quando si tratta di temi davvero fondamentali, come il Decreto Sicurezza, l'aumento delle spese militari, l'appoggio incondizionato al regime nazista ucraino, la "vicinanza ad Israele", fino all'autonomia differenziata, il parlamento italiano viene totalmente esautorato.

E senza alcun imbarazzo o tentativo di giustificare la violazione della costituzione.

La democrazia parlamentare è totalmente superata, non c'è più alcun bisogno di cercare consenso. La repressione ha sostituito la ricerca del consenso. La rigidissima censura mediatica manipola un consesso di individui frammentati, in una società resa sempre più liquida dall'esperimento pandemico e disposta ad essere controllata dallo spauracchio di un cambiamento climatico, dal terrore di un'invasione, che sia russa o migratoria, da false flag di ogni sorta.

L'Occidente ordoliberalista, imperialista e colonizzatore, al collasso davanti all'affermarsi di un nuovo mondo multipolare, si libera della zavorra della facciata democratica. Le menti possono essere manipolate, controllate, terrorizzate, le proteste represse, stigmatizzate, criminalizzate.

I partiti che appaiono potenziali competitor sono messi fuorilegge e le elezioni che esprimono un candidato non omologato alla Nato e alla UE vengono annullate.

Quello che è successo in Romania, con l'annullamento delle prime elezioni, la "non candidabilità" di Georgescu, un ballottaggio farsa impregnato di minacce ai media e ai canali social, (che solo Telegram ha osato denunciare), è la dimostrazione plastica che il detto attribuito a Mark Twain deve essere ridefinito: "Anche se votare facesse qualche differenza, annullerebbero la votazione e ti farebbero votare fino a quando non uscirà, sorprendentemente, quello che hanno già stabilito". 

E a quanto pare la famigerata ingerenza della Russia nelle elezioni rumene era solo una vergognosa fake.

Se fosse stata vera, i risultati del ballottaggio non sarebbero stati ribaltati.

L'ingerenza c'è e non ha stato Putin.

Data articolo: Mon, 19 May 2025 11:55:00 GMT
Popoli e dintorni
José “Pepe” Mujica “Facundo”, uno straordinario uomo e combattente dei popoli

 

E’ morto l'ex presidente dell'Uruguay, ricordato e raccontato in ogni angolo del mondo, con commozione e ammirazione non descrivibili con le parole. Se ne è andato “l’ultimo eroe…con una vita suprema”, come lo ha descritto Emir Kusturica. Della sua storia non comune ed eccezionale umanamente, sono piene le pagine in questi giorni. Vorrei invece qui sottolinearne due aspetti, che hanno marcato profondamente il suo percorso di vita e impegno, vissuti con le parole e con i fatti, con scelte pagate durissimamente. Sopratutto rivolgerli ai nostri giovani, ai nostri figli, con la speranza che se ne impossessino, come patrimonio utile per vivere la vita. Uno è la sua continua attenzione e il suo rivolgersi verso le nuove generazioni e i giovani, il futuro del pianeta, come diceva lui, la speranza dell’umanità. E l’altro lascar parlare lui, unico modo per capire fino in fondo chi è stato “Facundo”, che resterà con noi per sempre, con i suoi atti, pensieri ed esempio di lotta e di vita, per un mondo migliore. Come esempio di vita vissuta…in piedi, anche quando si è in ginocchio.

Chi era e cosa è stato Pepe Mujica, comandante Facundo

Fu spesso definito «il presidente più povero del mondo» perché dopo la sua elezione alla presidenza dell’Uruguay, nel 2009, continuò a vivere in una piccola casa di campagna vicino alla capitale Montevideo, continuando a lavorare nel suo orto e andare al lavoro ogni giorno al Palazzo presidenziale con il suo Maggiolino blu del 1987 e a fare le visite di stato nel mondo, volando in classe economica e devolvendo quasi il 90 per cento del suo stipendio mensile di presidente uruguaiano, alle persone più bisognose. La sua vita e la sua storia, al di là dei gesti pubblici, lo hanno reso un punto di riferimento e una figura amatissima dai movimenti popolari e socialisti non solo dell’America Latina, ma in tutto il mondo dei popoli oppressi e soggiogati dall’imperialismo. Un uomo allo stesso tempo potente e umile, visionario e concreto, autentico e fermo, amabile ma determinato nelle scelte di campo.

In un libro a lui dedicato (Una oveja negra al poder, “Una pecora nera al potere”), così si esprimeva: «Il problema è quando metti l’ideologia al di sopra della realtà. La realtà ti arriva come un pugno e ti fa rotolare per terra…Io devo lottare per migliorare la vita del mio popolo nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Questa è la realtà. Sto lottando per degli ideali, ok; ma non posso sacrificare il benessere della gente per gli ideali…».

Mujica è stato un uomo «umile ma coraggioso», mai affascinato dal potere in sé, ma impegnato a cercare il modo di farlo conciliare con la fedeltà alle proprie convinzioni e obiettivi concreti per le masse popolari, in modo da utilizzarlo. Su di lui sono stati girati film e documentari (Pepe Mujica, una vita suprema di Emir Kusturica, o Compañeros, che racconta i suoi anni di carcere, tra gli altri) e sono stati scritti moltissimi libri.

Era nato nel 1935, rimasto orfano di padre a otto anni e cresciuto in quella che lui stesso definì una «dignitosa povertà», vivendo una gioventù in un Uruguay attraversato da grandi fermenti politici e lotte popolari, che furono la sua culla per l’acquisizione di una coscienza profonda e determinata.

In modo retorico, spesso è stato, in alcuni ambienti della sinistra internazionale, ridotto a icona di un socialismo moderato e umanitario, ma la sua storia ci insegna ben altro. Sicuramente, come direbbe Gramsci, un uomo e un rivoluzionario che usava in politica la categoria del “buon senso”, ma unita alla fermezza di principi indiscutibili, a cui non ha mai abdicato. “…Nel bene o nel male appartengo a una generazione che ha cercato di cambiare il mondo…», affermò .

 Mujica fu innanzitutto un guerrigliero rivoluzionario. Alla fine degli anni sessanta entrò nella lotta armata nel Movimento di Liberazione Nazionale –Tupamaros, un’organizzazione marxista che si rifaceva agli obiettivi della Rivoluzione cubana. Mujica, in quegli anni, venne ferito sei volte in scontri armati e arrestato quattro.

Venne imprigionato nel 1972 trascorrendo in isolamento la maggior parte del tempo, nove anni, inclusi i due in cui fu confinato in una buca scavata nella terra dove condivideva lo spazio con topi e rane. Subì torture, privazioni, malattie e in seguito confessò che la punizione peggiore fu per lui quella di essere privato dei libri. «…A volte, il dolore è una cosa positiva se si è in grado di trasformarlo in qualcos’altro…La prigione è stata brutta, ma allo stesso tempo ho ritrovato me stesso…Non mi sono mai pentito mai di ciò che ho vissuto perché se non l'avessi vissuto non avrei imparato così tanto. E nella vita si impara molto di più dal dolore e dalla sconfitta che dalla prosperità…Se mai vi dovesse succedere qualcosa, cercate di ricordare che siete forti, che potete ricominciare e che ne vale la pena...», dirà Mujica in uno dei suoi assidui incontri con studenti e giovani, a cui teneva di più. Quei giovani, che quando si rivolgeva a loro o ascoltava le loro riflessioni, con attenzione e affetto, spesso i suoi occhi brillavano e qualche volta si inumidivano, per poi spronarli a non arrendersi e non spaventarsi di fronte alla eventualità di cambiare il mondo. Perché gli unici sconfitti nella vita e nella storia sono quelli che smettono di lottare e sognare.

Fu liberato solo nel 1985 grazie all’amnistia generale concessa a tutti i prigionieri politici incarcerati dal regime, dopo la sconfitta della dittatura dalle forze popolari, che nel frattempo erano prevalse.

Evase di prigione due volte, una da film, nel 1971, dal carcere di Punta Carretas, una delle più affollate e dure: 111 fuggitivi.

Trascorse in carcere un totale di circa quindici anni.

Dopo aver abbandonato la lotta armata Mujica creò il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), che entrò a far parte della coalizione di sinistra Frente Amplio. Eletto deputato e poi senatore, tra il 2005 e il 2008 fu ministro per l’Allevamento, l’Agricoltura e la Pesca imponendo da subito uno stile politico differente e tutto suo.

Lasciato il governo, nel 2008, si candidò per le successive elezioni presidenziali del novembre 2009, dove venne eletto con quasi il 55 per cento dei voti. Da presidente, insieme alla sua inseparabile compagna di vita e di lotte, Lucia Topolansky, anche lei senatrice e vicepresidente del Paese dal 2017, Mujica non volle vivere nella residenza riservata al Presidente del Paese, nel centro di Montevideo e rimase nella sua piccola casa di meno di 50 metri quadrati, alla periferia della capitale, con l’appezzamento di terra dove coltivava fiori, la cui rivendita era stata per lungo tempo il suo unico mezzo di sussistenza. Durante la forte ondata di freddo che colpì l’Uruguay all’inizio del suo mandato, inserì addirittura la residenza presidenziale nell’elenco delle strutture aperte a chi non aveva una casa.

Da Presidente, dal 2010 al 2015, ha vissuto per tutta la durata del suo mandato con uno stipendio di soli 485 dollari al mese, rinunciando all’87 per cento del proprio stipendio e trattenendo solo ciò che riteneva strettamente necessario per le spese correnti. «…È una questione di senso della libertà…Se non si dispone di molti beni allora non c’è bisogno di lavorare tutta la vita come uno schiavo per mantenerli e quindi si ha più tempo per sé. Potrei sembrare un vecchio eccentrico, ma questa è solo una mia libera scelta».

In tutto il mondo la sua fama continuò a fare notizia. Come si poteva, ha scritto Libération, non amare un leader che poteva arrivare a una riunione del Consiglio dei ministri in sandali con i pantaloni arrotolati, o lasciare un incontro dicendo: “…Mi dispiace, devo aiutare mia moglie a raccogliere le zucche…”?

“Bisogna essere capaci di sognare”, ripeteva ai giovani, i suoi interlocutori prediletti, a cui sollecitava un impegno urgente del cambiamento, del costruire una nuova cultura contro quella dominante, adottando il criterio della serietà, del rispetto per la Natura, dello spendere il tempo per le relazioni e non per i consumi, del “fare per gli altri” a cui tutti devono sentirsi chiamati, da cui chiunque abbia una coscienza e una sensibilità, non possono disertare.

Quando lasciò la politica istituzionale, nell’ottobre del 2020, all’età di 85 anni, spiegò così la sua decisione: «…A cosa serve un vecchio albero se non lascia passare la luce affinché nuovi semi possano crescere tra le sue foglie?...». Ai giovani militanti che si preparavano a raccogliere la sua eredità disse: «…Non siate delle formiche o degli scarafaggi, perché avete una coscienza. Invece di inseguire un destino naturale, una tradizione o di condurre una vita senza senso, potete fare qualcosa nel mondo in cui vivete. Prendete la vita nelle vostre mani e costruite un progetto collettivo…».

Nel 2020 quando annunciò la rinuncia all'incarico da senatore per motivi di salute, Mujica rivolse un pensiero ai giovani: "Avere successo nella vita non significa fare soldi, ma rialzarsi e ricominciare ogni volta che si cade…".

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Pepe Mujica Facundo:  “…Bisogna essere sempre capaci di sognare, soprattutto pensare che è possibile dare il proprio contributo per un mondo migliore. Iniziai a militare e ad imparare, con molti altri, quando ero giovane ed abbiamo perseverato fino ad oggi. Ma erano tempi diversi, credevamo di poter cambiare la società o tutto quello che accadeva nel mondo…”.

 L’ultima lettera

IO, PEPE MUJICA, vi racconto.

Sono stato guerrigliero tupamaro, agricoltore e politico. Ma ora sono stanco.

Senza smettere di essere ciò che sono stato, soprattutto, guerriero.

Ma ora sto morendo e pure un guerriero ha diritto al suo riposo, 

lo impone il tumore che mi sovrasta.

Tutte le strade della mia terra portano al mio cuore e so distinguere

ciò che è passeggero da ciò che è definitivo.

Sono stato io ad aver scelto questa strada e non mi lagno dall’essere arrivato qui, a 89 anni.

Ora ho bisogno di silenzio. Il silenzio è la fonte dei venti, che portano via l’eco della vita,

le pugnalate ostili, i denti, le spille, le bare, gli strappi delle migliaia di brividi,

i turbinii di pianti e cordogli.

Lasciatemi nel silenzio, all’ombra dei miei fichi e dei miei meli, della lingua che resiste alle parole

che feriscono a tradimento, delle sponde che baciano i tramonti, leccati dalle onde.

Ridatemi il silenzio, poiché voglio curare la ferita, che mi lascio nell’anima,

il dolore delle foreste devastate, dei boschi di cemento dove crescono la povertà indomabile,

la giustizia non realizzata, le libertà infrante.

Ridatemi il silenzio, poiché voglio ritornare ai miei ortaggi, mentre, tranquillamente,

in attesa della pace inevitabile, medito sulla bellezza della vita, su quante volte sono caduto e su quante altre mi sono rialzato, sui buoni amici che mi accompagnarono e hanno persino ballato insieme a me. Ridatemi la pace e non chiedetemi più parole.

Ho bisogno del miracolo delle labbra chiuse, delle bocche mute, delle ombre tiepide,

dei battiti assenti.

Guerriero sono e continuerò a lottare, senza tregua, mai sconfitto.

La vita è sempre avvenire. La vita mi perseguita, pur se sto morendo.

Quanta vita c’è nella morte! Ma quanta di più c’è nella vita!

Hasta Siempre, comandante Facundo!   (Rodrigo Rivas, da Pressenza)

Vivere in sobrietà per avere più tempo per sé

Nella nostra storia ci è costato molto imparare questa verità tanto semplice.

Oggi girando il mondo dico ai giovani, alle nuove generazioni di non arrendersi e che sì, è vero, è difficile cambiare il mondo: ma possiamo cambiare la nostra vita, il nostro modo di vivere.

Con questo voglio dire che viviamo sottoposti ad una pressione continua e potente per essere, in ogni momento, compratori compulsivi. Quando compriamo non lo facciamo con i soldi ma con il tempo della nostra vita che sciupiamo per avere i soldi.

Che cos’è la libertà personale? E’ il tempo della mia vita che utilizzo per le cose che mi motivano, e mi danno piacere. Quando sono obbligato ad utilizzare il tempo della mia vita per soddisfare necessità, non sono libero, sono sottomesso alle necessità e quindi se moltiplico i bisogni finisco pagando con il tempo della mia unica vita o di altre vite che lavorano con me, cosa ancora peggiore. Non lasciarsi vincere dal mercato…

Bisogna avere tempo per gli affetti: tempo libero per le relazioni umane, per i figli, per gli amici, perché alla fine sono tutto ciò che ci resta. Ciò che appare chiaro è che nella nostra società tutto è stato costruito per fare affari, speculare, vendere e comprare. Se viviamo comprando, dobbiamo avere soldi, fare credito e lavorare ancora di più per pagare i debiti. In questo intreccio la vita ci scappa via…

La preoccupazione è per quelli che verranno dopo di noi.

Bisogna imporre una mentalità contadina di cura dell’acqua, della natura: rendersi conto che quello che ci stiamo giocando è la vita…Quando si diventa vecchi ci si avvicina alla morte e il modo per continuare a vivere è preoccuparsi per quelli che verranno dopo di noi.

Quindi fate tutto il possibile, prima per tutti quelli che soffrono in questo mondo, e poi per il mondo che verrà. Siamo sul ponte di una nave che ha bisogno di essere calafatato e i governi non capiscono o non vogliono capire: si preoccupano di chi vincerà le prossime elezioni e sono corresponsabili a causa della loro irresponsabilità politica…

La crisi ecologica è conseguenza della mancanza di responsabilità politica.

Mai, mai l’uomo ha avuto tanto come oggi: mai ha avuto gli strumenti a disposizione come oggi, mai il potere dei nostri giorni!...Aristotele, 350 anni prima di Cristo, diceva che “l’uomo è un animale politico”, ed aveva ragione. L’uomo è un animale gregario, non può vivere in solitudine come i felini. Ha bisogno del gruppo, ha bisogno della famiglia. Questa è la sua forza: imparare a cooperare con il resto della società. Per questo ha potuto superare l’uomo di Neanderthal, un parente più forte ma più solitario.

Deve esserci una società, ma per gestire le contraddizioni della società c’è bisogno della politica. Per questo l’uomo è un animale politico. La società è così importante che non ce ne rendiamo conto…Non si può vivere senza l’interdipendenza. È la società che ha permesso di sviluppare quello che si chiama “civiltà”, che è l’eredità più grande che riceviamo quando nasciamo.

Ora il ruolo della politica è essenziale per una necessità intrinseca della società: i salari, la ridistribuzione delle risorse, la salute, la pace, l’educazione, le strade, il lavoro, i diritti…tutto è determinato da quello che fa o non fa la politica.

Ma al tempo stesso siamo esseri viventi e ogni essere vivente possiede una goccia di egoismo.

Per sopravvivere dobbiamo lottare e, anche se sappiamo che moriremo, lottiamo per vivere. Questo egoismo biologico è sano, è uno strumento biologico che ci serve per difendere la vita e procrearla.

Combattiamo la morte procreando e prendendoci cura dei nostri figli sapendo che alla fine perderemo. Questo vuol dire che, da un lato, abbiamo bisogno di cooperare, abbiamo bisogno di mantenere la società e contemporaneamente dobbiamo conciliare questo egoismo naturale.

Se a dominare è l’egoismo poveri noi! Quando domina l’egoismo, il lupo è lupo per l’altro uomo.

La lotta politica e l’impegno sociale: fare qualcosa per gli altri è fare qualcosa per noi stessi

Uno è preda della propria vita perché nella società ci sono sempre delle differenze, ci saranno mancanze, ferite, ci saranno sempre posti che non funzionano, ci saranno sempre errori o mancanze umane, perché nasciamo in situazioni diverse…Credo che esista una parte della nostra esistenza che, per quanto poveri possiamo essere, ci permetta di fare qualcosa, anche se poco, per gli altri. Quello che prima un compagno chiamava atteggiamento, non è per gli altri ma per noi, per la nostra dignità di esseri umani. Quando cerchiamo di aiutare qualcuno stiamo valorizzando ciò che di meglio abbiamo dentro e frenando al tempo stesso l’animale egoista che coesiste dentro di noi. È difficile conoscere se stessi. Per questo il lavoro sociale è una forma di espressione di fare politica: perché ha come obiettivo la convivenza della polis, ovvero mitigare i disagi di fasce della popolazione…Io credo che la lotta politica deve essere intrisa di impegno sociale. 

Non si può dire “Sì, un giorno cambieremo il mondo!” “I problemi si risolveranno!”…

E intanto che aspettiamo un mondo migliore che succede in questo? No, sono due facce della stessa lotta: la lotta politica si rafforza con lo sforzo delle organizzazioni sociali e viceversa. 

…Non sappiamo mai tutto. A volte dobbiamo imparare dalle persone molto umili. Per esempio, il tetto più costoso che ora si vende nel mio Paese, per i turisti che hanno soldi, è fatto di paglia! …Però fare una buona “quincha” di paglia non è facile… Ci sono conoscenza da intercambiare!

…La frenesia consumistica ci ruba la libertà, invade il posto che dovrebbe occupare l’emozione. Nella vita dobbiamo riservare del tempo per le relazioni umane, l’amore, l’amicizia, l’avventura, la solidarietà, la famiglia…I giovani devono stare in guardia dai pericoli dell’alienazione sociale. Non sprecate il vostro tempo lavorando per guadagnare soldi, avrete solo sprecato la vostra vita, il tempo della vostra vita, la cui unica cosa importante è viverla con gli altri. Vivi come pensi o finirai per pensare come vivi….

 

Enrico Vigna, IniziativaMondoMultipolare/CIVG – maggio 2025

Data articolo: Mon, 19 May 2025 10:45:00 GMT
WORLD AFFAIRS
USA, la bomba a orologeria fiscale che potrebbe esplodere dopo che gli Stati Uniti perderanno il loro rating creditizio più alto

 

Aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse, così Moody's ha revocato per la prima volta il rating creditizio più alto agli Stati Uniti. Un simile scenario ha esacerbato i timori degli investitori circa l'imminente minaccia di una bomba a orologeria fiscale.

Spencer Hakimian, fondatore di Tolou Capital Management di New York, citato dalla Reuters, ha ribadito che il declassamento dell'agenzia di rating  porterà alla fine a maggiori costi di prestito per i settori pubblico e privato negli Stati Uniti.”

Da parte sua, Gennadiy Goldberg, direttore della strategia sui tassi statunitensi presso TD Securities, si aspetta che la situazione "riporti l'attenzione del mercato sulla politica fiscale e sul disegno di legge attualmente in fase di negoziazione al Congresso", riferendosi a un ampio pacchetto sponsorizzato dai repubblicani che include tagli fiscali, ma anche aumenti della spesa e riduzioni della rete di sicurezza sociale, che potrebbero aggiungere migliaia di miliardi di dollari al debito degli Stati Uniti.

Occhi puntati sul Congresso

Secondo l’agenzia questo emendamento, soprannominato "Big, Beautiful Bill", sta tenendo nervosi gli investitori. Carol Schleif, responsabile della strategia di mercato presso BMO Private Wealth, spiegando che il declassamento di Moody's potrebbe rendere i finanziatori più cauti, ha ricordato che "Il mercato obbligazionario ha seguito da vicino quanto accaduto quest'anno a Washington in particolare".

"Mentre il Congresso discute il 'Big, Beautiful Bill', i vigilanti obbligazionari osserveranno attentamente la situazione per assicurarsi che segua una linea fiscalmente responsabile", ha aggiunto Schleif, riferendosi agli investitori obbligazionari che puniscono le cattive politiche rendendo proibitivamente costosi i prestiti per i governi.

Un declassamento storico

È la prima volta che la più grande economia del mondo perde il suo rating creditizio più alto. Venerdì, Moody's ha declassato il rating a lungo termine dell'emittente e il rating senior non garantito del governo degli Stati Uniti da Aaa ad Aa1.

L'agenzia statunitense ha spiegato che "questo declassamento di un livello sulla nostra scala di 21 livelli riflette l'aumento, in più di un decennio, del debito pubblico e dei rapporti tra pagamenti di interessi a livelli significativamente più elevati rispetto a quelli di altri paesi con rating simile".

Inoltre, ha aggiunto che "le amministrazioni successive e il Congresso degli Stati Uniti non sono riusciti a concordare misure volte a invertire la tendenza verso ampi deficit fiscali annuali e crescenti costi degli interessi".

Il provvedimento arriva in un momento in cui il debito nazionale degli Stati Uniti ammonta  a 36 trilioni di dollari.

 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Patrick Lawrence - Onde sul mare del silenzio

 

di Patrick Lawrence* - ScheerPost

Un paio di settimane dopo l'inizio della campagna di terrore di Israele a Gaza, due ottobre fa, un giornalista e romanziere di nome Omar El Akkad pubblicò una nota su X, precedentemente noto come Twitter, che da allora mi è rimasta impressa:

Pura sostanza, se volete la mia opinione, un'intrusione in quella terra proibita dove i tabù dell'umanità vengono ignorati e le scomode verità vengono apertamente articolate.    

El Akkad, egiziano di nascita che ha vissuto, scritto e scritto in Canada per tutta la sua vita, aveva già all'attivo alcuni romanzi di grande prestigio – " American War " del 2017 e " What Strange Paradise " del 2021 – quando ha offerto la suddetta osservazione. Lo scorso inverno ha pubblicato le sue amare riflessioni su Gaza e sulle ipocrisie dell'Occidente al riguardo con il titolo "Un giorno, tutti saranno sempre stati contrari a questo" . Il pensiero merita assolutamente di essere ripubblicato, ripubblicato in formato digitale e rilegato. 

Ultimamente mi sono chiesto se il giorno che El Akkad anticipa con cruda indignazione possa essere duro per noi. Coloro che pretendono di guidare e parlare a nome del mondo occidentale – parlamentari, alti dirigenti della politica estera, vari media aziendali – sembrano rompere il loro vergognoso silenzio 18 mesi dopo che avrebbero dovuto pronunciarsi per condannare la primitiva ferocia dello stato sionista. 

Nelle nostre post-democrazie, c'è una distanza enorme, spesso inesplorata, tra parole e azioni, tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto. Pertanto, non posso utilmente ipotizzare dove ci porteranno queste recenti espressioni di indignazione, le confessioni di errori e le mal riposte simpatie, tra cui spiccano. I cambiamenti di opinione, tuttavia, precedono quasi sempre i cambiamenti di politica e condotta. Chiunque abbia vissuto gli anni della guerra del Vietnam lo sa.

Fin dai primi giorni delle barbarie in tempo reale dell'esercito israeliano, ho sospettato che "lo Stato ebraico" fosse destinato a esagerare, a un certo punto. Il resto del mondo può solo tollerare di fingere che la strage di Gaza sia una guerra autorizzata dalla Bibbia contro – come funziona? – i discendenti di quei clan fantasma che odiano gli ebrei, noti come Amaleciti. Il progetto sionista è in fondo un tentativo di far sì che il mondo moderno riconosca le invocazioni di antiche guerre di vendetta, annientamento e paranoia razziale, che siano mai avvenute o meno, come legittimazione di orrori indicibili nel terzo decennio del XXI secolo . Prima o poi, pensavo, il razionale avrebbe prevalso sull'immaginario e sul mitologico – Atene, come la chiamano gli studiosi, su Gerusalemme. 

È finalmente arrivato questo momento? Tanto vale porsi la domanda. Una sessione d'emergenza di grande importanza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tenutasi il 13 maggio, suggerisce che l'incosciente sostegno dell'Occidente al terrorismo israeliano si sta ormai assottigliando. Lo stesso vale per una netta svolta verso verità schiette su Gaza in alcuni media occidentali. (E quanto è nuova questa notizia?) Iniziamo anche a sentire qualche smentita da parte di personaggi politici che finora hanno difeso l'indifendibile. In tempi come questi si corre spesso il rischio di interpretazioni eccessive, ma mi sembra che un cambiamento di opinione sia imminente, se non è già avvenuto.  

La cronologia degli eventi, abbastanza facile da leggere, indica che Israele ha oltrepassato il limite all'inizio di marzo, quando ha violato passo dopo passo l'accordo di cessate il fuoco a fasi stipulato a gennaio. Il 2 marzo, il governo Netanyahu ha annunciato che avrebbe bloccato tutti gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza. Il 18 marzo, l'esercito israeliano ha ripreso la sua campagna di bombardamenti, segnando una decisiva violazione del suo recente impegno.

I blocchi e le bombe non sono certo una novità per i palestinesi di Gaza. Ma questa volta lo Stato terrorista ha dichiarato la sua intenzione di intensificare la violenza oltre i 16 mesi precedenti, fino al rilascio di tutti gli ostaggi rimasti e all'eliminazione di Hamas. Si tratta di uno sterminio totale, proprio come si legge nel Deuteronomio, in Samuele e nelle Cronache - o in qualsiasi buona storia del Reich, aggiungo io. All'inizio di aprile, quando il Programma Alimentare Mondiale ha annunciato di aver esaurito le scorte di cibo, era chiaro che stavamo assistendo a una campagna di barbarie che non ha limiti.

La prima avvisaglia che il vento stava cambiando, se non mi fosse sfuggito un segnale precedente, è arrivata da un editoriale dell'Economist, pubblicato il 9 aprile con il titolo “Israele è intenzionato a distruggere Gaza”. Una sincerità scioccante, ricordo di aver pensato, molto diversa da quella dell'Economist in questo genere di questioni. Da sempre atlantisti, i redattori del settimanale britannico guardavano al Presidente Trump per scongiurare un disastro che nessuno avrebbe potuto sorvolare o giustificare e aspettarsi di essere preso sul serio. “Le prospettive sono fosche”, hanno scritto. “Senza la sua pressione, è difficile vedere qualcos'altro che possa impedire la distruzione definitiva di Gaza da parte di Israele”.

A distanza di un mese, abbiamo avuto una marea di notizie dai media e di dichiarazioni ufficiali in questo senso. Come hanno notato altri commentatori, il 6 maggio il Financial Times ha pubblicato un editoriale di fuoco - firmato dal comitato editoriale, una misura della sua gravità - con il titolo “Il vergognoso silenzio dell'Occidente su Gaza”. Wow, il FT non è da meno. Dopo aver sottolineato il blocco di Israele dopo il cessate il fuoco di acqua, cibo, medicine e ogni altra forma di aiuto umanitario, l'importante quotidiano britannico si scaglia contro i leader dell'Occidente:

... gli Stati Uniti e i Paesi europei, che presentano Israele come un alleato che condivide i loro valori, hanno emesso a malapena una parola di condanna. Dovrebbero vergognarsi del loro silenzio e smettere di permettere a Netanyahu di agire impunemente".

Più avanti, il FT elenca il pasticcio che il Presidente Trump ha combinato con le sue politiche incoerenti e i suoi salti mortali: Gaza come resort di lusso, sostegno al cessate il fuoco, dispensa a violarlo, mentre aumentano le armi. E poi questa conclusione:

Il tumulto globale scatenato da Trump aveva già distratto l'attenzione dalla catastrofe di Gaza. Tuttavia, più a lungo si protrae, più coloro che rimangono in silenzio o che sono costretti a non parlare si renderanno complici.

Distruzione totale, vergogna, complicità: Ascoltiamo tutti con attenzione ora che i media mainstream dicono quello che i media indipendenti hanno detto per tutta la durata di questa crisi.

Lo scorso fine settimana il liberale Independent ha pubblicato un proprio editoriale, “Porre fine all'assordante guerra a Gaza - è ora di parlare”. Qui un frammento:

È tempo che il mondo si svegli su quanto sta accadendo e chieda la fine delle sofferenze dei palestinesi intrappolati nell'enclave".

E, un giorno dopo, il Guardian ha fatto un passo avanti con "Il punto di vista del Guardian su Gaza: Trump può fermare questo orrore. L'alternativa è impensabile". “Che cos'è questo, se non un genocidio?”, si chiedono i redattori del giornale. “Quando gli Stati Uniti e i loro alleati agiranno per fermare l'orrore, se non ora?”.

L'orrore, l'orrore: La mente torna a “Cuore di tenebra” di Conrad, esattamente come dovrebbe: Bibi Netanyahu come il signor Kurtz, il progetto sionista come il vero volto della “civiltà” occidentale.

I media mainstream hanno un certo istinto di branco quando si presentano questioni delicate di ideologia e geopolitica, come ho visto negli anni passati a distanza ravvicinata. E come avrete notato, la recente ondata di indignazione dei media si è limitata soprattutto alla stampa britannica. Di questo genere di cose non si è parlato nel New York Times, controllato dai sionisti, e molto raramente nei media americani tradizionali. È la lobby israeliana al lavoro, per affermare ciò che dovrebbe essere ovvio.

Lo stesso vale per le figure politiche che hanno finalmente rotto il silenzio.

Josep Borrell, lo spagnolo dalla lingua schietta che in precedenza ha ricoperto il ruolo di direttore della politica estera dell'Unione Europea, ha dichiarato durante una cerimonia di premiazione il 9 maggio in Spagna (come riportato da The New Arab): “Siamo di fronte alla più grande operazione di pulizia etnica dalla fine della Seconda guerra mondiale, per creare una splendida destinazione turistica una volta che tutti i milioni di tonnellate di macerie saranno stati rimossi da Gaza e i palestinesi saranno morti o se ne saranno andati”.

Mark Pritchard, deputato conservatore, ha parlato alla Camera dei Comuni la scorsa settimana:

Per molti anni - sono in quest'Aula da 20 anni - ho sostenuto Israele praticamente a tutti i costi, in tutta franchezza. Ma oggi voglio dire che ho sbagliato e condanno Israele per ciò che sta facendo al popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania, e vorrei ritirare il mio sostegno alle azioni di Israele, a ciò che sta facendo in questo momento a Gaza. Sono davvero preoccupato che questo sia un momento della storia in cui si guarda indietro, in cui abbiamo sbagliato come Paese.

Spero che Omar El Akkad stia ascoltando tutto questo lassù a Toronto.

Tutto questo sembra improvvisamente preludere a martedì, quando il Consiglio di Sicurezza si è riunito nella già citata sessione d'emergenza presso il Segretariato di New York per considerare una realtà che nessuna assurdità sul “diritto alla difesa” può spiegare. Israele ha portato i 2,2 milioni di residenti della Striscia sull'orlo della fame di massa, della disidratazione e delle malattie. Le fotografie, i video e i resoconti giornalistici di quei coraggiosi giornalisti che ancora lavorano all'interno di Gaza stanno per diventare molto più orribili di quanto non siano stati negli ultimi mesi. Non può esistere un avvocato in vita - a parte i corrotti del Dipartimento di Stato e di altre parti di Washington - che non definisca l'assedio israeliano da marzo un crimine di guerra e un crimine contro l'umanità.

 

A suggerire lo spostamento delle sabbie in Occidente, sono stati Gran Bretagna, Francia, Danimarca e altri membri dell'Alleanza Atlantica a chiedere la convocazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dei 15 membri del Consiglio, solo gli Stati Uniti - non c'è bisogno di dirlo? - si sono rifiutati di chiedere allo Stato sionista di togliere urgentemente l'assedio e di permettere la ripresa del flusso di aiuti. Per rendere il punto ancora più vicino a noi, l'oratore che ha portato avanti la sessione è stato Tom Fletcher, un diplomatico britannico di lungo corso che ora ricopre il ruolo di sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari.

L'appassionato discorso di Fletcher vale la pena di essere letto per intero e la trascrizione è qui, fornita da ReliefWeb, una risorsa online gestita dal coordinatore delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. Mi soffermerò su alcune delle sue osservazioni più interessanti, quelle più suggestive del più ampio cambiamento dei venti che ho descritto:

Permettetemi di iniziare con ciò che vediamo e che siamo incaricati da questo Consiglio di riferire.

Israele sta deliberatamente e spudoratamente imponendo condizioni disumane ai civili nei Territori Palestinesi Occupati. [Fletcher affronta la crisi in Cisgiordania più avanti nel suo intervento].

Per più di 10 settimane, a Gaza non è entrato nulla: niente cibo, medicine, acqua o tende. Centinaia di migliaia di palestinesi sono stati nuovamente sfollati con la forza e confinati in spazi sempre più ristretti, dal momento che il 70% del territorio di Gaza si trova all'interno di zone militarizzate da Israele o è sottoposto a ordini di sfollamento.

Questo degrado del diritto internazionale è corrosivo e contagioso. Sta minando decenni di progressi sulle regole per proteggere i civili dalla disumanità e dai violenti e senza legge che agiscono impunemente.

L'umanità, la legge e la ragione devono prevalere. Questo Consiglio deve prevalere. Esigete che questo finisca. Smettete di armarlo. Insistere sulla responsabilità.

Alle autorità israeliane: Smettete di uccidere e ferire i civili. Eliminate questo blocco brutale. Lasciate che gli umanitari salvino delle vite.

Per coloro che sono stati uccisi e per coloro la cui voce è stata messa a tacere: Di quali altre prove avete bisogno ora? Agirete - con decisione - per prevenire il genocidio e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario? O direte invece: “Abbiamo fatto tutto il possibile?”.

Fletcher, che ha ricevuto il sostegno unanime dei membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - ancora una volta, dobbiamo escludere gli americani - ha riservato alcune delle sue critiche più aspre al piano USA-Israele di aggirare tutte le organizzazioni umanitarie internazionali e di riprendere gli aiuti attraverso gruppi privati che Washington e Tel Aviv chiamano pittorescamente “Fondazione umanitaria di Gaza”. I siti di distribuzione verrebbero ridotti da 400 a pochissimi. Ciò richiederebbe ai gazawi di percorrere lunghe distanze a piedi per ricevere gli aiuti; le unità militari israeliane circonderebbero questi siti e i percorsi che vi conducono.

La rappresentante degli Stati Uniti alla sessione, Dorothy Shea, ha difeso questo piano - “Esortiamo le Nazioni Unite a continuare le discussioni” - ma ha rifiutato di unirsi agli altri 14 membri del Consiglio per chiedere a Israele di porre fine al suo assedio illegale e lasciare che le organizzazioni umanitarie internazionali, perfettamente in grado, riprendano il loro lavoro. Per inciso, se volete seguire le depravazioni del Dipartimento di Stato sotto la guida di Marco Rubio, la trascrizione delle osservazioni di Shea vi rimetterà in sesto. La trovate qui.

Ed ecco Fletcher sul piano USA-Israele:

Per chiunque faccia ancora finta di avere dei dubbi, la modalità di distribuzione progettata da Israele non è la risposta.

In pratica esclude molti, tra cui persone con disabilità, donne, bambini, anziani e feriti. Costringe a ulteriori spostamenti. Espone migliaia di persone a danni. Crea un precedente inaccettabile per la fornitura di aiuti non solo negli OPT [i Territori Palestinesi Occupati], ma in tutto il mondo.

Limita gli aiuti a una sola parte di Gaza, lasciando insoddisfatti altri bisogni gravi. Condiziona gli aiuti a obiettivi politici e militari. Fa della fame una merce di scambio.

È un cinico spettacolo collaterale. Una distrazione deliberata. Una foglia di fico per ulteriori violenze e sfollamenti.

Se tutto questo ha ancora importanza, non ne fate parte.

C'è un tema nei commenti ispirati di Fletcher che mi sembra riflettere lo zeitgeist emergente, se questa è la parola giusta, tra le potenze occidentali - con l'eccezione, ancora una volta, degli Stati Uniti. Mi fa pensare ancora una volta al punto di Omar El Akkad. Suggerisce che il prezzo di non parlare contro il terrorismo del regime sionista - il “rovescio personale”, come dice El Akkad - ora arriva a superare il prezzo di parlare, come le persone di carattere mediocre calcolerebbero queste cose.

Lascio che Tom Fletcher concluda questo commento:

Vi chiedo di riflettere - per un momento - su quale azione diremo alle generazioni future che ognuno di noi ha intrapreso per fermare l'atrocità del XXI secolo di cui siamo testimoni quotidiani a Gaza. È una domanda che sentiremo, a volte incredula, a volte furiosa - ma sempre presente - per il resto della nostra vita.

Sicuramente tutti affermeremo di essere stati contrari. Forse diremo che abbiamo rilasciato una dichiarazione? O che confidavamo che la pressione privata potesse funzionare, nonostante le numerose prove del contrario?

O che pensavamo che un'offensiva militare più brutale avesse più possibilità di riportare a casa gli ostaggi rispetto ai negoziati che hanno portato a casa tanti ostaggi?

Forse qualcuno ricorderà che in un mondo transazionale avevamo altre priorità.

O forse useremo quelle parole vuote: “Abbiamo fatto tutto il possibile”.

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

*Patrick Lawrence, per molti anni corrispondente all'estero, soprattutto per l'International Herald Tribune, è editorialista, saggista, conferenziere e autore, di recente, di Journalists and Their Shadows, disponibile presso Clarity Press o su Amazon.  Tra gli altri libri ricordiamo Time No Longer: Americans After the American Century. Il suo account Twitter, @thefloutist, è stato definitivamente oscurato. 

Data articolo: Mon, 19 May 2025 06:30:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Accordo con gli USA. L'Iran indica la condizione fondamentale

 

Si può raggiungere un accordo sul nucleare tra il suo paese e gli Stati Uniti se Washington abbandona la sua posizione intimidatoria e revoca le sanzioni contro Teheran secondo il presidente iraniano Masoud Pezeshkian.

Il elader iraniano ha ribadito che non cederà mai alle pressioni di nessuno. "Raggiungere un accordo con gli Stati Uniti è possibile, ma la sua attuazione richiede una condizione fondamentale: che la parte statunitense eviti imposizioni e molestie. Perché non ci sottometteremo alla forza in nessuna circostanza".

In precedenza, Pezeshkian aveva affermato che l'Iran "non si  piegherà a nessun bullo ", in risposta alle critiche rivolte dal presidente degli Stati Uniti a Teheran durante il suo tour in Medio Oriente. "[Donald Trump] pensa di poter venire qui, gridare slogan e spaventarci. Per noi, il martirio è molto più dolce che morire nel nostro letto. Siete venuti per spaventarci? Non ci inchineremo a nessun aguzzino", aveva dichiarato il presidente iraniano  mercoledì.

I suoi commenti sono arrivati ??dopo che Trump aveva esortato tutti i paesi a sostenere le sanzioni statunitensi contro l'Iran.  Tuttavia, il capo della Casa Bianca ha aggiunto che "vuole raggiungere un accordo". "Ma affinché ciò accada, l'Iran deve smettere di sponsorizzare il terrorismo, porre fine alle sue sanguinose guerre per procura e cessare in modo permanente e verificabile la sua ricerca di armi nucleari ", ha osservato. 

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Data articolo: Mon, 19 May 2025 06:30:00 GMT
Italia
Scuola e propaganda: riflessioni critiche su un “paper” ideologico

 

di Luca Cangemi

È stato pubblicato, sul sito dell’Istituto Germani, un paper a firma di Massimiliano Di Pasquale e Iryna Kashchey, dal titolo impegnativo ma anche un po' surreale: “Narrazioni strategiche russe nei libri di testo delle scuole secondarie di primo grado italiane”. Le anticipazioni del documento, mesi fa, erano già state rilanciate dal ministro Valditara.

Prima di entrare nel merito delle molte parti poco convincenti del testo, è opportuno dire qualche parola sugli autori.

L’Istituto Germani, promotore dell’iniziativa e presso il quale Di Pasquale è ricercatore nonché responsabile dell’Osservatorio Ucraina, ha come finalità dichiarata quella di contrastare le “sfide alla comunità euro-atlantica”. Kashchey, dal canto suo, è una giornalista che lavora al telegiornale ucraino della Rai, prodotto del conflitto in corso.

Siamo, dunque, apertamente di fronte a una pubblicazione espressione della propaganda di guerra della NATO e del regime ucraino, non certo a una ricerca accademica.

C’è certamente una propaganda russa, e non ci stupisce quella NATO-ucraina; il punto è se questi propagandisti debbano sentirsi in diritto di entrare pesantemente nella vita della scuola italiana, dettando, incontrastati, le loro verità e aizzando il governo a imporre censure.

È bene ricordare che i libri scolastici sono scelti autonomamente dagli organi collegiali delle scuole, e il loro utilizzo rientra nella libertà d’insegnamento garantita ai docenti italiani, i quali sono perfettamente in grado di affrontare culturalmente e didatticamente le complesse vicende storiche. Magari hanno problemi legati al precariato e alla riduzione degli orari, ma questa è un’altra questione.

Quanto ai contenuti, il paper si rivela – come prevedibile – del tutto unilaterale, con frequenti menzogne e ingenuità imbarazzanti.

Particolarmente infantile è, ad esempio, il lamento ricorrente sull’uso dei toponimi russi anziché ucraini per le città. Ricordiamo agli autori che un libro italiano farebbe semplicemente ridere se seguisse quelle prescrizioni. Prendiamo il caso di Odessa, città con legami storici con l’Italia e citata spesso nella nostra letteratura: nessun testo italiano ha mai scritto “Odesa” con una sola “s”, come invece pretende il regime ucraino. Cosa dovremmo fare, allora? Censurare non solo i manuali scolastici, ma anche tutta la letteratura italiana?

Altrettanto incredibile è il tentativo di separare la storia russa da quella ucraina, attribuendo a quest’ultima un’impronta democratica fin dal Granducato di Lituania e Polonia del 1240 (!), come si legge testualmente a pagina 21.

Il ragionamento sulla Crimea, una delle pietre dello scandalo toponomastiche contro l’editoria scolastica italiana, è particolarmente contorto. Vi è anche una falsificazione evidente quando si afferma che la RSSA (Repubblica Socialista Sovietica Autonoma) di Crimea, dal 1921 al 1945, sarebbe stata una repubblica “separata”. Le repubbliche “separate” si chiamavano repubbliche federate; la Crimea, invece, era un’entità all’interno della Repubblica Sovietica di Russia.

Fantasioso è, infine, tutto il racconto degli eventi del 2014, come d'altronde lo è la negazione dell’esistenza di popolazioni russe in Crimea e nel Donbass.

Significative sono anche le omissioni, in particolare due: il referendum del 1991, in cui i cittadini ucraini, a larga maggioranza, confermarono la loro volontà di rimanere all’interno dell’URSS, e la strage della Casa dei Sindacati a Odessa, nonché, più in generale, la presenza di gruppi neonazisti con un ruolo tutt’altro che marginale nella vita politica ucraina.

Si potrebbe continuare a lungo a segnalare incongruenze e forzature in questo testo, ma forse non ne vale la pena. Vale la pena, invece, riflettere su come iniziative di questo tipo rischino di saldarsi con l’attività del ministro Valditara – come dimostrano le recenti “indicazioni nazionali per il primo ciclo” – e di rafforzare la spinta verso una scuola funzionale ai venti di guerra che soffiano sempre più forti in Europa.

Data articolo: Mon, 19 May 2025 06:30:00 GMT

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