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IN PRIMO PIANO
Esercito russo entra nella cittĂ  chiave di Seversk. Il primo commento di Putin

 

Il presidente russo Vladimir Putin ha ricevuto giovedì un rapporto sulla completa liberazione della città di Seversk, situata nella Repubblica Popolare di Donetsk. Lo ha riferito il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, al termine di una riunione presidenziale dedicata alla situazione nella zona dell'operazione militare speciale e allo sviluppo degli eventi nel nord della Repubblica. Lo riporta Tass.

Nel corso dell'incontro, Putin ha lodato l'esercito per aver mantenuto la parola data, ricordando che l'alto comando si era impegnato a portare Seversk sotto controllo russo entro il 15 dicembre. "Ora voglio restituire queste parole a lei e a tutti i suoi comandanti e soldati: L'ha detto e l'ha fatto. Un vero uomo!", ha dichiarato il presidente, rievocando un elogio ricevuto in passato da una civile del Daghestan.

Un obiettivo di valore strategico

La località è stata teatro di duri combattimenti per settimane, poiché era stata precedentemente rinforzata con fortificazioni in cemento. Il capo di Stato Maggiore russo, Valery Gerasimov, aveva già informato in precedenza che a Seversk erano in corso intensi combattimenti urbani.

Gli esperti militari hanno sottolineato l'importanza strategica della città per le forze armate ucraine, che la utilizzavano come centro logistico cruciale. L'esercito ucraino la impiegava come un hub per l'accumulo di truppe, da cui i soldati venivano inviati verso la linea di contatto.

Il Ministero della Difesa russo ha diffuso giovedì le prime immagini della città liberata. Secondo il comunicato dell'ente, dopo la presa del controllo, i militari russi hanno perlustrato gli edifici residenziali e hanno offerto assistenza medica, cibo, acqua potabile e medicine ai civili rimasti. Le forze russe stanno anche ispezionando l'area alla ricerca di ordigni esplosivi e offrono agli abitanti la possibilità di essere evacuati in zone sicure.

Seversk si aggiunge a una serie di località che, secondo le dichiarazioni russe, sono state liberate negli ultimi giorni, tra cui Novodanilovka nella provincia di Zaporizhzhia, e Chervonoye e Rovnoye nella Repubblica Popolare di Donetsk. Inoltre, Gerasimov ha riferito che la parte meridionale della città strategicamente importante di Dimitrov (Mirnograd per l'Ucraina) è sotto il totale controllo dell'esercito russo.

Putin, nel commentare gli sviluppi, ha sottolineato la "buona dinamica" delle truppe russe su tutti i fronti, affermando che l'iniziativa strategica sul campo di battaglia è completamente nelle mani dell'esercito russo.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 19:00:00 GMT
Dalla Russia
In Polonia arrestano gli storici russi


di Marinella Mondaini*

In Polonia è stato arrestato un rinomato scienziato russo e alto rappresentante dell'Hermitage, Alexander Butjagin.

Il sito web ufficiale dell'Hermitage afferma che Aleksandr Butjagin è il capo del Dipartimento del Mondo Antico e il segretario della Commissione Archeologica del museo.

Lo storico e archeologo, stava tornando a San Pietroburgo dopo aver tenuto varie conferenze in città europee. Passare dalla Polonia gli è stato fatale. Su richiesta dell'Ucraina è stato arrestato il 4 dicembre, ma le autorità russe sono state informate sei giorni dopo.

Oggi è stato riferito che lo scienziato Alexander Butjagin è stato arrestato dagli agenti dell'Agenzia per la sicurezza interna polacca, perché ricercato dalle autorità di Kiev con l'accusa di aver condotto “ricerche archeologiche illegali in Crimea”. Gli ucraini lo accusano di aver “distrutto siti del patrimonio culturale della Crimea" e di aver causato danni per 200 milioni di grivne (circa 4,7 milioni di dollari).

Difficile immaginarsi un'accusa più ridicola e assurda.

Secondo Andrej Ordaš, l'Incaricato d'Affari russo in Polonia, lo studioso è consapevole dell'assurdità delle accuse mosse contro di lui.
 
La portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zacharova, ha espresso la speranza che anche la Polonia riconosca l'assurdità delle accuse mosse da Kiev ad Aleksandr Butjagin e ha dichiarato che "I rappresentanti dell'ambasciata russa a Varsavia hanno fatto visita a Butjagin e sono in contatto con il suo avvocato, che sta presentando ricorso contro la decisione del tribunale sul suo arresto temporaneo"

Dopo l'arresto, Butjagin è stato interrogato presso la Procura Distrettuale di Varsavia, ma si è rifiutato di fornire qualsiasi informazione. Su richiesta della Procura, il tribunale ha disposto la custodia cautelare dello scienziato per 40 giorni.

Si prevede che Kiev ne chiederà presto l'estradizione.

La procura ucraina ha inviato una serie di documenti in Polonia, tra cui il mandato di arresto per Butjagin. È accusato ai sensi dell'articolo 298 del Codice penale, che prevede la responsabilità per "la distruzione di monumenti culturali durante operazioni militari". Kiev ha inserito lo scienziato nella lista dei ricercati nel 2024. Butyagin potrebbe rischiare fino a 10 anni di carcere in Ucraina , secondo un portavoce della Procura distrettuale di Varsavia.
Le autorità polacche sono in attesa di ulteriori informazioni dall'Ucraina, che serviranno da base per la decisione sulla legalità dell'eventuale estradizione di Butjagin.

La Polonia non può vivere senza fare le regolari schifezze alla Russia. Ma la corda si potrebbe rompere.*Post Facebook del 11 dicembre 2025
Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 19:00:00 GMT
MondiSud
Dalla propaganda alla pirateria: perché gli Stati Uniti vogliono il petrolio venezuelano a ogni costo


di Fabrizio Verde

Mercoledì 10 dicembre 2025, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato pubblicamente il sequestro di una petroliera nelle acque adiacenti al Venezuela, dichiarando senza alcun imbarazzo: “Beh, ce la teniamo, immagino”. Con queste parole, pronunciate con un tono quasi scherzoso davanti ai giornalisti, Washington ha dato il via a un’operazione che Caracas ha immediatamente definito “palese furto” e “atto di pirateria internazionale”. Si tratta di un episodio che non solo viola i fondamenti del diritto marittimo internazionale, ma che smaschera con rara chiarezza le vere intenzioni strategiche ed economiche che da anni animano l’aggressività statunitense nei confronti della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

Il comunicato ufficiale del governo venezuelano, diffuso dal ministro degli Esteri Yván Gil, sottolinea che non si tratta di un’azione isolata. Già durante la campagna elettorale del 2024, Trump aveva dichiarato apertamente che il suo obiettivo era “impadronirsi del petrolio venezuelano senza versare alcun compenso in cambio”. Questa ammissione, unita al furto spacciato per sequestro, non lascia dubbi: la cosiddetta “politica di pressione” contro Caracas non è mai stata motivata da preoccupazioni umanitarie, democratiche o di sicurezza, ma da un piano deliberato di saccheggio delle risorse energetiche del paese sudamericano, che possiede le più vaste riserve petrolifere accertate al mondo. Senza dimenticare altre risporse come oro, minerali e acqua dolce di cui il Venezuela è ricco.

L’operazione, condotta da unità del Federal Bureau of Investigation (FBI), della Homeland Security Investigations (HSI), della Guardia Costiera e del Dipartimento della Difesa, è stata immortalata in un video pubblicato dalla stessa procuratrice generale USA, Pam Bondi. Le immagini mostrano un elicottero militare statunitense che si posiziona sopra la nave, da cui scendono agenti armati che irrompono a bordo. Nessuna autorizzazione internazionale, nessun mandato emesso da un tribunale neutrale, nessuna prova presentata pubblicamente: soltanto una forza armata che si appropria arbitrariamente di un bene che, come evidenzia Caracas, appartiene al popolo venezuelano.

Washington ha giustificato l’azione come una “procedura giudiziaria esecutiva contro una nave apolide”, sostenendo che il petrolio trasportato sarebbe stato oggetto di sanzioni. Tuttavia, questa motivazione appare fragile, se non pretestuosa. In primo luogo, il concetto di “nave apolide” è spesso usato in modo strumentale per eludere le norme sulla sovranità e la protezione dei beni statali. In secondo luogo, il governo venezuelano ricorda che lo stesso Stato nordamericano, attraverso la compagnia Chevron, continua a operare legalmente in Venezuela e a comprare petrolio venezuelano grazie a licenze speciali concesse dal Tesoro statunitense. Come osserva il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov: “Chevron opera in Venezuela e acquista petrolio venezuelano. Allora, quali volumi ‘illegali’ di greggio erano su quella nave? È una domanda che va chiarita”.

La reazione internazionale è stata netta e articolata. L’Iran ha condannato “l’azione illegale e ingiustificata” degli Stati Uniti, definendola una “grave violazione del diritto internazionale” e un tentativo di “promuovere l’anarchia”. Cuba, attraverso il suo ministro degli Esteri Bruno Rodríguez, ha denunciato un “vile atto di pirateria”, in palese violazione della libertà di navigazione e del libero commercio. La Russia, invece, ha scelto un tono più diplomatico ma altrettanto fermo: Lavrov ha chiesto trasparenza sulle basi legali dell’operazione e ha ribadito che questioni come la sicurezza marittima devono essere affrontate collettivamente, non tramite “azioni unilaterali che impongono fatti compiuti”. Nella stessa giornata, il presidente Vladimir Putin ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo venezuelano Nicolás Maduro, nel quale ha espresso solidarietà a Caracas e ha riaffermato l’impegno a sviluppare cooperazioni strategiche nei settori energetico, finanziario e commerciale.

Anche in America Latina la condanna verso le azioni ostili degli USA è significativa. Sebbene con toni cauti, governi come quelli di Colombia, Messico e Brasile hanno espresso preoccupazione per l’escalation militare statunitense e hanno ricordato l’importanza del principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati. Parallelamente, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha criticato le recenti operazioni navali USA, definendole “esecuzioni sommarie” che violano il diritto internazionale umanitario. A rendere ancora più inquietante il contesto è il fatto che, secondo le stesse agenzie degli Stati Uniti come la Drug Enforcement Administration (DEA), la rotta venezuelana rappresenta meno del 20% del traffico di droga diretto negli Stati Uniti, con oltre l’80% delle sostanze che entra via Pacifico. I bombardamenti condotti da Washington contro presunte “narcoimbarcazioni” - che hanno causato la morte di oltre ottanta persone - appaiono dunque come una copertura per operazioni di natura ben diversa. In quest’ottica il furto della petroliera venezuelana può essere definito paradigmatico. 

Già dal mese di agosto, infatti, gli Stati Uniti hanno mantenuto un imponente schieramento militare al largo delle coste venezuelane: cacciatorpediniere, un sottomarino nucleare, caccia da combatimento e truppe speciali, ufficialmente mobilitati nell’ambito dell’“Operazione Lancia del Sud”, presentata come anti-narcotraffico. Ma Caracas non crede a questa narrazione. Il ministro della Difesa venezuelano, Vladimir Padrino López, ha più volte avvertito: “L’imperialismo vuole dominare e fare suo questo continente”. E ha lanciato un monito all’intera regione: “Allerta, Venezuela! Allerta, America Latina!”. Secondo il governo bolivariano, il vero obiettivo è un cambio di regime finalizzato all’appropriazione di risorse strategiche: petrolio, gas, oro, persino acqua.

Ma allora, perché proprio ora? Perché gli Stati Uniti sembrano disposti a mettere in discussione la propria credibilità internazionale per un ingente carico di petrolio?

La risposta va cercata nei dati economici più recenti sul futuro dell’industria estrattiva statunitense. Secondo un rapporto dell’Enverus Intelligence Research pubblicato nel dicembre 2025, il costo marginale del petrolio da scisto negli Stati Uniti - finora pilastro dell’indipendenza energetica statunitense - è destinato a salire in modo drammatico. Si passerebbe dagli attuali 70 dollari al barile a ben 95 dollari entro la metà degli anni Trenta. Questo incremento è dovuto all’esaurimento progressivo dei giacimenti più ricchi e accessibili (il cosiddetto “core inventory”) e al conseguente spostamento verso aree più speculative e costose da sfruttare.

Alex Ljubojevic, direttore di Enverus, ha dichiarato: “L’egemonia del Nord America nel soddisfare la crescita della domanda globale di petrolio sta venendo meno. Nei prossimi dieci anni, il suo contributo scenderà al di sotto del 50%, a differenza del decennio precedente, in cui ha coperto oltre il 100% della domanda aggiuntiva”. In altre parole, il “miracolo dello shale oil” sta esaurendo la sua spinta. Eppure, la domanda mondiale di energia continua a crescere. In questo contesto strategico, il Venezuela - con le sue riserve petrolifere stimate in oltre 300 miliardi di barili - diventa un’opportunità troppo grande per essere ignorata.

Non a caso, Trump ha esultato per le dimensioni della petroliera sequestrata: “Una nave grande. Molto grande. La più grande che si sia mai vista”. E ha aggiunto con ambiguità: “Stanno accadendo altre cose che vedrete presto”. Queste parole, unite all’annuncio esplicito di voler trattenere il carico di greggio, rivelano una logica predatoria che non ha più bisogno di nascondersi dietro la retorica sui diritti umani o sulla democrazia. Come ha affermato la vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez: “Cadono le maschere. La verità è stata svelata. L’obiettivo reale degli Stati Uniti è il petrolio del Venezuela: rubarlo e appropriarsene illegittimamente, senza pagare nulla”.

A rendere ancora più complessa la situazione è il coinvolgimento diretto di attori dell’opposizione venezuelana in questa partita geopolitica. Il segretario generale del Partito Socialista Unido del Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello, ha rivelato che la multinazionale ExxonMobil avrebbe finanziato con tre milioni di euro la logistica del viaggio di María Corina Machado in Norvegia per il premio Nobel, coprendo spese per oltre duecento persone tra familiari, giornalisti, influencer e politici di destra. Secondo Cabello, Machado avrebbe promesso alla compagnia di ripagarla con petrolio venezuelano, legando così il proprio progetto politico a interessi estranei alla sovranità nazionale. Questo episodio, denunciato a giusta ragione come un tentativo di “svendere il patrimonio nazionale in cambio di appoggio internazionale”, mostra quanto il conflitto in Venezuela non sia più solo interno, ma una battaglia globale per il controllo delle risorse energetiche del futuro.

In ultima analisi, il sequestro della petroliera non è un semplice atto di forza: è un sintomo di un mutamento strutturale nelle strategie imperiali nordamericane. Di fronte al declino della propria capacità produttiva che hanno reso gli un paese esportatore invece che importatore di petrolio, Washington non esita a ricorrere a forme di appropriazione diretta, bypassando il diritto internazionale e legittimando l’uso della forza come strumento di politica commerciale. Questo episodio, se non fermato, potrebbe aprire la strada a un nuovo ciclo di colonialismo energetico, dove la sovranità dei popoli del Sud del mondo viene calpestata a vantaggio di poche multinazionali e di un’agenda geopolitica unilaterale. Il Venezuela, sostenuto da una crescente solidarietà internazionale, si trova oggi in prima linea nella difesa di un principio fondamentale: le risorse naturali appartengono a chi le possiede, non a chi ha le navi più potenti. E come ha affermato Diosdado Cabello: “Contro la dignità di un popolo non possono vincere né le bombe, né i missili, né la guerra psicologica”.

 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 16:17:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Alla consegna del Premio Nobel, Maria Corina Machado giustifica la pirateria Usa contro il suo paese (VIDEO)


Alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace, Maria Corina Machado appoggia con entusiasmo l'atto di pirateria militare compiuto dagli Stati Uniti contro una petroliera venezuelana e il furto del suo carico di petrolio.

"Le istituzioni imperialiste occidentali onorano i politici del Sud del mondo che cedono le risorse dei loro paesi". E' il commento del giornalista fondatore di The Gray Zone Max Blumenthal. 

Queste le sue parole sottotitolate in italiano. 


"Beh, ehm, è collegato a quello che, che ho risposto prima perché, come ho detto, il regime sta usando, ehm, le risorse,
i flussi di denaro che provengono da attività illegali, compreso il mercato nero del petrolio". E ancora: "Quindi sì, questi gruppi criminali devono essere fermati e tagliare le fonti delle attività illegali è un passo molto necessario da fare. Un passo molto necessario da compiere." Parole da Premio Nobel per la NATO. 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 16:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Jeremy Corbyn al Parlamento inglese commenta il sequestro della petroliera nelle coste del Venezuela (VIDEO)


"Gli Stati Uniti hanno sequestrato una petroliera al largo delle coste del Venezuela. Chiamiamolo con il suo nome: un atto di pirateria". Jeremy Corbyn ha preso oggi la parola nella Camera inglese e ha rivolto questa semplice domanda al ministro degli esteri inglese.

"Il ministro non pensa, in modo responsabile, che il governo sia straordinariamente accondiscendente a una dichiarazione degli Stati Uniti con cui si attribuiscono il diritto di interferire negli affari interni di qualsiasi Paese al mondo con cui non sono d'accordo?"

Il riferimento dell'ex leader del partito laburista è agli atti di pirateria che gli Stati Uniti stanno portando avanti nei Caraibi. "Sequestrando una petroliera e prendendola in custodia senza alcun fondamento nel diritto internazionale e senza alcun tipo di minaccia militare", prosegue Corbyn, siamo fuori dal diritto internazionale. 

Video con sottotitoli in italiano




Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 15:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Mark Rutte: "Dobbiamo essere pronti a un livello di sofferenza che i nostri nonni hanno vissuto"

 

"Dobbiamo essere pronti, perché alla fine di questo primo quarto del XXI secolo, i conflitti non si combattono più a distanza di sicurezza. Il conflitto
è davanti alla nostra porta. La Russia ha riportato la guerra in Europa, e dobbiamo essere pronti a un livello di sofferenza che i nostri
nonni e bisnonni hanno vissuto". 

Lo ha dichiarato il segretario generale della Nato Mark Rutte oggi 11 dicembre in conferenza stampa. 

Vi consigliamo caldamente la visione totale del suo intervento che vi abbiamo sottotitolato in italiano per comprendere dove ci sta portando il governo vassallo della Meloni nel seguire supinamente le scelte di Nato e Unione Europea.

 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 15:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Arresto dell'ex presidente Arce scuote la Bolivia. L'ombra della persecuzione politica e il bersaglio Evo Morales

Arrestato a La Paz, capitale della Boliva, l'ex presidente Luis Arce da una forza speciale anticorruzione. La detenzione, carica di tensione e accuse incrociate, segna un episodio senza precedenti nel Paese andino e arriva a soli trenta giorni dall'insediamento del nuovo presidente conservatore, Rodrigo Paz, che ha interrotto due decenni di governo socialista del MAS.

L'arresto è legato a un'indagine su presunte malversazioni nel Fondo de Desarrollo para los Pueblos Indígenas Originarios y Comunidades Campesinas (Fondioc), un fondo statale dedicato allo sviluppo delle comunità indigene e contadine, storica base elettorale del Movimento al Socialismo (MAS). Arce, già ministro dell'Economia durante la presidenza di Evo Morales e presidente dal 2020 al 2025, è stato membro del consiglio di amministrazione del fondo dal 2006 al 2017.

Secondo le accuse dell'ufficio del procuratore generale, l'ex presidente sarebbe responsabile dei reati di "incumplimiento de deberes" (inosservanza dei doveri) e "conducta antieconómica" (condotta antieconomica). Un alto funzionario del governo Paz, Marco Antonio Oviedo, ha dichiarato che Arce è ritenuto il "principale responsabile" di un danno erariale stimato in 200 milioni di dollari, accusandolo di aver autorizzato trasferimenti irregolari di denaro pubblico verso conti personali, distraendo fondi destinati a progetti di sviluppo rurale.

"È la decisione di questo governo combattere la corruzione, e arresteremo tutti i responsabili di questo massiccio peculato", ha affermato Oviedo, presentando l'operazione come l'adempimento di una promessa elettorale fondamentale. Il vicepresidente Edmand Lara ha rilasciato un video per congratularsi con la polizia, dichiarando: "Lo avevamo detto: Luis Arce sarà il primo a finire in prigione e stiamo mantenendo la parola".

Tuttavia, dalla parte di Arce si alza un coro di proteste che dipinge l'arresto come un atto di pura persecuzione politica. María Nela Prada, ex ministro della Presidenza, ha denunciato un "sequestro totalmente illegale", avvenuto senza un mandato nel quartiere di Sopocachi. Ha raccontato di "persone incappucciate" che avrebbero prelevato l'ex presidente, gettando la famiglia nell'incertezza sul suo destino iniziale. Prada ha sottolineato la violazione del diritto alla difesa e ha lamentato che a un ex presidente spetterebbe un "juicio de responsabilidades" (processo sulle responsabilità), una procedura speciale, e non un arresto in strada.

Le autorità giudiziarie hanno confermato che Arce, dopo essere stato trattenuto nella sede della Fuerza Especial de Lucha Contra el Crimen (Felcc), ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere durante l'interrogatorio. L'ex presidente resterà in custodia fino alla comparizione davanti a un giudice, che deciderà se confermare la custodia cautelare in carcere. I capi d'accusa contro di lui prevedono una pena massima di sei anni di detenzione.

L'episodio riaccende i profondi conflitti nella società boliviana, divisa tra chi vede nell'azione della giustizia un passo necessario per ripulire lo Stato e chi vi legge invece l'inizio di una vendetta politica, uno strumento per criminalizzare l'opposizione e l'ex establishment socialista.

L’arresto dell’ex presidente Luis Arce in Bolivia non è solo un terremoto giudiziario, ma rischia di aprire una nuova e pericolosa linea di conflitto politico. Mentre l’ex presidente è formalmente accusato di peculato e abuso d’ufficio per presunte irregolarità nel Fondo Indígena, dalle file del Movimento al Socialismo (MAS), in una fase di ristrutturazione dopole profonde divisioni che hanno consentito a Rodrigo Paz di ottenere la presidenza, arriva una pesantissima accusa: il vero obiettivo del governo conservatore di Rodrigo Paz sarebbe Evo Morales, il leader storico e padre della Bolivia socialista del ventennio scorso. Primo presidente indigeno del paese andino.

A lanciare l’allarme è Héctor Arce, ex deputato del MAS, che in un’intervista a UNITEL ha denunciato una manovra a più livelli. Secondo l’ex parlamentare, l’esecutivo di Paz cerca di “demonizzare e stigmatizzare” Evo Morales, sfruttando un’inchiesta che riguarda un periodo in cui era proprio Morales a essere presidente (2006-2019). “Rodrigo Paz sta organizzando e montando un circo”, ha affermato Arce con parole durissime. “Vuole mostrare la muscolatura di Rambo o Terminator, cosa che non ha. Quello che vuole causare è impressione, paura”.

La strategia del governo, sempre secondo l’analisi dell’esponente ‘evista’, sarebbe duplice: da un lato presentare il presidente Paz come un leader implacabile nella lotta alla corrupzione, dall’altro deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle crisi concrete che attanagliano il paese, come la penuria di diesel, l’inflazione sui beni alimentari e altri casi giudiziari spinosi. “Vuole mostrarsi come un presidente implacabile e che lotta contro la corruzione”, ha aggiunto Arce, sottolineando come l’arresto del suo omonimo ex presidente serva proprio a questo scopo.

Tuttavia, Héctor Arce precisa una distinzione cruciale per la difesa di Morales: se è vero che l’ex leader indigeno era al vertice dello Stato, la gestione operativa del Fondo Indigena spettava ai suoi ministri. “Evo Morales era presidente, ma coloro che eseguivano i programmi e i progetti erano i ministri. Pertanto, i diretti responsabili dell’esecuzione sono i ministri e devono essere investigati come si deve”, ha argomentato, implicitamente scagionando il suo leader e circoscrivendo le responsabilità all’allora ministro dell’Economia Luis Arce e ai suoi collaboratori.

L’ex deputato ha ribadito di sostenere le indagini quando esistono indizi concreti, ma ha bollato l’arresto di mercoledì come un atto spettacolare e intimidatorio, più che un serio passo della giustizia. Queste dichiarazioni confermano che l’arresto di Arce non chiude la partita, ma anzi la sposta su un livello superiore e ancor più polarizzante: il possibile coinvolgimento di Evo Morales. 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 14:40:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Arresto di Arce in Bolivia. L'ex presidente dell'Ecuador Correa: "Non si cerca giustizia ma solo vendetta"

 

In un’intervista esclusiva rilasciata giovedì a RT, l’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa ha lanciato un severo monito sulla crescente strumentalizzazione della giustizia come arma politica, definendo l’arresto dell’ex presidente boliviano Luis Arce un “punto sensibile” in una strategia orchestrata contro i leader progressisti.

“Sono necessarie istituzioni internazionali molto più efficaci, perché tutti i sistemi giudiziari sono marci”, ha affermato Correa, parlando con il canale internazionale RT poche ore dopo la notizia della detenzione di Arce. L’ex leader ecuadoriano ha deplorato l’uso del potere giudiziario per “colpire” specifici settori politici, descrivendo gli eventi in Bolivia non come una coincidenza ma come il risultato di un’azione “articolata e pensata, razionalizzata”.

La presa di posizione di Correa tocca un nervo scoperto nel dibattito sulla governance globale e sulla sovranità nazionale, mettendo in discussione l’integrità degli apparati giudiziari in America Latina e oltre. Secondo la sua analisi, l’obiettivo immediato dell’arresto di Arce, “indipendentemente da ciò di cui è accusato”, non sarebbe la giustizia, bensì la “vendetta” e la creazione di un “effetto dimostrativo” per intimidire chi non si dimostri “docile”.

“Si tratta di umiliarlo, di spaventarlo”, ha dichiarato, sottolineando come la misura estrema della detenzione appaia sproporzionata. L’ex presidente individua in questa dinamica un duplice bersaglio: da un lato, le élite oligarchiche locali, e dall’altro, “il grande paese del nord”, in un chiaro riferimento agli Stati Uniti, accusati di esercitare un’influenza deleteria su Stati considerati “sotto il controllo delle élite”.

La soluzione proposta da Correa va oltre la denuncia e si colloca in una prospettiva di riforma sistemica. Di fronte a quella che definisce una “crisi mondiale”, egli invoca una lotta collettiva “come umanità, come civiltà” e la necessità di “ristrutturare i sistemi internazionali affinché siano efficaci”. Nella sua visione, organismi come il Sistema Interamericano di Giustizia e le Nazioni Unite dovrebbero essere ripensati “affinché siano davvero di giustizia e non di geopolitica”.

È in questa cornice che Correa colloca il fenomeno del lawfare, o “giudizializzazione della politica”, da lui descritto come lo strumento con cui poteri “mafiosi” e radicati nello Stato cercano di ottenere attraverso i tribunali ciò che non riescono a conseguire democraticamente alle urne. “Il potere mafioso radicato nello Stato rimane intatto. Quindi, hanno preso il potere giudiziario, i pubblici ministeri, i giudici”, ha concluso, dipingendo un quadro di istituzioni catturate e di una regione alle prese con “gravi carenze” nella giustizia.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 14:00:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Daniel Ortega definisce "una totale follia" le politiche europee contro la Russia

Il copresidente del Nicaragua, Daniel Ortega, ha condannato le azioni dell'Europa, affermando che, invece di cercare la pace, il continente si sta preparando a un conflitto con la Russia, definendo tale atteggiamento “una totale follia”.

Gli europei, la Comunità Europea, stanno cercando di capire come raccogliere, credo, 70 miliardi di euro per acquistare e produrre armi. E qual è la giustificazione? Perché la Russia sta lottando per ciò che le appartiene in Ucraina, dicono, o perché vogliono prepararsi a una guerra con la Russia. È una follia totale”, ha dichiarato.

Ortega ha affermato che “le potenze coloniali e imperialiste non hanno imparato la lezione della storia, perché ovunque il colonialismo abbia messo radici, ovunque sia stato instaurato il dominio imperiale, alla fine ha fallito e i popoli sono stati liberati”.

"Devono lavorare per la pace. Ora tutti noi dobbiamo lavorare per la pace. La comunità europea deve lavorare per la pace", ha affermato durante la cerimonia di laurea dei cadetti del Centro Superiore di Studi Militari Eroe Nazionale della Divisione José Dolores Estrada Vado.

In questo momento, il mondo non può più parlare di nuove guerre. L'umanità ha già vissuto abbastanza guerre da non aver bisogno di altre”, ha aggiunto il copresidente nicaraguense.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 13:56:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Ex funzionario Israele conferma: la "maggioranza" dei prigionieri di Jabalia a Gaza è stata uccisa dal fuoco amico

 

Nitzan Alon, ex coordinatore israeliano per gli affari dei prigionieri, ha ammesso che la maggior parte degli israeliani tenuti prigionieri da Hamas nella città di Jabalia, nel nord di Gaza, sono stati uccisi dai raid aerei dell'esercito.

"Il fuoco israeliano ha ucciso la maggior parte degli ostaggi a Jabalia a causa di lacune nei servizi segreti", ha confermato Alon, ora in pensione, al quotidiano ebraico Yedioth Ahronoth . 

Alon ha aggiunto che molti dei prigionieri arrivati ??vivi nella Striscia sono morti poco dopo a causa degli attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira gli edifici in cui erano tenuti prigionieri.

Tra loro c'erano tre prigionieri israeliani, uccisi in un attacco israeliano nel dicembre 2023. Ciò fu il risultato di "supposizioni errate sul campo".

"La paura causata dai nostri attacchi aerei è stata ripetutamente menzionata nelle testimonianze degli ostaggi", ha continuato Alon.

Ha inoltre affermato che la pressione interna sul governo e le proteste organizzate dalle famiglie dei prigionieri hanno avuto scarsi effetti sui negoziati. 

Alon ha anche ricordato che Israele ha iniziato la guerra con un approccio del tipo "prima gli ostaggi, poi Hamas", ma ha finito per scegliere una strada diversa. 

"Se Hamas rimane al potere a Gaza, non abbiamo raggiunto nessuno dei nostri obiettivi. Se verrà smantellato, la gente continuerà a discutere sul prezzo – e molti sosterranno che un accordo simile avrebbe potuto essere raggiunto molto prima", ha concluso. 

Solo cinque giorni prima, Alon aveva ammesso a Yedioth Ahronoth che la famiglia Bibas non era stata rapita da Hamas. 

Quattro membri della famiglia – un uomo, sua moglie e i loro due figli – furono fatti prigionieri durante l'operazione Al-Aqsa Flood dalle Brigate Mujahideen, l'ala militare del movimento dei Mujahideen palestinesi.

I loro corpi furono consegnati da Hamas nel febbraio 2025. Israele sostiene che i combattenti di Hamas hanno ucciso la famiglia Bibas "a mani nude", ma sia Hamas che le Brigate Mujahideen hanno smentito sostenendo che sono stati uccisi da un attacco israeliano.

"Prendiamo ad esempio la famiglia Bibas. Sapevamo chi li aveva rapiti. Abbiamo informato Hamas sull'identità dei rapitori, in modo che potessero localizzare i corpi e restituirli", ha dichiarato Alon al quotidiano israeliano la scorsa settimana. 

Dall'inizio della guerra sono emerse numerose prove sull'attuazione da parte di Israele della direttiva Annibale del 7 ottobre, una misura adottata per impedire la cattura di israeliani anche se ciò metteva a rischio la loro vita.

Secondo quanto confermato dalle testimonianze, elicotteri e carri armati israeliani hanno aperto il fuoco indiscriminatamente contro gli insediamenti presi d'assalto dai combattenti di Hamas quel sabato, provocando distruzioni di massa e numerose vittime israeliane.

I prigionieri liberati hanno anche confermato ai media israeliani di aver avuto più paura di essere uccisi dagli attacchi aerei israeliani che da quelli di Hamas.

All'inizio di quest'anno, Haaretz ha riferito che gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 20 prigionieri e messo in pericolo la vita di decine di altre persone. 

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Fulvio Grimaldi, da Figlio della Lupa a rivoluzionario del ’68 a decano degli inviati di guerra in attività, ci racconta il secolo più controverso dei tempi moderni e forse di tutti i tempi. È la testimonianza di un osservatore, professionista dell’informazione, inviato di tutte le guerre, che siano conflitti con le armi, rivoluzioni colorate o meno, o lotte di classe. È lo sguardo di un attivista della ragione che distingue tra vero e falso, realtà e propaganda, tra quelli che ci fanno e quelli che ci sono. Uno sguardo dal fronte, appunto, inesorabilmente dalla parte dei “dannati della Terra”.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:30:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Sondaggio: Quasi la metĂ  dei cittadini USA si oppone agli attacchi aerei contro le presunte "barche della droga

 

Quasi la metà dei cittadini statunitensi, tra cui un quinto dei repubblicani, si oppone agli attacchi di Washington contro le presunte "barche della droga" nel Mar dei Caraibi e nell'Oceano Pacifico. E’ quanto emerge da un sondaggio Reuters /Ipsos pubblicato il 10 dicembre.

Il sondaggio, durato sei giorni e che ha incluso le risposte di 4.434 adulti in tutto il Paese, ha rilevato che il 48 percento dei cittadini statunitensi si oppone a compiere attacchi illegali senza ottenere l'autorizzazione di un giudice o di un tribunale.

Ciononostante, il 34 percento degli intervistati ha espresso sostegno, mentre il resto ha dichiarato di essere "indeciso".

La divisione è trasversale ai partiti: il 67 percento dei repubblicani sostiene gli scioperi e il 19 percento è contrario, rispetto all'80 percento dei democratici che si oppongono.

Il sondaggio ha anche registrato una diffusa disapprovazione per la grazia concessa dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump all'ex presidente honduregno Juan Orlando Hernandez, caduto in disgrazia e leader sostenuto dagli Stati Uniti, condannato a oltre 45 anni di carcere negli Stati Uniti per traffico di droga.

Il 64% degli intervistati si è dichiarato contrario alla grazia, mentre solo l'8% l'ha sostenuta.

Anche un precedente sondaggio condotto a novembre aveva evidenziato una forte sfiducia dell'opinione pubblica nei confronti della spinta di Washington a una guerra per un cambio di regime in Venezuela. 

All'inizio dell'anno, le valutazioni dell'intelligence statunitense hanno smentito le affermazioni di Trump secondo cui il Venezuela produce Fentanyl per la spedizione negli Stati Uniti, affermando invece che "poco o nessun" fentanyl entrava negli Stati Uniti dal Venezuela, secondo le rivelazioni pubblicate da  Drop Site News

Ad aprile, Tulsi Gabbard, direttrice dell'intelligence nazionale degli Stati Uniti, ha licenziato i due massimi funzionari del National Intelligence Council dopo che  la loro valutazione contraddiceva l'affermazione di Trump secondo cui le autorità venezuelane stavano dirigendo le attività delle gang negli Stati Uniti.

Rapporti dell'intelligence e dell'agenzia antidroga degli Stati Uniti hanno precedentemente stabilito che il "Cartel de los Soles" non è una vera organizzazione criminale e che Caracas non è coinvolta nelle attività del gruppo Tren de Aragua.

Almeno 87 persone, tra cui pescatori innocenti provenienti da Colombia, Ecuador e Trinidad e Tobago, sono state uccise da attacchi aerei statunitensi su presunte "narco-barche" in Sud America da settembre.

Tra questi rientra anche un attacco "doppio colpo" durante il primo attacco della cosiddetta Operazione Southern Spear, in cui persero la vita due sopravvissuti alla deriva in mare.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Ufficio Stampa Gaza: da ottobre sono stati uccisi quasi 400 palestinesi in oltre 700 violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele

 

L'ufficio stampa governativo della Striscia ha rivelato, in un rapporto, che Israele ha commesso almeno 738 violazioni del cessate il fuoco a Gaza, uccidendo quasi 400 persone da ottobre.

"Confermiamo che l'occupazione israeliana ha continuato, dall'entrata in vigore del cessate il fuoco il 10 ottobre 2025, fino all'8 dicembre 2025 (per un periodo di 60 giorni), a commettere gravi e sistematiche violazioni dell'accordo, in palese violazione del diritto internazionale umanitario", ha precisato l’ente governativo dell’enclave assediata. 

"Durante questo periodo, le autorità governative competenti hanno registrato 738 violazioni dell'accordo", ha aggiunto, rivelando che almeno 386 civili palestinesi sono stati uccisi da attacchi aerei israeliani, attacchi con droni, bombardamenti di artiglieria e spari. 

Tra le vittime ci sono decine di donne, bambini e anziani. Quasi 1.000 palestinesi sono rimasti feriti, ha aggiunto l'ufficio stampa. 

Il conteggio dell'ufficio stampa rivela che ci sono state 205 sparatorie israeliane contro civili, 37 incursioni in aree popolate, 358 bombardamenti contro civili e abitazioni e 138 detonazioni di edifici e infrastrutture.

Ha ricordato, tra l’altro, che in media sono entrati a Gaza solo 226 camion di carburante e aiuti al giorno, sui 500 richiesti dall'accordo di cessate il fuoco, pari ad appena il 10 percento della quantità concordata.

“Solo 13.511 camion dei 36.000 che avrebbero dovuto entrare a Gaza lo hanno effettivamente fatto durante il periodo di 60 giorni.”

All'inizio del mese scorso, Tel Aviv aveva consentito l'ingresso solo del 28 percento degli aiuti che avrebbero dovuto entrare nella Striscia come parte dell'accordo, ha dichiarato a novembre l'ufficio stampa governativo. 

Ciò include attrezzature essenziali di cui si ha urgente bisogno per le operazioni di rimozione delle macerie.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), attualmente a Gaza ci sono 68 milioni di tonnellate di macerie dovute alla guerra genocida di Israele e alla distruzione sistematica delle infrastrutture.

Hamas ha avvertito che i colloqui per attuare la seconda fase dell'accordo di cessate il fuoco di Gaza non potranno aver luogo finché Israele continuerà a violare la prima fase dell'accordo.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:00:00 GMT
Nativi
Dark Winds, il noir Navajo che ribalta lo sguardo sul West

 

Non il solito “western indiano”

Da fuori, Dark Winds può sembrare “solo” un altro crime nel deserto: paesaggi da cartolina, poliziotti, FBI, una rapina in elicottero e qualche accenno di soprannaturale. Ma basta una puntata per capire che siamo da un’altra parte.

La serie, prodotta da AMC e tratta dai romanzi di Tony Hillerman dedicati ai poliziotti Navajo Joe Leaphorn e Jim Chee, nasce da un materiale letterario scritto da un autore bianco. Eppure la versione televisiva è stata, in buona parte, riappropriata: scritta in una writers’ room interamente composta da sceneggiatori nativi americani, diretta e interpretata da un cast quasi del tutto indigeno, girata in larga misura in territori Navajo e in studi di proprietà nativa come Camel Rock Studios, vicino a Santa Fe.

Questo fa la differenza: non siamo di fronte all’ennesimo sguardo esterno “antropologico” sui Navajo, ma a una storia in cui i personaggi Diné occupano il centro della scena, mentre bianchi e istituzioni federali ruotano attorno a loro. Anche per me, che trascorro buona parte delle mie giornate immersa nella scrittura e nella lettura sulla cultura indigena, Dark Winds è una serie davvero diversa e sorprendentemente apprezzabile. E tratta diverse tematiche già affrontate in questa rubrica (trovate negli articoli a https://www.lantidiplomatico.it/news-nativi/53237/ : Sterilizzazione forzata: l’ultima arma contro i Nativi Americani; Test nucleari e scorie tossiche nelle riserve indiane; Scuole di nativi indiani, le responsabilità della Chiesa e il negazionismo dilagante).

Leaphorn, Chee e Manuelito: un giallo che nasce dalla storia

Dark Winds è ambientata nel 1971 nella regione dei Four Corners, in un avamposto remoto della Navajo Nation. Il tenente Joe Leaphorn guida la Navajo Tribal Police; con lui lavorano Jim Chee, ex agente FBI tornato a casa con parecchi segreti, e la sergente Bernadette Manuelito.

Ogni stagione intreccia un caso poliziesco a un nodo storico che ha segnato il popolo Navajo:

  • Stagione 1 – parte da una spettacolare rapina a un furgone blindato e da un duplice omicidio in un motel. Il mistero si collega a una vecchia tragedia mineraria che ha toccato la famiglia di Leaphorn, e ad antiche paure legate a stregoneria ed equilibrio spezzato. La stagione si ispira soprattutto al romanzo Listening Woman, con elementi di People of Darkness.
  • Stagione 2 – prende di petto la questione delle miniere e dell’inquinamento nelle terre Navajo (People of Darkness): esplosioni, complotti industriali, corruzione politica, ma anche la memoria di chi ha perso la vita in nome del profitto.
  • Stagione 3 – mescola Dance Hall of the Dead e The Sinister Pig: bambini scomparsi, un mostro della tradizione Diné che sembra uscire dalle storie dell’infanzia, e uno sfondo di sfruttamento delle risorse e traffici alla frontiera.

Il risultato è un “western noir” atmosferico, come l’ha definito The Guardian, che elogia la serie come “un cupo mystery Navajo che implora di essere divorato in binge watching”, sottolineando la presenza di un cast in gran parte indigeno.Time parla di “stunning crime drama” che è anche una vetrina per il talento nativo, non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa.

Non stupisce che le prime tre stagioni abbiano raggiunto un 100% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, con giudizi che insistono sul carisma di Zahn McClarnon (Leaphorn) e sulla ricchezza del contesto culturale.

Cerimonie, K’é e medicina: cosa vediamo (e cosa no)

La vera novità di Dark Winds sta però nel modo in cui mette in scena la vita spirituale e quotidiana Navajo.

Già nel primo episodio, la sergente Manuelito consiglia a Chee di portare con sé un sacchetto di cenere di ginepro e polline di mais, perché “là fuori, a volte la miglior difesa non è la tua .38, è la tua medicina”. È un dettaglio breve, ma denso: la serie suggerisce la presenza costante di pratiche protettive e benedizioni, senza trasformarle in spettacolo esotico.

Il momento più potente arriva con il terzo episodio della prima stagione, intitolato K’é. Qui assistiamo alla Kinaaldá, la cerimonia che segna il passaggio all’età adulta di una ragazza Navajo, la nipote di Emma Leaphorn. Lo spettatore è invitato a guardare quasi “in prima fila”, ma attraverso gli occhi di Sally, una giovane donna Diné che, per la sua storia personale, non conosce i dettagli di quel rito.

Le recensioni sottolineano come la serie rappresenti la Kinaaldá come:

  • un momento intimo e comunitario, in cui le parenti femminili guidano la giovane perché diventi forte e armoniosa;
  • una celebrazione che dialoga visivamente con un’altra sequenza, quella della sepoltura di alcune vittime di omicidio: una vita che inizia, altre che si chiudono, in un montaggio che parla di lutto e rigenerazione insieme.

Il titolo dell’episodio, K’é, rimanda al sistema di parentela e responsabilità reciproca che struttura la società Navajo. La cerimonia non è un “folklore di contorno” al giallo, ma il cuore emotivo e politico della narrazione.

Nel corso della serie incontriamo altri elementi rituali: la cura con i canti e le medicine di un anziano medicine man, il rispetto verso certi luoghi, le regole su cosa si può o non si può dire di spiriti, streghe e Skinwalkers. Proprio su questi ultimi Dark Winds compie una scelta netta: invece di indulgere sulle figure più morbose del folklore, la produzione – anche su indicazione dei consulenti culturali Navajo – evita di mostrare direttamente i Skinwalkers, consapevole che si tratta di un tema delicato, tabù e facilmente fraintendibile dal pubblico non nativo.

Le critiche Navajo e la “course correction” della seconda stagione

Non è tutto perfetto, e la serie non è priva di contestazioni interne alla stessa comunità che vuole rappresentare.

Una delle recensioni più dure è apparsa sul Navajo Times, dove si critica la prima stagione per l’uso ambiguo della lingua e per una rappresentazione che rischia di associare la spiritualità Diné a un immaginario “oscuro” e stregonesco, rafforzando vecchi stereotipi hollywoodiani. Una delle voci intervistate si chiede: “Ora la gente chiederà: ci sono davvero streghe nella riserva?”, sottolineando come il sensazionalismo sul “lato oscuro” sposti l’attenzione lontano dalla bellezza della cultura Navajo.

La criticità è reale, ed è importante nominarla: anche una produzione avanzata come Dark Winds non è immune dal rischio di compiacere l’aspettativa occidentale di mistero e “indiano magico”.

La risposta, però, non è stata difensiva. Il regista e produttore Chris Eyre ha dichiarato che per lui e per il team “è criticamente importante rappresentare correttamente la cultura” e che sono pronti ad apportare correzioni. Dalla seconda stagione in poi la serie si avvale di un consulente culturale Navajo, George R. Joe, e di un lavoro più accurato su lingua, tabù e rituali, come lui stesso racconta in un lungo intervento sul Los Angeles Times, dove ricorda che circa il 95% del cast e la maggioranza dei reparti (costumi, stunt, props, ecc.) sono indigeni.

Anche un articolo di People insiste su questo punto: le prime critiche hanno portato la produzione ad assumere un consulente linguistico e a ricalibrare la rappresentazione delle cerimonie, evitando di tradire aspetti considerati sacri e non condivisibili con il grande pubblico.

Per chi guarda da fuori, è un passaggio chiave: dimostra che non esiste un’unica voce “nativa” monolitica, ma un confronto interno, talvolta aspro, su come raccontarsi.

Donne Navajo, violenza coloniale e memoria

Un altro asse forte della serie sono i personaggi femminili: Emma Leaphorn, l’infermiera che protegge Sally e accoglie in casa chi non ha nessun altro; Bernadette Manuelito, sergente dura e vulnerabile a un tempo; le giovani donne che affrontano gravidanza, discriminazione, violenza.

Nelle interviste, la sceneggiatrice Maya Rose Dittloff ha spiegato come una writers’ room interamente indigena abbia preteso più spazio per le donne e per temi come l’autodeterminazione sul proprio corpo, le sterilizzazioni forzate, il peso dei collegi e degli abusi.

Le trame noir non sono mai slegate da questo sfondo:

  • si parla di boarding schools, i collegi federali dove generazioni di bambini indigeni sono stati strappati alle famiglie;
  • emergono i segni delle sterilizzazioni forzate praticate su donne native negli anni ’60 e ’70 negli ospedali dell’Indian Health Service;
  • tornano i temi di uranio, miniere, espropriazione delle terre e della precarietà del diritto alla salute e all’acqua.

Il tutto senza trasformarsi in “serie didattica”: questi elementi restano sullo sfondo del giallo, ma chi conosce la storia li riconosce. E per chi non la conosce, l’invito implicito è ad approfondire.

Un nuovo standard di rappresentazione?

Molte recensioni non indigene sottolineano soprattutto la qualità del thriller: Time insiste sul ritmo e sulla fotografia; The Guardian sulla tensione psicologica e sull’interpretazione di McClarnon; NPR parla di “cop drama immerso nella cultura Navajo”, e siti come Black Girl Nerds celebrano il fatto che questa volta la nazione Navajo non sia lo scenario esotico di una storia bianca, ma il soggetto della narrazione.

È un giudizio in buona parte condivisibile: Dark Winds alza l’asticella per il mainstream, affiancandosi ad altre produzioni recenti dirette o scritte da autori nativi (Reservation Dogs, Rutherford Falls, ecc.). Resta però indispensabile non mitizzarla come “la” serie definitiva sulla cultura Navajo.

Da una parte abbiamo:

  • una writers’ room nativa (tra cui Graham Roland, Chickasaw; Billy Luther, di discendenza Navajo, Hopi e Laguna; Razelle Benally, Oglala Lakota/Diné; Erica Tremblay, Seneca-Cayuga, e altri);
  • un cast quasi interamente indigeno;
  • riprese in territori Navajo, con il supporto di comparse e anziani Diné.

Dall’altra restano i limiti di qualsiasi serie crime commerciale: esigenze di suspense, di “mistero”, di spettacolo. Proprio le critiche dei Navajo al tono “dark” di certe scelte spirituali ci ricordano che la rappresentazione è sempre un campo di battaglia.

Perché guardare Dark Winds (e come)

Per la rubrica “Nativi” de l’AntiDiplomatico, Dark Winds è interessante per almeno tre motivi:

  1. È un caso di riappropriazione narrativa: da una serie di romanzi scritti da un autore bianco si passa a un prodotto audiovisivo gestito da una squadra creativa in larghissima parte indigena, con la possibilità di correggere – almeno in parte – decenni di stereotipi.
  2. Mostra la cultura Navajo non solo nei simboli più visibili, ma nei dettagli: la lingua Diné accanto all’inglese, il concetto di K’é, le relazioni di parentela, il rapporto con il paesaggio e con il lavoro (polizia tribale, miniere, ospedali), la quotidianità delle famiglie.
  3. Apre porte su temi politici cruciali: estrattivismo, colonialismo sanitario, confini e militarizzazione, giurisdizione federale vs. sovranità tribale, alleanze e diffidenze con altri popoli indigeni e con le comunità ispaniche del Sud-Ovest.

Guardarla in lingua originale – con sottotitoli – permette anche di ascoltare la musicalità del Navajo, le differenze di accento, le sfumature di registro che vanno perse nel doppiaggio.

Non è una serie “innocua”: parla di violenza, traumi, fantasmi personali e collettivi. Ma è proprio lì che trova la sua forza. Dark Winds ci invita a entrare in un mondo Diné complesso, contraddittorio, vivo.

Non per rubarne le storie, ma per ascoltarle meglio.

 

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:30:00 GMT
OP-ED
Fede ortodossa, libertĂ  di coscienza e repressione: il grande fronte oscurato del conflitto russo-ucraino

 

di Daniele Lanza

Ormai giunti allo scadere del quarto anno di guerra è tempo che si presti attenzione – oltre che al tradizionale scacchiere bellico sul campo – anche ad un ulteriore fronte che rischia di rimanere sepolto, sommerso in mezzo al flusso di informazione che esonda dai notiziari bellici: quello della fede. Una lacerazione intensa e silenziosa in seno alla società ucraina, un conflitto di identità e coscienza che coinvolge la chiesa ortodossa, cosa purtroppo inevitabile partendo dalla premessa di fondo che quella russo/ucraina sia una vera e propria guerra civile tra rami differenti della medesima civilizzazione (e che quindi non risparmia alcun aspetto della società).

A monte di tutto ricordiamo la struttura fondamentale della chiesa ortodossa in Ucraina, generatasi da un’evoluzione storica di centinaia di anni: essa è inestricabilmente parte della chiesa ortodossa russa nella misura in cui dipende dal patriarcato di Mosca (così come quella bielorussa e quelle del Baltico del resto). Un aspetto naturale questo, se si considera il grado simbiosi che ha caratterizzato la storia del popolo russo e di quello ucraino nel corso dell’ultimo millennio  – nevralgico per capirne l’affinità – ma che da subito è risultato intollerabile per il regime ucraino instauratosi a Kiev sin dal 2014.

Da quel momento pertanto inizia una serie di pressioni sulla chiesa ucraina affinchè si distanzi dalla storia stessa, attuando una cesura col patriarcato di Mosca: questo per l’appunto avviene nel 2019 con la creazione della chiesa ortodossa ucraina autocefala ovvero del tutto indipendente. Il problema è che quest’ultima di fatto non è mai esistita storicamente e non rappresenta null’altro che la conseguenza di necessità politiche maturate nell’ultima manciata di anni: la volontà del regime al potere a Kiev di separare la propria popolazione da ipotetiche influenze russe, ottenendo tuttavia di stravolgerne la storia stessa. Accade dunque che la società ucraina si ritrova non tanto unificata contro la Russia, ma all’incontrario più divisa che mai al suo interno dal momento che - de facto - esistono ora 2 differenti chiese ortodosse: quella tradizionale (detta canonica) che esiste da sempre, e – contrapposta ad essa – quella autocefala, creata ex novo per ragioni politiche con la finalità di avere un’entità ecclesiastica perfettamente allineata alla dottrina di stato. 

Dopo il 2022, come da aspettarsi, la contrapposizione tra la chiesa canonica e chiesa autocefala ha visto una deflagrazione dagli effetti drammatici: lo giunta di Volodymir Zelensky ha iniziato a perseguitare sistematicamente la chiesa canonica, sfruttando anzi il conflitto come utile occasione per sbarazzarsene definitivamente. Quest’ultima negli ultimi ann è divenuta quindi un bersaglio fin troppo facile: l’accusa pervesiava di possibile collusione col nemico russo al di là del fronte, ha giustificato di fatto ogni sorta di abuso da parte delle autorità contro il clero tradizionale dell’ortodossia canonica.

Da questa lunga premessa è indispensabile partire per comprendere un caso drammatico come quello del metropolita Arseny (Igor Fedorovich Yakovenko), attualmente perseguitato dal potere ucraino alla stessa stregua di un agente al servizio del nemico. Si tratta infatti di una delle personalità più rilevanti del clero canonico, guida del monastero di Svyatogorsk dal quale non si è allontanato in alcun momento, anche quando esso si trovava all’altezza del fronte, con grave rischio per la sua incolumità (un missile ha infatti colpito il monastero) pur di prestare soccorso con la sua opera a centinaia di bisognosi. Malgrado questo, il religioso si è ritrovato improvvisamente bersaglio dell’iniziativa governativa: arrestato nell’aprile del 2024 e detenuto in un centro di custodia cautelare di Dnepropetrovsk, egli si trova ancora al momento attuale in stato di detenzione ed in condizioni assolutamente precarie (in una cella con temperatura attorno ai 10° gradi e senza riscaldamento se non grazie ad una stufetta portatile procuratagli da alcuni sodali, che hanno dovuto provvedere a fornirgli anche un bollitore elettrico ed acqua potabile). Un qualcosa che viola le stesse leggi ucraine in merito alla custodia cautelare – che non dovrebbe superare una determinata tempistica, come ovunque al mondo – ma soprattutto se si considera che è ai danni di una persona anziana dalle condizioni di salute precarie, cosa che getta un’ombra sulle reali intenzioni delle autorità ucraine.

Il metropolita Arseny aveva già dimostrato durante le udienze preliminari in merito al suo caso, tanto la sua estraneità alle accuse (assai confuse per di più) di collusione con le forze russe in avanzata, quanto il proprio cagionevole stato di salute svenendo a più riprese di fronte ai giudici. Incuranti delle sue argomentazioni del tutto logiche (poteva passare dall’altra parte del fronte assai facilmente, come ha dichiarato), l’autorità ucraina lo rilascia inizialmente ma solo per arrestarlo di nuovo a distanza di breve tempo: si configura in tal modo una persecuzione crudele, ma soprattutto emblematica dell’atteggiamento assunto dal regime di Kiev nei confronti della sfera religiosa.

Il caso del metropolita Arseny – cui fanno seguito anche altri casi rilevanti come quello del metropolita Feodosio di Cherkassy – illustrano con estrema chiarezza il principio persecutorio che la logica governativa applica nei confronti della chiesa canonica: quest’ultima rifiutandosi di cedere ai diktat di regime e di allinearsi ad esso è divenuta un nemico interno e trattata come tale, oggetto quindi di misure restrittive e spogliata via via dei propri beni a vantaggio della chiesa nazionale considerata “fedele”. Chi ne fa le spese maggiori è proprio il clero tradizionale, reo agli occhi di Kiev di non essersi conformato: si rende necessario quindi la sua eliminazione ed allontanamento pure in aperto contrasto con tutte le garanzie costituzionali nonchè coi principi sovranazionali cui l’elite al potere dice di aderire.

Immediatamente mobilitato un fronte di difesa per la chiesa canonica ucraina e i suoi esponenti, rappresentata a Londra da Robert Amsterdam (ufficialmente avvocato per tale chiesa), che difatti denuncia a gran voce il grado di soprusi che si stanno verificando nel silenzio generale: per direttiva del vertice politico capeggiato da Zelensky i servizi segreti ucraini (SBU) si sono mobilitati per reprimere e perseguitare personaggi come il metropolita Arseny in quanto pericoli per la coesione nazionale (così come la Francia rivoluzionaria del 1789 perseguitava il “clero refrattario” cioè armonicamente non allineato con lo stato). Un terrore che giuridicamente si fonda sul bando legale della chiesa canonica ucraina sul territorio dello stato, cosa che autorizza progetti di legge finalizzati all’esproprio delle proprietà ecclesiastiche, non soltanto risulta essere antistorica, ma soprattutto – cosa più rilevante – arriva a violare quegli stessi principi di libertà (centrali nella cultura eurocomunitaria e dichiarati nella stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo) cui il regime di Kiev dice di voler aderire.

In definitiva una situazione gravissima dal punto di vista morale e umano che purtroppo risulta oscurata presso i mezzi di informazione occidentali e che ancora una volta – come in molti altri casi – solleva gravi dubbi sulla reale natura delle forze ideologiche che predominano presso il vertice politico ucraino il quale, godendo di totale impunità, stravolge completamente la logica attuando una vera persecuzione religiosa di stato nel mentre che proclama di essere nel campo delle democrazie che lottano contro le dittature. 

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Lavoro e Lotte sociali
Corsi e ricorsi della storia. Le disuguaglianze sociali e salariali

 

di Federico Giusti

Ogni qual volta si parla dell'Italia pensiamo che l'attrattività del paese sia dovuta al clima ameno, al buon cibo, alle bellezze naturali e paesaggistiche, a una qualità della vita decisamente migliore di altri paesi, a servizi socio sanitari funzionanti.

Sarà il caso di rivedere questo giudizio fin troppo benevolo che potremmo ormai considerare uno stereotipo alla stessa stregua di pizza e mandolino ogni qual volta ci riferiamo all'area napoletana.

Se molti giovani scappano all'estero qualche segnale di malessere avrebbe dovuto essere percepito: dai bassi salari all'ascensore sociale fermo, dal mancato riconoscimento delle professionalità, con ridotte prospettive di carriera alle croniche carenze di asili nido pubblici senza dimenticare il numero chiuso negli atenei e la debacle della ricerca universitaria.

 I dati OCSE palesano la erosione del potere di acquisto salariale, hanno confrontato le retribuzioni italiane (costo del lavoro per occupato dipendente a tempo pieno) con quelle di altri Ue evidenziando un grande divario, acuitosi da 30 anni a questa parte. E una buona parte dei nuovi lavori presenta contratti part time con cui non si arriva in fondo al mese.

Un recente rapporto CNEL  si è soffermato sul raffronto tra i salari italiani e quelli di nazioni  attrattive verso le quali maggiori sono i flussi migratori , ebbene la dinamica salariale resta tra le principali causa della disaffezione dei giovani al loro paese

Cosa spinge le imprese a retribuire poco i loro dipendenti? La certezza che lo Stato si sostituirà loro nel compito di accrescere il potere di acquisto dei salari (in maniera comunque inadeguata e insufficiente) attraverso interventi fiscali atti a ridurre le tassazioni, peccato che rispetto al passato proprio il fisco non sia più equo e progressivo.

Rischiamo di ripetere sempre gli stessi concetti ma davanti alla riduzione delle aliquote fiscali, agli sgravi e alle detassazioni dovremmo chiederci chi pagherà un giorno i servizi sociali in assenza di risorse donate  nel frattempo alle imprese (rinunciando a sicuri introiti da investire nel welfare)

Negli ultimi anni è stata la contrattazione collettiva causa della austerità o moderazione salariale quando invece rappresentava la garanzia per arrestare la erosione del potere di acquisto, i livelli retributivi nel settore privato evidenziano discreti e crescenti andamenti retributivi nelle aziende di medie  e grande dimensioni, nelle piccole il divario salariale va invece crescendo,

La perdita salariale è vistosa invece in tutta la PA. Parlando a Radio Grad con Giacomo Gabbuti, ricercatore di Storia economica e curatore del bel libro edito da Laterza Non è giusta L'Italia delle disuguaglianze, esce fuori una realtà composita, le disuguaglianze sono molteplici, per dirne una in Italia si pagano ben poche tasse per le eredità con l'accumulazione delle ricchezze in poche mani e senza che nel frattempo l'ascensore sociale abbia ripreso a muoversi, fermo da lustri  si porta dietro l'ereditarietà stessa delle condizioni sociali .

Chi oggi beneficia di un buon tenore di vita è assai probabile abbia ereditato dai genitori questa condizione sociale e possa a sua volta trasmetterlo ai propri figli.

Chi oggi frequenta un liceo e non un istituto tecnico, nella maggioranza dei casi almeno, avrà genitori provenienti dalle stesse scuola, esistono le eccezioni ma questa è la regola in un paese sostanzialmente fermo. Tra i luoghi comuni ritroviamo l'idea che il ventennio fascista sia stato benevolo per le classi lavoratrici, ebbene i salari impiegarono 15 anni per ritornare ai livelli antecedenti la marcia Roma giusto a confutare l'ennesima semplificazione su quel periodo storico, la grande depressione del 1929 si abbattè sui redditi italiani un po' come accaduto nel 2008 con la crisi dei mutui.

Il riferimento al fascismo è voluto perchè in quei 20 anni non solo venne soppressa la democrazia nel paese ma l'opera repressiva iniziò proprio dai luoghi di lavoro bruciando prima le sedi sindacali e poi mettendo fuori legge i sindacati stessi. L'accanimento di esponenti dell'attuale Governo ricorda quell'atavico odio del passato contro le classi lavoratrici, un odio tipicamente reazionario che oggi si manifesta in forme diverse (non crediamo che la Meloni voglia mettere fuori legge il sindacato per capirci) ma sempre funzionali all'indebolimento della conflittualità del lavoro, e dei lavoratori, contro il capitale e la speculazione finanziaria.

E quando le istanze della classe lavoratrice sono deboli si registra la erosione del potere di acquisto e di contrattazione, le istanze sociali arretrano. la democrazia langue e le disuguaglianze riprendono a crescere.

Ripetiamo il concetto per non essere travisati: non equipariamo Meloni a Mussolini limitandoci solo a spiegare la stretta connessione tra austerità salariale e aumento delle disuguaglianze sociali, l'acuirsi delle speculazioni finanziarie in tempo di crisi economica e il ricorso all'economia di guerra come elemento salvifico che poi , in caso di sconfitta militare, si presenta nella veste della catastrofe.

https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Comunicazione/CnelRapportoGiovani.pdf?ver=2025-12-01-142759-597

https://eticaeconomia.it/le-disuguaglianze-economiche-in-italia-durante-il-regime-fascista/

https://www.rivisteweb.it/doi/10.7375/106154?rwSearchIds=[Rivisteweb:ARTICOLO:113137,Rivisteweb:ARTICOLO:113142,Rivisteweb:ARTICOLO:98828,Rivisteweb:ARTICOLO:71745,Rivisteweb:ARTICOLO:106154,Rivisteweb:ARTICOLO:85345,Rivisteweb:ARTICOLO:113141,Rivisteweb:ARTICOLO:113139,Rivisteweb:ARTICOLO:76744,Rivisteweb:ARTICOLO:76752]

https://contropiano.org/news/news-economia/2025/12/08/mezzo-milione-di-giovani-sono-emigrati-allestero-in-tredici-anni-cosi-viene-meno-il-futuro-0189589

https://eticaeconomia.it/non-e-giusta-litalia-delle-disuguaglianze/

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:00:00 GMT
Una finestra aperta
Cina, innovazione e apertura tracciano nuova rotta zone libero scambio

 

di CGTN

Nella zona pilota di libero scambio di Shanghai, presso il terminale portuale di Nangang, un lotto di veicoli a nuova energia si dirige verso una nave Ro-Ro. Nella zona di libero scambio dello Xinjiang, le tre aree di Urumqi, Kashgar e Khorgos, contribuiscono per il 40% al valore totale del commercio estero della regione. La zona pilota dello Zhejiang concentra i propri sforzi di innovazione integrata, sul settore delle materie prime, mentre Jiangsu e Shandong si concentrano rispettivamente sui prodotti biofarmaceutici e sull’economia marittima, per promuovere l’innovazione integrata lungo l’intera catena industriale, esplorando nuove vie per un’apertura di alto livello.

Durante il “14° piano quinquennale”, sono diventate 22 le zone pilota cinesi di libero scambio, coprendo una struttura di apertura che si estende da est a ovest e da nord a sud del paese, dando vita a quasi 200 innovazioni istituzionali. Tra queste spiccano la lista negativa per l’accesso degli investimenti esteri, la lista negativa per il commercio transfrontaliero di servizi, la “finestra unica” per il commercio internazionale e le riforme di “separazione delle licenze e dei certificati”.

Negli ultimi cinque anni, una serie di misure emblematiche e pionieristiche nelle zone pilota di libero scambio, non solo ha favorito l’ottimizzazione dell’ambiente imprenditoriale, ma ha anche continuato a stimolare la vitalità dell’apertura e dello sviluppo. Nel 2024 la quota del commercio estero e degli investimenti esteri nelle zone pilota di libero scambio, ha rappresentato rispettivamente il 19,6% e il 24,3% del totale nazionale, con un’accelerazione dei dividendi dell’innovazione.

La marcia dell’apertura della Cina avanza senza sosta. Dalla fase pilota della zona di libero scambio di Shanghai, all’attuale formazione composta da 22 zone simili, e dal porto di libero scambio di Hainan, la Cina si sta attivamente allineando alle norme commerciali ed economiche internazionali di alto standard. Fra non molto, il porto di libero scambio di Hainan avvierà ufficialmente le operazioni doganali indipendenti su tutta l'isola, segnando un nuovo livello nel processo di apertura di alto livello della Cina. La Cina rimane fermamente convinta che l’apertura serva sia al proprio sviluppo che al beneficio del mondo.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:00:00 GMT
OP-ED
Marco Travaglio - Chi è causa del suo mal


di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2025

O tempora, o mores! Signora mia, ma ha sentito cosa dice di noi bravi europei quel cattivone di Trump? E quel Musk, mamma mia che impressione! Dove andremo a finire! E giù insulti, improperi, anatemi, macumbe, bandierine europee sui social e nuove marcette col Manifesto di Ventotene usato come ventaglio. Ecco: se le classi dirigenti e intellettuali europee pensano di affrontare la sfida lanciata dagli Usa non sabato, ma 30 anni fa, con la strategia della lagna, consolandosi con le scomuniche all’amico che finalmente si scopre nemico per evitare l’autocritica, hanno già perso. Se invece vogliono ottenere qualche risultato, cioè fare eccezionalmente gli interessi dei cittadini europei, dovrebbero partire dalla brutale realtà: i danni che gli Usa potranno farci in futuro non sono niente al confronto di quelli che ci hanno già fatto col nostro consenso. Il paradosso è che il presidente Usa ci cazzia per aver sempre obbedito agli Usa. Bisognerebbe prenderlo in parola e piantarla, anziché seguitare a farlo con lui.

Gli diciamo no quando dovremmo dirgli sì perché ci conviene: sul piano di pace per l’Ucraina, continuando a finanziare e ad armare un regime terrorista che ci ha fatto saltare i gasdotti Nord Stream con la complicità di Usa e Polonia e fa di tutto per trascinarci nella terza guerra mondiale. E gli diciamo sì quando dovremmo dirgli no perché non ci conviene: abbiamo sostituto il gas russo col Gnl americano che costa il quintuplo; abbiamo subìto i dazi Usa al 15% anziché rivolgerci a mercati in espansione che non vedono l’ora di fare affari con noi, tipo Cina, India e gli altri Brics; promettiamo il 5% del Pil alla Nato e compriamo armi Usa per regalarle a Kiev e aiutarla a perdere altri uomini e territori, distruggendo la nostra economia; e – contro lo stesso volere degli Usa – mettiamo a repentaglio l’euro con piani illegali di rapina degli asset russi, che dovremo poi restituire e pagare pure i danni. Nel nuovo (si fa per dire) mondo dominato dalla legge del più forte, la regola di ogni negoziato dovrebbe essere quella di Pertini: “A brigante, brigante e mezzo”. Trump ci bullizza? Noi dovremmo essere altrettanto bulli: riprendere a comprare gas russo, aprirci ai mercati Brics, disdettare l’accordo sul 5% di Pil alla Nato, lavorare a un vero esercito europeo (che costerebbe meno delle già eccessive spese militari attuali: altro che riarmo) e chiudere tutte le basi Usa in Italia e nel resto d’Europa. Il vecchio Carlo Donat-Cattin, diccì anomalo, diceva: “Prima di trattare con Agnelli bisogna dargli un calcio nei coglioni”. I nostri sgovernanti, prima di trattare con Trump, i coglioni se li martellano da soli e poi, giunti a debita distanza, corrono a dare la colpa a lui.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 08:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Psicodramma transoceanico


di Francesco Dall'Aglio*

A qualche giorno dall'inizio dello psicodramma transoceanico, il livello del dibattito tra le due sponde dell'Atlantico è sostanzialmente fermo sul "brutto tu" "no, tu brutto!" "tu!" "tu!": Musk vuole abolire l'Unione Europea e la paragona al terzo Reich, Trump trolla su Truth, i nostri si dividono tra vedove inconsolabili ("ricordate degli amici! Ricordate di chi t'ha voluto bbene!") e gente che si crede Churchill e ci assicura che staremo una bellezza senza quei bovari d'oltreoceano. È un peccato che quella che poteva essere un'occasione straordinaria per chiudere una relazione tossica e ritrovare finalmente un pensiero politico, strategico e ideale autonomo debba essere gestita da una classe di scappati di casa, trombati alle provinciali del 2018 e mandati a pascolare a Bruxelles, e da quattro rintronati baltici. La nostra civiltà, con buona pace dei millenaristi, non finirà tra le fiamme ma tra le pernacchie, e francamente non ci meritiamo di meglio.
 
Tre notizie assortite, alcune collegate allo psicodramma. La prima: ormai è chiaro che senza i soldi russi l'Europa, ora che gli USA si sono chiamati fuori, non ha possibilità di sostenere economicamente l'Ucraina. Si moltiplicano le soluzioni creative e l'ultima è che ogni stato dell'Unione metta soldi propri a garanzia del "prestito di riparazione". Stando a quanto dice Politico (link 1) il grosso lo pagherebbe la Germania (51 miliardi di €) mentre a noi ne toccherebbero 25, ovviamente se tutti i paesi partecipassero, altrimenti le quote a carico dei "volenterosi" ovviamente aumenterebbero (allego la carta che trovate a corredo dell'articolo e che, sul sito, è interattiva così potete divertirvi a vedere ogni paese quanto dovrà sganciare).

 
La seconda: in un tweet (link 2) il parlamentare repubblicano Thomas Massie ha annunciato di avere proposto al Congresso un disegno di legge per l'uscita degli Stati Uniti dalla NATO. La NATO, sostiene il parlamentare, è un relitto della guerra fredda e gli USA devono usare i loro soldi per difendere se stessi, non "paesi socialisti" (e vorrei ci spiegasse quali sono, che mi ci trasferisco volentieri subito). Fun fact: dal punto 5 della sua proposta (trovate il tutto nel suo tweet) Massie cita le assicurazioni di James Backer, allora segretario di stato, a quel personaggio che per disgrazia era segretario del PCUS e il cui nome non merita di essere ricordato in base alle quali la NATO non si sarebbe allargata a est, e ricorda poi le tappe dell'allargamento e le preoccupazioni strategiche russe, concludendo che la partecipazione degli USA alla NATO è contraria ai loro interessi nazionali.
 
La terza: il ministero della difesa britannico (link 3) ha comunicato che un soldato inglese è morto "in un tragico incidente mentre osservava le forze armate ucraine che provavano una nuova capacità difensiva, lontano dalle linee del fronte". In un tweet successivo sono stati resi noti nome, grado, età e reparto:
George Hooley, 28 anni, vice-caporale del reggimento paracadutisti. Quale fosse la "capacità difensiva" che stava osservando non è noto né è noto in quale incidente abbia perso la vita: un articolo della BBC (link 4) sostiene si trattasse del test di un drone armato, e che insieme a lui siano morti due militari ucraini e "parecchi altri" siano rimasti feriti. La presenza di paracadutisti britannici in Ucraina non era stata finora resa nota dal governo.
 


*Post Facebook del 10 dicembre 2025

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 08:00:00 GMT
OP-ED
Da Pertini e Mattei a Meloni: i principi dimenticati dell’Italia

 

 

 

Di Tawfiq Al-Ghussein e Rania Hammad

 

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha nuovamente dichiarato il suo sostegno incondizionato a Israele, presentando l’assalto a Gaza come una difesa dell’“umanità” e dei diritti fondamentali. Un linguaggio che ha ben poca attinenza con la realtà. Anche sotto quella che nominalmente viene definita una tregua, Israele continua esecuzioni mirate, bombardamenti e la deliberata ostruzione degli aiuti umanitari. Il numero delle vittime civili aumenta ogni giorno, rendendo la formulazione di Meloni tanto politicamente conveniente quanto moralmente insostenibile.

La sua posizione non è plasmata da principi etici, bensì da un calcolo di ideologia, alleanze e interessi economici. Israele è divenuto il palcoscenico simbolico attraverso cui Meloni riafferma la propria collocazione in un blocco occidentale da lei stessa definito, segnalando al contempo il proprio allineamento con Washington. Un ulteriore elemento sostiene questa postura: il crescente coinvolgimento dell’Italia nella sfera energetica del Mediterraneo orientale. Le vaste operazioni di ENI nei giacimenti regionali, dall’Egitto a Cipro e nelle zone offshore strategicamente interconnesse alla rete energetica israeliana, generano un forte incentivo alla cordialità politica. I diritti dei palestinesi vengono così offuscati da un lessico tecnocratico fatto di stabilità, sicurezza e diversificazione energetica.

Ciò rappresenta una rottura significativa con l’eredità diplomatica italiana che per decenni ha combinato partenariato atlantico e autonomia morale. Il presidente Sandro Pertini (1896–1990), ricordato con affetto duraturo dagli italiani, parlò senza ambiguità del diritto dei palestinesi a resistere all’occupazione, sostenendo la loro lotta come questione di giustizia e non di calcolo geopolitico. Bettino Craxi (1934–2000), storico leader del Partito Socialista, affermò con forza la sovranità italiana durante la crisi di Sigonella del 1985, opponendosi alle pressioni statunitensi e NATO e riconoscendo la legittimità politica della causa palestinese.

A questa tradizione si affiancano figure come Giulio Andreotti (1919–2013) e Aldo Moro (1916–1978), che concepivano il Mediterraneo non come semplice estensione della strategia NATO, bensì come uno spazio politico e civile che richiedeva equilibrio, dialogo e autonomia. Andreotti difese con costanza la responsabilità europea di dialogare con l’OLP e di riconoscere la nazione palestinese, mentre la diplomazia di Moro si fondava sulla convinzione che la stabilità regionale dipendesse dalla giustizia per i palestinesi. Il loro lavoro costituì l’ossatura di una politica estera italiana che cercava la sfumatura, non l’allineamento per principio.

Ugualmente determinante fu l’eredità di Enrico Mattei (1906–1962), la cui trasformazione dell’ENI nel dopoguerra ridefinì il rapporto dell’Italia con il mondo arabo. Mattei rifiutò le strutture energetiche predatorie imposte dalle potenze occidentali dominanti, costruendo invece partenariati basati sul mutuo beneficio con Algeria, Egitto e altri Stati emergenti. La sua visione mediterranea incarnava un’Italia capace di giudizio indipendente e di un coinvolgimento rispettoso con le aspirazioni arabe, inclusa la lotta palestinese per l’autodeterminazione. È difficile conciliare tale eredità con la deferenza che oggi caratterizza la postura regionale del governo.

Questo mutamento è stato rafforzato dalle posizioni di autorevoli membri dell’esecutivo. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha costantemente presentato le azioni israeliane come intrinsecamente giustificate, liquidando ogni esame di legalità o proporzionalità come irresponsabile. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ripetuto più volte che anche le fasi più devastanti della campagna israeliana costituiscono atti inevitabili di autodifesa, minimizzando la sofferenza dei civili palestinesi ed eludendo il crescente corpus di prove riguardanti gravi violazioni del diritto internazionale. Il loro discorso restringe l’orizzonte morale dell’Italia e rischia di allineare il Paese a posizioni che non riflettono né la sua storia né il suo sentire pubblico.

L’effetto complessivo ha collocato l’Italia nel campo più intransigente d’Europa proprio mentre Stati come Spagna, Irlanda e Belgio chiedono responsabilità e rispetto delle norme internazionali. Nel contempo, la società italiana — sindacati, studenti, accademici, organizzazioni civiche — si è mobilitata in numeri senza precedenti a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro le forniture di armi e la complicità diplomatica. La loro voce richiama le antiche tradizioni diplomatiche del Paese, piuttosto che la prudenza che oggi domina la linea ufficiale.

L’appello di Meloni all’“umanità” risulta dunque privo di sostanza. Sostenuto da una coreografia politica e da una disponibilità a proteggere Israele da ogni scrutinio, il suo governo sta posizionando l’Italia non come difensore delle norme internazionali, ma come facilitatrice della loro erosione. Eppure la storia italiana offre una via diversa, fondata su indipendenza, chiarezza morale e sulla convinzione che i diritti umani non possano essere subordinati alla convenienza geopolitica. Finché il governo non riconoscerà che i palestinesi possiedono diritti fondamentali, le sue dichiarazioni di solidarietà rimarranno performative, miopi e in contrasto con i valori che un tempo guidarono gli statisti italiani più rispettati.

 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
BURKINA FASO, ALBA DELLA SOVRANITĂ€
 
di Matteo Parini

 
“Se non possiamo essere padroni delle nostre risorse, non possiamo essere liberi”, ammoniva Thomas Sankara, evocando la necessità esistenziale per l’Africa di costruire uno sviluppo autoctono e sottrarsi alla subordinazione delle potenze coloniali e delle istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Per il giovane presidente, salito al potere nel 1983, ciò significava l’ambizioso tentativo di sottrarre ai colossi esteri il controllo dei settori strategici dello Stato: energia, miniere, agricoltura, foreste e finanza.
 
Le nazionalizzazioni, se fossero state portate a compimento, avrebbero trasformato il Burkina Faso, allora Alto Volta, in un avamposto di autosufficienza economica nel cuore dell’Africa, dopo il breve intermezzo filo-occidentale del governo Ouédraogo, nato anch’esso da un colpo di Stato appena un anno prima. Gliela fecero pagare cara. La lunga parentesi autoritaria di Blaise Compaoré e quella instabile di Roch Marc Christian Kaboré che seguirono mantennero il Burkina Faso intrappolato nelle dinamiche predatorie del neocolonialismo. Sankara, con la sua visione sovrana invisa agli interessi del Nord globale, fu assassinato in un complotto sostenuto da attori internazionali, preoccupati che il suo esempio di autodeterminazione potesse incendiare l’immaginario di un intero continente. Solo pochi giorni prima della sua morte, non a caso, Sankara dichiarava: “Non esiste lontananza tra gli oppressi. La Palestina è anche l’Africa che resiste”.
 
Farsi certi nemici fu letale allora, come continua a esserlo oggi. François Mitterrand, ad esempio, non gli perdonò di averlo umiliato in mondovisione durante la visita in Burkina Faso, quando Sankara lo accusò pubblicamente di aver accolto con tutti gli onori Pieter Botha, leader dell’apartheid sudafricano. È in questo contesto, segnato da compromessi interni e ferite profonde - un Paese ancora eterodiretto da forze sovranazionali, lacerato dal terrorismo islamista, corroso dalla corruzione endemica e attraversato da crescente malcontento popolare - che nel 2022 Ibrahim Traoré assume la guida del Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Riforma. Egli promette di ricostruire l’unità nazionale, rafforzando un esercito incapace di contenere la minaccia jihadista e recuperando la sovranità burkinabé brutalmente interrotta dal golpe di Compaoré.
 
Una strategia popolare che inizia a concretizzarsi nell’ottobre 2024. Prima con la nazionalizzazione della miniera di Boungou, gestita dalla britannica Endeavour Mining, poi di Wahgnion, in mano alla statunitense Burkina Lilium Mining. È un passaggio epocale. Il Burkina Faso, letteralmente “terra degli uomini integri”, tra i maggiori produttori d’oro al mondo, riallaccia così il filo conduttore voluto da Sankara quasi mezzo secolo prima e spezzato dai suoi carnefici, riaccendendo il sogno di un Paese capace di utilizzare le proprie ricchezze per il benessere della popolazione, invece che per alimentare interessi e ingerenze esterne.
 
Con questo spirito, il Paese ha ridefinito il suo codice minerario e istituito la Société de Participation Minière du Burkina, un ente statale incaricato di possedere, gestire e sviluppare le risorse minerarie strategiche. Per decenni, il settore estrattivo ha generato enormi profitti per aziende globali e élite locali, mentre le masse hanno subito impoverimento e condizioni lavorative precarie. Lo Stato, invece, si è trovato a fronteggiare devastazioni ambientali, debiti insostenibili e rapporti commerciali asimmetrici. Questo meccanismo ha soffocato ogni possibilità di sviluppo indipendente, fino all’odierno cambio di prospettiva.
 
Un passo indietro. Nell’ottobre del 2023, l’imprenditore e presidente del Gruppo Coris Bank International, Idrissa Nassa, è stato insediato alla guida del Consiglio Nazionale dei Datori di Lavoro durante l’assemblea generale di Ouagadougou, sotto l’alto patronato del Capitano Ibrahim Traoré. L’incarico di Nassa rappresentava un ancoraggio dello sviluppo alle risorse endogene, rafforzando la capacità produttiva nazionale e riducendo le importazioni. “Chiunque voglia importare riso per un valore di 10 miliardi di franchi CFA - dichiarava Traoré in merito - dovrà investire 2 miliardi in un importante progetto infrastrutturale, e lo stesso varrà per la maggior parte dei beni di prima necessità”.
 
La trasformazione di un’azienda globale in un operatore energetico completamente burkinabé è storia di questi giorni e segna un ulteriore passo avanti. Il veicolo di investimento legato a Nassa ha infatti acquisito la divisione locale della compagnia TotalEnergies. Lo scorso 5 dicembre, è stato presentato il nuovo nome societario: Barka Energies, che eredita infrastrutture, stazioni di servizio, depositi e l’intera catena logistica nazionale precedentemente gestita dal gruppo francese. Il rebranding rappresenta una pietra miliare verso una sovranità economica concreta. TotalEnergies, attiva in Burkina Faso dal 1954, aveva imposto una posizione di dipendenza anche a clienti pubblici come l’aviazione, impossibilitati a operare senza l’intercessione del gruppo estero. L’acquisizione da parte di Barka Energies non è solo simbolica, ma un passo reale verso un’autarchia energetica, in cui infrastrutture, strategie e profitti diventano patrimonio nazionale, alimentando investimenti, occupazione e capacità industriale. Per mano di Barka, il Burkina Faso non eredita solo pompe e depositi, ma la possibilità di costruire un sistema energetico sovrano e integrato.
 
Il rapporto tra Stato e figure chiave come Idrissa Nassa non è un unicum. Esempi simili si sono già visti, ad esempio, con Seplat Energy in Nigeria, che ha rilevato infrastrutture petrolifere onshore e offshore da ExxonMobil, diventando uno degli operatori principali nel Paese. Allo stesso modo, Oando Plc ha assunto il controllo di blocchi precedentemente gestiti da Eni. Ancora, PTT, una compagnia energetica statale thailandese, ha progressivamente rilevato infrastrutture da compagnie straniere, diventando il principale operatore energetico nazionale. Modelli di questo tipo, in cui governi e imprese nazionali cooperano per sottrarre interi settori alla dipendenza estera, hanno già interessato diverse economie emergenti dall’Asia all’Africa occidentale. La partnership tra Traoré e Barka Energies è strategica: lo Stato sostiene il gruppo con regolamentazioni, concessioni e incentivi, mentre Nassa trasforma infrastrutture e know-how in strumenti di crescita nazionale. Insieme riscrivono le regole della dipendenza storica dai colossi esteri.
 
In conclusione, la figura di Ibrahim Traoré emerge come archetipo di una stagione di rinnovamento e audacia economica, capace di guidare il Burkina Faso attraverso passaggi epocali come le nazionalizzazioni e il trasferimento di settori strategici a operatori locali. La cessione di TotalEnergies a Barka Energies non è un episodio finanziario, ma uno spartiacque che segna la transizione, voluta da Thomas Sankara quasi mezzo secolo prima, da un’economia dominata da interessi esteri a un modello nazionale radicato, in cui sovranità, investimenti e capacità industriale diventano strumenti di crescita per tutto il Paese.
 
La prospettiva è ambiziosa. Trasformare la “terra degli uomini integri” da spettatore passivo degli eventi mondiali a protagonista del proprio destino. Un Paese capace di difendere leader visionari, costruire un futuro indipendente di dignità nazionale e resistere alle trame esterne che per troppo tempo ne hanno segnato con il sangue la storia. 
 
Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT

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