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Il governo nigeriano ha chiarito la propria posizione riguardo ai recenti bombardamenti nel nordovest del Paese, respingendo la cornice religiosa in cui il presidente statunitense Donald Trump ha voluto inquadrare l’operazione. A pochi giorni dagli attacchi aerei condotti congiuntamente dagli Stati Uniti e approvati da Abuja, il ministro degli Esteri nigeriano, Yusuf Tuggar, ha ribadito che l’obiettivo dell’azione militare era esclusivamente antiterrorista e non legato a una presunta difesa del cristianesimo.
Trump, in un messaggio pubblicato sulla piattaforma Truth Social, aveva definito l’intervento come una risposta a una “massacro di cristiani” e parte di una campagna globale per “salvare il cristianesimo”. Una narrazione che, secondo Tuggar, non corrisponde alla realtà sul terreno. “Non si tratta di religione, si tratta di nigeriani, civili innocenti”, ha affermato il ministro, sottolineando che le vittime degli attacchi terroristici appartengono a tutte le fedi - musulmani, cristiani, appartenenti ad altre religioni o non credenti - e che la violenza jihadista rappresenta un’offesa ai valori fondanti della Nigeria e alla sicurezza internazionale.
L’operazione, condotta nello Stato di Sokoto con l’approvazione personale del presidente Bola Tinubu, è stata preceduta da una lunga conversazione tra Tuggar e il segretario di Stato USA Marco Rubio. Il ministro ha tenuto a precisare che si è trattato di uno sforzo congiunto, ma ha messo in guardia contro qualsiasi forma di intervento che possa minare la sovranità nazionale. Pur non escludendo una maggiore collaborazione con Washington - già manifestatasi in passato con la fornitura di aerei Super Tucano durante la prima amministrazione Trump - Tuggar ha ribadito che ogni futura cooperazione dovrà rispettare l’integrità territoriale e la piena autonomia decisionale della Nigeria.
Di fronte alle accuse di Trump, che da settimane denunciava un presunto genocidio dei cristiani in Nigeria e aveva persino minacciato un intervento militare diretto, il governo nigeriano ha respinto con fermezza l’idea di una persecuzione religiosa sistematica. In un comunicato ufficiale, il ministero degli Esteri ha ricordato come nigeriani di diverse confessioni abbiano convissuto pacificamente per decenni, praticando liberamente la propria fede. Al tempo stesso, ha chiesto maggiore sostegno internazionale nella lotta al terrorismo, riconoscendo la complessità della minaccia rappresentata dal ramo locale dello Stato Islamico.
Nel frattempo, il segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth ha assicurato che “ci saranno altri” bombardamenti contro il gruppo terroristico. Tuttavia, dal punto di vista nigeriano, ogni azione futura dovrà inserirsi in una strategia condivisa, rispettosa della leadership locale e focalizzata sulla protezione di tutti i civili, senza distinzioni di fede. La Nigeria, dunque, rifiuta di farsi strumentalizzare in una narrazione che divide per religione, insistendo invece sulla natura universale della minaccia terroristica e sull’unità nazionale come fondamento della propria risposta.
Data articolo: Sat, 27 Dec 2025 16:50:00 GMT
di Fabrizio Verde
Il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Maduro, ha lanciato una forte accusa, diretta e senza mezzi termini, contro gli Stati Uniti, dipingendo un quadro di aggressione sistematica il cui fine ultimo è palesemente il controllo delle immense risorse naturali del paese sudamericano. In un discorso tenuto durante il Consiglio dei Ministri nella capitale Caracas, Maduro ha smontato le narrative costruite da Washington, affermando che dietro la campagna internazionale contro il governo bolivariano non vi è la persona di "Maduro", ma piuttosto il petrolio, l'oro, le terre rare e la ricchezza del sottosuolo venezuelano. "Non possono dire di Maduro che ha armi di distruzione di massa, nessuno gli crederebbe. Non possono dire che ha armi biologiche o chimiche, o che sta costruendo una bomba atomica", ha dichiarato il leader bolivariano, sottolineando come, in assenza di queste classiche accuse utilizzate dall’imperilialismo per scatenare guerre, le autorità statunitensi ripetano "permanentemente quattro o cinque menzogne".
Il contesto di questa nuova denuncia è l’escalation militare e diplomatica che Caracas denuncia – a ragion veduta - come un vero e proprio assedio militare. Da agosto, gli Stati Uniti mantengono nel Mar dei Caraibi il più ampio dispiegamento navale e aereo degli ultimi decenni, inizialmente giustificato con la lotta al narcotraffico ma che, come evidenzia il governo venezuelano, ha mostrato il suo vero volto. La narrazione ufficiale di Washington, infatti, ha subito una prevedibile torsione, passando dalla guerra alla droga a un discorso apertamente centrato sul controllo delle risorse energetiche del Venezuela. Azioni concrete, come la recente requisizione (illegale) di almeno due petroliere da parte statunitense - definita da Caracas un atto di "pirateria" e "furto" -, conferma queste affermazioni. L’operazione ha avuto anche un costo umano: più di cento persone sono morte in oltre venti bombardamenti contro piccole imbarcazioni nelle acque caraibiche e del Pacifico, senza che Washington abbia pubblicamente dimostrato alcun legame di queste con attività illecite.
La tensione ha raggiunto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, convocato d’urgenza su richiesta del Venezuela. Davanti al consesso internazionale, il rappresentante permanente venezuelano, Samuel Moncada, ha condannato le azioni statunitensi definendole come "la riconquista di tutto il continente" e una "massiccia violazione del diritto internazionale". Una posizione che ha trovato un forte sostegno nella Russia, il cui ambasciatore Vasili Nebenzia ha avvertito che quanto accade al Venezuela potrebbe diventare un "modello per future azioni militari contro altri Stati latinoamericani". Anche Cina, Nicaragua, Cuba e diversi paesi della regione, tra cui Messico, Brasile e Colombia, hanno espresso solidarietà a Caracas.
Nel suo intervento, Maduro ha tracciato una cronistoria dei tentativi, tutti fallimentari, di Washington e dei suoi alleati interni di imporre un cambio di regime in Venezuela attraverso il sostegno a leader dell’opposizione estremista e golpista. Ha ricordato figure come Pedro Carmona Estanga, protagonista del golpe del 2002, Henrique Capriles Radonski, sconfitto nelle elezioni del 2013, e Leopoldo López. Con tono particolarmente duro, ha accusato ex funzionari della Casa Bianca - John Bolton, Rex Tillerson, John Kelly e Mike Pompeo - di aver "inventato" Juan Guaidó, investendo in lui "migliaia di milioni di dollari". Oggi, ha affermato, la stessa strategia si ripete evidentemente con María Corina Machado, da lui descritta come "la nuova versione di Guaidó", soprannominata "la Sayona", di "pensiero estremista e mente isterica". "Hanno sempre scommesso sull'estremismo", ha dichiarato Maduro, contrapponendo a questa strategia la costruzione da parte del chavismo di una "patria rafforzata, bella, pacifica e sovrana".
Il fulcro della risposta venezuelana è però una ferma dichiarazione di resistenza nazionale. Con un passaggio in inglese, il presidente ha scandito che è "impossible" per gli Stati Uniti imporre un modello di "dominazione coloniale e schiavista" per depredare le risorse del paese. "Qui c'è un popolo radicato nel territorio, nelle comunità, nelle università, nelle fabbriche, nelle caserme", ha proclamato, "e questo popolo ha dimostrato sufficiente capacità di condurre la nostra patria per il buon cammino". Un messaggio che vuole essere al tempo stesso di fermezza e di apertura al dialogo, ma solo se basato sul "rispetto reciproco". Maduro ha infine lanciato un appello ai media statunitensi, invitandoli a liberarsi dall'influenza delle molti "lobby" – da quella petrolifera ai corrotti di Miami - e ad aprire gli occhi sulla "Venezuela profonda che vuole la pace", che ha dalla sua "la ragione storica, legale, giuridica" e, ha concluso, "le benedizioni di Nostro Signore Gesù Cristo".
Data articolo: Sat, 27 Dec 2025 16:00:00 GMT
di Agata Iacono

di Federico Giusti
Le spese militari? A legge di Bilancio non ancora approvata sappiamo già che cresceranno esponenzialmente, basta invocare nuovi pericoli nazionali ed internazionale per accrescere i capitoli di spesa a fini di guerra.
Perchè, a scanso di equivoci, è bene sapere che nuovi sistemi di arma frutto di anni di ricerca e di complicate produzioni dovranno essere testate in un campo di battaglia. Non si costruiscono cannoni a fin di pace, tutte le storielle sulla deterrenza armata non hanno mai retto al cospetto della storia, le guerre spaziali negli Usa, tra gli anni ottanta e inizio novanta avevano l'obiettivo di mandare in crisi il blocco sovietico (incapace di reggere la competizione) ma anche di spianare la strada a processi di innovazione tecnologica duale (civile e militare)
Mentre il Parlamento italiano è ancora impegnato nella approvazione della Legge di Bilancio, leggendo i documenti aggiuntivi redatti dal Mef si inizia a comprendere come ogni uscita del Ministro Crosetto non sia occasionale ma ben studiata
Nel momento in cui si parlava di minacce interne e guerre ibride, la conferenza stampa in Parlamento sulla riforma dell'esercito annunciata per inizio 2026 mentre in Germania le piazze si riempivano contro la leva obbligatoria, puntualmente il ministro Crosetto interveniva con alcune puntualizzazioni che poi abbiamo ritrovato nei programmi di Governo.
Il peso di questo ministro nell'Esecutivo Meloni è senza dubbio tra i più rilevanti.
Le prossime settimana saranno dedicate intanto alla riorganizzazione della Difesa, quali saranno le linee guida le apprendiamo dalla nota integrativa al disegno delle Legge di Bilancio
- eliminare le duplicazioni e velocizzare il processo decisionale;
- attestare e razionalizzare le funzioni critiche, di policy e indirizzo, all’Autorità Politica;
- rivedere e modernizzare la formazione del personale, definendo le competenze necessarie e creando i percorsi per acquisirle;
- rivedere e rendere più dinamica la gestione della comunicazione; - dare impulso alla ricerca e sviluppo, razionalizzando le capacità interne e coinvolgendo gli attori esterni, pubblici e privati;
- rivedere il corpo normativo e proporre modifiche per snellire e velocizzare le procedure.
DLBNOT1C_120.pdf
Gli argomenti trattati sono sempre gli stessi, a pensarci bene non rappresentano una novità, si parla da tempo di evitare doppioni anche nella produzione dei sistemi di arma ma tra il dire e il fare c'è sempre grande differenza come dimostra il riarmo europeo delle ultime settimane, l'acquisto da parte tedesca di sistemi missilistici dagli Usa (anche da Israele?) quando avrebbe potuto attingere da produzioni europee.
Non basta la sinergia tra aziende per dotarsi di una politica militar industriale competitiva con Usa e Israele, molto dipende dai tempi del riarmo, dalle spinte costruite ad arte da parte degli Usa per favorire corposi e veloci acquisti di armi bruciando sul tempo il complesso Ue. E se guardiamo alla alleanza tra due colossi del settore militare europeo, una azienda tedesca e una italiana si capisce che entrambe guardano con crescente interesse alla produzione negli Usa in sinergia con marchi locali, al contrario di quanto invece vorrebbe la Francia di Macron.
E, a nostro modesto avviso, per ragioni differenti tra loro, tanto la Germania quanto l'Italia potrebbero essere i paesi che maggiormente spingono in una certa direzione auspicata, guarda caso, dagli Usa.
E nel frattempo Crosetto spiega quali saranno gli indirizzi della riforma del sistema militare che sarà ancora costruito su base volontaria.
Urge tuttavia ridurre l’età media del personale, al progressivo “invecchiamento” dei Graduati si risponde con una corsia preferenziale agli ex militari nella Pubblica amministrazione, regole previdenziali differenti dai civili e senza dubbio più favorevoli, un welfare potenziato, la formazione per destinare militari avanti negli anni ad altre mansioni, da qui la necessità di sviluppare e padroneggiare le nuove tecnologie (in primis dominio dello spazio e cyber).
Ma quello che temiamo è ben altro ossia l'acquisire da parte del settore militare una peso sempre maggiore nello Stato e nella comunità secondo quei dettami da economia di guerra già sperimentati nel da altri paesi. Serviranno poi percorsi celeri per far passare i militari inidonei ai servizi civili favorendo l'immediata assunzione in ruolo di nuove e più giovani figure professionali in campo bellico, sarà necessario intervenire nella legislazione vigente e favorire la capacità reclutativa fino alla istituzione di una “Forza di Riserva” (sul modello israeliano e in parte tedesco), aggiuntiva alle Forze regolari.
Aspettiamoci allora una vera e propria riforma del sistema pensionistico per i militari, una sorta di "previdenza dedicata" che sarà senza dubbio vantaggiosa rispetto alle norme adottate in ambito civile.
Ove si parla di valorizzare le competenze altamente qualificate possiamo anche attenderci aumenti stipendiali assai maggiori di quelli accordati ai lavoratori pubblici.
Uno spazio ad hoc meriterebbe l’introduzione di misure di mitigazione economica, rispetto all’aumento generalizzato del costo della
vita, a favore del personale militare che, con le relative famiglie, è tenuto a trasferirsi per esigenze di servizio in ambito nazionale ed estero. Se un insegnante o un infermiere va a lavorare lontano da casa deve sostenere innumerevoli spese, al contrario il militare avrà una sorta di welfare a sua disposizione, case magari a disposizione e interventi atti ad agevolare il suo trasferimento. Questa è la economia di guerra ossia un sistema pubblico piegato alla guerra e ai suoi voleri.
Nel giro di poche ore, la mossa diplomatica di Israele ha scatenato un terremoto geopolitico. Dopo che Tel Aviv ha riconosciuto ufficialmente la repubblica autoproclamata di Somaliland come Stato indipendente e sovrano, diventandone il primo alleato internazionale, l'attenzione si è immediatamente spostata sulla reazione degli Stati Uniti. Tuttavia, il presidente Donald Trump ha bruscamente spento ogni speculazione, prendendo le distanze dall'iniziativa israeliana con un secco rifiuto. "Chi sa veramente cos'è Somaliland?", ha dichiarato telefonicamente al New York Post da un campo da golf in Florida, aggiungendo, quando interrogato su un eventuale riconoscimento USA: "Semplicemente di no".
La freddezza di Trump contrasta con le intenzioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che aveva annunciato di voler discutere con il presidente statunitense, in un incontro previsto per lunedì, della possibile adesione di Somaliland agli Accordi di Abramo. Questi accordi, siglati nel 2020 su impulso della stessa amministrazione Trump, avevano normalizzato le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Netanyahu ha giustificato il riconoscimento di Somaliland proprio come un'espansione di quello "spirito". Tuttavia, Trump ha chiarito di non volersi lasciare influenzare, auspicando piuttosto che il colloquio con Netanyahu si concentri sulla situazione nella Striscia di Gaza.
La decisione israeliana, presa in un momento di crescente isolamento internazionale per le sue operazioni militari (leggi genocidio) a Gaza, è ampiamente interpretata come una mossa strategica per aprirsi un varco nel Corno d'Africa. Analisti israeliani sottolineano la necessità di acquisire alleati nella regione del Mar Rosso, cruciale per le rotte commerciali e per possibili scenari di confronto con gli Houthi dello Yemen. La posizione strategica di Somaliland, affacciata sul Golfo di Aden, ne fa un partner potenziale di valore.
Questa logica, però, si scontra con un muro di condanne internazionali. La manovra è stata definita un "fatto compiuto" che mina il diritto internazionale e la stabilità regionale. Oltre cinquanta paesi, insieme all'Unione Africana e a governi chiave come Turchia, Egitto e Gibuti, hanno respinto con forza il riconoscimento. L'Unione Africana ha espresso "profonda preoccupazione", ribadendo il sostegno all'integrità territoriale della Somalia e avvertendo che si crea un "precedente pericoloso" per tutto il continente.
La Turchia ha bollato la decisione come un "nuovo esempio di azioni illegali" che generano instabilità, paragonando la negazione del diritto alla statualità per la Palestina alla creazione artificiale di nuovi Stati in Africa. Il governo somalo, dal canto suo, ha denunciato un "attacco deliberato" alla sua sovranità, ricordando che il Somaliland è una parte inalienabile del suo territorio.
Mentre Trump chiude la porta a un impegno USA, la comunità internazionale si stringe attorno alla Somalia, lasciando Israele solo, per ora, nel suo riconoscimento. La partita sul Somaliland si rivela così non solo una questione di autodeterminazione, ma uno specchio delle tensioni geopolitiche globali, dove le alleanze si frammentano e il diritto internazionale viene sfidato da calcoli di pura realpolitik.
Data articolo: Sat, 27 Dec 2025 14:22:00 GMTIl governo venezuelano ha posto nuovamente sotto i riflettori internazionali la dura questione delle sanzioni statunitensi, questa volta attraverso un rapporto di esperti delle Nazioni Unite. Il ministro degli Esteri Yván Gil ha diffuso tramite i suoi canali ufficiali il documento, definendo il blocco navale imposto da Washington "illecito e unilaterale". Secondo Caracas, queste misure rappresentano una palese aggressione non solo contro il paese sudamericano, ma contro l'intera regione, minacciando diritti fondamentali come la pace, il libero commercio e la navigazione.
Gli esperti delle Nazioni Unite, i cui pareri sono stati fatti propri dal governo venezuelano, sollevano un'accusa gravissima. Questi sostengono che non esista alcun diritto a imporre sanzioni unilaterali attraverso un blocco, arrivando a qualificare tale azione come un vero e proprio "attacco armato". Questa definizione, che richiama l'articolo 51 della Carta ONU, apre a scenari giuridici di notevole peso, poiché quel articolo sancisce il diritto all'autodifesa in caso di aggressione.
Il rapporto degli specialisti internazionali avanza preoccupazioni precise, sottolineando come le sanzioni possano configurarsi come illegali, sproporzionate e punitive secondo il diritto internazionale. La condanna si estende oltre l'aspetto economico, toccando un nervo scoperto: il diritto alla vita. Gli esperti, infatti, collegano le misure coercitive alle esecuzioni extragiudiziali, denunciando come queste ultime costituiscano una violazione arbitraria e inumana di un diritto inviolabile.
Il Ministero degli Esteri venezuelano, nel ribadire il suo totale ripudio, ha espresso apprezzamento per l'appello contenuto nel comunicato ONU a un'azione collettiva degli Stati membri. L'obiettivo dichiarato è la protezione e la salvaguardia del diritto internazionale, che si trova sotto un pesante attacco portato dalle tracotanti politiche unilaterali di Washington. Questa presa di posizione rafforza la campagna diplomatica del governo bolivariano, che è impegnato nel costruire un fronte di consenso contro le pressioni statunitensi, inquadrando la contesa non come una questione bilaterale, ma come una minaccia all'ordine multilaterale e ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
Data articolo: Fri, 26 Dec 2025 17:25:00 GMT
di Francesco Santoianni
In settimana evidenziavamo l’abissale livello raggiunto dai mass media di regime (e il conseguente crollo di lettori) segnalando un articolo apparso su Repubblica sui soldati di Putin costretti a scappare a dorso di cavalli o asinelli di fronte all’avanzare dell’esercito ucraino; articolo anonimo e, forse, imposto dalla direzione editoriale. Oggi Repubblica sfodera un altro capolavoro, questa volta firmato dal suo giornalista di punta, intitolato: << La guerra di Putin uccide in Finlandia: i lupi sconfinano e fanno strage di renne. I cacciatori si sono dovuti arruolare e così questi predatori si riproducono indisturbati e cercano cibo al di là della frontiera >>; una “notizia” (creata su un controverso articolo della CNN <<Le "renne di Babbo Natale" sono a rischio. La colpa è dei lupi russi?>>) che si direbbe faccia da pendant con un’altra subdola campagna stampa contro la Russia basata su un altro simpatico animale: il “delfino di Putin”.
Ma addentriamoci nella disamina dell’articolo della CNN il cui titolo, a differenza di quello di Repubblica, si conclude con un punto interrogativo e che, sostanzialmente, si limita a riportare, con sorprendente cautela, la teoria dei bracconieri russi (in Russia, circa 100.000 esemplari, il lupo è una specie protetta) che sarebbero ora impegnati in Ucraina.
<<La teoria è che le renne finlandesi vengano uccise in gran numero dai lupi russi che attraversano il confine di oltre 1.300 chilometri che corre tra i due paesi. Il motivo esatto per cui i lupi in queste regioni di confine russe stiano attraversando il confine con la Finlandia è oggetto di un continuo dibattito scientifico. Alcuni media russi hanno documentato l'impatto dell'industria del legname sugli habitat della fauna selvatica in questa parte del Paese. Un’altra teoria punta (invece) alla guerra in Ucraina. (…)
Sebbene le popolazioni di lupi siano aumentate in tutta Europa, la spiegazione più diffusa in Finlandia per il numero record di attacchi di lupi nelle regioni settentrionali di allevamento delle renne si trova a centinaia di chilometri di distanza: nelle profondità delle trincee russe dell'Ucraina. (…) Si dice che in Russia si stiano cacciando meno lupi, grazie al reclutamento di massa e alla parziale mobilitazione di uomini abili al combattimento – cacciatori inclusi – nello sforzo bellico russo in Ucraina. E questo porterebbe a un'esplosione di predatori come orsi, ghiottoni, linci e lupi, tutti predatori di renne.>>
Ovviamente, dell’aumento del numero degli orsi, dei ghiottoni (mammiferi carnivori della famiglia dei mustelidi) e delle linci, nessuna traccia. In compenso, gli scienziati intervistati dalla CNN si affidano (oltre ad un insolito DNA ritrovato nelle feci di lupi) ad una tabella che dovrebbe attestare il legame tra l’aumento delle aggressioni dei lupi e la guerra in Ucraina.

In realtà, quello che la tabella evidenzia si direbbe un aumento progressivo delle aggressioni dei lupi cominciato nel 2013 e, rispetto al 2021, un vistoso calo del numero delle aggressioni (registrato negli anni 2022, 2023, 2024). Una situazione che, in Finlandia, nonostante l’inconsistenza della documentazione, ha scatenato la psicosi dei “lupi di Putin” e una legge, che abrogando una protezione in vigore dal 1973, permetterà di uccidere ben 65 lupi su una popolazione complessiva di appena 400 esemplari.
Poveri lupi. E povero Babbo Natale che, ora senza renne, si è ridotto a derubare i bambini. Ovviamente, per colpa di Putin.
Data articolo: Fri, 26 Dec 2025 17:00:00 GMT
Nel cuore della notte di Natale, quando Washington era immersa nelle celebrazioni, un annuncio su Truth Social ha proiettato la Nigeria al centro della politica estera statunitense. "Questa notte, sotto la mia direzione, gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco potente e letale contro la feccia terroristica dell'ISIS nel nord-ovest della Nigeria". Con queste parole, il presidente Donald Trump ha rivendicato un raid aereo nello Stato nigeriano di Sokoto, scatenando un turbine di reazioni che mescola sicurezza, geopolitica, fede e campagna elettorale.
L'operazione, definita "su richiesta delle autorità nigeriane" dal Comando Africano degli Stati Uniti (AFRICOM) e confermata dal Ministero degli Esteri di Abuja come parte di una "cooperazione strutturata", è stata presentata da Trump come la risposta a una crisi umanitaria di proporzioni storiche. Già a inizio novembre, il presidente aveva tuonato contro quello che definiva un genocidio: "I combattenti dell'ISIS hanno attaccato e brutalmente ucciso cristiani innocenti, a livelli non visti in molti anni, persino secoli!", promettendo che se gli attacchi non fossero cessati, si sarebbe scatenato "un inferno".
At the direction of the President of the United States and the Secretary of War, and in coordination with Nigerian authorities, U.S. Africa Command conducted strikes against ISIS terrorists in Nigeria on Dec. 25, 2025, in Sokoto State.
— U.S. Africa Command (AFRICOM) (@USAfricaCommand) December 26, 2025
Il simbolismo dell'attacco nel giorno del Natale non è stato casuale. "Auguro Buon Natale a tutti, inclusi i terroristi morti, che saranno molti di più se il massacro di cristiani continua", ha scritto Trump. Un messaggio che risuona potentemente tra la sua base: gli elettori cristiani evangelici, tra i suoi sostenitori più ferventi, per i quali la difesa dei correligionari perseguitati all'estero è una priorità assoluta.
PHOTO STORY: Relics of explosive materials in Jabo village of Sokoto State after the US precision strikes on ISIS terrorists in North-West West Nigeria late Thursday.
— LEADERSHIP NEWS (@LeadershipNGA) December 26, 2025
Villagers troop out to catch a glimpse and report no casualties. pic.twitter.com/hzfOsO8k8e
Tuttavia, sul terreno nigeriano, il quadro dipinto da Trump si scontra con una realtà più complessa. Il governo di Abuja ha prontamente respinto le sue accuse di una persecuzione esclusivamente anti-cristiana, sottolineando come i gruppi jihadisti colpiscano indiscriminatamente sia comunità musulmane che cristiane. La sicurezza nazionale, affermano, non può essere ridotta a una narrativa religiosa binaria.
— Ministry of Foreign Affairs, Nigeria ???????? (@NigeriaMFA) December 26, 2025
Il raid ha colpito Sokoto, uno Stato a schiacciante maggioranza musulmana. Secondo analisti di sicurezza consultati da AP, il bersaglio più probabile non è la ben nota filiale di Boko Haram, ma un gruppo meno conosciuto affiliato all'ISIS chiamato Lakurawa. Questo gruppo, emerso con forza negli ultimi anni, controlla territori negli Stati nord-occidentali, approfittando del vuoto lasciato dal governo centrale e dalle forze di sicurezza. Come ha ammesso lo stesso ministro della Difesa nigeriano, Christopher Musa, la soluzione alla crisi è solo per il 30% militare; il restante 70% dipende dall'applicazione di politiche efficaci e dallo sviluppo.
È proprio da Sokoto che è arrivata la reazione più veemente e carica di conseguenze politiche. L'influente sceicco musulmano Sheikh Ahmad Abubakr Mahmud Gumi ha condannato il raid come un atto simbolico di una nuova "crociata anti-islamica". In una dichiarazione infuocata, Gumi ha invocato la fine di ogni cooperazione militare con gli Stati Uniti, accusati di "tendenze imperialiste globali". "Il coinvolgimento degli USA, giustificato con la scusa di 'proteggere i cristiani', non farà altro che polarizzare la nostra nazione e violare la nostra sovranità", ha affermato il clerico.
La sua proposta è radicale: abbandonare l'alleato statunitense e rivolgersi a partner considerati più neutrali, come Cina, Turchia e Pakistan, per un supporto militare meno carico di bagagli ideologici. "Come principio, nessuna nazione dovrebbe permettere che la propria terra diventi un teatro di guerra. E nessuna nazione dovrebbe permettere che i suoi vicini diventino i suoi nemici", ha aggiunto Gumi, delineando una visione di non-allineamento.
Mentre il Segretario alla Guerra USA, Pete Hegseth, promette che "ce ne saranno altri", il rischio per la Nigeria è di trovarsi stretta in una morsa pericolosa tra terrorismo e imperialismo statunitense.
Data articolo: Fri, 26 Dec 2025 16:47:00 GMTIl tentativo dell'Occidente collettivo di mantenere un dominio che sta sfuggendo di mano attraverso misure coercitive unilaterali "in un mondo multipolare non regge". Lo ha affermato la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, lanciando un duro attacco contro la politica sanzionatoria guidata dagli Stati Uniti e dai loro alleati/vassalli.
Secondo la diplomatica, il potere di imporre tali misure spetta esclusivamente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e la prassi delle sanzioni unilaterali ne viola i diritti esclusivi. "Tutti sanno che l'Occidente collettivo vi ricorre frequentemente, mosso principalmente da interessi geopolitici", ha sottolineato Zakharova.
Nel suo intervento, ha definito queste misure "un serio ostacolo all'instaurazione di un ordine mondiale multipolare giusto ed equo" e "uno dei principali strumenti della politica neocoloniale dell'Occidente". Il loro obiettivo, ha accusato, è "aggrapparsi a un dominio che scivola via, privare la maggioranza globale del diritto a una scelta politica indipendente e ostacolarne lo sviluppo economico, tecnologico e industriale".
Zakharova ha anche respinto gli sforzi di chi promuove queste sanzioni per dipingerle come "mezzi pacifici per risolvere le controversie", affermando che tali pretese non reggono a un esame approfondito. Ha evidenziato come le misure coercitive unilaterali, ostacolando il pieno sviluppo socio-economico dei paesi del Sud e dell'Est del mondo, finiscano per minare la risoluzione delle crisi. La loro applicazione indiscriminata, ha aggiunto, viola diritti umani fondamentali, colpendo in modo sproporzionato le fasce più vulnerabili, come più volte condannato in risoluzioni dell'Assemblea Generale e del Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU.
La portavoce ha concluso indicando che il "Gruppo di amici in difesa della Carta delle Nazioni Unite", che include la Russia, è in prima linea nella lotta contro queste pratiche. "Siamo convinti che nella giusta architettura multipolare delle relazioni internazionali a cui aspiriamo non ci sia posto per la coercizione o l'egemonia neocoloniale. Insieme ai nostri partner - membri responsabili della maggioranza globale - continueremo a combattere tutte le vestigia dell'epoca coloniale vergognosa", ha concluso Zakharova.
Data articolo: Fri, 26 Dec 2025 16:03:00 GMTIl presidente russo Vladimir Putin, nel corso di un incontro sul programma statale per gli armamenti, ha delineato una visione chiara e risoluta del presente e del futuro delle Forze Armate della Federazione Russa, forgiate da quella che definisce "un'esperienza unica" maturata nella zona dell'operazione militare speciale. In un intervento che ha toccato i temi della modernizzazione, della produzione industriale e della disponibilità al dialogo, il capo del Cremlino ha sottolineato come il carattere dinamico del conflitto stia plasmando un esercito senza pari al mondo.
Come evidenziato da Putin, la natura, le forme e i metodi delle azioni di combattimento si evolvono costantemente, e il "bagaglio assolutamente inestimabile" acquisito dalle truppe al fronte viene integralmente trasfuso nella definizione del nuovo profilo delle Forze Armate e del complesso militare-industriale. Un processo di apprendimento continuo che diventa la pietra angolare per lo sviluppo futuro. Il presidente ha quindi ribadito con forza un concetto: le Forze Armate russe sono una realtà totalmente unica, composta da professionisti temprati dal fuoco della battaglia. "Non esiste un esercito simile al mondo. Semplicemente non esiste", ha affermato, riconoscendo al contempo l'esistenza di "molti problemi" ma descrivendo le truppe che ritornano dal fronte come "completamente diverse", ormai "indurite dal combattimento".
Pur nell'evidente orgoglio per questa forza in ascesa, Putin ha voluto riaffermare la tradizionale posizione negoziale di Mosca. "Come prima, siamo pronti ad avviare negoziati e a risolvere in modo pacifico tutti i problemi sorti negli ultimi anni", ha dichiarato, bilanciando la dimostrazione di potenza con un'apertura diplomatica.
Il potenziamento dell'esercito poggia saldamente sulle spalle di un complesso militare-industriale che, stando alle parole del presidente, opera ormai in un regime stabile ed efficiente. Putin ha fornito numeri precisi sulla crescita produttiva, evidenziando aumenti multipli rispetto al 2022 per le categorie più cruciali. La produzione di mezzi di protezione individuale corazzata è cresciuta di quasi 18 volte, mentre quella di munizioni e sistemi di attacco ha superato le 22 volte. Impressionanti anche gli incrementi per la tecnica blindata, i veicoli leggeri corazzati, l'aeronautica e l'armamento missilistico-artiglieristico, i cui volumi produttivi sono saliti, rispettivamente, di 2,2, 3,7, 4,6 e 9,6 volte.
Questo sforzo titanico, reso possibile anche da tempestive misure di sostegno statale, è stato esaltato da Putin, che ha ringraziato i collettivi degli stabilimenti della difesa per il loro "lavoro dedicato e valoroso". Tuttavia, il presidente ha anche indicato come obiettivo ulteriore la riduzione dei costi di produzione, ammettendo che "qui c'è sicuramente ancora su cosa lavorare". Ha poi collegato esplicitamente questo successo industriale alla salute dell'intera economia nazionale, sottolineando come senza una situazione stabile nella finanza e nell'economia nel suo complesso un simile traguardo sarebbe stato irraggiungibile.
Guardando al prossimo decennio, l'incontro ha avuto come obiettivo la definizione dei parametri fondamentali del nuovo Programma Statale per gli Armamenti 2027-2036. Putin ha posto l'accento sulla necessità di sviluppare ulteriormente la base di test e i poligoni, di implementare le tecnologie dell'intelligenza artificiale e di creare materiali avanzati. Questi indirizzi si inseriscono in un quadro strategico più ampio, già illustrato dal Ministro della Difesa Andrey Belousov, che poggia su quattro pilastri: la definizione di priorità chiare (forze nucleari strategiche, mezzi spaziali, difesa aerea, droni e sistemi basati su nuove tecnologie come l'IA), la costruzione del programma in base alle capacità di combattimento future, la sincronizzazione tra sviluppo, acquisizione e infrastrutture, e l'aumento della produttività nel settore della difesa.
Il programma, che interesserà l'intero spettro degli armamenti di nuova generazione, si baserà al massimo grado sull'esperienza acquisita nell'operazione militare speciale. Un'attenzione particolare sarà riservata al potenziamento della triade nucleare, già modernizzata al 95%, e alla creazione di sistemi d'arma moderni per l'aviazione.
Il messaggio che emerge è quello di una Russia che, partendo dalle prove del presente, sta già costruendo metodicamente il proprio strumento di sicurezza e difesa per i decenni a venire.
Data articolo: Fri, 26 Dec 2025 15:48:00 GMTIl discorso natalizio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky continua a generare un acceso dibattito, travalicando i confini nazionali e sollevando interrogativi sulla sua natura e sul suo impatto. Dalle colonne dei giornali britannici ai microfoni del Cremlino, le parole pronunciate in occasione delle festività hanno suscitato a giusta ragione forti reazioni, alimentando un fuoco di polemiche che mescola critiche morali, giudizi politici e analisi psicologiche.
In un video trasmesso per il Natale, celebrato il 25 dicembre in Ucraina dopo la riforma del calendario voluta dallo stesso Zelensky nel luglio 2023, il leader del regime di Kiev ha espresso un desiderio che ha colpito per la sua violenza intrinseca. "Oggi il sogno di tutti noi è uno solo e il desiderio che chiediamo è lo stesso per tutti: che muoia", ha dichiarato, senza specificare a chi fossero indirizzate queste parole, sebbene il contesto del conflitto con la Russia lasci pochi dubbi sull'implicito destinatario.
Oltremanica, i lettori del Telegraph hanno accolto con forte critica il messaggio. Un lettore, John O'Connor, ha sottolineato la dissonanza tra il contenuto della dichiarazione e lo spirito della ricorrenza, scrivendo: "Questa è una dichiarazione scioccante per un discorso di Natale. Chiaramente non ha letto il Sermone della Montagna". Altri commenti hanno dipinto l’immagine di un leader sotto pressione: "Parole di una persona debole, perdente e rancorosa", ha osservato un utente, mentre Lynn Hughes-Wilson ha giudicato il pensiero come poco saggio, affermando che "sarebbe stato più intelligente tenerselo per sé". L'accusa più diretta è arrivata da Stuart Williams, che ha definito Zelensky un "ipocrita criminale".
La reazione ufficiale russa non si è fatta attendere. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha espresso pubblicamente dei dubbi sulla capacità del presidente ucraino di prendere decisioni adeguate per una risoluzione politica e diplomatica del conflitto. Peskov ha bollato il messaggio come "incolto e rancoroso", arrivando a descrivere Zelensky come "una persona fuori di sé". Una valutazione che va oltre la critica politica, puntando sullo stato mentale dell'interlocutore.
Nel suo intervento, Zelensky aveva anche toccato un nervo religioso, definendo i russi "empi" e affermando che non hanno nulla a che fare con il cristianismo né con "qualcosa di umano". Un’aggiunta che ha ulteriormente inasprito i toni di un messaggio già di per sé carico di odio e frustrazione.
Le violente parole di Zelesnky indicano ancora una volta un pericoloso allontanamento dai principi che il regime neonazista di Kiev dichiara di voler difendere. In un momento tradizionalmente dedicato alla pace e alla riconciliazione, le parole di Zelensky sono volte ad allontanare ulteriormente la prospettiva di un dialogo.
Data articolo: Thu, 25 Dec 2025 18:32:00 GMTLa proclamazione di Nasry Juan Asfura Zablah come presidente eletto dell’Honduras non chiude la crisi politica apertasi dopo le elezioni del 30 novembre, ma bensì la cristallizza. Dopo oltre tre settimane di uno scrutinio irregolare, interrotto a più riprese e segnato da anomalie tecniche e denunce formali, il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) ha annunciato un risultato che per ampi settori politici e sociali del Paese rappresenta non una vittoria elettorale, bensì l’esito di un golpe istituzionale mascherato da procedura democratica.
Secondo i dati diffusi dal CNE, Asfura, candidato del conservatore Partido Nacional, avrebbe ottenuto poco più del 40 per cento dei voti, superando di meno di un punto percentuale il liberale Salvador Nasralla. Una differenza minima, maturata in un contesto in cui migliaia di verbali presentano errori, incongruenze numeriche o irregolarità non risolte. Su oltre 18 mila verbali, quasi 2.750 sono stati segnalati per varie problematiche, mentre decine di migliaia di reclami formali attendono ancora una risposta. Nonostante ciò, due delle tre componenti del CNE hanno proceduto a una proclamazione definitiva, ignorando le richieste di riconteggio voto per voto.
Il processo di scrutinio è stato più volte paralizzato dal collasso del sistema di trasmissione dei risultati preliminari, il TREP, gestito dalla società colombiana Grupo ASD. Blocchi prolungati, alcuni durati giorni, sono stati giustificati con presunte manutenzioni tecniche, in violazione del principio di continuità operativa. L’oscuramento informativo, avvenuto proprio mentre la distanza tra i candidati era ridottissima, ha alimentato il sospetto di una manipolazione deliberata dei tempi e dei flussi di dati.
????????El integrante del CNE, Marlon Ochoa, denuncia ante el Ministerio Público la intención de declarar resultados electorales sin finalizar el escrutinio. Exigen transparencia y respeto a la democraciahttps://t.co/J4N3NpPenG
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 24, 2025
A denunciare apertamente l’illegittimità della proclamazione è stato anche Marlon Ochoa, consigliere titolare del CNE in rappresentanza di Libertad y Refundación (Libre). Ochoa ha parlato senza mezzi termini di una dichiarazione illegale, imposta prima della conclusione del conteggio totale e senza la risoluzione delle denunce pendenti. Secondo il funzionario, la decisione sarebbe stata presa sotto pressioni esterne e in un contesto di evidente subordinazione geopolitica, arrivando a definire quanto accaduto come un “golpe di Stato elettorale”. Ochoa ha affermato che il 24 dicembre 2025 segnerà una data nera nella storia del Paese, il giorno in cui la volontà popolare è stata sostituita da interessi imperiali.
#ENVIVO | Consejero del CNE de #Honduras ????????, Marlon Ochoa: "Estamos hablando del secuestro de la voluntad popular en manos del presidente de los Estados Unidos"
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 24, 2025
→ https://t.co/ROUUUfk9OP pic.twitter.com/IYHooAk1du
Le accuse di ingerenza statunitense attraversano trasversalmente l’intero conflitto post-elettorale. Il rapido riconoscimento del risultato da parte di Washington e il sostegno pubblico espresso in campagna dal presidente Donald Trump a favore di Asfura vengono indicati come elementi chiave di condizionamento politico. Non solo simbolico, ma operativo. Secondo diverse denunce, durante il silenzio elettorale sarebbero stati diffusi messaggi intimidatori rivolti in particolare ai cittadini che ricevono rimesse dall’estero, con l’obiettivo di orientare il voto attraverso la paura di ritorsioni economiche.
In questo quadro si inserisce la presa di posizione durissima di Rixi Moncada, candidata presidenziale di Libre, che ha definito la proclamazione di Asfura un’imposizione straniera e un atto che distrugge la già fragile democrazia honduregna. Moncada ha accusato il CNE di aver agito agli ordini degli Stati Uniti e del bipartitismo tradizionale, denunciando l’esistenza di un piano fraudolento documentato da decine di registrazioni audio che dimostrano la premeditazione delle irregolarità. La candidata ha ribadito che le anomalie del TREP e le migliaia di verbali irregolari non sono incidenti tecnici, ma strumenti di un disegno politico preciso, annunciando la prosecuzione della resistenza contro quello che definisce un golpe elettorale.
Anche Salvador Nasralla ha rifiutato di riconoscere la vittoria di Asfura, denunciando la mancata risposta a circa 10.000 reclami presentati dal Partito Liberale, che riguarderebbero almeno due milioni di voti. Per Nasralla, accettare la proclamazione in nome della “stabilità” equivarrebbe a legittimare la corruzione strutturale che domina il sistema politico honduregno. Le sue accuse si sono estese direttamente alle autorità elettorali che hanno firmato la dichiarazione, le quali avrebbero poi lasciato il Paese e operato da località sconosciute, sostenendo di essere vittime di persecuzione politica.
Mentre il calendario istituzionale prevede l’insediamento del nuovo presidente il 27 gennaio, l’Honduras resta intrappolato in una crisi di legittimità profonda. Più che un normale passaggio di potere, quanto accaduto viene percepito da ampi settori della società come il ritorno di un modello già visto: un bipartitismo protetto dall’esterno, una democrazia amministrata e una sovranità subordinata. In questo scenario, la proclamazione di Asfura non appare come la fine di un processo elettorale, ma come l’atto formale di una rottura politica destinata a segnare a lungo il futuro del Paese.
Data articolo: Thu, 25 Dec 2025 16:52:00 GMTMosca alza la voce contro Washington per l’escalation militare nel Mar dei Caraibi e denuncia una violazione sistematica del diritto internazionale che rischia di destabilizzare l’intera America Latina. A farlo è stata la portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha definito le azioni degli Stati Uniti nella regione un vero e proprio “caos legale”, accusando Washington di aver intensificato la propria presenza militare attorno al Venezuela fino a configurare, di fatto, un blocco navale.
Secondo la diplomatica russa, queste manovre rappresentano una minaccia diretta alla sovranità venezuelana e ai principi fondamentali dell’ordine giuridico internazionale. A nome della Federazione Russa, Zakharova ha ribadito il sostegno di Mosca agli sforzi del governo bolivariano di Nicolás Maduro per difendere i propri interessi, la sovranità nazionale e garantire uno sviluppo stabile e sicuro del Paese.
Nel dettaglio, la portavoce ha sottolineato come l’azione statunitense violi apertamente la Carta delle Nazioni Unite e la Convenzione ONU sul diritto del mare del 1982, compromettendo la libertà di navigazione e l’integrità sovrana del Venezuela. “Stiamo assistendo al ritorno di pratiche di pirateria, assalti e appropriazione di beni altrui in acque internazionali”, ha dichiarato Zakharova, descrivendo lo scenario come una minaccia diretta all’ordine giuridico globale.
Mosca, ha spiegato, continua a sostenere una linea di distensione, dialogo diplomatico e stabilità regionale, avvertendo che un’ulteriore escalation militare avrebbe conseguenze che andrebbero estendendosi ben oltre i confini venezuelani, coinvolgendo l’intero continente latinoamericano. In questo contesto, la portavoce ha espresso l’auspicio che il presidente statunitense Donald Trump, chiamato direttamente in causa nelle dichiarazioni, scelga una soluzione legale e negoziale. “È fondamentale evitare uno scenario distruttivo. Confidiamo che il pragmatismo del presidente statunitense consenta di trovare soluzioni nel quadro del diritto internazionale”, ha affermato.
Le dichiarazioni russe arrivano in seguito alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 23 dicembre, convocata proprio per discutere l’aumento della presenza militare statunitense nei Caraibi. Come evidenzia Zakharova, durante la sessione è emersa una condanna diffusa del carattere unilaterale delle restrizioni imposte da Washington, considerate una grave violazione dei principi e delle norme internazionali, dalla sovrana uguaglianza degli Stati alla non ingerenza negli affari interni, fino alla libertà di navigazione e ai diritti economici.
???? #Zakharova: #LatinAmerica and the #Caribbean must remain a zone of peace.
— MFA Russia ???????? (@mfa_russia) December 25, 2025
We reaffirm our support for the efforts of the Government of @NicolasMaduro.
?? @EmbajadaRusaVen is operating as usual.#RussiaVenezuela pic.twitter.com/3cIeCDl7mt
La diplomatica ha inoltre ricordato che l’America Latina e i Caraibi sono stati proclamati Zona di Pace e che qualsiasi attacco al Venezuela rappresenterebbe un colpo diretto alla stabilità regionale. Un intervento militare, ha avvertito, produrrebbe effetti geopolitici di vasta portata su tutto il continente.
Attualmente, gli Stati Uniti mantengono nella regione un imponente dispositivo militare, con un gruppo d’attacco navale guidato dalla portaerei USS Gerald R. Ford, affiancata da un sottomarino nucleare e da oltre 16.000 militari. Mosca denuncia che, a partire da settembre, forze statunitensi hanno affondato imbarcazioni civili causando decine di vittime, mentre sarebbero in atto la chiusura dello spazio aereo e il blocco delle petroliere venezuelane.
???? El representante de #Rusia ???????? ante la ONU, Vasili Nebenzia, denunció que #EstadosUnidos ???????? ha reactivado la práctica de utilizar la lucha contra el terrorismo como excusa para interferir en los asuntos internos de otras naciones.
— teleSUR TV (@teleSURtv) December 23, 2025
???? Específicamente, Nebenzia criticó la… pic.twitter.com/4dOAtEWHjH
Secondo la Russia, un’eventuale offensiva diretta giustificata dietro il pretesto della “lotta al narcotraffico” costituirebbe una violazione grave del diritto internazionale e aprirebbe la strada a una destabilizzazione su scala continentale. Per questo Mosca insiste sul fatto che l’unica via percorribile resti il dialogo sotto supervisione internazionale, chiedendo a Washington di ritirare le proprie forze dai Caraibi, porre fine alla pressione militare e tornare a utilizzare la diplomazia come strumento di risoluzione delle controversie.
La regione, conclude Zakharova, si trova davanti a un bivio decisivo. Superare la linea rossa significherebbe provocare un impatto immediato e profondo su tutta l’America Latina e i Caraibi, con conseguenze difficilmente reversibili per l’equilibrio geopolitico globale.
Data articolo: Thu, 25 Dec 2025 15:28:00 GMT
di Clara Statello per l'AntiDiplomatico
Questo Natale i bambini potrebbero non ricevere regali a Natale. La colpa è di Putin: i suoi lupi (con DNA russo) sconfinano in Lapponia perché tutti i cacciatori sono stati mandati in guerra, anche se in Russia non c’è la mobilitazione forzata. Lo rivela un reportage della CNN, con tanto di interviste al proprietario di renne e a presunti scienziati finlandesi.
Dal ratto delle Sabine, al ratto delle babushke: soldati russi entrano in un villaggio ucraino e rapiscono 50 vecchie. E ancora: filmati di soldati russi a cavallo, sul cammello, in monopattino, in motorino, in bicicletta: hanno finito gli equipaggiamenti/i carri armati/le pale. Putin ha un sosia, anzi no è malato terminale, anzi no, è già morto. Inutili i bagni nel sangue di corno di cervo. L’esercito russo è un’armata rotta e ha finito i carri armati ma ci invaderà entro il 2029. Anzi ci sta muovendo guerra ibrida con i droni russi.
In un’UE che dichiara guerra alle fake news e alla disinformazione, questo è il tenore delle notizie che finiscono sulla nostra stampa. Non su beceri tabloid, ma su testate prestigiose come Repubblica, la Stampa, a firma di autorevoli professionisti dell’informazione.
Non si tratta semplicemente di notizie demenziali che strappano una risata o titoli clickbite per ottenere visual facili. Si tratta di guerra cognitiva. Una guerra condotta dalle classi dominanti per mezzo di giornalisti assoldati, politici o personalità note. Il terreno di conquista è la nostra mente. L’obiettivo è quello di mobilitare i cittadini europei e irreggimentarne il pensiero, per uniformare il consenso (e dunque annientare il dissenso) riguardo un determinato impegno bellico, diretto o indiretto, che comporta sacrifici alla popolazione e dunque potrebbe essere percepito come impopolare.
Come si costruisce il nemico
Il momento principale della guerra cognitiva è la costruzione del nemico. Il processo si articola con la diffusione di narrazioni di vario genere, che potremmo suddividere nelle seguenti categorie, in base alla loro funzione:
Amare la guerra
L’obiettivo della costruzione del nemico è quello di irreggimentare l’opinione pubblica e normalizzare la guerra. Per accettare l’orrore della guerra, della sua distruzione, della sua disumanità, l’opinione pubblica deve credere che sia “Dio stesso a volerla”, cioè che sia Santa. Più il popolo odia il nemico, più impara ad amare la guerra.
La guerra santa: per la propaganda la nostra guerra è sempre più giusta, più umana, più necessaria di quella degli altri. Anzi è una guerra di difesa. Anzi, non è neanche una guerra: è un’esportazione della democrazia, è una missione umanitaria, una lotta per la libertà. Anzi: i popoli oppressi dai dittatori ci chiedono di bombardarli per diventare come noi. Solo i folli o i malvagi non vogliono diventare come noi. Le nostre bombe non uccidono, sono intelligenti. Le vittime? Effetti collaterali. Come i milioni di bambini uccisi in Afghanistan, Iraq, Jugoslavia, Palestina. E prima ancora in Vietnam, Corea, etc. E’ vero che le stesse categorie adesso sono utilizzate da Mosca, ma forse è proprio questo che preoccupa le elite imperialiste occidentali: la perdita dell’eccezionalità. E così la NATO ha trovato un altro modo per condurre la guerra contro il suo nemico storico (che – attenzione – è diverso dal nemico strategico degli USA): rendere il conflitto invisibile, agendo attraverso una proxy, l’Ucraina. Noi non siamo in guerra, ma sosteniamo la difesa di un paese che è “una giovane democrazia imperfetta” che resiste a “un’aggressione assolutamente non provocata e ingiustificata” da parte di una dittatura autoritaria e autocratica.
Lo spauracchio di Putin
Peccato per noi che non sia così. La guerra cognitiva dell’Occidente contro la Russia precede la guerra in Ucraina. Anzi, precede addirittura il Maidan. In pochi ricorderanno che le prime “pallottole” del conflitto invisibile sono state sparate ai tempi delle primavere arabe.
Già nel 2012, il Cremlino spaventava il “mondo civilizzato” con le sue armi micidiali: come le pistole psicotroniche che rendevano “zombie” gli oppositori. La notizia era stata diffusa dalla stampa inglese e poi replicata sulle riviste online italiane.
La macchina da guerra putiniana, secondo i nostri giornalisti, faceva ricorso persino al mondo animale: delfini e beluga utilizzati come spie. L’arma segreta di Putin? Il polpo gigante assassino. Secondo il Daily News, con il suo veleno paralizzava a 50 metri di distanza. Non sappiamo se si trattava di veline dell’MI6 o di notizie da dare in pasto al grande pubblico per aumentare le visual (o entrambe le cose), ma possiamo supporre che siano state funzionali nella costruzione di una percezione negativa della Russia. In sintesi, sono notizie che, per quanto stupide, condizionano e manipolano l’opinione pubblica.
Così come i gruppi di influenza creati ad hoc, ad esempio le pussy riot o le Femen, utilizzate per abbordare i movimenti della sinistra europea e creare un consenso antirusso, per preparare il terreno al secondo colpo di stato ucraino nel febbraio 2014. Il primo grosso attacco ibrido per mezzo di una campagna informativa e di attivismo politico, avvenne proprio nel 2012 durante gli europei di calcio, per screditare e demonizzare l’ex presidente Yanukovic. Si parlò di sterminio di cani randagi per mezzo di forni crematori portatili. Le notizie si rivelarono false ma intanto il seme della discordia era stato gettato.
Si potrebbe capire meglio la guerra in Ucraina rispondendo alla domanda: perché dal 2012 vennero lanciate queste campagne di disinformazione?
I nazisti buoni
Per amare la guerra ma non combatterla in prima persona, bisogna amare le nostre proxy. I “nostri” guerrieri per la libertà, che siano jihadisti, feroci tagliagole o ultrà nazisti, sono sempre giovani studenti che combattono contro un brutale dittatore. Che sia Gheddafi, Putin o Maduro.
Così, mentre la stampa trasformava i battaglioni neonazisti ucraini in “lettori di Kant”, truppe di fact checker sono stati assunti per spiegare che la svastica è in realtà un simbolo della tradizione nordica, o che i “filorussi” nella Casa dei Sindacati di Odessa il 2 maggio 2014 si sono dati fuoco da soli (per provocare l’invasione russa). La nostra propaganda ha sdoganato, giustificato o minimizzato il nazismo ucraino. Altrimenti sarebbe stato difficile spiegare che bisognava stare dalla parte ucraina e mandare armi a Kiev (cioè ai battaglioni nazisti).
Operazione empatia
Soprattutto all’inizio del conflitto diretto con la Russia, i media italiani hanno esaltato il popolo ucraino. Le tv hanno iniziato a diffondere trasmissioni di cultura ucraina (tg in ucraino, cartoni animati in lingua ucraina, la serie Netflix “Servitore del Popolo” con Zelensky). Le radio trasmettevano canzoni patriottiche ucraine, come “Oi u luzi chervona kalyna”. ONG e associazioni facevano la spola tra l’Italia e le regioni ucraine occidentali per portare aiuti umanitari o raccogliere profughi. A questo proposito, gli ucraini ottennero un canale preferenziale per entrare in UE, oltre che sussidi e aiuti. Nell’operazione vennero coinvolti tutti gli apparati ideologici di stato, persino le scuole primarie e dell’infanzia, dove spesso veniva esposta la bandiera ucraina o organizzate iniziative di solidarietà e aiuto.
Naturalmente non ci sarebbe nulla di male nell’aiutare un popolo sotto attacco, anzi! La solidarietà, però, è stata strumentale. L’operazione empatia, invece, è servita all’ucrainizzazione del’opinione pubblica e a formare un consenso totale sull’invio di armi a Zelensky.
Adesso che gli ucraini scappano, rischiando di morire annegati nel Tibisco, pur di non andare al fronte, non solo non ci sono corridoi umanitari, ma i governi europei valutano con Kiev azioni di rimpatrio degli uomini in età di leva. Altro che accoglienza!
Derussificazione della cultura
La cancellazione e boicottaggio della cultura russa è complementare all’ucrainizzazione. In Italia non siamo arrivati a bruciare o mandare al macero i libri russi, come invece accaduto in Ucraina, ma sono stati cancellati spettacoli, concerti, mostre di artisti russi, vivi o addirittura morti. Sono stati sospesi i programmi di ricerca scientifica con le università russe, sono addirittura stati cancellati i corsi su Dostoievskij. Tutto ciò è avvenuto con una palese ingerenza di gruppi ucraini, probabilmente agitati dall’ambasciata in Italia.
Tutt’ora esistono pressioni per cambiare i libri di storia delle scuole primarie e medie inferiori, accusati di essere “putinisti”. Anche questa è una fase importante della guerra cognitiva.
Il totalitarismo di guerra
Questa architettura cognitiva sta in piedi soltanto se si riduce la complessità della realtà a due dimensioni: i buoni contro i cattivi. Il pluralismo dei punti di vista si è trasformato nel pluralismo dei media che ripetono lo stesso punto di vista. Il divieto dei media russi è servito a cancellare tutti i punti di vista differenti da quello della NATO.
E cos’è il totalitarismo se non un sistema in cui è ammesso un unico punto di vista nel campo del pensabile?
L’informazione irreggimentata è stata uno dei principali strumenti di costruzione della Verità di stato, di mobilitazione generale dell’opinione pubblica. Chiunque abbia mostrato dubbi o opposto critiche, è stato immediatamente stigmatizzato come “filorusso” o addirittura inserito in liste di proscrizione.
Abbiamo tutti gli ingredienti del totalitarismo: la verità di stato, il fronte interno, il nemico del popolo, la caccia alle streghe e la santa inquisizione (mediatica).
In quest’ultima operazione sono stati impegnati non soltanto i giornalisti mainstream, che periodicamente sottopongono il filorusso di turno a gogne mediatiche coordinate e su larga scala, ma anche squadracce del web, in azione soprattutto sui social. Come ad esempio i NAFO, gruppi di utenti – reali o bot – che hanno come avatar un cane, la bandierina dell’Ucraina e una sfegatata devozione per Kaja Kallas e Pina Picierno. La loro funzione è quella di bullizzare chi la pensa diversamente. Questa è la loro democrazia.
Decostruire il nostro pensiero
Per fuggire alla tempesta propagandistica occorre prima di tutto recuperare ciò che la guerra cognitiva ci ha tolto: un punto di vista autonomo e indipendente. Ciò è possibile riammettendo nel nostro campo i punti di vista messi al bando. Soprattutto i punti di vista dei popoli che l’Occidente ha colonizzato.
Da queste nuove premesse, dobbiamo sottoporre le nostre narrazioni ad una critica radicale. Capovolgere le sante verità propinate dagli apparati ideologici di stato, verso i quali dovremmo imparare a mantenere un sobrio scetticismo, verificare le notizie, andare sul posto, ascoltare le altre campane. Recuperare una dimensione storica, relativizzare i nostri valori.
Demistificata la propaganda, probabilmente, troveremo una brutta sorpresa: da sempre utilizziamo la nostra ideologia come paravento per portare guerra nel mondo e soggiogare gli altri popoli. Prima esportando il cristianesimo, poi la “civiltà”, adesso la democrazia. L’obiettivo dei nostri governi non è distruggere la tirannia. Gli imperialisti, guerrafondai, genocidi siamo noi europei. E stiamo facendo combattere gli ucraini nel disperato tentativo di mantenere la nostra egemonia in mondo sempre più multipolare. Tutto il resto è propaganda.
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 16:00:00 GMT
di Mario Pietri
Il 2025 non verrà ricordato come un anno di guerra, perché la guerra, nella storia delle potenze, non è mai un evento eccezionale, ma una costante: una forma ricorrente attraverso cui gli equilibri vengono corretti, spostati, ridefiniti. Verrà ricordato, piuttosto, come l’anno in cui è diventato evidente che l’ordine che ha governato il mondo per decenni ha smesso di funzionare come principio organizzatore, pur continuando a esistere come apparato.
Le istituzioni sono ancora in piedi. Le alleanze non sono formalmente crollate. Le regole continuano a essere invocate, ripetute, difese. E tuttavia, sempre più spesso, non producono più gli effetti per cui erano state costruite.
Ilpotere continua a esercitarsi, ma fatica a generare consenso. Le decisioni vengono prese, ma non orientano il futuro. Le parole vengono pronunciate, ma non organizzano più la realtà. Ciò che viene meno non è la forza in sé, bensì la capacità di dare direzione, di rendere comprensibile e condivisibile il senso del movimento storico.
Per oltre trent’anni, dalla fine della Guerra Fredda in poi, l’Occidente ha vissuto all’interno di una convinzione profonda, raramente dichiarata ma costantemente praticata: che il proprio modello non fosse soltanto dominante, ma definitivo. Che il controllo finanziario, monetario e narrativo potesse sostituire indefinitamente la produzione reale, la coesione sociale e la capacità di sostenere costi materiali nel tempo. Che bastasse governare il linguaggio per governare il mondo.
Nel 2025 questa convinzione non è crollata in modo spettacolare. Non c’è stato un atto finale. Non c’è stata una sconfitta simbolica.
Si è consumata.
Ed è proprio questo tipo di passaggio — lento, ambiguo, instabile — che Antonio Gramsci aveva descritto con il termine interregno: una fase storica in cui il vecchio ordine non riesce più a imporsi come necessario, ma il nuovo non è ancora in grado di presentarsi come alternativa compiuta. In questo spazio intermedio, le strutture continuano a funzionare, ma senza orientamento; il potere continua a esercitarsi, ma senza egemonia; la politica si riduce a gestione, mentre il senso complessivo si dissolve.
L’interregno non è caos. È qualcosa di più sottile: ordine senza direzione.
È il tempo in cui le regole sopravvivono ai motivi per cui erano state create, in cui le parole continuano a essere pronunciate anche quando non convincono più, in cui il mondo va avanti senza che nessuno possa davvero dire di guidarlo. È in questo spazio che emergono tensioni sproporzionate, conflitti irrisolti, narrazioni contraddittorie, fenomeni che appaiono “morbosi” non perché anomali, ma perché sintomatici di un vuoto di egemonia.
Il 2025 è stato precisamente questo: non la fine di un mondo, ma l’ingresso consapevole in un tempo senza centro, in cui l’Occidente continua a parlare mentre la Storia, silenziosamente, inizia a fare i conti.
Stati Uniti: egemonia senza direzione, potere senza progetto
Nel 2025 gli Stati Uniti restano, almeno formalmente, la prima potenza militare del pianeta. Nessuno lo contesta davvero. E tuttavia, proprio qui si manifesta la contraddizione centrale dell’interregno: la forza permane, ma l’egemonia si dissolve.
Antonio Gramsci distingueva con estrema chiarezza tra dominio ed egemonia. Il primo si fonda sulla coercizione; la seconda sulla capacità di rendere universali i propri interessi particolari, di farli apparire naturali, inevitabili, persino desiderabili. Nel 2025 gli Stati Uniti conservano il dominio, ma stanno rapidamente perdendo l’egemonia. E quando un potere non riesce più a guidare, inizia a punire.
Il dato materiale è eloquente e non ha bisogno di retorica: il debito federale statunitense ha superato i 34.000 miliardi di dollari, oltre il 120% del PIL, con una spesa per interessi che cresce più rapidamente della capacità produttiva reale. È il segno di un’economia che non investe per trasformarsi, ma stampa per rinviare, spostando in avanti il costo delle proprie contraddizioni strutturali.
In assenza di un nuovo progetto egemonico — industriale, sociale, infrastrutturale — Washington ha progressivamente sostituito il consenso con la coercizione sistemica. Le sanzioni, un tempo strumento eccezionale, sono diventate linguaggio ordinario; i dazi, arma tattica; il dollaro, che per decenni aveva funzionato perché percepito come neutrale, è stato apertamente trasformato in strumento politico e punitivo.
Qui la lezione gramsciana diventa centrale: quando una classe dirigente non riesce più a guidare, governa per interdizione. Non costruisce alternative, ma impedisce che altri le costruiscano. Non produce direzione, ma blocca traiettorie. Non organizza il futuro, ma cerca di congelare il presente.
Nel 2025 il dollaro, da fondamento dell’ordine globale, viene sempre più percepito come meccanismo di ricatto, accelerando processi di dedollarizzazione negli scambi energetici e commerciali anche tra paesi che, fino a pochi anni prima, non avrebbero mai osato mettere in discussione la centralità finanziaria americana. È il paradosso dell’egemonia in declino: più viene difesa con la forza, più perde legittimità.
La politica estera statunitense si riduce così a una forma di contenimento negativo, priva di visione storica: non creare nuove architetture, ma sabotare quelle altrui; non integrare potenze emergenti, ma disciplinarle; non negoziare transizioni, ma rinviarle attraverso sanzioni, pressioni finanziarie e instabilità controllata.
È il comportamento tipico di ciò che Gramsci avrebbe definito una classe dirigente che non è più dirigente, ma che continua a occupare il centro per inerzia, incapace di produrre consenso, ma ancora sufficientemente potente da imporre costi. Un’egemonia che sopravvive come simulacro, mentre il mondo inizia a organizzarsi come se quel centro non fosse più necessario.
Nel 2025, gli Stati Uniti non guidano più l’ordine globale. Lo sorvegliano. E sorvegliare, nella storia delle egemonie, è sempre il segnale che la direzione è già passata altrove.
Europa: la rinuncia strategica come modello di governo
Se gli Stati Uniti rappresentano il centro imperiale in affanno, l’Europa nel 2025 ne incarna il caso più emblematico di autolesionismo strategico volontario. Nel giro di pochi anni, il continente ha accettato un aumento strutturale dei costi energetici che ha colpito direttamente il cuore del suo modello economico: l’industria manifatturiera ad alta intensità energetica. Il gas naturale, che per decenni era arrivato a prezzi stabili e prevedibili, è stato sostituito da forniture più costose e più volatili, con effetti immediati su chimica, acciaio, vetro, ceramica e automotive. Qui non servono interpretazioni: bastano i bilanci.
Il risultato è misurabile, non ideologico: produzione industriale stagnante o in calo, investimenti produttivi in fuga e una crescente delocalizzazione verso Stati Uniti e Asia, dove energia e incentivi pubblici risultano più competitivi. E mentre l’Europa perdeva capacità produttiva, continuava a parlare di “autonomia strategica”, come se ripetere un concetto fosse sufficiente a renderlo reale.
Immanuel Wallerstein avrebbe sorriso amaramente di fronte a una semiperiferia che continua a credersi centro, mentre trasferisce valore reale verso l’alto della catena imperiale. Nel 2025 l’Unione Europea ha definitivamente rinunciato a una politica energetica autonoma, a una diplomazia indipendente e a un ruolo di mediazione sistemica. In cambio ha ottenuto inflazione importata, tensioni sociali crescenti e una guerra permanente ai propri confini, utile a giustificare emergenze continue, ma incapace di produrre sicurezza reale. L’Europa non è stata sconfitta: si è auto-neutralizzata. E forse è questo l’aspetto più difficile da ammettere.
Israele e Gaza: la fine dell’egemonia morale occidentale
In questo quadro, Gaza nel 2025 non è stata soltanto una tragedia umanitaria, ma il momento in cui l’Occidente ha perso definitivamente il controllo della propria narrazione morale. Il diritto internazionale non è stato violato — lo è sempre stato — ma applicato in modo così selettivo da perdere ogni pretesa di universalità. La distinzione tra civili e combattenti è diventata flessibile, la proporzionalità un concetto negoziabile, le vittime un problema di comunicazione.
Ed è qui che la retorica ha smesso di funzionare.
Israele ha agito come avamposto armato di un ordine in crisi, certo che nessuna linea sarebbe stata davvero invalicabile, perché l’ordine stesso non ha più la forza di imporre limiti ai propri strumenti di coercizione. Gli Stati Uniti hanno esercitato il veto non solo alle risoluzioni ONU, ma alla possibilità stessa di una soluzione politica, mentre l’Europa ha assistito, esitato e infine accettato, pagando un prezzo politico enorme nel Sud globale. Il risultato è stato semplice e devastante: il cosiddetto rules-based order è stato archiviato come retorica coloniale aggiornata, valida solo finché non intralcia l’uso della forza.
BRICS, Russia e Cina: l’egemonia che non chiede consenso
Mentre l’Occidente sanzionava, puniva e moralizzava, il resto del mondo ha fatto qualcosa di molto più efficace: ha costruito alternative. Nel 2025 i BRICS non sono più un club simbolico, ma una piattaforma funzionale che, pur tra contraddizioni e limiti evidenti, offre ciò che l’Occidente non offre più: prevedibilità, infrastrutture e continuità. La Cina pianifica su orizzonti pluridecennali, investendo in logistica, energia, tecnologia e finanza reale; la Russia ha dimostrato che la resilienza strategica — la capacità di sopportare costi elevati senza collassare politicamente — conta più del PIL nominale calcolato a tassi di cambio occidentali.
Questo non è un mondo ideale. È un mondo operativo. Pagamenti alternativi, rotte ridondanti e istituzioni parallele non nascono per sfidare simbolicamente l’Occidente, ma per renderlo non più necessario. Il Sud globale lo ha capito con estrema lucidità: meglio accordi imperfetti che dipendenza strutturale, meglio partner cinici che tutori morali pronti a punire.
La fine del monopolio e l’interregno: il silenzio dopo l’Impero (e il caso italiano)
Il 2025 non ha segnato la sconfitta militare dell’Occidente, né il collasso improvviso delle sue istituzioni, né la fine formale del suo potere. Ha segnato qualcosa di molto più profondo, e proprio per questo molto più difficile da accettare: la perdita del monopolio sulla definizione della realtà.
Per decenni l’Occidente non si è limitato a esercitare potere; ha esercitato interpretazione. Ha deciso cosa fosse legittimo e cosa no, quale conflitto meritasse attenzione e quale potesse essere archiviato come “complesso”, quale violazione fosse intollerabile e quale invece spiegabile, rinviabile, assorbibile dal ciclo mediatico. Ha governato il mondo non solo con le armi e il denaro, ma con il vocabolario, con la capacità di nominare ciò che conta e ciò che può essere ignorato.
Nel 2025 questo privilegio non è stato strappato con la forza. Si è consumato.
Non perché il mondo abbia improvvisamente smesso di ascoltare l’Occidente, ma perché ha smesso di credergli. E quando la credibilità si dissolve, la forza nuda — sanzioni, veto, coercizione economica, ricatto finanziario — non ricostruisce l’ordine: lo consuma, lo svuota, lo trasforma in una ripetizione stanca di gesti che un tempo funzionavano e che ora producono solo assuefazione.
È qui che il passaggio storico diventa più chiaro se letto con le parole di Antonio Gramsci, che descriveva l’interregno come il momento in cui
“il vecchio muore e il nuovo non può nascere, e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
Il 2025 è stato precisamente questo: un interregno globale. L’ordine occidentale non è più in grado di imporsi come universale, ma nessun nuovo ordine ha ancora bisogno di dichiararsi tale. Il risultato non è il caos, ma qualcosa di più sottile e più corrosivo: la normalizzazione dell’assenza di centro.
L’Occidente continua a parlare di valori universali, ma lo fa in un linguaggio sempre più autoreferenziale, comprensibile solo a sé stesso e ai suoi alleati più disciplinati, mentre fuori da quel perimetro il mondo ha adottato criteri molto più elementari — e molto più spietati — per misurare il potere: accesso all’energia, stabilità delle forniture, continuità dei pagamenti, affidabilità delle relazioni nel tempo.
La differenza è ormai lampante: l’Occidente predica, il resto del mondo calcola.
Nel 2026 questa frattura non verrà sanata. Verrà normalizzata. Le istituzioni occidentali continueranno a esistere, a produrre documenti, vertici, dichiarazioni solenni e “road map”, ma lo faranno in uno spazio sempre più ristretto, parlando a un pubblico che condivide già le stesse premesse, mentre le decisioni realmente rilevanti verranno prese altrove, in sedi meno visibili, meno ideologiche e infinitamente più pragmatiche.
L’Impero non verrà abbattuto. Non verrà rovesciato. Non verrà nemmeno formalmente sfidato. Verrà aggirato. Ed è questa la forma più umiliante del declino: non la sconfitta, ma l’irrilevanza progressiva; non il crollo spettacolare, ma la constatazione silenziosa che non è più necessario.
Italia: l’interregno come condizione permanente
In questo passaggio storico, l’Italia non fa eccezione. Fa statistica.
Se il mondo occidentale nel suo complesso vive un interregno, l’Italia ne è una delle espressioni più pure e più avanzate: un paese in cui il vecchio modello continua a morire lentamente e il nuovo non solo fatica a nascere, ma non viene nemmeno cercato.
L’Italia del 2026 continuerà a dichiararsi “al centro” dell’Europa e del Mediterraneo mentre resterà accuratamente fuori da ogni vero processo decisionale strategico; continuerà a definirsi alleata mentre si comporterà da territorio affidabile, utile per basi, rotte, vincoli e allineamenti automatici; continuerà a parlare di interesse nazionale mentre accetterà che quell’interesse venga definito altrove, in lingue diverse e con priorità diverse.
Qui la lezione gramsciana diventa ancora più tagliente: l’egemonia non è solo dominio, è capacità di rendere naturale ciò che conviene. E in Italia, nel 2025–2026, ciò che è diventato “naturale” è l’idea che decidere sia pericoloso, che negoziare sia sconveniente, che usare le proprie leve — geografiche, industriali, diplomatiche — sia una forma di irresponsabilità.
L’Italia non verrà punita. Non verrà commissariata. Non verrà espulsa da nulla.
Semplicemente, non verrà consultata.
E come sempre accade ai paesi che scambiano la prudenza per virtù e l’inerzia per realismo, scoprirà che l’assenza di scelte non è neutralità, ma una scelta passiva a favore di chi decide.
Dopo l’Impero, durante l’interregno
Nel 2026 alcuni attori — Stati, imprese, sistemi finanziari — si posizioneranno di conseguenza, riorientando flussi, alleanze, catene del valore e strategie monetarie verso un mondo che non chiede più autorizzazioni né certificazioni morali. Gli altri continueranno a parlare di ordine, di leadership e di “comunità internazionale”, senza accorgersi che quella comunità, semplicemente, si è spostata.
E mentre l’Occidente continuerà a interrogarsi su come “difendere i propri valori”, l’Italia compresa, il resto del mondo avrà già risolto una questione molto più elementare, molto più concreta e molto più spietata: come vivere, commerciare e sopravvivere senza di lui.
Questa non è una profezia. È una constatazione. E per un Impero — e per i suoi vassalli più zelanti, intrappolati in un interregno che scambiano per stabilità — non esiste condanna più severa.
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA SINTESI DEL DOCUMENTO DEI PATRIARCHI E DEI CAPI DELLE CHIESE IN PALESTINA, RIUNITE INTORNO A KAIRSO.
BUONA LETTURA.
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Il mese scorso, 300 persone, guidate dai Patriarchi e dai Capi delle Chiese in Palestina, si sono riunite a Betlemme per lanciare il secondo documento di Kairos Palestina: Un momento di verità: la fede in un tempo di genocidio . La conferenza è stata ospitata da Kairos Palestina , il più grande movimento ecumenico nonviolento cristiano palestinese per la libertà e la giustizia.
In quattordici pagine, il documento espone le condizioni di espropriazione che hanno portato all'usura della vita cristiana in Palestina: colonialismo dei coloni, apartheid e razzismo sistemico, politiche persistenti di sequestro e incarcerazione e la logica della supremazia ebraica, tutte radicate nel progetto ideologico del sionismo, che ha intensificato il suo attacco genocida contro ogni forma di vita palestinese dall'ottobre 2023. Gli autori del documento scrivono:
Il genocidio è un processo cumulativo, iniziato nelle menti delle potenze coloniali d'insediamento europee quando negarono l'immagine di Dio negli altri e legittimarono la morte, il dominio e la schiavitù. Consideriamo lo Stato di Israele, fondato nel 1948, la continuazione di quella stessa impresa coloniale fondata sul razzismo e sull'ideologia della superiorità etnica o religiosa. Questo progetto ha colonizzato la Palestina e ha operato per espellere la popolazione indigena palestinese dal tempo della Nakba fino a oggi. La nostra attuale realtà palestinese è l'inevitabile risultato dell'ideologia sionista e del movimento coloniale d'insediamento suprematista, esso stesso frutto della mentalità imperialista.
Alla fine del documento, chiedono alle istituzioni – cristiane e non – di tutto il mondo di “boicottare il dialogo con le voci sioniste che hanno sostenuto e continuano a sostenere l’occupazione, l’apartheid e il genocidio del popolo palestinese”. Contro l’astuzia liberale del dialogo interreligioso che cerca di normalizzare il sionismo come unico linguaggio della vita ebraica, Kairos Palestina chiede il rifiuto della supremazia religiosa e lo smantellamento delle “barriere, dei muri, dell’occupazione militare e dell’apartheid” che continuano ad indebolire la vita degli indigeni palestinesi in tutta la Palestina.
Di seguito, potete leggere un estratto della dichiarazione in cui rinnovano il loro appello alla solidarietà globale e la loro visione per una Palestina restituita ai suoi legittimi proprietari. La dichiarazione è disponibile anche in altre lingue sul loro sito web .
Di fronte a questa dura realtà e in questo momento decisivo, innalziamo questo grido – prima di tutto a noi stessi, ai figli e alle figlie delle nostre chiese e congregazioni, e a tutto il nostro popolo in patria e nella diaspora. È un grido di fermezza, una rinnovata presa di posizione per la verità e un invito ad ascoltare la voce di Dio dentro di noi e a noi stessi. Questo è un momento di solidarietà e sostegno reciproco – un momento per assumere posizioni chiare e coraggiose, fondate su principi di fede e appartenenza nazionale. Questo è il momento della verità . Affermiamo che ciò che è stato costruito sulla falsità e sull'ingiustizia storica non potrà mai produrre pace o sostenibilità. Le vere soluzioni iniziano con lo smantellamento di sistemi oppressivi e razzisti. Solo allora potremo parlare di un nuovo orizzonte che sogniamo e desideriamo – un orizzonte in cui rimaniamo nella nostra terra insieme a tutti coloro che la abitano sulla base di giustizia, uguaglianza e pari diritti, liberi da supremazia e dominio.
Chiediamo una rivalutazione nazionale completa della nostra realtà per trarne insegnamenti e intuizioni che conducano a una visione unitaria e collettiva e a una strategia chiara per l'azione futura, fondata sull'indipendenza del processo decisionale palestinese. Ciò deve includere una revisione critica di tutte le soluzioni proposte e della loro fattibilità all'interno di un quadro rappresentativo legittimo che garantisca l'indipendenza del processo decisionale e il diritto all'autodeterminazione. Mettiamo in guardia dal dare alla nostra lotta nazionale un carattere religioso o dal trasformarla in una questione religiosa che contrappone le religioni l'una all'altra.
Questo è un momento di resistenza, incarnato nella costanza e nella costanza sulla nostra terra di fronte a ogni tentativo di sfollamento, annessione e genocidio, una resistenza vissuta nella nostra unità,
cooperazione e impegno per la nostra fede, i principi nazionali e tutti i nostri diritti. Aggrapparsi alla fede e alla speranza è resistenza. Pregare è resistenza. Salvaguardare i luoghi santi è resistenza. Preservare la pace sociale è resistenza.
In un momento in cui la resistenza palestinese e i movimenti di solidarietà globale sono criminalizzati, riaffermiamo il diritto di tutti i popoli colonizzati a resistere ai propri colonizzatori. Come abbiamo affermato nel nostro primo documento, " Un momento di verità: una parola di fede, speranza e amore dal cuore della sofferenza palestinese" , rimaniamo fedeli al principio della resistenza creativa , una posizione ferma e onerosa contro l'ingiustizia in corso. Vediamo la resistenza creativa incarnata nei movimenti popolari palestinesi che si oppongono all'occupazione, all'espansione degli insediamenti, al terrorismo dei coloni e all'apartheid, nonché nel lavoro delle organizzazioni della società civile, nelle iniziative legali e per i diritti umani, nell'impegno culturale, teologico e diplomatico, e nei movimenti studenteschi e sindacali. In tutto questo e in molto altro, riconosciamo mezzi efficaci di resistenza fondati sull'amore, un amore che può portare cambiamento e rinnovare la speranza.
Apprezziamo i movimenti globali di resistenza, advocacy e pressione popolare che operano per chiedere conto ai governi e agli organismi internazionali, isolando Israele attraverso boicottaggi e sanzioni finché non si adeguerà al diritto internazionale. Consideriamo tutto ciò da una prospettiva morale. Le strategie di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni sono, a nostro avviso, forme efficaci di resistenza creativa, radicate nella logica dell'amore e della nonviolenza, come affermato nel nostro documento originale.
Di fronte all'ecocidio perpetrato da Israele a Gaza e ai ripetuti attacchi e alla distruzione ambientale in Cisgiordania che minacciano le generazioni future, rinnoviamo la nostra appartenenza a questa terra e il nostro radicamento in essa. Affermiamo la sacralità della vita e il dovere di prenderci cura del creato . La nostra vocazione è quella di vivere in coesistenza con il creato: una fede condivisa e una responsabilità morale abbracciata da individui e istituzioni, pubbliche, governative, sociali e religiose.
Sottolineiamo l'urgente necessità di proteggere tutti coloro che sono vulnerabili nella società : le vittime dell'occupazione e della colonizzazione; le persone con disabilità, in particolare coloro che hanno perso gli arti; i cuori spezzati, gli addolorati; e tutti coloro che sono emarginati per qualsiasi motivo, comprese le vittime di violenza domestica o sociale, sfruttamento economico e abusi di genere.
Tra i volti della fermezza e della speranza nella nostra società c'è la donna palestinese : nonna, madre, sorella e figlia. È la spina dorsale incrollabile e una compagna essenziale nella lotta, che tiene insieme casa, terra, memoria e futuro, tutto in una volta. La sua presenza è fondamentale per la società nel suo complesso e il suo contributo è multiforme nella vita nazionale, sociale, economica e spirituale. La donna palestinese non può essere ridotta alla categoria di "donne e bambini", vittime senza volto, private di capacità di azione e volontà. La sua voce, la sua creatività e la sua leadership sono forze indispensabili. Non può esserci vera liberazione senza la sua piena partecipazione a ogni livello del processo decisionale e della costruzione della nazione.
Il nostro messaggio a noi stessi, come cristiani palestinesi, è questo: sentiamo il peso della storia sulle nostre spalle e siamo determinati a preservare la testimonianza cristiana in questa Terra Santa . A tutti i palestinesi, diciamo: la preservazione della presenza cristiana è sia una causa nazionale che una priorità. Non siamo né semplicemente un numero né semplicemente una tipologia di diversità all'interno della nostra società. Siamo cittadini indigeni che incarnano i valori umani e cercano di lavorare e costruire la nostra patria insieme a tutti i nostri partner al suo interno.
Rivolgendoci a noi stessi, diciamo: siamo figli e figlie della prima Chiesa – discendenti degli apostoli e dei santi dei primi secoli cristiani – coloro che hanno coltivato questa terra, costruito le sue città e i suoi villaggi e bevuto le sue acque. Non viviamo ai margini di questa terra. Siamo intrecciati nel suo tessuto. Portiamo con noi la sua storia e la sua eredità. Il suo stesso suolo ci riconosce come suoi. Molti imperi hanno dominato questa terra e sono scomparsi, sepolti nella polvere della storia, eppure le campane delle nostre chiese continuano a suonare – testimoniando la verità e proclamando la risurrezione ogni giorno.
Leggi qui la dichiarazione completa di Kairos Palestine.
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 12:50:00 GMT
di Huo Minhan - People's Daily
Nel villaggio di Laomei, nel comune di Xindu, a Tongcheng, nella provincia dell’Anhui, Cina orientale, la signora Dai Shuying, di 82 anni, sta rompendo gli stereotipi, pilotando con disinvoltura droni agricoli nei campi di riso della sua famiglia. In piedi su un argine, installa le batterie, carica il fertilizzante, dispiega le ali del drone e ne comanda il decollo, il tutto con sicurezza e maestria.
Suo nipote, Wang Tiantian, un "agricoltore moderno" nato negli anni '80, gestisce oltre 40 ettari di risaie e ha introdotto macchinari agricoli intelligenti come droni e grandi mietitrebbie, riducendo significativamente la necessità di manodopera.
Wang attribuisce la rapida padronanza della tecnologia da parte della nonna alla sua alfabetizzazione, alla sua mente brillante e alla sua buona forma fisica. Sebbene si sia ritirata dall'agricoltura a tempo pieno, la signora Dai rimane attiva, curando un orto e allevando pollame. Incuriosita dai nuovi macchinari, ha iniziato a imparare a pilotare i droni dal nipote. "Era affascinata da come bastassero pochi tocchi sullo schermo per controllare il volo", ha raccontato Wang.
La signora Dai è diventata gradualmente esperta. "I tempi sono davvero cambiati", ha commentato. "Niente più buoi, niente più pesanti irroratrici o falci. È incredibile."
Wang ha girato un video di sé stesso e di sua nonna mentre utilizzavano il drone e lo ha condiviso online. Il sorprendente contrasto tra un'anziana signora dai capelli bianchi e l'utilizzo di una tecnologia agricola avanzata ha rapidamente attirato l'attenzione di molti. Gli utenti di internet hanno elogiato Dai definendola "fonte di ispirazione" e "davvero fantastica", applaudendo la sua voglia di imparare e di adattarsi ai tempi. Alcuni si sono mostrati curiosi riguardo alla facilità d'uso e al costo del drone.
"Inizialmente era timida davanti alla telecamera. Ma con il tempo si è sentita più a suo agio e ora è diventata una celebrità locale di internet", ha detto Wang. Spesso condivide con lei i commenti degli spettatori e i video. "Si imbarazza ancora un po', ma è felice di contribuire a promuovere il nostro riso e a rappresentare il nostro Paese".
Wang e sua nonna gestiscono ora account molto popolari su Douyin (TikTok) e WeChat, con un seguito complessivo di oltre 500.000 persone. I ricavi derivanti dalle visualizzazioni dei video generano circa 100.000 yuan (14.157 dollari) all'anno. Oltre alla creazione di contenuti, Wang ha stretto collaborazioni con aziende per vendere prodotti a base di riso tramite dirette streaming, il che ha più che raddoppiato i suoi guadagni.
"Man mano che i nostri video brevi guadagnavano popolarità, sempre più persone hanno iniziato a inviarmi prodotti agricoli, sperando che li aiutassi a promuoverli. In passato, gli abitanti del villaggio dovevano andare al mercato; ora possono vendere direttamente da casa", ha detto Wang.
Wang è stato uno dei primi abitanti del villaggio ad adottare i droni agricoli e ha imparato da autodidatta a utilizzarli e a effettuarne la manutenzione. Il suo successo ha ispirato gli agricoltori dei dintorni ad adottare tecnologie simili e molti ora si rivolgono a lui per una consulenza tecnica.
Guardando al futuro, Wang prevede di ampliare la sua attività con video brevi e dirette streaming per affermare l'e-commerce come principale canale di vendita per il riso della sua famiglia. Intende anche approfondire le sue conoscenze in materia di tecnologie agricole, esplorare la coltivazione in serra di ortaggi a foglia verde molto richiesti e promuovere la cultura e il turismo di Tongcheng online.
"Quando arrivano più visitatori, il villaggio diventa più vivace e anche i nostri prodotti agricoli si vendono meglio. Spero che tutti abbiano l'opportunità di visitare Tongcheng", ha detto Wang.
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Dai Shuxing manovra un drone agricolo nei campi. (Anqing Evening News)
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 09:00:00 GMT
Di Wang Zheng, Li Xinping, Quotidiano del Popolo
Alla Conferenza sullo Sviluppo dell'Industria Robotica cinese del 2025, la Federazione Cinese dell'Industria Meccanica (CMIF) ha presentato un resoconto sull'andamento del settore robotico cinese durante il 14° Piano Quinquennale (2021-2025).
Il fatturato del settore è raddoppiato, passando da 106,1 miliardi di yuan (15 miliardi di dollari) nel 2020 a 237,89 miliardi di yuan nel 2024. Nei primi tre trimestri di quest'anno, il fatturato è aumentato del 29,5% su base annua.
Anche le esportazioni sono cresciute rapidamente, passando da 390 milioni di dollari nel 2020 a 1,15 miliardi di dollari nel 2024. Nei primi tre trimestri di quest'anno, le esportazioni hanno raggiunto 1,24 miliardi di dollari, superando il totale dell'anno precedente e registrando un aumento del 56% su base annua.
I marchi nazionali di robot industriali hanno conquistato una quota di mercato significativa, passando dal 31,4% nel 2020 al 58,5% nel 2024.
"L'industria robotica in Cina è cresciuta rapidamente durante il 14° Piano Quinquennale, e ora dispone di una catena industriale relativamente completa", ha dichiarato Xu Niansha, presidente della CMIF.
Capacità potenziate
Alla 25ª Fiera Internazionale dell'Industria della Cina, l'azienda cinese di robot industriali Estun Automation ha presentato un robot per carichi pesanti in grado di sollevare e trasportare stabilmente 1.200 chilogrammi.
"La capacità di carico è un indicatore chiave delle prestazioni. Con la crescente integrazione dei robot industriali nella produzione, la domanda di modelli per carichi pesanti ad alta rigidità, alta precisione e alta affidabilità è in aumento", ha dichiarato un rappresentante di Estun Automation.
Storicamente, la Cina dipendeva fortemente dai robot industriali per carichi pesanti importati, con i prodotti nazionali che rappresentavano meno del 3% del mercato. Tuttavia, durante il 14° Piano Quinquennale, sono stati compiuti progressi significativi. Ad esempio, il modello da 700 chilogrammi di Estun Automation, lanciato nel 2024, ha ricevuto oltre 100 ordini e nel 2025 l'azienda ha introdotto un robot da 1.000 chilogrammi.
I progressi tecnologici hanno anche trasformato la saldatura, spesso definita la "linea di cucitura" dell'industria moderna. "I nostri robot di saldatura offrono saldatura a punti ad alta velocità, adatta a carichi pesanti e altamente stabile.
"Il ciclo più veloce per un singolo punto di saldatura è di soli 2,2 secondi", ha dichiarato un rappresentante di SIASUN Robot & Automation Co., Ltd., uno dei maggiori produttori di robot in Cina.
Anche i processi di verniciatura si sono evoluti in modo simile. Le linee di assemblaggio tradizionali richiedono in genere da tre a cinque giorni per verniciare un veicolo, mentre la linea di produzione automatizzata che utilizza robot prodotti da Efort Intelligent Robot Co., Ltd. è in grado di completare l'operazione in poco più di 80 secondi.
"Le nuove tecnologie di quest'anno consentono ai robot di integrare sistemi di processo intelligenti direttamente nell'apparecchiatura, consentendo la miscelazione dei colori, il cambio, la spruzzatura e la pulizia automatizzati ", ha affermato l'ingegnere Wang Jinsong di Efort.
Maggiore supporto all'industria
Nei primi tre trimestri di quest'anno, la produzione cinese di robot industriali ha raggiunto le 595.000 unità, superando la produzione totale dell'anno precedente. Questa rapida crescita riflette il continuo sviluppo e il rafforzamento della filiera industriale della robotica nel Paese.
La Cina ha compiuto progressi significativi nella produzione di componenti chiave, tra cui riduttori di alta precisione, sistemi servomotori ad alte prestazioni e controllori intelligenti.
I riduttori armonici, spesso descritti come le "articolazioni" di un robot, sono composti da una ruota flessibile, un generatore d'onda e una ruota dentata circolare. La ruota flessibile, con uno spessore di soli 0,2 millimetri, richiede una precisione di lavorazione a livello di micron. I riduttori armonici di produzione cinese rappresentano ora oltre il 40% del mercato interno.
I servomotori, i "muscoli" di un robot, sono essenziali per il movimento preciso delle articolazioni. Inovance Technology Co., Ltd., azienda leader a livello globale nella fornitura di soluzioni per l'automazione industriale con sede a Shenzhen, nella provincia del Guangdong, nel sud della Cina, detiene la maggiore quota di mercato nel settore dei sistemi servo in Cina.
Nello stabilimento di produzione di Inovance a Yueyang, nella provincia dello Hunan, nella Cina centrale, la linea di produzione dei rotori ha raggiunto la completa automazione, mentre quella degli statori è automatizzata al 70%. "Le nostre linee di produzione intelligenti garantiscono elevata precisione e affidabilità, consentendo al contempo servizi personalizzati", ha dichiarato un rappresentante di Inovance.
Secondo Song Xiaogang, vicepresidente esecutivo della sezione robotica della CMIF, il sistema di supporto alla robotica in Cina sta diventando sempre più maturo. La capacità tecnologica e industriale è migliorata notevolmente, con le principali aziende del settore robotico che ora producono internamente oltre l'80% dei loro componenti.
Applicazioni più ampie
Alla fine del 2024, la Cina contava oltre 2 milioni di robot industriali, classificandosi al primo posto a livello globale.
Nel 2024, sono stati venduti 302.000 robot industriali sul mercato cinese, con un aumento del 68,7% rispetto al 2020 e pari al 54% delle vendite globali.
L'applicazione dei robot industriali si è ampliata in modo significativo. Entro il 2024, i robot industriali cinesi erano impiegati in 71 categorie principali e 241 sottocategorie dell'economia nazionale, coprendo il 51% di tutte le sottocategorie. Ciò rappresenta un aumento di 19 categorie principali e 98 sottocategorie rispetto al 2020.
La densità di robot nel settore manifatturiero cinese è passata dall'ottavo posto a livello globale nel 2020 al terzo posto nel 2024.
L'ampia integrazione della robotica ha accelerato lo sviluppo della produzione intelligente. La Cina ha creato oltre 35.000 fabbriche intelligenti di base, oltre 230 fabbriche modello e 1.260 fabbriche abilitate al 5G.
Guardando al futuro, si prevede che l'intelligenza e la specializzazione traineranno la crescita.
"Con l'integrazione sempre più profonda dell'intelligenza artificiale nei settori verticali, la sua integrazione con la robotica sta accelerando", ha affermato Song, aggiungendo che i robot si stanno rapidamente evolvendo da apparecchiature funzionali che eseguono compiti ripetitivi e programmati a partner intelligenti in grado di percepire, prendere decisioni e agire in modo autonomo.

Un robot per impieghi gravosi è esposto alla 25ª Fiera Internazionale dell'Industria della Cina a Shanghai. (26 settembre 2025 - Foto/Wu Xue)

Un robot intelligente sposta i prodotti in un'officina di un'azienda produttrice di pannelli solari a Yizheng, nella provincia del Jiangsu, Cina orientale. (Foto/Meng Delong)

Robot industriali vengono assemblati in un'officina di un'azienda produttrice di robot a Chengdu, nella provincia del Sichuan, nel sud-ovest della Cina. (Foto/Li Xiangyu)
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 09:00:00 GMT
di Alex Marsaglia
Mentre i Paesi europei colonizzati subiscono il giogo dell’Unione Europea che mira a depredare anche le riserve auree rimaste nelle casseforti delle Banche Centrali Nazionali (vedi: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52025AB0039), raschiando il fondo di un barile sempre più vuoto dopo quasi un ventennio di crisi e stagnazione economica e anni di sanzioni e blocchi al partner energetico russo, succede che nel resto del mondo si afferma chi pensa di sganciarsi da questo modo criminale di fare economia.
Dalla questione degli asset russi, all’appropriazione delle riserve auree, ormai il pensiero fisso dell’Unione Europea è la rapina diretta in aperta violazione delle sovranità nazionali e del diritto. Se i singoli Stati europei si sono lasciati ingannare facilmente, il resto del mondo in questi anni ha pensato e costruito un’altra strada per non farsi colonizzare brutalmente e dover subire ogni sorta di violenza ed angheria. Non è infatti stata solo la crisi economica e il conseguente acquisto dell’oro come bene rifugio da parte dei privati ad averne determinato l’apprezzamento record. Dietro la valorizzazione c’è una ben precisa strategia che ha visto le Banche Centrali di Cina, Russia ed Iran negli ultimi anni acquistare oro a ritmi vertiginosi, determinando il raddoppio del suo valore nel giro di pochi mesi (vedi grafico 1).

E l’Italia anziché poter gioire per essere il terzo Paese al mondo con maggiori riserve auree (vedi grafico 2) accantonate negli anni del boom economico, è caduta in preda all’ansia per l’ennesimo tentativo di rapina. E dico l’ennesimo perché le 2500 tonnellate d’oro, per l’ammontare di 300 mld di euro, sono nei forzieri della Banca d’Italia che com’è noto è stata separata dal Ministero del Tesoro nel 1981 e progressivamente privatizzata da capitali stranieri, per poi finire nelle grinfie della BCE che di fatto la utilizza come sua mera esecutrice di politiche monetarie decise a Francoforte, dunque non propriamente in piena disponibilità dello Stato italiano. Un arricchimento del tutto fittizio per uno Stato e un popolo completamente usurpato della sovranità dei propri beni.

Questa valorizzazione dell’oro, passato dai 2000 ai circa 4000 dollari l’oncia in meno di un anno, ha richiamato alle orecchie degli analisti la vecchia massima storica “quando l’oro raddoppia, gli imperi crollano”. In realtà, ciò che sta accadendo non ha alcun meccanicismo politico insito e non è frutto di una legge di mercato dettata dalla mano invisibile di Smith, bensì è una conseguenza di una politica economica e monetaria ben precisa di quel Adam Smith che - citando Giovanni Arrighi che i pattern storici li ha studiati attentamente alla Scuola delle Annales - si è trasferito da tempo a Pechino. Insomma, gli imperi non crollano mai da soli, bensì nei cicli storici vengono abbattuti e la Repubblica Popolare Cinese sta mettendo in campo tutto il suo potenziale economico costruito negli anni per scavare la fossa all’imperialismo statunitense. Quest’ultimo sta semplicemente tentando di salvare la sua moneta, su cui grava il più grande debito pubblico mondiale.
E sta cercando di salvaguardare dalla svalutazione la moneta con la forza delle armi, andando alla ricerca di beni e materie prime tramite l’«accumulazione per espropriazione»: prima il duo Obama-Biden ha attaccato direttamente la Russia, ora Trump sembra voler rimodulare l’aggressione limitandosi al giardino di casa, delegando i Quisling al lavoro sporco sui vari fronti, per concentrare le forze sull’assalto finale contro la Cina. Dal canto suo Pechino negli ultimi quindici anni ha lavorato in concerto con Mosca per costruire una strategia alternativa di transizione al Nuovo Ordine Mondiale Multipolare imperniandola sulla dedollarizzazione. Questa viene portata avanti in un contesto di cooperazione di altissimo livello a cui si è legato il riscatto dell’intero Sud Globale. Si può chiaramente identificare il piano dei BRICS+ come un tentativo di disinnescare la guerra che l’imperialismo statunitense prepara come sua ultima ancora di salvezza. Il lancio avvenuto il 22 Dicembre da parte del Presidente Trump di una nuova flotta da guerra americana rinnovata è un messaggio importante e per nulla improntato alla pace rivolto non tanto all’America Latina, quanto al Pacifico e alla Cina stessa.
D’altra parte la missione principale dell’imperialismo statunitense continua ad essere rivolta verso la rottura dell’asse Mosca-Pechino, che risulta invece più saldo che mai. E lo è proprio a partire dall’approfondimento di questo obiettivo di sganciamento dal sistema monetario internazionale statunitense: entrambe dal 2022 hanno di fatto bypassato il sistema di pagamenti internazionale SWIFT basato sul dollaro creando altri canali per le transazioni in accordo con i BRICS. Al fine di rendere più solido il nuovo sistema monetario sia la Cina sia la Russia hanno preso ad acquistare oro e lo hanno fatto con una fitta rete di interscambio reciproca. Proprio nell’ultimo mese di Novembre la Cina ha messo a segno il record storico di acquisti di oro dalla Russia per un ammontare di 961 milioni di dollari.
E il trend è in forte ascesa, poiché fa seguito ai 930 milioni di ottobre portando il totale da gennaio a novembre 2025 a 1,9 miliardi di dollari che è ben nove volte superiore ai 223 milioni acquistati nel 2024. In questo modo la Cina non solo sostiene il rublo, ma lavora nell’ottica di Kazan 2024 per rafforzare la moneta comune Unit dei BRICS+ che è ancorata per il 40% all’oro. Infatti, se qualcuno si fosse perso la rilevanza di una simile svolta nel sistema monetario internazionale, è bene ricordare che con Unit per la prima volta dalla rottura degli Accordi di Bretton Woods nel 1971 e dall’abolizione del Gold Standard in favore del Dollar Standard, si sta affermando un nuovo sistema internazionale in cui si tenta di riagganciare la moneta all’oro. Evidentemente l’affermazione di una moneta basata sulla maggior stabilità aurea determinerebbe la svalutazione progressiva della moneta dell’impero statunitense che si troverebbe sempre più in mano pezzi di carta sommersi dalla cifra astronomica di un indebitamento statale giunto alla soglia dei 40 miliardi di miliardi di dollari. Questo sì potrebbe far crollare l’impero. La corsa inflazionistica e speculativa del dollaro e dell’euro è entrata in crisi assieme all’ordine unipolare, mentre l’affermazione di un ordine multipolare non può prescindere da un ordine monetario multipolare in cui le risorse, le materie prime e le valute del Sud Globale torneranno al centro del sistema internazionale dei pagamenti facendo saltare il castello di carta costruito da Nixon in poi. In questo senso la valorizzazione dell’oro è semplicemente lo specchio che riflette l’affermazione di un nuovo ciclo egemonico che non vede più gli Stati Uniti in grado di imporre il valore della propria moneta a suon di cannonate in giro per il mondo.
Ci proveranno ancora, ma nel frattempo come ha già messo nero su bianco il Nuovo Documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale devono ripiegare per concentrare le risorse contro la Cina. Quest’ultima è invece da tempo impegnata nel portare a compimento le riforme con un’azione dello Stato volta a sviluppare quella che è stata la “rivoluzione industriosa”. Un quadro improntato ad «allargare e migliorare la divisione sociale del lavoro, la grande espansione dell’educazione, la subordinazione degli interessi capitalistici alla promozione dello sviluppo nazionale e l’attivo incoraggiamento della competizione inter-capitalistica», rivolto a «ridistribuire i profitti nei circuiti locali, nelle scuole, cliniche e altre forme di consumo collettivo» secondo uno schema di «accumulazione senza espropriazione»[1]. In maniera sotterranea la Cina ha sostenuto un’economia di prossimità, con «incentivi rilevanti che spingono i dirigenti delle imprese di comunità e gli imprenditori a reinvestire i profitti nelle comunità locali»[2] determinando una potente spinta del mercato interno che ha sostenuto l’affermazione economica del dragone. Anche gli investitori internazionali si sono accorti del maggior tasso di profitto in un’economia stabilizzata di questo tipo, rispetto ad una finanziarizzata come quella occidentale, «riallocando il capitale verso strutture emergenti che promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelli garantiti dalla struttura dominante». Così «gli Stati egemonici declinanti si trovano di fronte a una fatica di Sisifo: contenere forze che rotolano giù con sempre rinnovata energia»[3].
[1] G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di G. Cesarale e M. Pianta, Manifestolibri, 2010, Roma, pp. 193-196
[2] Ibidem
[3] Ivi p. 161
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 09:00:00 GMT
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Scorrere sulle pagine de La Stampa le ostentate esaltazioni, portate dalla signora Anna Zafesova, del regime nazigolpista di Kiev e delle sue “imprese” terroristiche in territorio russo, fa più o meno il paio con le invasate trivialità sciorinate dall'ex ministro degli esteri dell'Ucraina pre-majdanista, Vladimir Ogryzko. Se da una parte si giura che a Mosca ci si inventano di sana pianta «avanzate inesistenti» sul campo di battaglia, ecco che, da un lato, l'ex ambasciatore ucraino in USA, Valeryj Chalyj, spiattella che, indipendentemente da cosa ne pensi la gente, la leadership ucraina continuerà la guerra anti-russa il più a lungo possibile. E se a La Stampa assicurano che l'attentato che ha ucciso a Mosca il tenente-generale Fanil Sarvarov rappresenti «un duro colpo al falso mito dell’invincibilità del regime russo», ecco che Chalyj dà per certo che l'Ucraina sia in grado di vincere sul campo e che «il confronto con la Russia continuerà a lungo in varie forme, fino al crollo della Russia. Questa è una guerra esistenziale e continuerà finché non accadrà ciò che vogliamo. E penso che siamo già sul punto di far crollare l'impero». Se a La Stampa non fingono nemmeno di trattenere, trattandosi di un quotidiano “imparziale”, un sorrisetto di commiserazione perché «ascoltare Putin parlare della “inesorabile avanzata” del suo esercito nel Donbas, e della sua determinazione a “conseguire tutti gli obiettivi della operazione militare speciale con metodi militari” è un po’ come captare una trasmissione da un altro pianeta», ecco che l'ex ministro Ogryzko, d'accordo con Chalyj, dice chiaro e tondo che «per noi la vittoria significa la scomparsa della Russia dalla mappa del mondo. Perché qualsiasi cosa rimanga sotto quel nome, che si tratti di Putin, Navalnyj o Kara-Murza, questa idra politica si ricostruirà. E affinché questa idra muoia, dobbiamo continuare a fare ciò che i nostri eroi fanno ogni giorno. Ecco le ultime notizie: due aerei distrutti, il porto di Temrjuk oggetto di ulteriori attacchi, attacchi alle raffinerie di petrolio e così via. Prima la Russia esaurirà le risorse, prima cesserà di esistere»: pari pari le urla di vittoria che si levano dalla redazione torinese nell'enumerare le “imprese" dei nazigolpisti.
A dire il vero, dalle parti del numero 15 di via Lugaro sono costretti a mantenere un certo qual riserbo sugli inni al regime di “Kyiv” e, almeno in apparenza, evitano di seguire pedissequamente le orme del suddetto ex ministro, per quanto ne ricalchino la sostanza dei pronostici. Così, Ogryzko smarrona epigrammi del tipo che «Per apparire più solida e rinunciare al suo passato sovietico, l'Ucraina deve dichiarare una "storia millenaria" della sua diplomazia». E a La Stampa gioiscono che gli «infiltrati dei servizi di Kyiv operano in territorio russo con una notevole disinvoltura, e dispongono chiaramente di una fitta rete di complici locali. Intercettarli appare impossibile».
Sulla questione di chi possa coadiuvare i terroristi ucraini ci soffermiamo più avanti; ma intanto cerchiamo di bearci con le parabole di Ogryzko che, dice «Vorrei tracciare la storia della diplomazia ucraina non dai tempi della Repubblica Popolare Ucraina [negli anni '20] ma dal X secolo, quando fu registrato il primo trattato scritto tra Rus' e Bisanzio, il 3 o 4 settembre 911. Prima di allora, nel IX secolo, c'erano prove che Rus' e Bisanzio avessero concluso trattati. Ma, sfortunatamente, non ci sono fonti scritte... Oggi celebriamo la Giornata della diplomazia ucraina, il 22 dicembre. Ma credo che prima o poi arriveremo al punto in cui inizieremo a contare il nostro servizio diplomatico a partire da quei tempi. Così facendo, dichiareremo che la statualità ucraina non è merito di Vladimir Lenin, come alcuni pensano. Risale alle profondità dei secoli e dovremmo essere orgogliosi di queste tradizioni secolari».
Niente da eccepire. Per un paese in cui si proclama che gli antichi filosofi greci disquisivano in lingua ucraina e nient'altri che Diogene avrebbe consigliato di usarla quale lingua statale; che il faraone della XVIII dinastia Nebkheperura Tutankhamon è diretto antenato, attraverso il seicentesco ataman Severin Nalivajko, del cosacco “eroe di majdan” Mikhail Gavriljuk e che anche Genghis Khan era nato in Ucraina, approssimativamente in un'area tra il Don e il Dnepr, non c'è da stupirsi che la sua diplomazia sia alla radice del diritto millenario. Quando si proclama che dall'Ucraina proviene il personaggio della Gioconda leonardesca e che all'Ucraina si debba la scoperta del Canada, allora non c'è limite all'inverosimile.
D'altra parte, singhiozza ancora Ogryzko, l'Europa è «piena non solo di "agenti del Cremlino", ma anche di "utili idioti" che ammirano sinceramente la Russia e il suo presidente». Avrebbero ben potuto dirlo, a La Stampa, che gli “utili idioti” sono solo in Europa; d'altronde, è quello che fanno ogni giorno, tacciando di “putinismo” ogni minima osservazione dettata dal buon senso di chi vede, nei proclami bellicisti delle cancellerie europee e nei loro megafoni redazionali sul “dovere di sostenere con soldi e armi l'Ucraina”, nient'altro che la volontà di minare i pur flebili tentativi di arrivare a una soluzione negoziata del conflitto. Ma, a La Stampa, si sono invece limitati a resocontare che l'annuale conferenza stampa di Vladimir Putin – la «diretta annuale di Putin con i suoi sudditi», l'hanno definita a Torino, dove liberal-atlanticamente il presidente russo è definito “zar”, “autocrate” o “dittatore”, assetato del sangue del “benigno” Zelenskij - «è stata seguita da appena 16 milioni di telespettatori, uno scarso 11% dello share». Quindi, addirittura nemmeno in Russia, sembra voler dire Ogryzko a uso e consumo dei redattori torinesi, si è così “putiniani” ed è invece proprio là, dalle parti dell'Europa, che allignano tali «utili idioti» che non si genuflettono, come invece si usa fare nelle redazioni sotto la Mole, ai banderisti di Kiev.
No; là, in Europa, ci sono queste «persone che, per le loro convinzioni sinistrorse, credono che Putin sia un bell'uomo, che ponga giustamente l'accento sulle cose importanti e che rappresenti una grande Russia che dovrebbe essere alla pari con tutti gli altri». Questo perché «l'Europa è sottoposta da decenni all'aggressione culturale russa, e con grande successo. Il suo obiettivo è proprio quello di coltivare questi utili idioti in vari campi».
E allora avanti con il terrorismo, che viene chiamato tale solo a seconda di chi lo pratichi, mentre, trattandosi della “democratica” Ucraina, gli assassinii mirati sono solo “legittime azioni di resistenza”.
Ora, si diceva, dietro l'assassinio del generale Fanil Sarvarov, come per altri casi analoghi verificatisi in passato, c'è da ricercare sicuramente la o le “talpe” che si annidano in qualche struttura russa. Intervistato da Moskovskij Komsomolets sulla probabilità di un legame tra l'attentato e i tentativi di raggiungere un accordo di pace, il maggior-generale del FSB a riposo, Aleksandr Mikhailov, afferma che Kiev è da tempo impegnata in attività terroristiche in territorio russo e non le cesserà. Se molti politici ed esperti sostengono che l'Ucraina volesse in tal modo interrompere i colloqui di pace, c'è da dire che i Servizi ucraini non sono in alcun modo coinvolti nei colloqui di pace e dunque agiscono indipendentemente da come si muova la diplomazia. I Servizi «vivono nel loro mondo e non sospendono le loro attività terroristiche e di sabotaggio, nonostante i negoziati in corso», dice Mikhailov; pertanto «sarei cauto nell'affermare che stessero cercando di sabotare qualcosa»: semplicemente, hanno portato avanti un'operazione pianificata da tempo.
E dato che questo non è il primo assassinio di alto profilo, «sono profondamente convinto che dobbiamo cercare talpe all'interno delle strutture governative. Oltre a trovare l'autore, dobbiamo trovare gli individui che forniscono a questi sabotatori informazioni su residenze, orari di lavoro e spostamenti degli alti ufficiali». Finora, dice Mikhailov, si sono incolpati soggetti esterni, persone che agiscono per soldi; ma «abbiamo molte creature nostre, e le pecore nere che rovinano tutto il gregge sono presenti anche in quest'area. Pertanto, dobbiamo esaminare la questione molto a fondo».
Alla domanda se Londra possa aver curato l'attentato, Mikhailov risponde che, anche senza la Gran Bretagna, gli stessi Servizi ucraini hanno da tempo oltrepassato «ogni possibile e accettabile limite. Hanno intrapreso una strada di omicidi e terrore sul suolo russo». Certo, in generale la loro attività ha una base politica, ma non è detto «che riferiscano a Zelenskij ogni fatto relativo alla preparazione di un attentato. È stata elaborata una tabella di marcia e i Servizi operano senza Zelenskij; non hanno bisogno di rivolgersi a lui per ogni starnuto. L'obiettivo è stato fissato: infliggere il maggior danno possibile alla Federazione Russa, in primo luogo alle Forze Armate russe».
Certo, possiamo supporre che i Servizi britannici siano «in qualche modo coinvolti. Ma gli stessi servizi segreti ucraini sono piuttosto efficaci in termini di omicidi, sabotaggi e terrorismo. Se costruiscono droni, possono certamente piazzare una granata F-1 o un ordigno esplosivo più potente sotto un'auto senza l'aiuto degli inglesi. La Gran Bretagna certamente sostiene l'Ucraina e le fornisce informazioni. Ma d'altronde, i Servizi ucraini sono ormai diventati da tempo un vero e proprio mostro feroce che deve essere distrutto. Senza questo, è improbabile che saremo in grado di garantire la sicurezza non solo dei generali, ma anche dei cittadini comuni».
L'obiettivo ora è dunque quello di cercare la "talpa" esattamente in quella o quelle strutture in cui sono conservati i dati personali di alti funzionari del Ministero della Difesa. Questo attacco terroristico «non può essere considerato una super-operazione. È importante sviluppare e rafforzare un regime di controspionaggio e analizzare a fondo tutti gli eventi relativi alla fornitura di informazioni al nemico. Qui è stata coinvolta più di una persona. La stessa sorveglianza dei movimenti può essere stata attuata da intere squadre di agenti».
Insomma, come detto in più di un'altra occasione, la vittoria sul campo non sarà sufficiente a por fine alle scorrerie dei nazi-banderisti, la cui natura è orientata da sempre al terrorismo, individuale e di massa e le cui azioni potrebbero anzi intensificarsi e farsi più sanguinarie in vista della disfatta militare del regime di Kiev.
FONTI:
https://politnavigator.news/v-kieve-prizvali-prazdnovat-tysyacheletie-ukrainskojj-diplomatii.html
Data articolo: Wed, 24 Dec 2025 09:00:00 GMT