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News lantidiplomatico.it

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WORLD AFFAIRS
Daniel Ortega definisce "una totale follia" le politiche europee contro la Russia

Il copresidente del Nicaragua, Daniel Ortega, ha condannato le azioni dell'Europa, affermando che, invece di cercare la pace, il continente si sta preparando a un conflitto con la Russia, definendo tale atteggiamento “una totale follia”.

Gli europei, la Comunità Europea, stanno cercando di capire come raccogliere, credo, 70 miliardi di euro per acquistare e produrre armi. E qual è la giustificazione? Perché la Russia sta lottando per ciò che le appartiene in Ucraina, dicono, o perché vogliono prepararsi a una guerra con la Russia. È una follia totale”, ha dichiarato.

Ortega ha affermato che “le potenze coloniali e imperialiste non hanno imparato la lezione della storia, perché ovunque il colonialismo abbia messo radici, ovunque sia stato instaurato il dominio imperiale, alla fine ha fallito e i popoli sono stati liberati”.

"Devono lavorare per la pace. Ora tutti noi dobbiamo lavorare per la pace. La comunità europea deve lavorare per la pace", ha affermato durante la cerimonia di laurea dei cadetti del Centro Superiore di Studi Militari Eroe Nazionale della Divisione José Dolores Estrada Vado.

In questo momento, il mondo non può più parlare di nuove guerre. L'umanità ha già vissuto abbastanza guerre da non aver bisogno di altre”, ha aggiunto il copresidente nicaraguense.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 13:56:00 GMT
WORLD AFFAIRS
Ex funzionario Israele conferma: la "maggioranza" dei prigionieri di Jabalia a Gaza è stata uccisa dal fuoco amico

 

Nitzan Alon, ex coordinatore israeliano per gli affari dei prigionieri, ha ammesso che la maggior parte degli israeliani tenuti prigionieri da Hamas nella città di Jabalia, nel nord di Gaza, sono stati uccisi dai raid aerei dell'esercito.

"Il fuoco israeliano ha ucciso la maggior parte degli ostaggi a Jabalia a causa di lacune nei servizi segreti", ha confermato Alon, ora in pensione, al quotidiano ebraico Yedioth Ahronoth . 

Alon ha aggiunto che molti dei prigionieri arrivati ??vivi nella Striscia sono morti poco dopo a causa degli attacchi aerei israeliani che hanno preso di mira gli edifici in cui erano tenuti prigionieri.

Tra loro c'erano tre prigionieri israeliani, uccisi in un attacco israeliano nel dicembre 2023. Ciò fu il risultato di "supposizioni errate sul campo".

"La paura causata dai nostri attacchi aerei è stata ripetutamente menzionata nelle testimonianze degli ostaggi", ha continuato Alon.

Ha inoltre affermato che la pressione interna sul governo e le proteste organizzate dalle famiglie dei prigionieri hanno avuto scarsi effetti sui negoziati. 

Alon ha anche ricordato che Israele ha iniziato la guerra con un approccio del tipo "prima gli ostaggi, poi Hamas", ma ha finito per scegliere una strada diversa. 

"Se Hamas rimane al potere a Gaza, non abbiamo raggiunto nessuno dei nostri obiettivi. Se verrà smantellato, la gente continuerà a discutere sul prezzo – e molti sosterranno che un accordo simile avrebbe potuto essere raggiunto molto prima", ha concluso. 

Solo cinque giorni prima, Alon aveva ammesso a Yedioth Ahronoth che la famiglia Bibas non era stata rapita da Hamas. 

Quattro membri della famiglia – un uomo, sua moglie e i loro due figli – furono fatti prigionieri durante l'operazione Al-Aqsa Flood dalle Brigate Mujahideen, l'ala militare del movimento dei Mujahideen palestinesi.

I loro corpi furono consegnati da Hamas nel febbraio 2025. Israele sostiene che i combattenti di Hamas hanno ucciso la famiglia Bibas "a mani nude", ma sia Hamas che le Brigate Mujahideen hanno smentito sostenendo che sono stati uccisi da un attacco israeliano.

"Prendiamo ad esempio la famiglia Bibas. Sapevamo chi li aveva rapiti. Abbiamo informato Hamas sull'identità dei rapitori, in modo che potessero localizzare i corpi e restituirli", ha dichiarato Alon al quotidiano israeliano la scorsa settimana. 

Dall'inizio della guerra sono emerse numerose prove sull'attuazione da parte di Israele della direttiva Annibale del 7 ottobre, una misura adottata per impedire la cattura di israeliani anche se ciò metteva a rischio la loro vita.

Secondo quanto confermato dalle testimonianze, elicotteri e carri armati israeliani hanno aperto il fuoco indiscriminatamente contro gli insediamenti presi d'assalto dai combattenti di Hamas quel sabato, provocando distruzioni di massa e numerose vittime israeliane.

I prigionieri liberati hanno anche confermato ai media israeliani di aver avuto più paura di essere uccisi dagli attacchi aerei israeliani che da quelli di Hamas.

All'inizio di quest'anno, Haaretz ha riferito che gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 20 prigionieri e messo in pericolo la vita di decine di altre persone. 

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:30:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Sondaggio: Quasi la metà dei cittadini USA si oppone agli attacchi aerei contro le presunte "barche della droga

 

Quasi la metà dei cittadini statunitensi, tra cui un quinto dei repubblicani, si oppone agli attacchi di Washington contro le presunte "barche della droga" nel Mar dei Caraibi e nell'Oceano Pacifico. E’ quanto emerge da un sondaggio Reuters /Ipsos pubblicato il 10 dicembre.

Il sondaggio, durato sei giorni e che ha incluso le risposte di 4.434 adulti in tutto il Paese, ha rilevato che il 48 percento dei cittadini statunitensi si oppone a compiere attacchi illegali senza ottenere l'autorizzazione di un giudice o di un tribunale.

Ciononostante, il 34 percento degli intervistati ha espresso sostegno, mentre il resto ha dichiarato di essere "indeciso".

La divisione è trasversale ai partiti: il 67 percento dei repubblicani sostiene gli scioperi e il 19 percento è contrario, rispetto all'80 percento dei democratici che si oppongono.

Il sondaggio ha anche registrato una diffusa disapprovazione per la grazia concessa dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump all'ex presidente honduregno Juan Orlando Hernandez, caduto in disgrazia e leader sostenuto dagli Stati Uniti, condannato a oltre 45 anni di carcere negli Stati Uniti per traffico di droga.

Il 64% degli intervistati si è dichiarato contrario alla grazia, mentre solo l'8% l'ha sostenuta.

Anche un precedente sondaggio condotto a novembre aveva evidenziato una forte sfiducia dell'opinione pubblica nei confronti della spinta di Washington a una guerra per un cambio di regime in Venezuela. 

All'inizio dell'anno, le valutazioni dell'intelligence statunitense hanno smentito le affermazioni di Trump secondo cui il Venezuela produce Fentanyl per la spedizione negli Stati Uniti, affermando invece che "poco o nessun" fentanyl entrava negli Stati Uniti dal Venezuela, secondo le rivelazioni pubblicate da  Drop Site News

Ad aprile, Tulsi Gabbard, direttrice dell'intelligence nazionale degli Stati Uniti, ha licenziato i due massimi funzionari del National Intelligence Council dopo che  la loro valutazione contraddiceva l'affermazione di Trump secondo cui le autorità venezuelane stavano dirigendo le attività delle gang negli Stati Uniti.

Rapporti dell'intelligence e dell'agenzia antidroga degli Stati Uniti hanno precedentemente stabilito che il "Cartel de los Soles" non è una vera organizzazione criminale e che Caracas non è coinvolta nelle attività del gruppo Tren de Aragua.

Almeno 87 persone, tra cui pescatori innocenti provenienti da Colombia, Ecuador e Trinidad e Tobago, sono state uccise da attacchi aerei statunitensi su presunte "narco-barche" in Sud America da settembre.

Tra questi rientra anche un attacco "doppio colpo" durante il primo attacco della cosiddetta Operazione Southern Spear, in cui persero la vita due sopravvissuti alla deriva in mare.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Ufficio Stampa Gaza: da ottobre sono stati uccisi quasi 400 palestinesi in oltre 700 violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele

 

L'ufficio stampa governativo della Striscia ha rivelato, in un rapporto, che Israele ha commesso almeno 738 violazioni del cessate il fuoco a Gaza, uccidendo quasi 400 persone da ottobre.

"Confermiamo che l'occupazione israeliana ha continuato, dall'entrata in vigore del cessate il fuoco il 10 ottobre 2025, fino all'8 dicembre 2025 (per un periodo di 60 giorni), a commettere gravi e sistematiche violazioni dell'accordo, in palese violazione del diritto internazionale umanitario", ha precisato l’ente governativo dell’enclave assediata. 

"Durante questo periodo, le autorità governative competenti hanno registrato 738 violazioni dell'accordo", ha aggiunto, rivelando che almeno 386 civili palestinesi sono stati uccisi da attacchi aerei israeliani, attacchi con droni, bombardamenti di artiglieria e spari. 

Tra le vittime ci sono decine di donne, bambini e anziani. Quasi 1.000 palestinesi sono rimasti feriti, ha aggiunto l'ufficio stampa. 

Il conteggio dell'ufficio stampa rivela che ci sono state 205 sparatorie israeliane contro civili, 37 incursioni in aree popolate, 358 bombardamenti contro civili e abitazioni e 138 detonazioni di edifici e infrastrutture.

Ha ricordato, tra l’altro, che in media sono entrati a Gaza solo 226 camion di carburante e aiuti al giorno, sui 500 richiesti dall'accordo di cessate il fuoco, pari ad appena il 10 percento della quantità concordata.

“Solo 13.511 camion dei 36.000 che avrebbero dovuto entrare a Gaza lo hanno effettivamente fatto durante il periodo di 60 giorni.”

All'inizio del mese scorso, Tel Aviv aveva consentito l'ingresso solo del 28 percento degli aiuti che avrebbero dovuto entrare nella Striscia come parte dell'accordo, ha dichiarato a novembre l'ufficio stampa governativo. 

Ciò include attrezzature essenziali di cui si ha urgente bisogno per le operazioni di rimozione delle macerie.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), attualmente a Gaza ci sono 68 milioni di tonnellate di macerie dovute alla guerra genocida di Israele e alla distruzione sistematica delle infrastrutture.

Hamas ha avvertito che i colloqui per attuare la seconda fase dell'accordo di cessate il fuoco di Gaza non potranno aver luogo finché Israele continuerà a violare la prima fase dell'accordo.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 11:00:00 GMT
Nativi
Dark Winds, il noir Navajo che ribalta lo sguardo sul West

 

Non il solito “western indiano”

Da fuori, Dark Winds può sembrare “solo” un altro crime nel deserto: paesaggi da cartolina, poliziotti, FBI, una rapina in elicottero e qualche accenno di soprannaturale. Ma basta una puntata per capire che siamo da un’altra parte.

La serie, prodotta da AMC e tratta dai romanzi di Tony Hillerman dedicati ai poliziotti Navajo Joe Leaphorn e Jim Chee, nasce da un materiale letterario scritto da un autore bianco. Eppure la versione televisiva è stata, in buona parte, riappropriata: scritta in una writers’ room interamente composta da sceneggiatori nativi americani, diretta e interpretata da un cast quasi del tutto indigeno, girata in larga misura in territori Navajo e in studi di proprietà nativa come Camel Rock Studios, vicino a Santa Fe.

Questo fa la differenza: non siamo di fronte all’ennesimo sguardo esterno “antropologico” sui Navajo, ma a una storia in cui i personaggi Diné occupano il centro della scena, mentre bianchi e istituzioni federali ruotano attorno a loro. Anche per me, che trascorro buona parte delle mie giornate immersa nella scrittura e nella lettura sulla cultura indigena, Dark Winds è una serie davvero diversa e sorprendentemente apprezzabile. E tratta diverse tematiche già affrontate in questa rubrica (trovate negli articoli a https://www.lantidiplomatico.it/news-nativi/53237/ : Sterilizzazione forzata: l’ultima arma contro i Nativi Americani; Test nucleari e scorie tossiche nelle riserve indiane; Scuole di nativi indiani, le responsabilità della Chiesa e il negazionismo dilagante).

Leaphorn, Chee e Manuelito: un giallo che nasce dalla storia

Dark Winds è ambientata nel 1971 nella regione dei Four Corners, in un avamposto remoto della Navajo Nation. Il tenente Joe Leaphorn guida la Navajo Tribal Police; con lui lavorano Jim Chee, ex agente FBI tornato a casa con parecchi segreti, e la sergente Bernadette Manuelito.

Ogni stagione intreccia un caso poliziesco a un nodo storico che ha segnato il popolo Navajo:

  • Stagione 1 – parte da una spettacolare rapina a un furgone blindato e da un duplice omicidio in un motel. Il mistero si collega a una vecchia tragedia mineraria che ha toccato la famiglia di Leaphorn, e ad antiche paure legate a stregoneria ed equilibrio spezzato. La stagione si ispira soprattutto al romanzo Listening Woman, con elementi di People of Darkness.
  • Stagione 2 – prende di petto la questione delle miniere e dell’inquinamento nelle terre Navajo (People of Darkness): esplosioni, complotti industriali, corruzione politica, ma anche la memoria di chi ha perso la vita in nome del profitto.
  • Stagione 3 – mescola Dance Hall of the Dead e The Sinister Pig: bambini scomparsi, un mostro della tradizione Diné che sembra uscire dalle storie dell’infanzia, e uno sfondo di sfruttamento delle risorse e traffici alla frontiera.

Il risultato è un “western noir” atmosferico, come l’ha definito The Guardian, che elogia la serie come “un cupo mystery Navajo che implora di essere divorato in binge watching”, sottolineando la presenza di un cast in gran parte indigeno.Time parla di “stunning crime drama” che è anche una vetrina per il talento nativo, non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa.

Non stupisce che le prime tre stagioni abbiano raggiunto un 100% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, con giudizi che insistono sul carisma di Zahn McClarnon (Leaphorn) e sulla ricchezza del contesto culturale.

Cerimonie, K’é e medicina: cosa vediamo (e cosa no)

La vera novità di Dark Winds sta però nel modo in cui mette in scena la vita spirituale e quotidiana Navajo.

Già nel primo episodio, la sergente Manuelito consiglia a Chee di portare con sé un sacchetto di cenere di ginepro e polline di mais, perché “là fuori, a volte la miglior difesa non è la tua .38, è la tua medicina”. È un dettaglio breve, ma denso: la serie suggerisce la presenza costante di pratiche protettive e benedizioni, senza trasformarle in spettacolo esotico.

Il momento più potente arriva con il terzo episodio della prima stagione, intitolato K’é. Qui assistiamo alla Kinaaldá, la cerimonia che segna il passaggio all’età adulta di una ragazza Navajo, la nipote di Emma Leaphorn. Lo spettatore è invitato a guardare quasi “in prima fila”, ma attraverso gli occhi di Sally, una giovane donna Diné che, per la sua storia personale, non conosce i dettagli di quel rito.

Le recensioni sottolineano come la serie rappresenti la Kinaaldá come:

  • un momento intimo e comunitario, in cui le parenti femminili guidano la giovane perché diventi forte e armoniosa;
  • una celebrazione che dialoga visivamente con un’altra sequenza, quella della sepoltura di alcune vittime di omicidio: una vita che inizia, altre che si chiudono, in un montaggio che parla di lutto e rigenerazione insieme.

Il titolo dell’episodio, K’é, rimanda al sistema di parentela e responsabilità reciproca che struttura la società Navajo. La cerimonia non è un “folklore di contorno” al giallo, ma il cuore emotivo e politico della narrazione.

Nel corso della serie incontriamo altri elementi rituali: la cura con i canti e le medicine di un anziano medicine man, il rispetto verso certi luoghi, le regole su cosa si può o non si può dire di spiriti, streghe e Skinwalkers. Proprio su questi ultimi Dark Winds compie una scelta netta: invece di indulgere sulle figure più morbose del folklore, la produzione – anche su indicazione dei consulenti culturali Navajo – evita di mostrare direttamente i Skinwalkers, consapevole che si tratta di un tema delicato, tabù e facilmente fraintendibile dal pubblico non nativo.

Le critiche Navajo e la “course correction” della seconda stagione

Non è tutto perfetto, e la serie non è priva di contestazioni interne alla stessa comunità che vuole rappresentare.

Una delle recensioni più dure è apparsa sul Navajo Times, dove si critica la prima stagione per l’uso ambiguo della lingua e per una rappresentazione che rischia di associare la spiritualità Diné a un immaginario “oscuro” e stregonesco, rafforzando vecchi stereotipi hollywoodiani. Una delle voci intervistate si chiede: “Ora la gente chiederà: ci sono davvero streghe nella riserva?”, sottolineando come il sensazionalismo sul “lato oscuro” sposti l’attenzione lontano dalla bellezza della cultura Navajo.

La criticità è reale, ed è importante nominarla: anche una produzione avanzata come Dark Winds non è immune dal rischio di compiacere l’aspettativa occidentale di mistero e “indiano magico”.

La risposta, però, non è stata difensiva. Il regista e produttore Chris Eyre ha dichiarato che per lui e per il team “è criticamente importante rappresentare correttamente la cultura” e che sono pronti ad apportare correzioni. Dalla seconda stagione in poi la serie si avvale di un consulente culturale Navajo, George R. Joe, e di un lavoro più accurato su lingua, tabù e rituali, come lui stesso racconta in un lungo intervento sul Los Angeles Times, dove ricorda che circa il 95% del cast e la maggioranza dei reparti (costumi, stunt, props, ecc.) sono indigeni.

Anche un articolo di People insiste su questo punto: le prime critiche hanno portato la produzione ad assumere un consulente linguistico e a ricalibrare la rappresentazione delle cerimonie, evitando di tradire aspetti considerati sacri e non condivisibili con il grande pubblico.

Per chi guarda da fuori, è un passaggio chiave: dimostra che non esiste un’unica voce “nativa” monolitica, ma un confronto interno, talvolta aspro, su come raccontarsi.

Donne Navajo, violenza coloniale e memoria

Un altro asse forte della serie sono i personaggi femminili: Emma Leaphorn, l’infermiera che protegge Sally e accoglie in casa chi non ha nessun altro; Bernadette Manuelito, sergente dura e vulnerabile a un tempo; le giovani donne che affrontano gravidanza, discriminazione, violenza.

Nelle interviste, la sceneggiatrice Maya Rose Dittloff ha spiegato come una writers’ room interamente indigena abbia preteso più spazio per le donne e per temi come l’autodeterminazione sul proprio corpo, le sterilizzazioni forzate, il peso dei collegi e degli abusi.

Le trame noir non sono mai slegate da questo sfondo:

  • si parla di boarding schools, i collegi federali dove generazioni di bambini indigeni sono stati strappati alle famiglie;
  • emergono i segni delle sterilizzazioni forzate praticate su donne native negli anni ’60 e ’70 negli ospedali dell’Indian Health Service;
  • tornano i temi di uranio, miniere, espropriazione delle terre e della precarietà del diritto alla salute e all’acqua.

Il tutto senza trasformarsi in “serie didattica”: questi elementi restano sullo sfondo del giallo, ma chi conosce la storia li riconosce. E per chi non la conosce, l’invito implicito è ad approfondire.

Un nuovo standard di rappresentazione?

Molte recensioni non indigene sottolineano soprattutto la qualità del thriller: Time insiste sul ritmo e sulla fotografia; The Guardian sulla tensione psicologica e sull’interpretazione di McClarnon; NPR parla di “cop drama immerso nella cultura Navajo”, e siti come Black Girl Nerds celebrano il fatto che questa volta la nazione Navajo non sia lo scenario esotico di una storia bianca, ma il soggetto della narrazione.

È un giudizio in buona parte condivisibile: Dark Winds alza l’asticella per il mainstream, affiancandosi ad altre produzioni recenti dirette o scritte da autori nativi (Reservation Dogs, Rutherford Falls, ecc.). Resta però indispensabile non mitizzarla come “la” serie definitiva sulla cultura Navajo.

Da una parte abbiamo:

  • una writers’ room nativa (tra cui Graham Roland, Chickasaw; Billy Luther, di discendenza Navajo, Hopi e Laguna; Razelle Benally, Oglala Lakota/Diné; Erica Tremblay, Seneca-Cayuga, e altri);
  • un cast quasi interamente indigeno;
  • riprese in territori Navajo, con il supporto di comparse e anziani Diné.

Dall’altra restano i limiti di qualsiasi serie crime commerciale: esigenze di suspense, di “mistero”, di spettacolo. Proprio le critiche dei Navajo al tono “dark” di certe scelte spirituali ci ricordano che la rappresentazione è sempre un campo di battaglia.

Perché guardare Dark Winds (e come)

Per la rubrica “Nativi” de l’AntiDiplomatico, Dark Winds è interessante per almeno tre motivi:

  1. È un caso di riappropriazione narrativa: da una serie di romanzi scritti da un autore bianco si passa a un prodotto audiovisivo gestito da una squadra creativa in larghissima parte indigena, con la possibilità di correggere – almeno in parte – decenni di stereotipi.
  2. Mostra la cultura Navajo non solo nei simboli più visibili, ma nei dettagli: la lingua Diné accanto all’inglese, il concetto di K’é, le relazioni di parentela, il rapporto con il paesaggio e con il lavoro (polizia tribale, miniere, ospedali), la quotidianità delle famiglie.
  3. Apre porte su temi politici cruciali: estrattivismo, colonialismo sanitario, confini e militarizzazione, giurisdizione federale vs. sovranità tribale, alleanze e diffidenze con altri popoli indigeni e con le comunità ispaniche del Sud-Ovest.

Guardarla in lingua originale – con sottotitoli – permette anche di ascoltare la musicalità del Navajo, le differenze di accento, le sfumature di registro che vanno perse nel doppiaggio.

Non è una serie “innocua”: parla di violenza, traumi, fantasmi personali e collettivi. Ma è proprio lì che trova la sua forza. Dark Winds ci invita a entrare in un mondo Diné complesso, contraddittorio, vivo.

Non per rubarne le storie, ma per ascoltarle meglio.

 

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:30:00 GMT
OP-ED
Fede ortodossa, libertà di coscienza e repressione: il grande fronte oscurato del conflitto russo-ucraino

 

di Daniele Lanza

Ormai giunti allo scadere del quarto anno di guerra è tempo che si presti attenzione – oltre che al tradizionale scacchiere bellico sul campo – anche ad un ulteriore fronte che rischia di rimanere sepolto, sommerso in mezzo al flusso di informazione che esonda dai notiziari bellici: quello della fede. Una lacerazione intensa e silenziosa in seno alla società ucraina, un conflitto di identità e coscienza che coinvolge la chiesa ortodossa, cosa purtroppo inevitabile partendo dalla premessa di fondo che quella russo/ucraina sia una vera e propria guerra civile tra rami differenti della medesima civilizzazione (e che quindi non risparmia alcun aspetto della società).

A monte di tutto ricordiamo la struttura fondamentale della chiesa ortodossa in Ucraina, generatasi da un’evoluzione storica di centinaia di anni: essa è inestricabilmente parte della chiesa ortodossa russa nella misura in cui dipende dal patriarcato di Mosca (così come quella bielorussa e quelle del Baltico del resto). Un aspetto naturale questo, se si considera il grado simbiosi che ha caratterizzato la storia del popolo russo e di quello ucraino nel corso dell’ultimo millennio  – nevralgico per capirne l’affinità – ma che da subito è risultato intollerabile per il regime ucraino instauratosi a Kiev sin dal 2014.

Da quel momento pertanto inizia una serie di pressioni sulla chiesa ucraina affinchè si distanzi dalla storia stessa, attuando una cesura col patriarcato di Mosca: questo per l’appunto avviene nel 2019 con la creazione della chiesa ortodossa ucraina autocefala ovvero del tutto indipendente. Il problema è che quest’ultima di fatto non è mai esistita storicamente e non rappresenta null’altro che la conseguenza di necessità politiche maturate nell’ultima manciata di anni: la volontà del regime al potere a Kiev di separare la propria popolazione da ipotetiche influenze russe, ottenendo tuttavia di stravolgerne la storia stessa. Accade dunque che la società ucraina si ritrova non tanto unificata contro la Russia, ma all’incontrario più divisa che mai al suo interno dal momento che - de facto - esistono ora 2 differenti chiese ortodosse: quella tradizionale (detta canonica) che esiste da sempre, e – contrapposta ad essa – quella autocefala, creata ex novo per ragioni politiche con la finalità di avere un’entità ecclesiastica perfettamente allineata alla dottrina di stato. 

Dopo il 2022, come da aspettarsi, la contrapposizione tra la chiesa canonica e chiesa autocefala ha visto una deflagrazione dagli effetti drammatici: lo giunta di Volodymir Zelensky ha iniziato a perseguitare sistematicamente la chiesa canonica, sfruttando anzi il conflitto come utile occasione per sbarazzarsene definitivamente. Quest’ultima negli ultimi ann è divenuta quindi un bersaglio fin troppo facile: l’accusa pervesiava di possibile collusione col nemico russo al di là del fronte, ha giustificato di fatto ogni sorta di abuso da parte delle autorità contro il clero tradizionale dell’ortodossia canonica.

Da questa lunga premessa è indispensabile partire per comprendere un caso drammatico come quello del metropolita Arseny (Igor Fedorovich Yakovenko), attualmente perseguitato dal potere ucraino alla stessa stregua di un agente al servizio del nemico. Si tratta infatti di una delle personalità più rilevanti del clero canonico, guida del monastero di Svyatogorsk dal quale non si è allontanato in alcun momento, anche quando esso si trovava all’altezza del fronte, con grave rischio per la sua incolumità (un missile ha infatti colpito il monastero) pur di prestare soccorso con la sua opera a centinaia di bisognosi. Malgrado questo, il religioso si è ritrovato improvvisamente bersaglio dell’iniziativa governativa: arrestato nell’aprile del 2024 e detenuto in un centro di custodia cautelare di Dnepropetrovsk, egli si trova ancora al momento attuale in stato di detenzione ed in condizioni assolutamente precarie (in una cella con temperatura attorno ai 10° gradi e senza riscaldamento se non grazie ad una stufetta portatile procuratagli da alcuni sodali, che hanno dovuto provvedere a fornirgli anche un bollitore elettrico ed acqua potabile). Un qualcosa che viola le stesse leggi ucraine in merito alla custodia cautelare – che non dovrebbe superare una determinata tempistica, come ovunque al mondo – ma soprattutto se si considera che è ai danni di una persona anziana dalle condizioni di salute precarie, cosa che getta un’ombra sulle reali intenzioni delle autorità ucraine.

Il metropolita Arseny aveva già dimostrato durante le udienze preliminari in merito al suo caso, tanto la sua estraneità alle accuse (assai confuse per di più) di collusione con le forze russe in avanzata, quanto il proprio cagionevole stato di salute svenendo a più riprese di fronte ai giudici. Incuranti delle sue argomentazioni del tutto logiche (poteva passare dall’altra parte del fronte assai facilmente, come ha dichiarato), l’autorità ucraina lo rilascia inizialmente ma solo per arrestarlo di nuovo a distanza di breve tempo: si configura in tal modo una persecuzione crudele, ma soprattutto emblematica dell’atteggiamento assunto dal regime di Kiev nei confronti della sfera religiosa.

Il caso del metropolita Arseny – cui fanno seguito anche altri casi rilevanti come quello del metropolita Feodosio di Cherkassy – illustrano con estrema chiarezza il principio persecutorio che la logica governativa applica nei confronti della chiesa canonica: quest’ultima rifiutandosi di cedere ai diktat di regime e di allinearsi ad esso è divenuta un nemico interno e trattata come tale, oggetto quindi di misure restrittive e spogliata via via dei propri beni a vantaggio della chiesa nazionale considerata “fedele”. Chi ne fa le spese maggiori è proprio il clero tradizionale, reo agli occhi di Kiev di non essersi conformato: si rende necessario quindi la sua eliminazione ed allontanamento pure in aperto contrasto con tutte le garanzie costituzionali nonchè coi principi sovranazionali cui l’elite al potere dice di aderire.

Immediatamente mobilitato un fronte di difesa per la chiesa canonica ucraina e i suoi esponenti, rappresentata a Londra da Robert Amsterdam (ufficialmente avvocato per tale chiesa), che difatti denuncia a gran voce il grado di soprusi che si stanno verificando nel silenzio generale: per direttiva del vertice politico capeggiato da Zelensky i servizi segreti ucraini (SBU) si sono mobilitati per reprimere e perseguitare personaggi come il metropolita Arseny in quanto pericoli per la coesione nazionale (così come la Francia rivoluzionaria del 1789 perseguitava il “clero refrattario” cioè armonicamente non allineato con lo stato). Un terrore che giuridicamente si fonda sul bando legale della chiesa canonica ucraina sul territorio dello stato, cosa che autorizza progetti di legge finalizzati all’esproprio delle proprietà ecclesiastiche, non soltanto risulta essere antistorica, ma soprattutto – cosa più rilevante – arriva a violare quegli stessi principi di libertà (centrali nella cultura eurocomunitaria e dichiarati nella stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo) cui il regime di Kiev dice di voler aderire.

In definitiva una situazione gravissima dal punto di vista morale e umano che purtroppo risulta oscurata presso i mezzi di informazione occidentali e che ancora una volta – come in molti altri casi – solleva gravi dubbi sulla reale natura delle forze ideologiche che predominano presso il vertice politico ucraino il quale, godendo di totale impunità, stravolge completamente la logica attuando una vera persecuzione religiosa di stato nel mentre che proclama di essere nel campo delle democrazie che lottano contro le dittature. 

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:30:00 GMT
Lavoro e Lotte sociali
Corsi e ricorsi della storia. Le disuguaglianze sociali e salariali

 

di Federico Giusti

Ogni qual volta si parla dell'Italia pensiamo che l'attrattività del paese sia dovuta al clima ameno, al buon cibo, alle bellezze naturali e paesaggistiche, a una qualità della vita decisamente migliore di altri paesi, a servizi socio sanitari funzionanti.

Sarà il caso di rivedere questo giudizio fin troppo benevolo che potremmo ormai considerare uno stereotipo alla stessa stregua di pizza e mandolino ogni qual volta ci riferiamo all'area napoletana.

Se molti giovani scappano all'estero qualche segnale di malessere avrebbe dovuto essere percepito: dai bassi salari all'ascensore sociale fermo, dal mancato riconoscimento delle professionalità, con ridotte prospettive di carriera alle croniche carenze di asili nido pubblici senza dimenticare il numero chiuso negli atenei e la debacle della ricerca universitaria.

 I dati OCSE palesano la erosione del potere di acquisto salariale, hanno confrontato le retribuzioni italiane (costo del lavoro per occupato dipendente a tempo pieno) con quelle di altri Ue evidenziando un grande divario, acuitosi da 30 anni a questa parte. E una buona parte dei nuovi lavori presenta contratti part time con cui non si arriva in fondo al mese.

Un recente rapporto CNEL  si è soffermato sul raffronto tra i salari italiani e quelli di nazioni  attrattive verso le quali maggiori sono i flussi migratori , ebbene la dinamica salariale resta tra le principali causa della disaffezione dei giovani al loro paese

Cosa spinge le imprese a retribuire poco i loro dipendenti? La certezza che lo Stato si sostituirà loro nel compito di accrescere il potere di acquisto dei salari (in maniera comunque inadeguata e insufficiente) attraverso interventi fiscali atti a ridurre le tassazioni, peccato che rispetto al passato proprio il fisco non sia più equo e progressivo.

Rischiamo di ripetere sempre gli stessi concetti ma davanti alla riduzione delle aliquote fiscali, agli sgravi e alle detassazioni dovremmo chiederci chi pagherà un giorno i servizi sociali in assenza di risorse donate  nel frattempo alle imprese (rinunciando a sicuri introiti da investire nel welfare)

Negli ultimi anni è stata la contrattazione collettiva causa della austerità o moderazione salariale quando invece rappresentava la garanzia per arrestare la erosione del potere di acquisto, i livelli retributivi nel settore privato evidenziano discreti e crescenti andamenti retributivi nelle aziende di medie  e grande dimensioni, nelle piccole il divario salariale va invece crescendo,

La perdita salariale è vistosa invece in tutta la PA. Parlando a Radio Grad con Giacomo Gabbuti, ricercatore di Storia economica e curatore del bel libro edito da Laterza Non è giusta L'Italia delle disuguaglianze, esce fuori una realtà composita, le disuguaglianze sono molteplici, per dirne una in Italia si pagano ben poche tasse per le eredità con l'accumulazione delle ricchezze in poche mani e senza che nel frattempo l'ascensore sociale abbia ripreso a muoversi, fermo da lustri  si porta dietro l'ereditarietà stessa delle condizioni sociali .

Chi oggi beneficia di un buon tenore di vita è assai probabile abbia ereditato dai genitori questa condizione sociale e possa a sua volta trasmetterlo ai propri figli.

Chi oggi frequenta un liceo e non un istituto tecnico, nella maggioranza dei casi almeno, avrà genitori provenienti dalle stesse scuola, esistono le eccezioni ma questa è la regola in un paese sostanzialmente fermo. Tra i luoghi comuni ritroviamo l'idea che il ventennio fascista sia stato benevolo per le classi lavoratrici, ebbene i salari impiegarono 15 anni per ritornare ai livelli antecedenti la marcia Roma giusto a confutare l'ennesima semplificazione su quel periodo storico, la grande depressione del 1929 si abbattè sui redditi italiani un po' come accaduto nel 2008 con la crisi dei mutui.

Il riferimento al fascismo è voluto perchè in quei 20 anni non solo venne soppressa la democrazia nel paese ma l'opera repressiva iniziò proprio dai luoghi di lavoro bruciando prima le sedi sindacali e poi mettendo fuori legge i sindacati stessi. L'accanimento di esponenti dell'attuale Governo ricorda quell'atavico odio del passato contro le classi lavoratrici, un odio tipicamente reazionario che oggi si manifesta in forme diverse (non crediamo che la Meloni voglia mettere fuori legge il sindacato per capirci) ma sempre funzionali all'indebolimento della conflittualità del lavoro, e dei lavoratori, contro il capitale e la speculazione finanziaria.

E quando le istanze della classe lavoratrice sono deboli si registra la erosione del potere di acquisto e di contrattazione, le istanze sociali arretrano. la democrazia langue e le disuguaglianze riprendono a crescere.

Ripetiamo il concetto per non essere travisati: non equipariamo Meloni a Mussolini limitandoci solo a spiegare la stretta connessione tra austerità salariale e aumento delle disuguaglianze sociali, l'acuirsi delle speculazioni finanziarie in tempo di crisi economica e il ricorso all'economia di guerra come elemento salvifico che poi , in caso di sconfitta militare, si presenta nella veste della catastrofe.

https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Comunicazione/CnelRapportoGiovani.pdf?ver=2025-12-01-142759-597

https://eticaeconomia.it/le-disuguaglianze-economiche-in-italia-durante-il-regime-fascista/

https://www.rivisteweb.it/doi/10.7375/106154?rwSearchIds=[Rivisteweb:ARTICOLO:113137,Rivisteweb:ARTICOLO:113142,Rivisteweb:ARTICOLO:98828,Rivisteweb:ARTICOLO:71745,Rivisteweb:ARTICOLO:106154,Rivisteweb:ARTICOLO:85345,Rivisteweb:ARTICOLO:113141,Rivisteweb:ARTICOLO:113139,Rivisteweb:ARTICOLO:76744,Rivisteweb:ARTICOLO:76752]

https://contropiano.org/news/news-economia/2025/12/08/mezzo-milione-di-giovani-sono-emigrati-allestero-in-tredici-anni-cosi-viene-meno-il-futuro-0189589

https://eticaeconomia.it/non-e-giusta-litalia-delle-disuguaglianze/

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:00:00 GMT
Una finestra aperta
Cina, innovazione e apertura tracciano nuova rotta zone libero scambio

 

di CGTN

Nella zona pilota di libero scambio di Shanghai, presso il terminale portuale di Nangang, un lotto di veicoli a nuova energia si dirige verso una nave Ro-Ro. Nella zona di libero scambio dello Xinjiang, le tre aree di Urumqi, Kashgar e Khorgos, contribuiscono per il 40% al valore totale del commercio estero della regione. La zona pilota dello Zhejiang concentra i propri sforzi di innovazione integrata, sul settore delle materie prime, mentre Jiangsu e Shandong si concentrano rispettivamente sui prodotti biofarmaceutici e sull’economia marittima, per promuovere l’innovazione integrata lungo l’intera catena industriale, esplorando nuove vie per un’apertura di alto livello.

Durante il “14° piano quinquennale”, sono diventate 22 le zone pilota cinesi di libero scambio, coprendo una struttura di apertura che si estende da est a ovest e da nord a sud del paese, dando vita a quasi 200 innovazioni istituzionali. Tra queste spiccano la lista negativa per l’accesso degli investimenti esteri, la lista negativa per il commercio transfrontaliero di servizi, la “finestra unica” per il commercio internazionale e le riforme di “separazione delle licenze e dei certificati”.

Negli ultimi cinque anni, una serie di misure emblematiche e pionieristiche nelle zone pilota di libero scambio, non solo ha favorito l’ottimizzazione dell’ambiente imprenditoriale, ma ha anche continuato a stimolare la vitalità dell’apertura e dello sviluppo. Nel 2024 la quota del commercio estero e degli investimenti esteri nelle zone pilota di libero scambio, ha rappresentato rispettivamente il 19,6% e il 24,3% del totale nazionale, con un’accelerazione dei dividendi dell’innovazione.

La marcia dell’apertura della Cina avanza senza sosta. Dalla fase pilota della zona di libero scambio di Shanghai, all’attuale formazione composta da 22 zone simili, e dal porto di libero scambio di Hainan, la Cina si sta attivamente allineando alle norme commerciali ed economiche internazionali di alto standard. Fra non molto, il porto di libero scambio di Hainan avvierà ufficialmente le operazioni doganali indipendenti su tutta l'isola, segnando un nuovo livello nel processo di apertura di alto livello della Cina. La Cina rimane fermamente convinta che l’apertura serva sia al proprio sviluppo che al beneficio del mondo.

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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 10:00:00 GMT
OP-ED
Marco Travaglio - Chi è causa del suo mal


di Marco Travaglio - Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2025

O tempora, o mores! Signora mia, ma ha sentito cosa dice di noi bravi europei quel cattivone di Trump? E quel Musk, mamma mia che impressione! Dove andremo a finire! E giù insulti, improperi, anatemi, macumbe, bandierine europee sui social e nuove marcette col Manifesto di Ventotene usato come ventaglio. Ecco: se le classi dirigenti e intellettuali europee pensano di affrontare la sfida lanciata dagli Usa non sabato, ma 30 anni fa, con la strategia della lagna, consolandosi con le scomuniche all’amico che finalmente si scopre nemico per evitare l’autocritica, hanno già perso. Se invece vogliono ottenere qualche risultato, cioè fare eccezionalmente gli interessi dei cittadini europei, dovrebbero partire dalla brutale realtà: i danni che gli Usa potranno farci in futuro non sono niente al confronto di quelli che ci hanno già fatto col nostro consenso. Il paradosso è che il presidente Usa ci cazzia per aver sempre obbedito agli Usa. Bisognerebbe prenderlo in parola e piantarla, anziché seguitare a farlo con lui.

Gli diciamo no quando dovremmo dirgli sì perché ci conviene: sul piano di pace per l’Ucraina, continuando a finanziare e ad armare un regime terrorista che ci ha fatto saltare i gasdotti Nord Stream con la complicità di Usa e Polonia e fa di tutto per trascinarci nella terza guerra mondiale. E gli diciamo sì quando dovremmo dirgli no perché non ci conviene: abbiamo sostituto il gas russo col Gnl americano che costa il quintuplo; abbiamo subìto i dazi Usa al 15% anziché rivolgerci a mercati in espansione che non vedono l’ora di fare affari con noi, tipo Cina, India e gli altri Brics; promettiamo il 5% del Pil alla Nato e compriamo armi Usa per regalarle a Kiev e aiutarla a perdere altri uomini e territori, distruggendo la nostra economia; e – contro lo stesso volere degli Usa – mettiamo a repentaglio l’euro con piani illegali di rapina degli asset russi, che dovremo poi restituire e pagare pure i danni. Nel nuovo (si fa per dire) mondo dominato dalla legge del più forte, la regola di ogni negoziato dovrebbe essere quella di Pertini: “A brigante, brigante e mezzo”. Trump ci bullizza? Noi dovremmo essere altrettanto bulli: riprendere a comprare gas russo, aprirci ai mercati Brics, disdettare l’accordo sul 5% di Pil alla Nato, lavorare a un vero esercito europeo (che costerebbe meno delle già eccessive spese militari attuali: altro che riarmo) e chiudere tutte le basi Usa in Italia e nel resto d’Europa. Il vecchio Carlo Donat-Cattin, diccì anomalo, diceva: “Prima di trattare con Agnelli bisogna dargli un calcio nei coglioni”. I nostri sgovernanti, prima di trattare con Trump, i coglioni se li martellano da soli e poi, giunti a debita distanza, corrono a dare la colpa a lui.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 08:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Psicodramma transoceanico


di Francesco Dall'Aglio*

A qualche giorno dall'inizio dello psicodramma transoceanico, il livello del dibattito tra le due sponde dell'Atlantico è sostanzialmente fermo sul "brutto tu" "no, tu brutto!" "tu!" "tu!": Musk vuole abolire l'Unione Europea e la paragona al terzo Reich, Trump trolla su Truth, i nostri si dividono tra vedove inconsolabili ("ricordate degli amici! Ricordate di chi t'ha voluto bbene!") e gente che si crede Churchill e ci assicura che staremo una bellezza senza quei bovari d'oltreoceano. È un peccato che quella che poteva essere un'occasione straordinaria per chiudere una relazione tossica e ritrovare finalmente un pensiero politico, strategico e ideale autonomo debba essere gestita da una classe di scappati di casa, trombati alle provinciali del 2018 e mandati a pascolare a Bruxelles, e da quattro rintronati baltici. La nostra civiltà, con buona pace dei millenaristi, non finirà tra le fiamme ma tra le pernacchie, e francamente non ci meritiamo di meglio.
 
Tre notizie assortite, alcune collegate allo psicodramma. La prima: ormai è chiaro che senza i soldi russi l'Europa, ora che gli USA si sono chiamati fuori, non ha possibilità di sostenere economicamente l'Ucraina. Si moltiplicano le soluzioni creative e l'ultima è che ogni stato dell'Unione metta soldi propri a garanzia del "prestito di riparazione". Stando a quanto dice Politico (link 1) il grosso lo pagherebbe la Germania (51 miliardi di €) mentre a noi ne toccherebbero 25, ovviamente se tutti i paesi partecipassero, altrimenti le quote a carico dei "volenterosi" ovviamente aumenterebbero (allego la carta che trovate a corredo dell'articolo e che, sul sito, è interattiva così potete divertirvi a vedere ogni paese quanto dovrà sganciare).

 
La seconda: in un tweet (link 2) il parlamentare repubblicano Thomas Massie ha annunciato di avere proposto al Congresso un disegno di legge per l'uscita degli Stati Uniti dalla NATO. La NATO, sostiene il parlamentare, è un relitto della guerra fredda e gli USA devono usare i loro soldi per difendere se stessi, non "paesi socialisti" (e vorrei ci spiegasse quali sono, che mi ci trasferisco volentieri subito). Fun fact: dal punto 5 della sua proposta (trovate il tutto nel suo tweet) Massie cita le assicurazioni di James Backer, allora segretario di stato, a quel personaggio che per disgrazia era segretario del PCUS e il cui nome non merita di essere ricordato in base alle quali la NATO non si sarebbe allargata a est, e ricorda poi le tappe dell'allargamento e le preoccupazioni strategiche russe, concludendo che la partecipazione degli USA alla NATO è contraria ai loro interessi nazionali.
 
La terza: il ministero della difesa britannico (link 3) ha comunicato che un soldato inglese è morto "in un tragico incidente mentre osservava le forze armate ucraine che provavano una nuova capacità difensiva, lontano dalle linee del fronte". In un tweet successivo sono stati resi noti nome, grado, età e reparto:
George Hooley, 28 anni, vice-caporale del reggimento paracadutisti. Quale fosse la "capacità difensiva" che stava osservando non è noto né è noto in quale incidente abbia perso la vita: un articolo della BBC (link 4) sostiene si trattasse del test di un drone armato, e che insieme a lui siano morti due militari ucraini e "parecchi altri" siano rimasti feriti. La presenza di paracadutisti britannici in Ucraina non era stata finora resa nota dal governo.
 


*Post Facebook del 10 dicembre 2025

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 08:00:00 GMT
OP-ED
Da Pertini e Mattei a Meloni: i principi dimenticati dell’Italia

 

 

 

Di Tawfiq Al-Ghussein e Rania Hammad

 

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha nuovamente dichiarato il suo sostegno incondizionato a Israele, presentando l’assalto a Gaza come una difesa dell’“umanità” e dei diritti fondamentali. Un linguaggio che ha ben poca attinenza con la realtà. Anche sotto quella che nominalmente viene definita una tregua, Israele continua esecuzioni mirate, bombardamenti e la deliberata ostruzione degli aiuti umanitari. Il numero delle vittime civili aumenta ogni giorno, rendendo la formulazione di Meloni tanto politicamente conveniente quanto moralmente insostenibile.

La sua posizione non è plasmata da principi etici, bensì da un calcolo di ideologia, alleanze e interessi economici. Israele è divenuto il palcoscenico simbolico attraverso cui Meloni riafferma la propria collocazione in un blocco occidentale da lei stessa definito, segnalando al contempo il proprio allineamento con Washington. Un ulteriore elemento sostiene questa postura: il crescente coinvolgimento dell’Italia nella sfera energetica del Mediterraneo orientale. Le vaste operazioni di ENI nei giacimenti regionali, dall’Egitto a Cipro e nelle zone offshore strategicamente interconnesse alla rete energetica israeliana, generano un forte incentivo alla cordialità politica. I diritti dei palestinesi vengono così offuscati da un lessico tecnocratico fatto di stabilità, sicurezza e diversificazione energetica.

Ciò rappresenta una rottura significativa con l’eredità diplomatica italiana che per decenni ha combinato partenariato atlantico e autonomia morale. Il presidente Sandro Pertini (1896–1990), ricordato con affetto duraturo dagli italiani, parlò senza ambiguità del diritto dei palestinesi a resistere all’occupazione, sostenendo la loro lotta come questione di giustizia e non di calcolo geopolitico. Bettino Craxi (1934–2000), storico leader del Partito Socialista, affermò con forza la sovranità italiana durante la crisi di Sigonella del 1985, opponendosi alle pressioni statunitensi e NATO e riconoscendo la legittimità politica della causa palestinese.

A questa tradizione si affiancano figure come Giulio Andreotti (1919–2013) e Aldo Moro (1916–1978), che concepivano il Mediterraneo non come semplice estensione della strategia NATO, bensì come uno spazio politico e civile che richiedeva equilibrio, dialogo e autonomia. Andreotti difese con costanza la responsabilità europea di dialogare con l’OLP e di riconoscere la nazione palestinese, mentre la diplomazia di Moro si fondava sulla convinzione che la stabilità regionale dipendesse dalla giustizia per i palestinesi. Il loro lavoro costituì l’ossatura di una politica estera italiana che cercava la sfumatura, non l’allineamento per principio.

Ugualmente determinante fu l’eredità di Enrico Mattei (1906–1962), la cui trasformazione dell’ENI nel dopoguerra ridefinì il rapporto dell’Italia con il mondo arabo. Mattei rifiutò le strutture energetiche predatorie imposte dalle potenze occidentali dominanti, costruendo invece partenariati basati sul mutuo beneficio con Algeria, Egitto e altri Stati emergenti. La sua visione mediterranea incarnava un’Italia capace di giudizio indipendente e di un coinvolgimento rispettoso con le aspirazioni arabe, inclusa la lotta palestinese per l’autodeterminazione. È difficile conciliare tale eredità con la deferenza che oggi caratterizza la postura regionale del governo.

Questo mutamento è stato rafforzato dalle posizioni di autorevoli membri dell’esecutivo. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha costantemente presentato le azioni israeliane come intrinsecamente giustificate, liquidando ogni esame di legalità o proporzionalità come irresponsabile. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ripetuto più volte che anche le fasi più devastanti della campagna israeliana costituiscono atti inevitabili di autodifesa, minimizzando la sofferenza dei civili palestinesi ed eludendo il crescente corpus di prove riguardanti gravi violazioni del diritto internazionale. Il loro discorso restringe l’orizzonte morale dell’Italia e rischia di allineare il Paese a posizioni che non riflettono né la sua storia né il suo sentire pubblico.

L’effetto complessivo ha collocato l’Italia nel campo più intransigente d’Europa proprio mentre Stati come Spagna, Irlanda e Belgio chiedono responsabilità e rispetto delle norme internazionali. Nel contempo, la società italiana — sindacati, studenti, accademici, organizzazioni civiche — si è mobilitata in numeri senza precedenti a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro le forniture di armi e la complicità diplomatica. La loro voce richiama le antiche tradizioni diplomatiche del Paese, piuttosto che la prudenza che oggi domina la linea ufficiale.

L’appello di Meloni all’“umanità” risulta dunque privo di sostanza. Sostenuto da una coreografia politica e da una disponibilità a proteggere Israele da ogni scrutinio, il suo governo sta posizionando l’Italia non come difensore delle norme internazionali, ma come facilitatrice della loro erosione. Eppure la storia italiana offre una via diversa, fondata su indipendenza, chiarezza morale e sulla convinzione che i diritti umani non possano essere subordinati alla convenienza geopolitica. Finché il governo non riconoscerà che i palestinesi possiedono diritti fondamentali, le sue dichiarazioni di solidarietà rimarranno performative, miopi e in contrasto con i valori che un tempo guidarono gli statisti italiani più rispettati.

 

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
BURKINA FASO, ALBA DELLA SOVRANITÀ
 
di Matteo Parini

 
“Se non possiamo essere padroni delle nostre risorse, non possiamo essere liberi”, ammoniva Thomas Sankara, evocando la necessità esistenziale per l’Africa di costruire uno sviluppo autoctono e sottrarsi alla subordinazione delle potenze coloniali e delle istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Per il giovane presidente, salito al potere nel 1983, ciò significava l’ambizioso tentativo di sottrarre ai colossi esteri il controllo dei settori strategici dello Stato: energia, miniere, agricoltura, foreste e finanza.
 
Le nazionalizzazioni, se fossero state portate a compimento, avrebbero trasformato il Burkina Faso, allora Alto Volta, in un avamposto di autosufficienza economica nel cuore dell’Africa, dopo il breve intermezzo filo-occidentale del governo Ouédraogo, nato anch’esso da un colpo di Stato appena un anno prima. Gliela fecero pagare cara. La lunga parentesi autoritaria di Blaise Compaoré e quella instabile di Roch Marc Christian Kaboré che seguirono mantennero il Burkina Faso intrappolato nelle dinamiche predatorie del neocolonialismo. Sankara, con la sua visione sovrana invisa agli interessi del Nord globale, fu assassinato in un complotto sostenuto da attori internazionali, preoccupati che il suo esempio di autodeterminazione potesse incendiare l’immaginario di un intero continente. Solo pochi giorni prima della sua morte, non a caso, Sankara dichiarava: “Non esiste lontananza tra gli oppressi. La Palestina è anche l’Africa che resiste”.
 
Farsi certi nemici fu letale allora, come continua a esserlo oggi. François Mitterrand, ad esempio, non gli perdonò di averlo umiliato in mondovisione durante la visita in Burkina Faso, quando Sankara lo accusò pubblicamente di aver accolto con tutti gli onori Pieter Botha, leader dell’apartheid sudafricano. È in questo contesto, segnato da compromessi interni e ferite profonde - un Paese ancora eterodiretto da forze sovranazionali, lacerato dal terrorismo islamista, corroso dalla corruzione endemica e attraversato da crescente malcontento popolare - che nel 2022 Ibrahim Traoré assume la guida del Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Riforma. Egli promette di ricostruire l’unità nazionale, rafforzando un esercito incapace di contenere la minaccia jihadista e recuperando la sovranità burkinabé brutalmente interrotta dal golpe di Compaoré.
 
Una strategia popolare che inizia a concretizzarsi nell’ottobre 2024. Prima con la nazionalizzazione della miniera di Boungou, gestita dalla britannica Endeavour Mining, poi di Wahgnion, in mano alla statunitense Burkina Lilium Mining. È un passaggio epocale. Il Burkina Faso, letteralmente “terra degli uomini integri”, tra i maggiori produttori d’oro al mondo, riallaccia così il filo conduttore voluto da Sankara quasi mezzo secolo prima e spezzato dai suoi carnefici, riaccendendo il sogno di un Paese capace di utilizzare le proprie ricchezze per il benessere della popolazione, invece che per alimentare interessi e ingerenze esterne.
 
Con questo spirito, il Paese ha ridefinito il suo codice minerario e istituito la Société de Participation Minière du Burkina, un ente statale incaricato di possedere, gestire e sviluppare le risorse minerarie strategiche. Per decenni, il settore estrattivo ha generato enormi profitti per aziende globali e élite locali, mentre le masse hanno subito impoverimento e condizioni lavorative precarie. Lo Stato, invece, si è trovato a fronteggiare devastazioni ambientali, debiti insostenibili e rapporti commerciali asimmetrici. Questo meccanismo ha soffocato ogni possibilità di sviluppo indipendente, fino all’odierno cambio di prospettiva.
 
Un passo indietro. Nell’ottobre del 2023, l’imprenditore e presidente del Gruppo Coris Bank International, Idrissa Nassa, è stato insediato alla guida del Consiglio Nazionale dei Datori di Lavoro durante l’assemblea generale di Ouagadougou, sotto l’alto patronato del Capitano Ibrahim Traoré. L’incarico di Nassa rappresentava un ancoraggio dello sviluppo alle risorse endogene, rafforzando la capacità produttiva nazionale e riducendo le importazioni. “Chiunque voglia importare riso per un valore di 10 miliardi di franchi CFA - dichiarava Traoré in merito - dovrà investire 2 miliardi in un importante progetto infrastrutturale, e lo stesso varrà per la maggior parte dei beni di prima necessità”.
 
La trasformazione di un’azienda globale in un operatore energetico completamente burkinabé è storia di questi giorni e segna un ulteriore passo avanti. Il veicolo di investimento legato a Nassa ha infatti acquisito la divisione locale della compagnia TotalEnergies. Lo scorso 5 dicembre, è stato presentato il nuovo nome societario: Barka Energies, che eredita infrastrutture, stazioni di servizio, depositi e l’intera catena logistica nazionale precedentemente gestita dal gruppo francese. Il rebranding rappresenta una pietra miliare verso una sovranità economica concreta. TotalEnergies, attiva in Burkina Faso dal 1954, aveva imposto una posizione di dipendenza anche a clienti pubblici come l’aviazione, impossibilitati a operare senza l’intercessione del gruppo estero. L’acquisizione da parte di Barka Energies non è solo simbolica, ma un passo reale verso un’autarchia energetica, in cui infrastrutture, strategie e profitti diventano patrimonio nazionale, alimentando investimenti, occupazione e capacità industriale. Per mano di Barka, il Burkina Faso non eredita solo pompe e depositi, ma la possibilità di costruire un sistema energetico sovrano e integrato.
 
Il rapporto tra Stato e figure chiave come Idrissa Nassa non è un unicum. Esempi simili si sono già visti, ad esempio, con Seplat Energy in Nigeria, che ha rilevato infrastrutture petrolifere onshore e offshore da ExxonMobil, diventando uno degli operatori principali nel Paese. Allo stesso modo, Oando Plc ha assunto il controllo di blocchi precedentemente gestiti da Eni. Ancora, PTT, una compagnia energetica statale thailandese, ha progressivamente rilevato infrastrutture da compagnie straniere, diventando il principale operatore energetico nazionale. Modelli di questo tipo, in cui governi e imprese nazionali cooperano per sottrarre interi settori alla dipendenza estera, hanno già interessato diverse economie emergenti dall’Asia all’Africa occidentale. La partnership tra Traoré e Barka Energies è strategica: lo Stato sostiene il gruppo con regolamentazioni, concessioni e incentivi, mentre Nassa trasforma infrastrutture e know-how in strumenti di crescita nazionale. Insieme riscrivono le regole della dipendenza storica dai colossi esteri.
 
In conclusione, la figura di Ibrahim Traoré emerge come archetipo di una stagione di rinnovamento e audacia economica, capace di guidare il Burkina Faso attraverso passaggi epocali come le nazionalizzazioni e il trasferimento di settori strategici a operatori locali. La cessione di TotalEnergies a Barka Energies non è un episodio finanziario, ma uno spartiacque che segna la transizione, voluta da Thomas Sankara quasi mezzo secolo prima, da un’economia dominata da interessi esteri a un modello nazionale radicato, in cui sovranità, investimenti e capacità industriale diventano strumenti di crescita per tutto il Paese.
 
La prospettiva è ambiziosa. Trasformare la “terra degli uomini integri” da spettatore passivo degli eventi mondiali a protagonista del proprio destino. Un Paese capace di difendere leader visionari, costruire un futuro indipendente di dignità nazionale e resistere alle trame esterne che per troppo tempo ne hanno segnato con il sangue la storia. 
 
Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Lettera aperta a Michele Rech in arte Zero Calcare


di Luca Busca

Qualche giorno fa ho visto il tuo video (facebook.com-watch-733041136483243) con cui comunicavi la tua defezione da Più Libri Più Liberi. Ho aspettato qualche giorno per prendere posizione, per poter analizzare meglio alcuni eventi che hanno accompagnato la fiera romana del libro.

Il video, come sempre, mi è piaciuto molto. Apprezzo il tuo incipit che, come spesso fai, manifesta quella che gli avvocati chiamano “excusatio non petita”, ovvero delle scuse preventive che rivelano un’auto “accusatio manifesta”. Anch’io uso frequentemente questo espediente per anticipare, e quindi evitare, una critica che già mi sono fatto da solo. Mi è piaciuto molto anche il tuo voler “mettere dei paletti” e il tuo non voler condividere lo stesso spazio con i nazisti, sacrosanta coerenza. Condividere gli spazi, infatti, significa ratificare la legittimità del pensiero presente nello stesso ambito.

Condivido la tua osservazione sulla risposta dell’AIE alla richiesta di spiegazioni: “Non chiediamo l’orientamento politico ai nostri editori”. Concordo sul fatto che nazismo e fascismo non sono un orientamento politico, ma un reato previsto dalla nostra Costituzione.

Spartisco con te sia le origini “borgatare” (anche se di Roma Sud), sia l’astio nei confronti del fascismo militante. Avendo ben ventiquattro anni più di te, ho dovuto vivere battaglie in cui, più che le coltellate, spesso erano le pistolettate a essere gentilmente offerte da squadracce fasciste e da forze dell’ordine infiltrate nelle nostre manifestazioni. Francesco Lorusso l’11 marzo a Bologna e Giorgiana Masi il 12 maggio a Roma del 1977 ne sono un esempio eclatante. All’epoca, infatti, la commistione tra fascisti e Stato era un po’ più violenta di quella attuale: era il periodo della “strategia della tensione”, quando anarchici innocenti volavano dalle finestre o finivano in galera per anni, mentre depistaggi dei servizi segreti coprivano le bombe dei fascisti.

No voglio fare a chi ce l’ha più grosso, ma semplicemente ti dico queste cose perché sono uno di quelli più grandi, la fascia intermedia che ti ha trasmesso il proprio antifascismo radicale, a sua volta appreso dalla generazione precedente. Te lo dico però anche perché mi sfugge, in tutto questo sfoggio di coerenza, come sia possibile non distinguere le trasformazioni che il fascismo e il nazismo hanno adottato per adeguarsi ai tempi moderni. Umberto Eco definiva “eterno” il fascismo, in quanto capace di presentare lo stesso modello in forme nuove. Aveva anche definito alcune caratteristiche fondanti che tendono a riemergere. Certo, Eco non poteva prevedere tutte le sfumature: non è riuscito a immaginare un fascismo sovranazionale imposto dal Capitale e non da una forza politica.

Tu, invece, potresti farlo, ma hai scelto un percorso diverso. Nel tuo video citi a malapena la Palestina in funzione della censura esercitata, con la scusa dell’antisemitismo, su chiunque osi criticare Israele. Non ti fai alcun problema, però, a condividere i tuoi spazi con i “collaborazionisti” del PD come Delrio, in grado di presentare una proposta di legge fascista che ha il palese scopo di censurare il crescente antisionismo equiparandolo all’antisemitismo. Non ti fai neanche alcun problema a condividere i tuoi spazi con coloro che, fintamente, hanno preso posizione contro il genocidio e poi hanno mantenuto nel proprio partito “collaborazionisti” come Guerini (Presidente del Copasir!), Fassino, Picierno, Fiano, lo stesso Delrio e tutti gli altri complici del genocidio. Addirittura, spesso hai spartito l’arena con Enrico Mentana, il più agguerrito dei “negazionisti”, altro tema caro al nazismo.

Non hai detto una parola quando la collaborazionista Pina Picierno, con il supporto del tatuato Calenda, ha censurato il Professor Angelo D’Orsi (lantidiplomatico.it-censura e russofobia). Ancor meno quando la censura dei neofascisti di centrosinistra, oltre a D’Orsi, ha tolto l’arena a Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro, Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio. (lantidiplomatico.it-anche barbero censurato a torino).

Molto spesso hai poi condiviso lo spazio mediatico con Roberto Saviano, anche lui antifascista militante, che addirittura ti critica per la tua pretesa di conservare purezza pur lavorando per Netflix (open.online-roberto-saviano-zerocalcare-piu-libri-piu-liberi). Lui, sempre con l’excusatio non petita del non essere puro, non ha esitato ad andare a Più Libri Più Liberi. Lo ha fatto all’interno del dibattito “Libertà di parola/Libertà di Stampa”, una sorta di presentazione del Centro romano di Pen International, una storica associazione di scrittori che da qualche tempo include anche giornalisti. La sede romana intende dedicarsi soprattutto alla tutela degli scrittori e della libertà di parola.

Sul palco, in una splendida coreografia, accanto ai protagonisti del dibattito sono state messe delle sedie con gli avatar disegnati degli scrittori su cui si concentra l’attività dell’ONG: María Cristina Garrido Rodríguez di Cuba; Gui Minhai, prigioniero in Cina; Rory Branker in Venezuela e altri sette/otto casi provenienti tutti da “Stati canaglia”. Nonostante il paese in cui scrittori e giornalisti subiscano maggiori restrizioni, finendo in gran parte uccisi e, in misura minore, incarcerati e torturati, sia Israele, nessun avatar palestinese era presente in sala o nella memoria dei relatori. Impressiona anche l’assenza delle motivazioni che hanno indotto le magistrature dei paesi rei a procedere all’arresto degli scrittori. Non è dato sapere neanche i capi d’accusa e le prove addotte. Tutti questi arresti piovono dal cielo senza alcuna ragione.

Personalmente odio qualsiasi forma di carcerazione preventiva, in quanto penso che siamo tutti innocenti fino a prova contraria, a prescindere dal paese in cui si è svolto il presunto reato. Quello che mi fa rabbia è il doppio standard: se l’arresto avviene in una post-democrazia occidentale è giusto, se avviene in un “Paese canaglia” è una privazione dei diritti. Se arrestano o uccidono uno scrittore palestinese la motivazione è il terrorismo, a prescindere dal fatto che sia vero o meno. Se, invece, arrestano uno scrittore in Cina la motivazione è la dittatura dello Stato canaglia, trascurando la progressiva trasformazione in Stato di Diritto del suddetto. Se arrestano Julian Assange è per stupro, anche se questo è negato dalle presunte vittime. E sì, però ha violato il segreto di Stato, cioè ha fatto il suo lavoro, ha scoperto i crimini di uno Stato Canaglia. Ah no, erano solo gli Stati Uniti.

Si dà per scontato che se uno scrittore o giornalista viene arrestato a Cuba è per colpa della dittatura. Nessuno, però, dice che Cuba è l’unico Stato al mondo in cui, per modificare la propria Costituzione nel 2019, la “dittatura” ha coinvolto preventivamente l’intera cittadinanza, organizzando oltre centotrentatremila assemblee nei quartieri, nei luoghi di lavoro e nelle università. I cittadini hanno discusso ogni singolo articolo e hanno proposto modifiche, aggiunte o eliminazioni. Su una popolazione di circa undici milioni di individui, quasi nove hanno partecipato al dibattito; sono state raccolte un milione e settecentomila tra proposte, commenti e critiche relative a quasi ottocentomila punti specifici della bozza. Nessuno dice che Cuba è sotto embargo da settant’anni per colpa di uno Stato il cui Presidente non ha difficoltà a definirsi fascista.

Infine, molto interessante lo sproloquio del tuo amico Saviano in merito al “dittatore spietato” Maduro e al Venezuela. Anche in questo caso il fatto che il feroce tiranno abbia “sottolineato che la democrazia venezuelana è oggi una pratica quotidiana, costruita a partire dal basso, dove «i vicini decidono, formulano, pianificano e costruiscono soluzioni», riferendosi direttamente al processo di Consultazione Popolare Nazionale e al modello di governance comunitaria promosso dall'Esecutivo”, (telesurtv.net-maduro-no-hay-amenaza-que-atemorice-al-pueblo) non ha modificato minimamente le opinioni del sommo difensore della democrazia occidentale di stampo fascista. Saviano non è stato minimamente sfiorato dall’idea che il Venezuela è sotto attacco dell’Impero americano dal 1999, quando Chávez fu eletto con il 70% delle preferenze. Quattro i golpe organizzati contro di lui, e ora lotta dura contro Maduro, con il finanziamento di un’opposizione inesistente (come a Cuba) e la concessione del Nobel per la pace a una criminale. Ma il fascista chi è?

In sostanza, caro Michele, il fascismo e la sua propaggine nazista sono molto cambiati dai tempi delle leggi razziali e del genocidio degli ebrei e dei Rom. Oggi il nazismo pratica la pulizia etnica nei confronti dei palestinesi e fonda il suo successo sul collaborazionismo di soggetti come quelli sopra descritti. Oggi il fascismo si esprime con leggi razziali che prevedono accordi con paesi vicini per incarcerare, torturare e uccidere i migranti creati dalle proprie politiche economiche e dalle proprie guerre. E sì, perché il fascismo attuale ha bisogno di guerre per mantenere quell’egemonia militare che ha perso a livello economico. Ne ha bisogno anche per nascondere una crisi economica strutturale con riarmi inutili ed eserciti continentali per difendersi da nemici immaginari, prima islamici e oggi euroasiatici.

Questi neofascisti e neonazisti traggono la loro linfa vitale, non da riti nostalgici infarciti di braccia tese e camicie nere, ma da quelle lobby economiche di cui sono imbottiti i salotti radical chic con cui non hai alcuna difficoltà a condividere la poltrona, ops, lo spazio. Lasciatelo dire da vecchio “borgataro”: ti sei imborghesito parecchio!

Io ho fatto una scelta diversa: non essendo stati ammessi, pur essendo idonei, come editori ospiti della Regione Lazio (lantidiplomatico.it – Più Libri Più Liberi, esclusione di Lad Edizioni), ho deciso di accreditarmi come giornalista e sono andato ad ascoltare qualche intervento. Per curiosità professionale ho visitato lo stand incriminato e ho avuto impressioni contrastanti. Ho trovato due libri sulla Palestina, uno sul Libano e gli Hezbollah; ho sbirciato la quarta di copertina dove non ho trovato sparate antisemite ma tracce di ricostruzioni storiche. Ho trovato anche un libro sulla Corea del Nord (il paese eremita), uno slancio considerevole di conoscenza altrimenti negata nel democratico Occidente. Ho trovato anche i libri da te menzionati e tanta nostalgia dei bei tempi andati dell’eroismo dannunziano. Non ho trovato tracce di propaganda militante, assente anche sul loro sito.

Non ho resistito e l’ultimo giorno sono tornato al loro stand e ho chiesto se potevo fare un paio di domande. Mi è stato risposto che non avrebbero rilasciato dichiarazioni, ma avrebbero fatto un comunicato dopo la fine della manifestazione. Ho chiesto lo stesso come fosse andata e, con malcelato entusiasmo, mi è stato detto “alla grande”. Ho domandato, anche, se avessero riferimenti di manifestazioni precedenti per comprendere il livello del successo di questa. “Non ne abbiamo, è la prima volta che partecipiamo a una manifestazione così grande”. Infine, ho voluto sapere se avessero intenzione di ringraziare per il gigantesco battage pubblicitario ricevuto gratuitamente: “Probabilmente lo faremo in tono sarcastico nel comunicato” è stata la risposta.

Questo è il tono, a dire il vero più gentile che ironico, del comunicato: “Cosa rispondiamo, dunque, ai nostri detrattori? Li ringraziamo sinceramente. Eravamo un progetto editoriale emergente e adesso ci conoscono tutti: abbiamo esaurito i nostri libri e siamo stati contattati da una miriade di distributori, di autori, di traduttori, di correttori, di grafici, di agenti e di librai. Quello che doveva essere un boicottaggio – avanzato omettendo la vastità di un catalogo che tratta mille e più argomenti, pur non rinunciando ad una propria identità di fondo – si è trasformato in uno straordinario e involontario mezzo pubblicitario.” (Tratto dalla pagina facebook.com-passaggio al bosco edizioni).

A testimonianza dell’ottimo risultato, sul loro sito appare la seguente scritta: INFO DAL MAGAZZINO. A causa delle centinaia di ordini pervenuti, l’evasione degli stessi richiederà 48/72 ore più del solito. Vi ringraziamo per la pazienza e per l’enorme sostegno dimostrato. Passaggio al Bosco Edizioni.

Morale della favola, caro Michele: è ora di aggiornare la mappa mondiale e italiana del fascismo “eterno”, inserendo coloro che usano gli strumenti di questo modello, non solo i nostalgici di quello originale. Tieni presente inoltre che per utilizzarli bisogna detenere il potere, non subirlo. Tra questi strumenti, la censura fa parte del vecchio modello e non è più efficace, perché finisce sempre per favorire il censurato. Ti saluto ricordandoti che la censura è uno strumento fascista anche quando a praticarla è qualcuno che si definisce di “Sinistra” senza averne i titoli. Motivo per cui mi auguro di essere presto soggetto allo stesso trattamento, per poter aumentare le vendite dei miei libri e di quelle del mio editore.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT
OP-ED
Daniele Luttazzi - Chi controlla Wikipedia ebraica e cosa ha fatto Trump sulla Palestina

 

di Daniele Luttazzi - Nonc'èdiche, Fatto Quotidiano


E ora, per la serie “Chi fa da sé fa il monaco ovvero l’abito non fa per tre”, la posta della settimana.

Caro Daniele, della tua cronaca sulla pagina di Wikipedia Usa relativa al documentario di propaganda sionista Screams before silence mi ha colpito che a crearla siano stati due collaboratori della Hebrew Wikipedia (Hewiki). Così ho perlustrato la Hewiki e guarda cosa ho scoperto: una lunga, dettagliata denuncia di alcuni hewikiani risalente al 21 dicembre 2024 (t.ly/eoB9l). Forniscono prove che il controllo di Hewiki “è stato preso da un gruppo di editor per lo più religiosi e nazionalisti, che impediscono agli altri di ottenere permessi più elevati mentre promuovono i propri alleati. Questo gruppo si è fatto strada nella scala dei permessi di hewiki e alcuni dei suoi membri ora sono amministratori. Negli ultimi anni hanno cambiato le regole a loro vantaggio senza consultare la comunità; hanno bloccato e minacciato gli hewikiani oppositori; e hanno applicato selettivamente il codice di condotta, molte volte in base all’identità politica. Queste azioni portano a molti contenuti faziosi e non conformi al Npov, il punto di vista neutrale”. (Filippo M.)

Non mi sorprende. Nel frattempo, su Grokipedia, un negazionista dell’Olocausto è trattato come un martire. È l’andazzo attuale. Jack lo Squartatore? Un ginecologo incompreso.

Trump non c’entra nulla col genocidio a Gaza! (Andrea C.)

Stai minimizzando. Tanto per cominciare, quest’anno l’amministrazione Trump ha notificato al Congresso nuove vendite di bombe e armamenti a Israele per almeno 10 miliardi di dollari (t.ly/HLFv0). E ha continuato ad applicare e, in alcuni casi, accelerare programmi previsti dall’accordo decennale firmato da Obama nel 2016: 38 miliardi di dollari di assistenza militare, poi portato da Biden a 45 miliardi nel 2022 (t.ly/69gfB, t.ly/0FH7a, rb.gy/j4wv0s). Inoltre, Trump ha fatto dichiarazioni pubbliche (come la proposta di prendersi Gaza e di trasferire altrove i palestinesi) che numerosi osservatori e organismi internazionali hanno definito equiparabili a politiche di pulizia etnica (t.ly/sUvhf, t.ly/64dHt). L’Onu e diversi gruppi per i diritti umani hanno espresso allarme (t.ly/z9cVu). Il piano di Trump per Gaza, del resto, assolve di fatto i crimini di Netanyahu e di Israele. Come non bastasse, per ben due volte gli Usa di Trump hanno bloccato con un veto all’Onu la risoluzione che chiedeva un “cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente” a Gaza e un accesso senza restrizioni agli aiuti umanitari. Non devi dimenticare, infine, le sanzioni imposte da Trump al giudice della Corte penale internazionale che ha emesso il mandato d’arresto per Netanyahu; e quelle contro Francesca Albanese. Spetterà ai tribunali (internazionali e nazionali) stabilire la responsabilità penale di Trump (complicità in genocidio, violazione della legge Usa che vieta di fornire aiuti militari a un Paese che impedisce gli aiuti umanitari). La responsabilità morale, invece, riguarda il contributo (consapevole o prevedibile) a causare o facilitare crimini di massa anche in assenza di condanna penale. Una valutazione ponderata deve considerare la conoscenza delle probabili conseguenze, la scelta deliberata di sostenere azioni che si sapeva potessero causare quei crimini, e il rifiuto di misure per prevenirli. Approvare le forniture di bombe e munizioni poi usate in attacchi che continuano a causare vittime civili; fare dichiarazioni pubbliche che legittimano quei crimini; sanzionare chi denuncia quei crimini e vuole punirne i colpevoli; e non sospendere quelle forniture militari; sono tutti atti che rendono significativa la responsabilità morale di Trump nel genocidio a Gaza.

Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 07:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Carne da cannone per l’Occidente: l’Ucraina sacrificata all’ambizione europea

Il tentativo di Donald Trump di raggiungere un accordo rapido con Mosca sta mettendo a nudo una verità che in Europa si preferirebbe occultare: non è Washington a frenare la pace, bensì un’Unione Europea prigioniera della propria retorica bellicista e un regime di Kiev deciso a prolungare la guerra a ogni costo. Nonostante mesi di messaggi concilianti verso Zelensky e i partner europei, Trump si ritrova davanti un muro: Bruxelles rifiuta qualunque compromesso e Kiev ha ridotto il piano USA da 28 a 20 punti tagliando tutto ciò che non si adatta alla sua narrativa. Europa e Ucraina insistono che “non si cede territorio”, ma la realtà - come ammettono gli stessi funzionari europei - è che la guerra si trascina perché qualcuno non vuole la pace.

Lo dice apertamente il ministero degli Esteri russo: l’Europa “sta deliberatamente prolungando il conflitto”, convinta di poter infliggere alla Russia una “sconfitta strategica” usando gli ucraini come carne da cannone. Trump critica apertamente i suoi alleati: “Parlano tanto, ma non producono”, mentre l’Europa non riesce nemmeno a chiudere il prestito da 200 miliardi con asset russi congelati; gesto che rischierebbe peraltro enormi ritorsioni legali ed economiche. Intanto, per giustificare l'ennesima escalation, i governi europei alimentano la fantasia di un imminente attacco russo al continente. Putin liquida questa narrativa come “ridicola” e frutto di politici che “non stanno bene” o cercano solo fondi e potere.

L’analista Adriel Kasonta va oltre: parla di ucraini trasformati in “carne da cannone” da élite europee in declino economico e incapaci di ammettere il fallimento della loro postura anti-russa. E non manca chi, come il geopolitologo francese Carpentier de Gourdon, denuncia apertamente la strategia reale: smembrare la Russia e indebolirla in modo permanente. Una missione che l’Europa continua a inseguire anche quando diventa chiaro che non ha i mezzi per sostenerla. Mentre i BRICS costruiscono un ordine multipolare basato su cooperazione e sviluppo, l’Europa reagisce censurando le voci che osano dissentire, temendo media come RT e Sputnik che mostrano fatti scomodi per il racconto ufficiale.

Una paura che rivela un continente sempre più chiuso, sempre più autoritario e sempre più lontano dalla realtà. E mentre Bruxelles gioca alla guerra per procura, gli unici a pagare sono gli ucraini e gli stessi cittadini europei, schiacciati da crisi economica, inflazione e un establishment incapace di ammettere che la strada verso la pace non passa dalle armi, ma dal coraggio di abbandonare una strategia fallita.


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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
Trump mette Zelensky all’angolo: “È ora di votare in Ucrainaâ€

Nella sua ultima intervista a Politico, Donald Trump ha lanciato un messaggio diretto al regime di Kiev: è tempo che l’Ucraina torni alle urne. Per il presidente USA, l’ambiguità sullo status legale di Zelensky non è più sostenibile e rischia di sabotare qualsiasi negoziato, soprattutto ora che la Russia mantiene l’iniziativa sul campo di battaglia. Un giudizio duro che si accompagna all’ennesima stoccata agli alleati europei, accusati di non avere una strategia e di fallire su quasi tutti i fronti.

Secondo Pavel Koshkin, dell’Istituto per Studi USA e Canada, la pressione di Trump sulle elezioni è la naturale prosecuzione del suo malcontento: Zelensky non avrebbe nemmeno rivisto il pacchetto di proposte USA per un accordo. Per Trump, chiarire il quadro politico ucraino è essenziale prima di parlare seriamente di compromessi.

Il politologo Malek Dudakov definisce queste parole una vera e propria “nota nera” recapitata al presidente ucraino. Nel mirino di Washington c’è infatti il rischio che l’Ucraina, rifiutando di votare, scivoli nell’autocrazia, danneggiando la sua immagine internazionale.

E non si esclude - avverte l’esperto - che gli USA possano perfino considerare la sostituzione di Zelensky se la situazione dovesse degenerare.


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Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 06:00:00 GMT
OP-ED
Alessandro Volpi - Asset russi: le 7 ragioni più incredibili (e autolesioniste)

di Alessandro Volpi*


La vicenda dell'ipotesi di confisca delle risorse della Banca centrale russa da parte dell'Unione europea è davvero incredibile per varie ragioni che provo a mettere in fila.

1) Il totale degli asset della Banca centrale russa detenuti in Europa risulta molto vicino ai 300 miliardi di euro, dunque i 190 detenuti da Euroclear, domiciliata in Belgio, sono solo una parte di questa cifra, ma la Commissione europea sembra volersi concentrare solo su quelli, forse perché gli altri sono nelle mani di importanti e influenti società finanziarie e bancarie. Bundesbank e Banque de France gestiscono asset sovrani russi per circa 30 miliardi di euro. Le banche svizzere una decina. Clearsteram, una società di proprietà di Deutsche Borse, con sede in Lussemburgo ne detiene un'altra decina di miliardi. Per non parlare del Regno Unito che, attraverso Bank of England ed altre banche private, controlla circa 30 miliardi di euro in asset russi. Appare evidente alla luce di ciò che la confisca solo di quelli detenuti in Belgio è un modo per evitare la confisca da parte degli altri paesi europei dei propri asset sovrani russi.

2) La confisca a titolo di future riparazioni di guerra che la Russia, sconfitta, dovrà pagare implica che il conflitto debba durare fino alla resa definitiva della Russia perché altrimenti i prestiti emessi con questi asset non sarebbero più coperti.

3) Tale confisca è illegale perché si tratta dell'esproprio di beni conservati da una società privata, Euroclear appunto, ad opera di un soggetto istituzionale come l'Unione europea. Peraltro non sarebbe legittimo neppure l'utilizzo per finalità belliche degli interessi maturati da tali asset durante la loro gestione ad opera di Euroclear e degli altri soggetti europei che li detengono.

4) Come ha rilevato persino la Bce tali asset sono in euro e sono detenuti da società e da istituzioni bancarie dell'Eurozona, che detengono gli asset di molti altri paesi. La loro confisca dunque sarebbe un segnale di inaffidabilità dell'euro e dei paesi dell'Eurozona con conseguenze pesanti per la svalutazione dell'euro e dei titoli emessi in euro costretti, per trovare compratori, a pagare interessi più alti

5) Euroclear, che ha sede in Belgio, non è però di proprietà belga ma ha come soci circa 100 istituti finanziari fra cui spiccano JP Morgan (quindi BlackRock Vanguard e State Street), Bnp Paribas e Société Genérale che sono interessati al mantenimento degli asset russi, oltre che per evitare cause, anche perché la loro gestione fornisce utili iscritti nel bilancio di Euroclear.

6) Un'eventuale confisca degli asset russi produrrebbe l'immediata, parallela, confisca degli asset europei in Russia il cui valore complessivo è superiore ai 300 miliardi di euro

7) E' davvero interessante notare che l'operazione di confisca condotta dagli europei non coinvolgerebbe gli Stati Uniti dove la Banca centrale russa non ha praticamente mai depositato i propri asset. Mettere in sequenza questi elementi consente di comprendere l'ennesima follia autolesionista dell'Unione europea pervicacemente impegnata nella ricerca del disastro.
 
 
*Post Facebook del 10 dicembre 2025
 
Data articolo: Thu, 11 Dec 2025 06:00:00 GMT
IN PRIMO PIANO
"Storia e segreti della NATO". La miniserie de l'AntiDiplomatico con il Generale Fabio Mini

 

"Difende la pace o la minaccia?" Prosegue il nostro viaggio nella serie esclusiva "Storia e Segreti della NATO". Ideata, diretta e montata da Adriano Spadaro, la serie con il Generale Mini continua a fornire gli strumenti per rispondere a questa domanda cruciale, svelando i retroscena dell'organizzazione che più influenza le nostre vite, restando però sempre, volutamente, nell'ombra.

Dopo aver tradito le promesse di non espansione, la NATO cercò un nuovo ruolo. Nella quarta puntata di "Storia e Segreti della NATO", la ricostruzione del Generale Mini in questa nuova puntata mostra come l'Alleanza abbia testato la sua trasformazione da patto difensivo a strumento offensivo. 

Qui di seguito un piccolo estratto della puntata:



ABBONATI A L'ANTIDIPLOMATICO PER ACCEDERE ALLA PUNTATA COMPLETA:


La serie è accessibile direttamente nella sezione abbonati nella home del giornale.

DA QUESTO LINK ANCHE LE PRIME TRE PUNTATE DI "STORIA E SEGRETI DELLA NATO" PER I NOSTRI ABBONATI:

https://www.lantidiplomatico.it/videogallery-video/60096/


LA QUINTA PUNTATA SARA' DISPONIBILE LUNEDI' 15 DICEMBRE...

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 22:00:00 GMT
MondiSud
La Cina rilancia in America Latina: sovranità, cooperazione e un’alternativa all’egemonia USA


di Fabrizio Verde

La Repubblica Popolare Cinese ha rilasciato il suo terzo ‘Policy Paper on Latin America and the Caribbean’ - Documento programmatico della Cina sull'America Latina e i Caraibi, un documento strategico che riafferma con forza l’impegno di Pechino a consolidare e approfondire i legami con l’intera regione latinoamericana e caraibica. Si tratta del terzo atto di una visione di lungo respiro: il primo documento risale al novembre 2008, il secondo allo stesso mese dell’anno 2016. A distanza di quasi due decenni, la Cina ribadisce non solo continuità, ma anche un’evoluzione significativa del proprio approccio verso un’area geografica sempre più centrale negli equilibri del Sud globale e nello scacchiere internazionale.

Il nuovo documento arriva in un contesto globale segnato da trasformazioni epocali: crisi economiche persistenti, tensioni geopolitiche, un ordine multilaterale sotto pressione e una crescente affermazione dei Paesi del Sud globale. In questo scenario, la Cina si presenta come attore responsabile, promotore di un ordine multipolare e di una globalizzazione inclusiva, e partner affidabile per i Paesi latinoamericani. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: costruire insieme una “comunità con un futuro condiviso”, fondata su principi di uguaglianza, beneficio reciproco, apertura e benessere dei popoli. Un approccio completamente diverso e opposto agli Stati Uniti che hanno sempre ritenuto l’America Latina come il proprio ‘patio trasero’, il cortile di casa.

Il testo, ricco e articolato, traccia una visione olistica delle relazioni bilaterali, ben oltre la dimensione economica e commerciale. Se è vero che Pechino punta a espandere la cooperazione in settori strategici - dal commercio agli investimenti, dalle infrastrutture alle energie rinnovabili, dalla finanza all’agricoltura - è altrettanto rilevante l’attenzione dedicata alla governance globale, alla sicurezza, alla cooperazione scientifica e tecnologica, e soprattutto agli scambi tra popoli. La Cina si impegna a rispettare le sovranità nazionali, a sostenere percorsi di sviluppo autonomi e a contrastare ogni forma di egemonismo o politica di potenza.

Particolare enfasi viene posta sul rispetto del principio “una sola Cina”, considerato fondamento non negoziabile dei rapporti diplomatici. Al contempo, Pechino esprime apprezzamento per la posizione della maggioranza dei Paesi latinoamericani, che riconoscono Taiwan come parte integrante del territorio cinese. Questo pilastro politico costituisce la cornice entro cui si sviluppano tutte le altre forme di cooperazione.

Il documento dedica ampio spazio ai meccanismi istituzionali esistenti, come il Forum Cina-CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici), che Pechino intende rafforzare con nuove iniziative settoriali e una più solida architettura istituzionale, fino alla prospettiva, in futuro, di un vertice tra leader. Viene inoltre incoraggiata la cooperazione trilaterale, purché guidata e richiesta dai Paesi della regione, a dimostrazione che l’approccio cinese non è esclusivo né antagonistico rispetto ad altri attori internazionali.

Non meno significativa è la volontà di approfondire i legami “dal basso” e culturali: attraverso scambi accademici, collaborazioni tra think tank, promozione della lingua cinese, cooperazione sanitaria, partenariati nel campo dello sport e del cinema, e progetti di gemellaggio tra città. La Cina intende costruire un’amicizia duratura non solo tra governi, ma tra società, culture e giovani generazioni.

Infine, il documento riafferma l’adesione cinese alle grandi iniziative globali lanciate dal presidente Xi Jinping: lo Sviluppo Globale, la Sicurezza Globale, la Civiltà Globale e la Governance Globale. Attraverso queste “quattro G”, Pechino propone un’alternativa concreta all’unilateralismo, invitando l’America Latina a camminare insieme verso un futuro più equo, sostenibile e cooperativo. In un mondo sempre più frammentato, il terzo Documento programmatico della Cina sull'America Latina e i Caraibi appare dunque non solo come un piano d’azione bilaterale, ma come un manifesto di diplomazia Sud-Sud, ambizioso e ricco di promesse per il futuro delle due regioni.

Il contrasto tra l’approccio delineato nel nuovo documento programmatico cinese e la cosiddetta “nuova Dottrina Monroe” invocata da un’amministrazione Trump sempre più tracotante – e ripresa in varie forme da settori dell’establishment statunitense - è profondo non solo nelle forme, ma soprattutto nei fondamenti ideologici e strategici.

Mentre Pechino insiste sulla sovranità, sul non interventismo, sulla cooperazione multilaterale e sul rispetto delle scelte di sviluppo autonome dei Paesi latinoamericani, l’impostazione statunitense, specialmente nella sua versione trumpiana più assertiva, ha riaffermato una visione di “sfera di influenza” tradizionale, in cui Washington si riserva il ruolo di arbitro esclusivo degli equilibri politici, economici e di sicurezza dell’emisfero occidentale. La nuova Dottrina Monroe - con la sua retorica di contenimento verso attori esterni come Cina e Russia e il ricorso a sanzioni, pressioni diplomatiche, condizionalità e minacce militari come nei Caraibi - si inserisce in un’ottica egemonica, spesso denunciata come paternalistica o neocoloniale dagli stessi governi latinoamericani, o quantomeno quelli che conservano ancora sovranità come Messico e Venezuela.

Al contrario, la Cina presenta la propria offerta come aperta, inclusiva e non subordinata a condizioni politiche: non impone modelli di governo, non interferisce in questioni interne e lega la propria partnership allo sviluppo concreto, alle infrastrutture, al commercio e alla cooperazione tecnologica. Questo approccio risulta sulla stessa lunghezza d’onda di un’America Latina sempre più incline a riaffermare la propria autonomia strategica e a diversificare le proprie alleanze, in particolare in un contesto globale sempre più multipolare.

Non si tratta semplicemente di una competizione tra potenze, ma di due visioni del mondo: una gerarchica e unipolare, l’altra orizzontale e plurale. E in questa competizione di idee - oltre che di investimenti - la Cina punta a conquistare non solo i mercati. Quello cinese è un percorso a lungo termine volto a tramutare in realtà quel concetto di ‘comunità dal futuro condiviso’ lanciato dal presidente Xi Jinping.

 

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 17:23:00 GMT
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"Siamo un paese sovrano": il muro di Sheinbaum contro le ambizioni militari di Trump

Nuova tensione tra Washington e i suoi vicini meridionali. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dichiarato senza mezzi termini di essere pronto a ordinare azioni militari dirette contro i cartelli della droga in Messico e Colombia, paragonandole ai recenti bombardamenti condotti dalla Marina USA contro imbarcazioni nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico orientale. Queste operazioni, secondo fonti, avrebbero già causato oltre 80 vittime e sono state bollate dal presidente colombiano Gustavo Petro come "esecuzioni extragiudiziali".

Intervistato dalla testata Politico, Trump ha risposto affermativamente alla domanda se considererebbe azioni simili nei territori nazionali di Messico e Colombia, paesi definiti "ancora più responsabili" nel traffico di fentanyl verso gli Stati Uniti. "Sì. Io lo farei. Certo che lo farei", ha dichiarato il presidente dalla Casa Bianca, pur evitando di approfondire i dettagli di quelle che sarebbero, in assenza di consenso dei governi locali, palesi e illegali violazioni della sovranità nazionale e del diritto internazionale.

La risposta da Città del Messico non si è fatta attendere. La presidente Claudia Sheinbaum, nel corso della sua consueta conferenza stampa, ha respinto con fermezza qualsiasi ipotesi del genere. "No, questo non avverrà perché non è necessario, in primo luogo. In secondo luogo, perché siamo un paese sovrano e non accetteremmo mai un'intervento straniero; e terzo, perché abbiamo già un'intesa con gli Stati Uniti in materia di sicurezza", ha dichiarato la leader messicana, adottando un tono pragmatico ma irremovibile.

Sheinbaum ha scelto di non innalzare ulteriormente i toni della polemica, sottolineando di non dover rispondere a ogni dichiarazione del presidente Trump e di cercare sempre la miglior relazione possibile tra i due paesi. Tuttavia, il messaggio di fondo è stato chiaro: la sovranità del Messico è una linea rossa invalicabile. La replica della presidente evidenzia la profonda divergenza tra la retorica bellicista di Washington, che estende la cosiddetta "Operazione Lancia del Sud" ben oltre la lotta al narcotraffico secondo le critiche di molti osservatori, e la difesa del principio di non ingerenza da parte delle nazioni latinoamericane.

Lo scenario che si delinea supera infatti la questione del controllo del traffico di droga. Le azioni statunitensi nelle acque internazionali, accompagnate da accuse senza prove al governo venezuelano di Nicolás Maduro e da ingenti dispiegamenti militari, sono viste da molti nella regione come una pericolosa escalation di stampo unilaterale e neocoloniale. Le condanne giunte da Russia, Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani e diversi governi regionali, unite allo scetticismo sull'effettiva proporzionalità e legalità di tali attacchi, pongono Trump di fronte a una forte resistenza diplomatica.

Mentre la Casa Bianca persegue una strategia di forza, descritta dai critici come una politica del "fatto compiuto" militare, leader come Sheinbaum e Petro stanno ergendo un argine basato sul diritto internazionale e sulla difesa della sovranità nazionale. Il contrasto non potrebbe essere più netto: da una parte la minaccia di interventi diretti, dall'altra l'affermazione di una partnership paritaria e rispettosa dei confini. Una partita che si gioca non solo sulla sicurezza, ma sulla stessa definizione delle relazioni interamericane nel XXI secolo.

Data articolo: Wed, 10 Dec 2025 16:25:00 GMT

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