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News da giannibarbacetto.it

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#Gianni #Barbacetto

Università della Svizzera italiana

Il San Raffaele sbarca a Lugano. Con Comunione e liberazione

Lugano – Comunione e liberazione ha da tempo piantato solide radici in Svizzera. Ora, il radicamento del gruppo ecclesiale cattolico nel Canton Ticino sta avvenendo anche grazie a due santi: San Raffaele e San Donato, intesi come aziende ospedaliere della sanità privata.

Il Gruppo San Donato (Gsd) è il più grande gruppo italiano della sanità privata, con i suoi 19 ospedali e cliniche, 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, fatturato di oltre 1 miliardo e mezzo.

Il San Raffaele, l’ospedale milanese dove andava a curarsi anche Silvio Berlusconi (e dove si è spento) è il più famoso dei centri clinici del Gruppo San Donato, controllato dalla famiglia Rotelli, ma diventato, dopo la morte del fondatore Giuseppe Rotelli, una formidabile macchina di relazioni politiche ed economiche, con i consigli d’amministrazione e i posti di vertice delle sue molte società affollati di uomini dei partiti ed ex ministri (come Angelino Alfano), ex magistrati (come Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa) e perfino agenti segreti (come due ex generali della Guardia di finanza poi diventati ufficiali dell’Aise, l’agenzia di sicurezza per l’estero).

Ma il personaggio più misterioso della galassia San Donato è un ex petroliere tunisino diventato finanziere in Svizzera: Kamel Ghribi, amico della vedova del fondatore, Gilda Gastaldi, diventato vicepresidente del gruppo (presidente è Paolo Rotelli, figlio di Giuseppe) nonché global advisor della famiglia, di cui cura gli investimenti. Una vecchia foto di Ghribi lo ritrae con vistosi pantaloni blu elettrico, camicia di seta in tinta e giacca a quadrettoni. Oggi indossa più sobri abiti scuri di ottimo taglio ed è tornato sul luogo in cui sono iniziate le sue attività finanziarie: Lugano, dove dal 2005 ha sede la sua holding personale, la Gk Investment, oggi diventata Gksd Investment Holding Group.

Da qualche mese, a Lugano ha aperto anche una sede del San Raffaele: il 25 gennaio 2024 è stata iscritta nel registro cantonale di commercio una nuova società, la San Raffaele Swiss Sa. Tra i referenti, Alberto Zangrillo, il primario di anestesia del San Raffaele di Milano che era anche il medico personale di Berlusconi. Per ora la San Raffaele Swiss è solo un ufficio in via Monte Boglia 11, a Lugano, senza alcuna attività clinica o ospedaliera, che in Svizzera avrebbe bisogno di un lungo e complesso iter di autorizzazioni.

Ma lo scopo sociale della San Raffaele Swiss – si legge nei documenti societari – va dalla “erogazione di prestazioni mediche†alla possibilità di “aprire succursali e/o partecipare ad altre società ed imprese sia in Svizzera che all’esteroâ€. Presidente del San Raffaele elvetico è Kamel Ghribi, che qui è di casa anche perché è stato per anni socio in attività immobiliari dell’ex sindaco di Lugano, Giorgio Giudici. Vicepresidente è Gilda Gastaldi, la vedova di Giuseppe Rotelli.

Niente attività clinica (per ora), ma intensa attività universitaria: l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano già dal 2016 cura a Lugano, in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana (Usi), un corso di laurea magistrale in Psicologia cognitiva: Cognitive Psycology in health communication. Era all’interno della facoltà di Comunicazione, ma dall’anno accademico 2022-2023 è passato alla facoltà di Scienze biomediche dell’Usi: un vero salto di qualità, perché l’essere all’interno di una facoltà medica permette ai laureati di esercitare anche in Svizzera la professione di psicologo.

I professori del San Raffaele che sono nel board del corso di laurea sono Mariaclelia Di Serio, docente di Statistica, e Antonio Malgaroli, ordinario di Fisiologia. Il direttore del master è un professore dell’Università di Lugano docente di teorie della comunicazione, Peter Johannes Schulz, che in passato ha avuto qualche problema per accuse di plagio: nel 2016 fu sanzionato e sospeso per un semestre dalla sua università per essersi appropriato di lavori altrui, aver copiato alcuni capitoli di libri e non aver segnalato le citazioni di altri autori; è stato poi accusato di aver copiato senza citarlo un filosofo inglese, Sir Anthony Kenny, e addirittura papa Giovanni Paolo II.

I professori Schulz, Malgaroli e Di Serio fanno parte di un centro di ricerca dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, il Center for Behavioral Neuroscience and Communication. L’uomo forte della Facoltà di scienze biomediche dell’Università di Lugano è Albino Zgraggen. Per qualche anno è stato segretario generale dell’università ticinese, ma è più noto per il suo ruolo di referente di Comunione e liberazione in Svizzera. Che i baroni determinino le carriere dei ricercatori e dei docenti è ben noto in Italia, ma anche in Canton Ticino appartenere a Comunione e liberazione è diventato ora titolo preferenziale per lavorare all’Università di Lugano.

Leggi anche:
Il mistero Kamel Ghribi
San Donato, sanità privata, politici e agenti segreti

Data articolo: Mon, 07 Oct 2024 15:23:35 +0000

Stadio

Il chiodo di Salvini e lo stadio di Sala. Le responsabilità politiche delle infiltrazioni mafiose a Milano

L’opinione pubblica democratica è insorta, davanti alla giustificazione del ministro delle infrastrutture Matteo Salvini per il grande blocco ferroviario del 2 ottobre 2024: tutta colpa di un chiodo, ha detto, piantato in una centralina da un addetto di un’azienda privata, esterna alle Ferrovie dello Stato. I social lo hanno subito inchiodato (è il caso di dirlo) nei meme su chiodi e nonni. E i commentatori gli hanno ricordato che un ministro deve assumersi le sue responsabilità.

Nelle stesse ore, a Milano è in corso uno scandalo di grande portata. Sono stati arrestati i boss della curva dell’Inter, accusati di una serie di reati (compreso un paio di omicidi) e di aver stretto rapporti con la ’ndrangheta. Si erano impossessati di business redditizi come i parcheggi attorno allo stadio Meazza. Dov’era il Comune di Milano, proprietario dell’impianto? Dov’era il sindaco Giuseppe Sala, così attento a San Siro quando si tratta di mercanteggiare affari immobiliari a beneficio dei fondi esteri che controllano (al momento) Inter e Milan?

Non parliamo naturalmente di responsabilità penali, che sono personali e riguardano azioni specifiche. Ma nessuno ha rilevato le responsabilità politiche di un’amministrazione che permette che un simbolo della città, la “Scala del calcioâ€, cada nelle mani di hooligans spregiudicati, violenti, fascisti, trafficanti di droga e alleati della mafia? Nell’Italia dei doppi standard, Salvini deve assumersi le responsabilità del chiodo, ma Sala non deve neppure riflettere sul fatto che la ’ndrangheta ha messo le mani su San Siro (dopo averle messe anche sui mercati comunali, vedi quello dell’Isola in piazzale Lagosta).

Certo, ci sono responsabilità dei club, Inter e Milan, che da anni fanno finta di non vedere che cosa combinano le loro curve, anzi le usano e le coccolano. Sui nerazzurri è stato avviato un procedimento per una misura di prevenzione, con la nomina di due consulenti incaricati di valutare se erano adeguate le misure organizzative della società per prevenire infiltrazioni e reati. Il club, secondo i magistrati, è responsabile anche del “gravemente carente controllo degli ingressi allo stadio, fonte di ulteriori guadagni nonché di pericoli non certo irrilevantiâ€. Un analogo procedimento di prevenzione è in corso anche per il Milan. La giustizia farà il suo corso. Ma la pubblica amministrazione? Erano adeguate le sue iniziative di prevenzione e controllo?

I pm segnalano l’“ancora una volta totale sottovalutazione del fenomeno†e “il completo scollamento dalla realtà dello stadioâ€. Hanno ragione: l’amministrazione, il suo sindaco, l’assessore allo sport non hanno battuto ciglio su quello che succedeva nel lato oscuro di San Siro. Ma non ce la si può prendere con la Commissione antimafia del Comune, che almeno ha tentato di affrontare il problema, convocando una seduta in cui sono stati interrogati due manager dell’Inter, in relazione a un anticipatore articolo di Davide Milosa uscito il 17 gennaio 2024 sul Fatto quotidiano (“Il sistema Curva Nord Milano, finte onlus, affari e criminalitàâ€).

La “sottovalutazione†indicata dai pm va cercata più in alto. In una organizzazione che ha lasciato a una società privata, la M-I Stadio, il completo controllo del Meazza, di proprietà comunale. Nella più totale opacità: M-I Stadio è un poltronificio formalmente privato, ma in cui nei fatti la politica si intreccia con gli affari; i cittadini sono privati, questo sì, del diritto a conoscere i veri conti di un loro bene: quanto incassa M-I Stadio dai concerti? quanto valgono gli “scomputi†per le manutenzioni (domanda già fatta dalla Corte dei conti)? Tutto ciò, in una deriva in cui Sala da cinque anni ha considerato San Siro solo un affare immobiliare da mercanteggiare come in un suq con i rappresentanti di fondi anonimi, in un mercato dei tappeti sfociato nell’attuale proposta di vendere la “Scala del calcio†ai club: magari per lasciargliela demolire.

Data articolo: Sun, 06 Oct 2024 14:52:40 +0000

Val di Susa

“Si strappa il cielo in Valleâ€. Addio ad Alberto Perino, anima del movimento No-Tav

“Si strappa il cielo in Valleâ€, hanno scritto su Facebook gli amici: un addolorato, affettuoso saluto ad Alberto Perino, storico leader del movimento No-Tav in Valle di Susa. Aveva 78 anni, era malato da tempo. Il suo motto era “A sarà duraâ€: con questo slogan aveva partecipato, nel corso degli anni, a decine, forse centinaia, di cortei, manifestazioni, incontri, presidi contro il tunnel che sventrerebbe la valle per far passare una nuova linea ferroviaria Torino-Lione.

Il sito del movimento, notav.info, ne ha dato l’annuncio così: “Ci ha lasciati Alberto Perino. Ricordare la sua figura monumentale per la Valle di Susa e per tutto il Movimento No-Tav è difficile in queste ore di estremo dolore. Il vuoto che ci lascia sarà incolmabile. Una cosa però è certa: nel corso della sua vita ha saputo trasmettere a tutte e tutti noi la voglia di lottare contro ogni ingiustizia e devastazione ambientale. Se è da trent’anni che la Valsusa resiste è anche e soprattutto merito suo. Tutto il movimento si stringe forte a Bianca e ai suoi famigliari in questo tragico momentoâ€.

La storia di Perino ci mostra come il movimento No-Tav sia stato e continui a essere non soltanto un centro di aggregazione civile e politica, ma anche una comunità di persone che hanno condiviso negli anni ideali e speranze, delusioni e vittorie, cene e brindisi. In uno dei suoi ultimi appelli, nel febbraio scorso, dopo i fogli di via notificati a una cinquantina di attivisti No-Tav, aveva invitato a “resistere, resistere e ancora resistere cercando di non farci spaventare. Bisogna reagire non accettando le leggi ingiuste perché, come diceva Gandhi, se una legge è ingiusta deve essere violataâ€.

Chiara Sasso, scrittrice e attivista No-Tav (e anche cugina di Perino), su notav.info lo ricorda così: “Fino all’ultimo ha messo la sua vita a disposizione. La email che ha inviato pochi giorni fa ai comitati assicurava la sua presenza (a costo di andare in ambulanza) domenica 13 ottobre al presidio di San Giulianoâ€, per opporsi agli espropri delle aree su cui nelle prossime settimane dovrebbe essere impiantato un cantiere del Tav. “Ormai è chiaro a tuttiâ€, scriveva Perino, “che gli espropri sono solo un’operazione mediatica per dire: stiamo facendo qualcosa anche in Italia così Salvini è contento e un po’ di soldi continuano a darglieliâ€. “Facciamo rumoreâ€, ripeteva. “Le sue email corpo 18 risuoneranno per molto tempo come la sua voce in tutti noiâ€, lo saluta Chiara Sasso. “Facciamo rumore!â€.

Data articolo: Sat, 05 Oct 2024 09:19:26 +0000

Rito Ambrosiano

La Fake Week per smascherare la Green Week del greenwashing

“Per aprire un lucernario a casa mia, il Comune di Milano mi ha fatto penare, per l’esistenza del vincolo Navigli. Ma a 300 metri da casa mia è sorto un mastodonte alto 41 metri, chiamato Bosconavigli, con regolare autorizzazione paesaggistica. Che diversità di trattamento tra i cittadini. Se butti giù un vecchio magazzino e costruisci al suo posto un grattacielo, la chiamano ristrutturazione, ma anche un bambino capisce la differenza. Perché l’amministrazione ci tratta come dei poveri deficienti?â€.

A chiederlo è Maria Castiglioni, della Rete dei comitati della città metropolitana di Milano. Maria fa parte di uno dei tanti comitati della Rete: si sono volute chiamare Le Giardiniere, come le donne affiliate alla Carboneria durante il Risorgimento italiano. La Rete dei comitati, insieme ai Comitati per il trasporto pubblico e al Comitato Olimpiadi insostenibili, ha indetto la Fake Week, per rispondere alla Green Week organizzata dal Comune. “Parlano di verde, alberi, riduzione dell’inquinamento, depavimentazione, rigenerazione urbana: è solo greenwashing, nella realtà tagliano gli alberi, continuano a costruire, aumentano il consumo di suoloâ€.

Tre le iniziative della Fake Week che vuole smascherare il falso verde della Green Week. 1. Una protesta contro la riduzione del trasporto pubblico che ormai costringe a lunghe attese alle fermate di tram e bus e incentiva il trasporto privato, con relativo aumento dell’inquinamento. 2. Una manifestazione oggi (27 settembre 2024) in piazza Mercanti contro il consumo di suolo (aumentato del 24% in un anno, dati Ispra) e contro il Rito Ambrosiano che permette di costruire a Milano grattacieli con una semplice autocertificazione (la Scia), togliendo verde, aria, vista e servizi ai cittadini. Il solo Bosconavigli ha sottratto 5,5 milioni di euro ai milanesi, secondo i tecnici della Procura di Milano, in mancate monetizzazioni degli standard, cioè in verde e servizi per i milanesi, provocando “un peggioramento della qualità urbana, con danno per l’intera collettivitàâ€. 3. Domani (28 settembre), infine, una critical mass in piazzale Lodi sulle Olimpiadi Milano-Cortina 2026 che non devastano solo territori alpini in Veneto, ma anche una grande area ex verde in Porta Romana a Milano.

Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, all’Assemblea dell’associazione ha ripetuto le fake news degli amministratori milanesi: “Ci sono oltre cento cantieri fermi a Milano, per investimenti che sono stati stimati complessivamente in 12 miliardi. Sono fermi per una diversa interpretazione delle norme edilizie. Ma veramente possiamo fermare 12 miliardi di rigenerazione urbana per un’interpretazione?â€.

Caro presidente, si informi: sono fermi perché fuorilegge. Non sono rigenerazione urbana ma nuove cementificazioni che sottraggono milioni alla città in servizi non pagati (e non richiesti dall’amministrazione Sala). E non c’è alcun problema di “diversa interpretazione†delle norme edilizie: sono chiarissime le leggi, nazionali e regionali, clamorosamente contraddette dal Rito Ambrosiano, dalle consuetudini milanesi fuorilegge.

Lo ha fatto capire, proprio ieri, l’ennesimo giudice (il gup Teresa De Pascale), cominciando l’udienza preliminare sulla Torre Milano di via Stresa sotto inchiesta. Alta 82 metri, ma costruita come “ristrutturazione†dopo la totale demolizione di due piccoli edifici di due e tre piani. Ha ammesso una cittadina della zona come parte civile, in quanto danneggiata per la sottrazione di luce, sole, aria. Ha rigettato le eccezioni degli avvocati degli imputati, citando la Cassazione sulla necessità di tutelare i vicini danneggiati, anche economicamente, dall’abuso edilizio.

E – attenzione! – ha rigettato la richiesta di proscioglimento dall’abuso d’ufficio avanzata dai funzionari del Comune imputati: perché pende la questione di incostituzionalità sull’abrogazione di quel reato.

Data articolo: Mon, 30 Sep 2024 10:17:07 +0000

Zona libera della Carnia

“Qui le radici della nostra democraziaâ€. Il presidente Mattarella ricorda la Repubblica partigiana della Carnia

Questo il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad Ampezzo (Udine) il 14 settembre 2024, per gli 80 anni della Zona libera della Carnia e dell’Alto Friuli.


Rivolgo un saluto di grande cordialità a tutti i presenti, al Ministro, al Presidente della Regione, al Sindaco, al Presidente della Comunità di Montagna, ai Sindaci presenti della Carnia. A Paola Del Din, che ringrazio molto per la sua preziosa testimonianza, e a quanti presenti che hanno fatto parte del movimento partigiano.

Il 1944 fu un anno carico di orrore, in Italia e in Europa. Il ritiro progressivo delle truppe naziste lasciava dietro di sé una drammatica scia di stragi. Ne sono testimonianza i villaggi dei nostri Appennini e delle nostre Alpi violati e incendiati, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, da Civitella Val di Chiana a Fivizzano. A Boves, alla Carnia.

L’offensiva alleata martellava le città con bombardamenti dagli esiti spesso tragici, come quello che portò, a Milano, alla morte di 184 bambini, nella Scuola elementare Francesco Crispi di Gorla.
Da Fossoli partivano i trasporti degli ebrei verso i campi di sterminio di Bergen-Belsen e di Auschwitz. Contemporaneamente prendeva forza il movimento di Resistenza al fascismo che, con il regime della Repubblica Sociale Italiana, era complice della ferocia nazista, (lunghi e forti applausi, ndr) e si affacciavano i primi embrioni di partecipazione politica e di aspirazione democratica.

Ad Ampezzo, la Repubblica oggi rende onore a quanti hanno contribuito alla causa della libertà, animando l’esperienza delle “zone libereâ€, delle “Repubbliche partigianeâ€. Una causa che come abbiamo visto poc’anzi, è stata portata avanti in maniera esemplare dalla Medaglia d’oro Paola Del Din.
Rientra (alla mente) una sequela di ricordi di queste esperienze di Zone liberate: da Montefiorino all’Ossola, dall’Alto Monferrato alla Valsesia, alla Carnia, venne offerto, con quelle esperienze, l’esempio di genti che non si accontentavano di attendere l’arrivo delle truppe alleate, ma intendevano sfidare a viso aperto il nazifascismo, dimostrando che questo non controllava né città né territori, mettendo a nudo quello che era: truppa di occupazione. Ecco perché la battaglia della Resistenza era una battaglia per l’indipendenza e per la libertà.

L’estate partigiana del 1944 si nutriva della convinzione che presto gli Alleati avrebbero sfondato la Linea Gotica, per porre rapidamente fine alla guerra, puntando dal Veneto verso l’Austria e i Balcani.
La convinzione era così diffusa da spingere il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – il CLNAI – a porsi, il 2 giugno 1944, giusto due anni prima della data del referendum istituzionale, il problema della transizione dei poteri nelle terre occupate e a definire l’obiettivo dell’azione dei Patrioti con una circolare diretta ai Comitati di Liberazione regionali e provinciali.

Vi si diceva che “l’insurrezione nazionale, insieme alle operazioni condotte dall’esercito regolare, deve fornire la prova storica dell’opposizione del popolo italiano al nazifascismo e costituire così la sua riabilitazione di fronte al mondo interoâ€. Un’ambizione necessaria, per ridare all’Italia il suo posto tra le nazioni civili.

La Resistenza ricusava l’idea che il ruolo del movimento partigiano fosse, con azioni di guerriglia e di disturbo, esclusivamente di affiancamento all’offensiva delle truppe alleate. Di rincalzo venivano le istruzioni del Corpo Volontari della Libertà, poche settimane dopo, il 28 giugno, indirizzate alle formazioni partigiane, con una circolare sull’occupazione di passi e vallate, operazioni militari e organizzazione civile. In essa vi si affermava che “lo sviluppo del movimento partigiano comporta l’estensione delle zone controllate stabilmente dalle formazioni patriottiche e quindi la conseguente contro-occupazione di zone determinate, di paesi e intere vallateâ€.

Questo allo scopo anche di avere organi locali in grado di essere interlocutori con le forze alleate di cui si attendeva l’arrivo. Un’estate, un autunno, di attesa ansiosa e, insieme, di intensa preparazione di una nuova Italia, dopo gli anni bui del fascismo. L’offensiva alleata contro la Linea Gotica e l’azione delle formazioni partigiane misero a dura prova le forze tedesche e quelle della Repubblica Sociale e conseguirono l’obiettivo indicato: quello di dar vita a forme a esperienze di autogoverno territoriale.

Oggi, qui, ad Ampezzo, rendiamo onore ai Friulani che, con la Repubblica Partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, vollero battersi per la loro terra, per la loro dignità, per le loro radici, per quei valori di solidarietà che hanno sempre caratterizzato la convivenza tra queste montagne (forti applausi, ndr).
Una Repubblica, anello di quella corona di “zone libere†che avrebbe contribuito a dare il senso alla nascita, dopo quello dissoltosi nell’estate del 1943, di un nuovo Stato, di un nuovo ordine costituzionale che non aveva più sudditi, bensì cittadini.

Quale era la percezione della vita democratica nel 1944? Dopo venti anni di dittatura in cui la memoria dell’ordinamento democratico era stata rimossa, occorreva far ritrovare ai cittadini il sentimento della libertà. Anche a questo corrispondeva il proposito di dar vita, nelle zone libere, alle forme di autogoverno che, ai comandi del Corpo Volontari della Libertà, univano la formazione di organi di potere popolare per regolare l’amministrazione della vita delle comunità locali.

Fu così qui in Carnia, dove le donne furono protagoniste per la prima volta nel voto, espresso nelle assemblee dei capifamigliae nella organizzazione del soddisfacimento dei bisogni della popolazione, come ricordava, poc’anzi, la presidente regionale dell’AnpiE questo avvenne con le “portatrici†che, riesumando l’esperienza del primo conflitto mondiale, seppero consentire la sopravvivenza della popolazione durante l’assedio.

Del resto, caratteristica del movimento partigiano era proprio la sollecitazione all’iniziativa e alla partecipazione dal basso, dopo due decenni di subalternità e di passività popolare, frutto dell’applicazione del precetto fascista “credere, obbedire, combattere†(forti applausi, ndr). La scelta politica di dare vita alle Repubbliche partigiane esprimeva una fase di maturità dell’esperienza della Resistenza, con anticipazione della futura esperienza democratica. La storiografia resistenziale ha definito la Carnia “laboratorio di democraziaâ€.

Nella opinione pubblica, dopo l’8 settembre 1943, era presente anche “l’attendismoâ€, la convinzione che fosse meglio non esporsi alle rappresaglie nazifasciste, e attendere che gli Alleati risalissero la penisola. Questo atteggiamento non teneva in conto le sofferenze imposte alle popolazioni, quelle sofferenze gravi imposte dalle forze occupanti, i soprusi, le deportazioni.

A levarsi furono i resistentiobbedendo all’ammonimento di Giuseppe Mazzini: “Più che la servitù temo la libertà recata in dono da altriâ€. Perché la Resistenza non era immobilismo. Fu una sfida dura e furono i caduti di questa terra, che la Repubblica ha onorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare, che ne furono il prezzo. Detta medaglia reca questa motivazione: “La gente carnica osò lanciare una intrepida sfida all’invasore nazista e al suo alleato fascista, realizzando la Zona libera della Carnia, lembo indipendente d’Italia (forti applausi, ndr) retto dal governo democratico del CLN, formato da civili. E con una continua, eroica, tenace lotta, le divisioni partigiane Garibaldi e Osoppo, con l’appoggio delle popolazioni locali, uomini e donne, liberarono una estensione di 3.500 chilometri quadrati, che comprendeva ben 42 Comuniâ€.

 E la motivazione per la Medaglia d’argento al valore militare così aggiunge: “La difesa della Zona Libera e della sua capitale, Ampezzo, costrinse l’occupante a distogliere numerosi reparti dai fronti operativi per impiegarli nella repressione che costò ben 3.500 caduti, partigiani e civili, migliaia di deportati e internati, eccidi efferati, saccheggi, un bagaglio di vite umane nei Comuni di Enemonzo, Forni Avoltri, Forni di Sopra, Forni di Sotto, Ovaro, Paluzza, Paularo, Prato Carnico, Sutrio e Villa Santina. Alla macchia, in questa zona, fu un grande numero di alpini della Divisione Julia, sfuggiti alla cattura e al destino della deportazione in Germaniaâ€.

Il movimento partigiano oltre a sottrarre al combattimento truppe degli alleati, riuscì ad impedire pure la realizzazione ai fascisti di un vero esercito della Repubblica di Salò. E furono i bandi di arruolamento fascisti a fare dei giovani, renitenti alla leva, dei partigiani. Anche alcuni giovanissimi furono protagonisti allora, come il quattordicenne Giovanni Spangaro, staffetta partigiana. Ed anche ora giovanissimi coltivano la memoria come gli alunni della scuola di Forni Avoltri che hanno voluto dedicare un podcast agli avvenimenti della Repubblica di Carnia (forti applausi, ndr).

Ma la guerra in realtà era lungi dalla conclusione. Il proclama del feldmaresciallo inglese Alexander, del 13 novembre 1944, diretto ai patrioti, gettò gelo profondo sulle attese di una rapida liberazione del Nord Italia. La Linea Gotica resisteva e Alexander segnalava che alla campagna d’estate avrebbe fatto seguito una pausa. E proclamava: “I patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’invernoâ€.

Ma i patrioti non erano di fronte al nemico, ma erano in mezzo al nemico, e la stasi nelle operazioni belliche portò a consentire duri rastrellamenti contro le forze partigiane. Il Comando per l’Italia occupata del Corpo Volontari della Libertà reagì immediatamente, preoccupato della sopravvivenza dei circa 80.000 uomini in armi presenti nelle formazioni in quel momento, precisando ai reparti che non si trattava di mobilitazione.

A questo si aggiungeva la denuncia di losche manovre per tregue o compromessi, fatta dal Comitato Liberazione Alta Italia, il 3 dicembre, contro il tentativo di indebolire la Resistenza, accampando l’esistenza di trattative sotterranee in atto. “Non c’è posto per attesisti e tanto meno per i sabotatori dell’insurrezione nazionale, per i consiglieri di patteggiamento con il nemico, perché il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ha una sola parola. Guerra!â€.

Ma il periodo da lì sino alla Liberazione è stato costellato di grandi sofferenze per le popolazioni. L’offensiva nazista, supportata da reparti cosacchi e caucasici, trasferiti al seguito della ritirata nazista da altri fronti, portò alla fine la Repubblica partigiana della Carnia, così come avvenne in altre zone d’Italia per esperienze analoghe. La condizione di terra di frontiera, area di interesse strategico per le truppe tedesche, anche ai fini della ritirata e dell’estrema difesa della Germania, si manifestò in tutta la sua complessità. La Carnia sarà l’ultimo lembo d’Italia a essere liberato e dovrà soffrire l’oltraggio di due ultime stragi, il 2 maggio 1945, a Ovaro-Comeglians e a Avasinis-Trasaghis.

Il Regno d’Italia, con l’ambigua dichiarazione dell’8 settembre 1943 e sino al cambio di fronte operato con la dichiarazione di guerra a Berlino del 13 ottobre successivo, aveva consentito l’invasione della penisola da parte delle truppe germaniche. Si era così manifestato l’intento annessionistico da parte del Terzo Reich dei territori e delle popolazioni dell’arco alpino che andavano dall’Alto Adige alla provincia di Lubiana, sottratti alla autorità del governo collaborazionista di Salò e sottoposte all’autorità militare tedesca.

La promessa di terre e beni alle truppe cosacche, utilizzate nelle azioni antipartigiane, prospettando loro la possibilità di trasformare la Carnia in una Kosakenland con l’operazione Ataman, alimentava a maggior titolo ed al contrario la difesa della identità friulana da parte della Resistenza, che seppe sfuggire anche all’intento tedesco di contrapporre, in quest’area, nazionalità a nazionalità.

Un tema che avrebbe visto la denuncia di Michele Gortani, che il presidente della Comunità di Montagna, De Crignis, ha voluto citareInsigne geologo, presidente in quel momento del Comitato di Assistenza per la Carnia e più tardi membro dell’Assemblea Costituente, Gortani fu il padre del secondo comma dell’articolo 44 della Costituzione, quello che impone e dà mandato alla Repubblica di tutelare, tra i beni importanti, la montagna (forti applausi, ndr).

L’Italia è orgogliosa del percorso compiuto in questi quasi 80 anni dalla Liberazione. Oggi, come ha sottolineato la presidente regionale dell’Anpi, storia e memoria si incontrano con le contraddizioni e le sofferenze che accompagnano gli eventi bellici. E la vocazione di pace del nostro Paese è segno che tutto questo non è passato invano.

Oggi la Repubblica, qui, in Friuli, riconosce in queste popolazioni, in Carnia, radici della nostra Costituzione, radici che alimentano la nostra vita democratica. Grazie alla Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli. Grazie per quanto fatto allora, per quanto tramandato, per quanto conservato oggi.

Viva l’Italia! 

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica italiana
Ampezzo, 14 settembre 2024

Data articolo: Mon, 30 Sep 2024 08:58:51 +0000

Procura di Milano

Processo al processo. Eni, la Procura di Milano e il “fuoco amicoâ€

Pubblicato il 24 settembre 2024 su MicroMega www.micromega.net 

 

C’è un’aula di giustizia in cui si sta celebrando il processo a un processo. L’aula è la numero 25 del tribunale di Brescia. Il processo sotto processo è quello a Eni e ai suoi manager, che (insieme a Shell) furono accusati di corruzione internazionale per una tangente record di oltre un miliardo di dollari per ottenere la concessione di Opl 245, un grande campo petrolifero in Nigeria. Quel processo, malgrado indizi pesanti (500 milioni di dollari arrivati da un conto Eni dispersi in Nigeria in contanti) finì con piene assoluzioni. Ora sul banco degli imputati sono invece i due pm che avevano sostenuto l’accusa: l’allora procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto procuratore Sergio Spadaro, oggi alla Procura europea. Per loro i pm di Brescia hanno chiesto una condanna a 8 mesi, e senza sospensione condizionale della pena. La sentenza è attesa per l’8 ottobre.

I due magistrati sono accusati di non aver depositato nel processo milanese elementi che potevano essere favorevoli agli imputati. Per la precisione, “elementi utili e pertinenti per la valutazione dell’attendibilità del dichiaranteâ€, cioè l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, un imputato diventato accusatore di Eni. Eccoli: 1. Alcuni messaggi Whatsapp del 2019 da cui si deduceva che Armanna aveva pagato 50 mila dollari a due cittadini nigeriani testimoni del processo Eni-Nigeria e ne voleva la restituzione dopo che questi non avevano confermato, in aula a Milano, le sue dichiarazioni (e cioè di aver visto “gli italiani†imbarcare trolley pieni di denaro, parte della tangente retrocessa a uomini Eni); 2. Una chat di Telegram che, presentata da Armanna per giustificare la mancata comparizione di un teste al processo Eni-Nigeria, potrebbe essere stata manipolata; 3. Messaggi Whatsapp in cui Armanna suggeriva a un testimone nigeriano di confermare che un manager Eni di vertice, Claudio Granata, aveva fatto pressioni su Armanna, per conto dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, al fine di fargli ritrattare le accuse a Eni; 4. Note della società Vodafone secondo cui non erano in uso a Descalzi e Granata, nel 2013, le utenze telefoniche su cui avvengono alcune chat tra Armanna e Granata e Armanna e Descalzi. Alcune di queste erano state presentate da Armanna ai pm milanesi.

A queste quattro “prove sottratte†se ne aggiunge una quinta. Un video in cui Armanna nel luglio 2014 mostrava propositi ritorsivi nei confronti di alcuni funzionari Eni (“Perché la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento…â€), dimostrando la sua volontà di calunniare falsamente la compagnia e i suoi manager di vertice. Il video, registrato di nascosto dall’imprenditore Ezio Bigotti, non era nella disponibilità di De Pasquale e Spadaro, ma dei loro colleghi, Laura Pedio e Paolo Storari, titolari di un altro fascicolo d’inchiesta (Eni-complotto). Dopo le richieste delle difese Eni, Pasquale e Spadaro l’hanno chiesto a Pedio e Storari e l’hanno depositato nel processo. Non mancando di sottolineare che il video mostrava un lungo confronto tra molte persone su disparati argomenti, in cui Armanna esprimeva sì rudemente la sua volontà di seppellire i vertici Eni sotto “una valanga di merdaâ€, ma con due interpretazioni possibili: la “valanga†poteva essere formata da falsità, oppure, ancor più efficacemente, da accuse vere. Uno dei partecipanti all’incontro, Paolo Quinto, interrogato da Storari, dichiara infatti: “Armanna diceva che lui era stato tirato in mezzo nella vicenda Olp 245… Disse che avrebbe attivato i giornali e che avrebbe raccontato la verità anche ai magistratiâ€.

Poco dopo quel video, il 28 luglio 2014 Armanna va effettivamente in Procura e comincia ad accusare i manager della compagnia petrolifera (da cui era stato licenziato), diventando un testimone a favore dell’accusa. Il video però non prova se la vendetta è attuata con calunnie (come dicono le difese Eni) o con affermazioni vere (come sostengono i pm d’accusa).

E le altre quattro contestazioni mosse a De Pasquale e Spadaro? La pubblica accusa ha per legge il dovere di cercare durante le indagini anche gli elementi di prova favorevoli agli indagati. De Pasquale e Spadaro, impegnati come pm nel processo Eni-Nigeria, sono sotto giudizio a Brescia nell’ipotesi che non abbiano voluto depositare quei cinque sopra elencati documenti, che si asserisce siano favorevoli alla compagnia petrolifera. Il reato contestato è rifiuto di atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale), che prevede una pena da 6 mesi a 2 anni di reclusione.

A parte il video, quei documenti erano stati individuati da un collega di De Pasquale e Spadaro, il pm Storari, che indagando su vicende parallele a quella di Eni-Nigeria (Eni-complotto) si era convinto che Armanna fosse un testimone falso. Ha così raccolto elementi che a suo giudizio lo dimostrano: i messaggi sui soldi ai testimoni nigeriani, le chat che ritiene manipolate, la nota di Vodafone. Li ha mandati informalmente all’allora capo della Procura, Francesco Greco, che li ha a sua volta passati a De Pasquale e Spadaro. Erano bozze informali, spunti eventualmente da approfondire in indagini successive, dubbi maturati dentro un’altra indagine (Eni-complotto), diversa da Eni-Nigeria, già a processo, anzi ormai alla vigilia della sentenza di primo grado. Così i due pm hanno deciso di non portare davanti al giudice quegli elementi che ritenevano ancora informi e non rilevanti. Non la pensa così Storari, che accusa i colleghi di averlo fatto per non far perdere credibilità al testimone Armanna, allora utile a sostenere le tesi dell’accusa.

 

Per capire come si è potuti arrivare a questo punto di scontro interno, mai visto prima nella Procura di Mani pulite, è necessario ricordare che a Milano, negli anni tra il 2014 e il 2021, si è andata addensando una situazione eccezionale, si è verificato un maligno allineamento dei pianeti, si è condensata una inedita perturbazione giudiziaria. Tutto ruota attorno a una delle aziende più importanti e potenti del Paese: Eni. La Procura di Milano avvia indagini e processi su presunte corruzioni internazionali che la compagnia avrebbe attuato in Algeria, in Nigeria, in Congo; su un ipotizzato conflitto d’interessi tra l’amministratore delegato Eni, Descalzi, e sua moglie che, secondo la Procura, aveva fatto affari con Eni in Africa per oltre 300 milioni di dollari. In più, era approdata a Milano una intricata indagine sul cosiddetto “complotto Eniâ€, che passa dalla Procura di Trani a quella di Siracusa e arriva infine a Milano.

Dapprima appare come un “complotto†contro Descalzi architettato da manager Eni (Umberto Vergine, Pietro Varone) e da membri del cda (Luigi Zingales, Karina Litvack). Del tutto incolpevoli: non registi, ma semmai vittime del “complottoâ€, architettato invece da un avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, allo scopo finale di intorbidare e sabotare proprio le indagini della Procura milanese sugli affari di Eni in Algeria, in Nigeria e in Congo e per “salvareâ€, dunque, l’allora amministratore delegato di Eni, Descalzi, il suo predecessore, Paolo Scaroni, e il suo amico Luigi Bisignani, ex piduista, tra i mediatori dell’affare in Nigeria. Amara e Armanna escono allo scoperto e sostengono di aver ricevuto dai vertici Eni il mandato di tessere il “complottoâ€. La compagnia sostiene invece di esserne semmai vittima e oggetto delle calunnie del suo ex avvocato Amara e del suo ex manager Armanna.

Non basta. Nel 2020 scoppia un altro caso, ancor più clamoroso, che s’intreccia pericolosamente con quelli fin qui citati. L’avvocato Amara, riccamente remunerato per anni da Eni per i suoi servizi professionali, dopo l’incriminazione per alcuni reati, era diventato un accusatore di Eni nel procedimento “complottoâ€. Ma ci aggiunge anche un carico da novanta: rivela ai pm dell’inchiesta “complottoâ€, Paolo Storari e la procuratrice aggiunta Laura Pedio, l’esistenza di una fantomatica “Loggia Ungheriaâ€, un’organizzazione massonica segreta con affiliati politici, magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, banchieri, monsignori vaticani, generali dei carabinieri e della Guardia di finanza.

A questo punto Storari, già in disaccordo con i colleghi sul ruolo di Armanna, ritiene che la Procura sia troppo lenta e inerte sulla “Loggia Ungheria†e chiede aiuto a Piercamillo Davigo, in quel momento componente del Consiglio superiore della magistratura. Gli passa copia dei verbali segreti di Amara. Davigo informa della vicenda i vertici del Csm, ne parla con l’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il presidente della Suprema corte Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm David Ermini, alcuni consiglieri (Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna), le sue due segretarie al Consiglio (Marcella Contrafatto e Giulia Befera) e l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia (il senatore Nicola Morra: per spiegargli come mai abbia rotto i rapporti con un magistrato che gli era amico, Sebastiano Ardita, che secondo Amara farebbe parte della “loggia Ungheriaâ€, insieme a un altro consigliere del Csm, Marco Mancinetti).

Ecco perché – spiega Davigo – “non ho violato alcun segreto: ho informato persone tutte tenute al segretoâ€. E lo ha fatto – dice – in maniera informale perché una denuncia formale avrebbe fatto conoscere i contenuti dei verbali segreti anche ai due componenti del Consiglio indicati (falsamente, ma questo si saprà solo in seguito) da Amara come appartenenti alla loggia Ungheria: “So di aver fatto il mio dovere nelle uniche forme consentite dalla particolarità della situazioneâ€.

Lo scandalo scoppia quando questa storia, per mesi sotterranea, viene alla luce. I verbali segreti passati da Storari a Davigo arrivano, mandati da un anonimo, a due giornali, il Fatto quotidiano e la Repubblica, e poi al magistrato Nino Di Matteo che ne parla in una seduta pubblica del Csm. Seguono processi per rivelazione di segreto a Storari (assolto) e a Davigo (condannato). E si apre una profonda frattura dentro la Procura di Milano, che si spacca tra chi difende il comportamento di Storari e chi lo critica.

Poi il caso “Loggia Ungheriaâ€, passato dalla Procura di Milano a quella di Perugia, viene chiuso dal gip con un’archiviazione in cui si sostiene che la loggia, come raccontata dall’avvocato Amara, non esiste: esistono “serie di iniziative individuali†e “condotte di mera pressione o di influenza poste in essere di volta in volta da singoli soggetti per conseguire finalità esclusivamente personali (e non comuni dell’associazione)â€. Insomma non esiste la loggia massonica segreta e strutturata che Amara aveva descritto come una sorta di continuazione della P2; ciò che è esistito è un’attività lobbistica e di relazioni per indirizzare nomine, costruire carriere, favorire affari. Amara viene allora denunciato per calunnia da molti dei personaggi che aveva indicato come iscritti dalla loggia (tra cui Ardita e Mancinetti).

Intanto il processo Eni-Nigeria, attorno a cui tutto ruota come i pianeti ruotano attorno al sole, si conclude il 17 marzo 2021 con una totale assoluzione per tutti gli imputati. De Pasquale e Spadaro sperano che le ragioni dell’accusa possano essere accolte in appello: ma la Procura generale di Milano, con decisione più unica che rara, decide di non celebrare il processo. “Mai vista una cosa simile in 30 anni di lavoroâ€, ha commentato l’avvocato Lucio Lucia, rappresentante di parte civile dello Stato della Nigeria. Il caso è chiuso, con una pietra tombale calata sull’affare petrolifero del secolo, quello per acquisire il campo d’esplorazione Opl 245. Un affare nato nel 2010 già in maniera anomala: non da valutazioni aziendali o da scelte professionali, ma da un amichevole suggerimento su un buon business per Eni lanciato da Bisignani, piduista con grande fiuto per gli affari, all’amico Scaroni, allora al vertice della compagnia petrolifera. Dopo il ritiro della Procura generale, l’assoluzione diventa definitiva. La verità giudiziaria è una: Eni, i suoi manager e i mediatori sono innocenti. 

E il “complotto� Non è stato organizzato da Amara su mandato del manager Eni Claudio Granata per difendere Descalzi – concludono i magistrati. Alle sue affermazioni non sono stati trovati riscontri: Amara ha fatto tutto da solo, giocando di sponda con manager Eni con cui era in affari, dirigenti infedeli – a detta di Eni – poi cacciati dalla compagnia (Antonio Vella, Massimo Mantovani, Vincenzo Larocca, Alessandro Des Dorides). E Descalzi è risultato beneficiario a sua insaputa delle manovre di Amara.

Lo tsunami giudiziario attorno a Eni lascia alla fine molte macerie
. La Procura di Mani pulite è spaccata e sofferente. E gli accusatori sono trasformati in accusati: la Procura di Brescia apre indagini sui comportamenti del procuratore Francesco Greco, degli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale, dei sostituti Storari e Spadaro, dell’ex consigliere del Csm Davigo. Quello che Silvio Berlusconi non era riuscito a fare, si realizza dopo la sua morte, per “fuoco amicoâ€. Archiviate le accuse a Greco e Pedio, assolto Storari, condannato Davigo, ancora sotto processo De Pasquale e Spadaro. 

I due pm hanno commesso un reato, nascondendo prove ai giudici di Eni-Nigeria? Storari ne è convinto. Ha passato ai colleghi gli elementi che a suo dire dimostrano quanto Armanna sia inattendibile. De Pasquale e Spadaro si sono convinti però di non poterli né doverli depositare. Sono elementi confusi, non certi, non determinanti. La chat in cui Armanna scrive dei 50 mila dollari pagati a un teste è – per Storari – la prova di voler “comprare†una testimonianza falsa contro Eni; ma – per De Pasquale e Spadaro – è invece spiegabile con il tentativo di “comprare†un “fileâ€, ovvero “un rapporto del Efcc, la Polizia economica finanziaria della Nigeria, in cui c’erano i nomi dei pubblici ufficiali che avevano preso le tangentiâ€. Le chat che secondo Armanna provano le attività di Granata (e Descalzi) a danno delle indagini della Procura milanese sono certamente false secondo Storari, ma – ribattono De Pasquale e Spadaro – nel 2021 erano ancora incerte e sotto perizia informatica. Quelle che per Storari sono prove, per i due colleghi – ma anche per il procuratore Greco e l’aggiunto Pedio – sono elementi ancora tutti da valutare e da approfondire e niente affatto risolutivi rispetto alle imputazioni nel processo Eni-Nigeria. Erano soltanto “un pessimo minestroneâ€. Dunque da non depositare.

Lo ribadisce De Pasquale, interrogato in udienza a Brescia: non c’era allora e non c’è neppure oggi la prova che i testimoni nigeriani siano stati pagati da Armanna. De Pasquale si ritiene vittima di “un granchio preso da Storariâ€, anzi, proprio di “un atto ostile†di Storari, che “ha condotto una controinchiesta sul mio processo per disintegrare la credibilità di Armanna già messa in dubbio dalle difese Eniâ€. Insomma, “una polpetta avvelenataâ€, una “accozzaglia di cose confuse o sbagliateâ€: “ciarpame erano prima e ciarpame erano dopoâ€.

Secondo la memoria (“Il procedimento Unicumâ€) presentata dal difensore di De Pasquale e Spadaro, l’avvocato Massimo Dinoia, in punta di diritto i due pm non solo non avevano l’obbligo giuridico di depositare quegli atti, ma addirittura non potevano farlo: perché erano atti generati dal sequestro del telefonino di Armanna disposto il 5 novembre 2020, e non si può portare dentro un dibattimento elementi frutto di perquisizioni o di sequestri in danno di imputati di quel processo.

Dinoia ipotizza una spiegazione psicologica all’attivismo di Storari, il grande (e unico) accusatore dei suoi due colleghi. C’è una connessione tra l’azione di Storari e la vicenda dei verbali segreti da lui fatti uscire dalla Procura di Milano. Il processo di Brescia “nasce dalla controindagine che il dottor Storari ha iniziato a condurre dopo che era stato deciso di trasmettere gli atti della Loggia Ungheria a Perugiaâ€. Privato di quella che riteneva “l’indagine del secoloâ€, avvia una “controindagine†su Armanna, ai danni dei suoi due colleghi. E la implementa dopo essere venuto a conoscenza che erano arrivati ai giornali “i verbali segretati degli interrogatori di Amara, che lo stesso Storari aveva consegnato a Davigoâ€. Quella “controindagineâ€, infine, “è servita al dottor Storari per difendere (con successo) se stesso nel procedimento che era stato instaurato contro di lui†per rivelazione di segreto.

A Brescia, il “processo al processo†si svolge sotto gli occhi attenti di avvocati e consulenti Eni presenti a ogni udienza, benché la compagnia non abbia alcun ruolo in quel dibattimento. Gli imputati De Pasquale e Spadaro vi sostengono le loro ragioni: hanno legittimamente e in buona fede selezionato i documenti da depositare al giudice di Eni-Nigeria, scegliendo le prove solide e gli indizi certi e non considerando quelli incerti e contraddittori. Come avviene ogni giorno in tutti i processi italiani. Ma in questo processo – caso senza precedenti paragonabili, nella storia della giustizia in Italia – sono stati messi in stato d’accusa. Benché le dichiarazioni di Armanna – che negli anni cambia maschera e diventa via via amico o strumento o accusatore di Eni – non siano state l’unica prova, né la più consistente, nelle mani dei pm che contestavano la corruzione internazionale. Ben più significativi, come indizi, le email dei manager Shell che raccontavano i comportamenti dei manager Eni; e i passaggi di denaro in contanti in Nigeria.     

La congiunzione astrale-giudiziaria accaduta in questi anni a Milano si è chiusa non soltanto con la proclamazione della verità processuale secondo cui Eni non ha compiuto alcuna azione di corruzione internazionale in Algeria, Nigeria, Congo e non ha ideato alcun “complotto†per ingarbugliare e annodare il gomitolo delle indagini. Ma anche con la inedita messa sotto processo dei magistrati d’accusa, che hanno pur sempre un margine d’autonomia e di discrezionalità per scegliere quali prove ritengono valide e determinanti, a favore dell’accusa e a favore della difesa. Una sentenza di condanna risulterebbe la vendetta della storia contro De Pasquale, l’unico pm che riuscì a ottenere le condanne per Bettino Craxi (corruzione per le tangenti Eni-Sai) e per Silvio Berlusconi (per frode fiscale).

L’informazione italiana assiste placida e distratta
. Più attive e preoccupate le organizzazioni internazionali anticorruzione. Agli atti del processo di Brescia è depositata una lettera del presidente del gruppo anticorruzione dell’Ocse, Drago Kos, che definisce i due magistrati imputati “luminosi esempi per i pm di tutto il mondoâ€. Più ampiamente, il rapporto Ocse 2022 critica l’Italia per come viene contrastata la corruzione internazionale, accusandola di non rispettare la Convenzione Ocse del 1997 che impegna gli Stati che l’hanno sottoscritta a condannare i propri cittadini e le persone fisiche e giuridiche che pagano mazzette all’estero. Il rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico contiene un esplicito plauso alla Procura di Milano e al suo terzo dipartimento – proprio quello varato dal procuratore Greco e guidato, fino a qualche mese fa, dall’aggiunto De Pasquale – che ha condotto le indagini e i processi Eni, indicato come esempio da preservare addirittura nelle raccomandazioni finali: “È una buona pratica che dovrebbe essere mantenutaâ€. Ma il rapporto aggiunge che poi i giudici dissolvono le prove raccolte dai pm, frammentando i fatti, esaminando “ogni elemento di prova in modo isolatoâ€, rigettando sistematicamente le prove indiziarie, offrendo “spiegazioni alternative non corroborate da proveâ€, pretendendo soglie di prova impossibili in un processo indiziario.

I riferimenti espliciti sono a tre procedimenti: quello a Finmeccanica per gli elicotteri venduti all’India e quelli a Eni per gli affari in Algeria e in Nigeria. “In ciascuna di queste tre vicende, invece di considerare contemporaneamente la totalità delle prove fattuali, si considera ciascun elemento di prova solo singolarmente. Per ciascuna voce viene adottata un’interpretazione alternativa, a discaricoâ€. Così si rende impossibile sanzionare le corruzioni internazionali. Queste non solo alterano la concorrenza e truccano il libero mercato nei Paesi “sviluppatiâ€, ma sono un elemento determinante per mantenere i Paesi “in via di sviluppo†sotto il giogo di élite corrotte che si impossessano delle risorse nazionali sottraendole alle loro popolazioni. Nel caso Nigeria-Opl 245, molti milioni di dollari sono stati sottratti alla nazione africana e spartiti tra personaggi politici, alti funzionari, mediatori.

Sulla vicenda nigeriana, il rapporto Ocse cita espressamente alcune delle prove raccolte dalla Procura di Milano (e non valorizzate invece né dal Tribunale che ha assolto, né dalla Procura generale che non ha voluto neppure celebrare l’appello – e che per questo viene espressamente criticata nel rapporto): i messaggi email interni all’azienda dei manager Shell il cui “linguaggio fa pensare alla corruzioneâ€; e gli strani trasferimenti in contanti in Nigeria dei soldi (1,3 miliardi di dollari) pagati da Eni per Opl 245: “Metà del denaro dell’acquisto è stato poi riciclato attraverso molteplici trasferimenti di contanti ai cambiavalute e poi distribuito, anche a un funzionarioâ€. Ma la soglia di prova richiesta dai tribunali italiani – secondo il rapporto – è troppo alta: l’applicazione delle leggi italiane “nella pratica ha portato a uno standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all’esteroâ€. E ancora: “I giudici hanno ritenuto che le società in questo caso non possano essere ritenute responsabili di corruzione all’estero, anche se il titolare della licenza aveva un accordo di corruzione con funzionari nigerianiâ€: “questa interpretazione del diritto italiano non è conforme alla Convenzione Ocseâ€.

Anche dagli Stati Uniti sono arrivate critiche. Due deputate Usa, Maxine Waters e Joyce Beatty, democratiche, rispettivamente capogruppo della Commissione finanze e della Sottocommissione per la sicurezza nazionale, la finanza illecita e le istituzioni finanziarie internazionali, nel maggio 2024 hanno chiesto al Procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, di riaprire negli States il processo a Eni e Shell, compagnie quotate alla Borsa di New York, per corruzione internazionale in Nigeria. In una lettera inviata al Dipartimento di Giustizia (Doj), sostengono che Shell ed Eni hanno avuto “un ruolo centrale in uno schema di corruzione che ha violato il Foreign Corrupt Practices Act americano, che vieta a cittadini ed enti di corrompere funzionari governativi stranieri per favorire i propri interessi commercialiâ€. Sostengono che le due compagnie con l’acquisto nel 2011 dei diritti su Opl 245 hanno fatto perdere alla Nigeria “6 miliardi di dollari di entrate future stimate, il doppio del budget annuale della Nigeria per la sanità e l’istruzioneâ€. “Le prove disponibili coinvolgono entrambe le società in uno schema che ha portato al pagamento di 1,1 miliardi di dollari in tangenti a funzionari del governo nigeriano, tra cui l’allora presidente Goodluck Jonathanâ€. Gli Stati Uniti erano già intervenuti sulla vicenda nel 2013; poi, nel 2019, “il Doj ha notificato a Eni che gli Stati Uniti avevano chiuso le indagini alla luce dell’azione penale dell’Italia sul caso, ma osservando che il fascicolo avrebbe potuto essere riaperto se le circostanze fossero cambiateâ€.

Ora sono cambiate – sostengono le due deputate. C’è stata un’assoluzione, ma con “una decisione che da allora è stata ampiamente esaminata per i timori di scorrettezze e interferenze politicheâ€. E “una verifica condotta dai rappresentanti statunitensi e tedeschi del Gruppo di lavoro sulla corruzione dell’Ocse ha rilevato che l’Italia non rispetta gli obblighi legali della Convenzione. Il Gruppo di lavoro ha citato proprio questo caso, nelle sue conclusioni, esprimendo ‘estrema preoccupazione’ per il ‘rigetto sistematico’ delle prove da parte del tribunaleâ€.

La verità processuale in Italia è stabilita: Eni e i suoi manager sono innocenti. Ora resta da stabilire, nel “processo al processo†di Brescia, qual è la verità processuale sui due pm di Milano, accusatori diventati accusati.

Data articolo: Fri, 27 Sep 2024 15:13:39 +0000

Paolo Flores d’Arcais

Paolo Flores d’Arcais, 38 anni di MicroMega

Oggi, 26 settembre 2024, esce in libreria il nuovo numero di MicroMega. L’ultimo diretto da Paolo Flores d’Arcais, che lascia la guida della rivista a Cinzia Sciuto. Perché?

Da tempo avevo deciso che al compimento di 80 anni avrei passato la direzione a Cinzia. Se si crede in una cosa che si è creata e si è consapevoli che siamo esseri finiti, bisogna preparare la transizione generazionale. Ho anche capito che ci sono cose di cui capisco intellettualmente l’importanza, ma meno esistenzialmente. Capisco per esempio che già ora è cruciale la questione ecologica. Però esistenzialmente la sento meno, perché so che nel 2050 io non ci sarò. Così, dopo 38 anni e mezzo di MicroMega, passo la mano a Cinzia. Così non correrò il rischio di fare numeri di nostalgia, che può essere una bella cosa in piccole dosi, ma non basta per fare quello che è sempre stato anche uno strumento di impegno e di lotta culturale e civile.

Com’è nata, nel 1986, MicroMega?

Avevo concluso qualche anno prima, con una certa brutalità, l’esperienza del Centro Culturale Mondo Operario, che avevo fondato e diretto su richiesta di Bettino Craxi. Me ne andai quando Craxi cambiò politica e tornò ad allearsi con la Dc e il Psi passò, come scrissi sull’Europeo, “dal progetto alle poltroneâ€. Scrissi il progetto per una nuova rivista e cercai un editore, insieme a Giorgio Ruffolo. Non ti faccio il racconto di tutti i vari rifiuti, ma alla fine trovammo Carlo Caracciolo, allora editore dell’Espresso e di Repubblica, uomo pieno di curiosità e di voglia di sperimentare. Pose come condizione che in tre anni raggiungessimo le 4 mila copie. Il primo numero ne vendette più di 7 mila, i numeri successivi 5 o 6 mila, fino al 1992 di Mani pulite in cui raggiungevamo cifre record, e ai primi anni 2000 in cui alcuni numeri sfiorarono addirittura le 100 mila copie.

Era una rivista-libro, prima trimestrale e poi bimestrale. Un “mattoneâ€.

Che era “un mattone†lo dissi fin dalla presentazione del primo numero: volevamo che fosse una rivista di riflessione e di approfondimento, con grossi saggi. Eugenio Scalfari, che era in prima fila, sussurrò che, come tutti i mattoni, sarebbe andato a fondo dopo i primi tre numeri. Al quarto numero, io e mia moglie Anna ci bevemmo una bottiglia di champagne.

Quali erano i punti essenziali del tuo progetto?

Il primo era dare voce al dissenso nel mondo comunista. Avevo molti legami con il dissenso in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria, in Russia. Questo ci mise in contrasto con il Pci, che anche con l’eurocomunismo di Enrico Berlinguer non spezzò del tutto i legami con l’Unione Sovietica. Ci occupavamo anche del dissenso in Cina e a Cuba. E questo non piaceva alla sinistra extraparlamentare e al Manifesto. Ho fatto grandi litigate, su questo punto, con Rossana Rossanda. Il secondo punto era il dialogo con il Pci. Sempre con un atteggiamento critico: da una parte non rompeva del tutto con l’Urss, dall’altra, era super-accomodante sulla politica economico-sociale e aveva perso ogni radicalità nell’impegno per l’eguaglianza sociale. In uno dei primi numeri dialogammo con Alessandro Natta, il successore di Berlinguer. Poi con Massimo D’Alema, che pretese non di migliorare lo stile delle sue dichiarazioni, ma di cambiare i contenuti della sua parte di dialogo (per esempio le critiche durissime all’allora segretario della Cgil Sergio Cofferati): uscimmo con delle pagine bianche. Il terzo punto, dopo il 1992 di Mani pulite e delle stragi di Capaci e via D’Amelio, è stato la difesa di Mani pulite e l’antimafia.

MicroMega è diventata allora “l’organo delle Procure†di Milano e Palermo, dei “giustizialistiâ€, dei “manettariâ€.

Così dicevano i nostri avversari. Li considero ancora oggi titoli di merito. Abbiamo dato grandissimo spazio ai magistrati di Milano e di Palermo, con molti di loro si sono stabiliti dei rapporti d’amicizia. Abbiamo difeso il meglio dell’Italia in quegli anni, l’Italia di Francesco Saverio Borrelli, di Antonino Caponnetto, di Gian Carlo Caselli, della giustizia davvero uguale per tutti.

MicroMega ha fatto della laicità una delle sue bandiere.

Siamo stati rigorosamente laici, anzi direi spesso esplicitamente atei. Ma questo non ci ha impedito di dialogare con la Chiesa, con vescovi e cardinali, da Dionigi Tettamanzi ad Angelo Scola, da Julián Herranz a Matteo Zuppi, e anche con un teologo che poi divenne papa, Joseph Ratzinger. 

In questi 38 anni e mezzo, ti sei fatto molti nemici. E MicroMega non ha fatto solo dibattito culturale, ma anche azione politica.

Tutti i nemici di Mani pulite hanno detestato MicroMega. Abbiamo avuto un ruolo cruciale anche nella candidatura a leader del centro-sinistra di Romano Prodi: nel 1995 gli domandai un saggio che potesse essere un suo programma di governo. Poi divenne un libro che in campagna elettorale vendette quasi 200 mila copie. Mi chiese di candidarmi con l’Ulivo nel 1996, io gli risposi che avrei accettato solo se mi avesse indicato come ministro della Giustizia. Ma aveva già scelto Giovanni Maria Flick. Gli dissi che avrebbe dovuto indicare lui la metà dei candidati, scelti dalla società civile: ma i partiti gliene lasciarono solo cinque su un migliaio.

Poi vennero i Girotondi.

Antefatto. Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel 2002 pronunciò il discorso del “Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piaveâ€. Nel numero speciale per i dieci anni di Mani pulite pubblicammo un dialogo tra lui e l’allora più importante scrittore italiano, Antonio Tabucchi. Poi ci fu una clamorosa marcia a Firenze contro il berlusconismo lanciata da due professori, Paul Ginsberg e Pancho Pardi. Infine il comizio del Pd in piazza Navona con la presenza di Francesco Rutelli, Massimo D’Alema e Piero Fassino, in cui fu incautamente data la parola a Nanni Moretti. Disse: “Con questi dirigenti non vinceremo mai†e consigliò di candidare Pancho Pardi. In questo clima, quando presentammo il numero speciale di MicroMega, in una manifestazione con l’aiuto di Emilia Cestelli dalla Chiesa e Simona Peverelli, arrivarono al Palavobis di Milano 15 mila persone e altre 30 mila restarono fuori. I Girotondi continuarono le loro manifestazioni. Il culmine fu la grande manifestazione del 14 settembre 2002 in piazza San Giovanni a Roma. Il nome lo diede mia moglie Anna mentre faceva gli spaghetti: “Una festa di protestaâ€. Arrivarono centinaia di migliaia di persone, fu una delle manifestazioni più imponenti del dopoguerra.

Una delusione, un’autocritica?

Non essere riusciti a organizzare quella sinistra sommersa su cui MicroMega aveva puntato fin dalla sua nascita. L’abbiamo lasciata disperdere, finché l’incazzatura della gente è stata sequestrata, a suo modo, dieci anni dopo, da Beppe Grillo. Il Vaffa al posto di Giustizia e libertà.

Data articolo: Thu, 26 Sep 2024 15:51:49 +0000

Paolo Flores d’Arcais

MicroMega, quella volta che arrivò la censura

Questo saggio di Gianni Barbacetto è stato pubblicato sul numero 5/2024 di MicroMega, l’ultimo diretto da Paolo Flores d’Arcais, che passa la mano a Cinzia Sciuto

MicroMega è un laboratorio. In questi anni ha elaborato riflessioni sul passaggio della società, della politica, della cultura dal Novecento al nuovo millennio. Dal 1986 a oggi ha distillato pensiero, ricerca, informazione, sull’Italia e sul mondo. È stata anche il mio laboratorio. Gli articoli che Paolo Flores d’Arcais mi ha chiesto di scrivere in questi anni per MicroMega sono stati per me l’occasione preziosa per ricercare, investigare, studiare, approfondire, sviluppare temi e argomenti. Soprattutto sui sistemi criminali italiani, quello della corruzione politica e dei suoi rapporti con le mafie e quello dell’eversione nera e dei suoi rapporti con gli apparati dello Stato. Mi ha dato l’occasione di fare un salto dalla dimensione dell’articolo giornalistico a quella dell’inchiesta ampia e approfondita, dello studio sistematico. Molti degli articoli da me scritti per MicroMega sono poi diventati il materiale da cui sono nati libri che ho pubblicato, sulla corruzione e sull’eversione, o comunque sono stati lievito da cui quei libri hanno preso forma.

Devo scusarmi per il racconto in prima persona, ma è obbligato dai fatti che vorrei raccontare e che mi rendono orgoglioso di aver fatto parte della ciurma di MicroMega. Quest’avventura per me è iniziata nel 1991, quando Paolo mi chiese un articolo-saggio sulla corruzione a Milano. Io ero un giovane giornalista all’inizio della mia storia professionale e fui onorato della proposta: il mio saggio sarebbe stato inserito in una sezione della rivista intitolata “Eclissi di una capitaleâ€, accanto agli interventi di Giorgio Bocca, Corrado Stajano, Guido Martinotti, Silvia Giacomoni, Enrico Regazzoni, Giuseppe Gavioli, Aldo Bonomi e Sergio Scalpelli. Allora lavoravo al settimanale economico Il Mondo, avevo però diretto un piccolo mensile milanese fondato da Nando dalla Chiesa, Società civile, e avevo appeno scritto, insieme a Elio Veltri, il mio primo libro, Milano degli scandali (Laterza), con una coraggiosa prefazione firmata da Stefano Rodotà.

L’articolo per MicroMega fu scritto, consegnato, letto e approvato da Paolo Flores. Ma quando era già in bozze, fu bloccato (per la prima e unica volta nella storia della rivista): da un veto inappellabile di Giorgio Ruffolo, allora direttore della rivista insieme a Paolo Flores d’Arcais, nonché ministro (socialista) dell’Ambiente fino al giugno 1992. Flores era assolutamente contrario alla censura, ma allora vigeva una diarchia in cui i due direttori avevano uguali poteri, di scelta e di veto.

Che cosa diceva, quell’articolo censurato? Alla vigilia dell’inchiesta Mani pulite, dunque prima che fosse scoperto il sistema di Tangentopoli, allineava una serie di fatti che infrangevano l’immagine dorata della “Milano da bereâ€. E concludeva che sì, “Milano è davvero malataâ€: “La capitale dell’industria, della finanza, del terziario, della comunicazione, della tv commerciale, della moda, del design, la ex capitale morale del Paese, si è scoperta corrotta dall’alleanza perversa tra affari e politica e si è ritrovata infiltrata dalla mafia dell’eroina e del racket, dell’edilizia e delle cene elettorali con gli uomini dei partitiâ€.

Segnalava un “allarme rosso†per Milano, a rischio corruzione. E raccontava un “settembre neroâ€, quello del 1991. Nel giro di poche settimane, in città va a fuoco un bar in via Varesina; viene assaltato a colpi di pistola il commissariato di polizia di Porta Romana; viene bruciato il deposito centrale della Standa (allora di Silvio Berlusconi); viene ucciso un giovane siciliano, l’ennesimo morto ammazzato di una guerra silenziosa e apparentemente incomprensibile; viene arrestato il finanziere milanese Giuseppe Lottusi, grande appassionato di cavalli e grande riciclatore di denaro sporco per conto dei Madonia di Resuttana, famiglia importante di Cosa nostra, e gli inquirenti scoprono che uno dei terminali dei suoi traffici era una struttura pubblica comunale, l’Ortomercato di Milano.

L’opinione pubblica cittadina comincia ad accorgersi che qualcosa si è spezzato, nella narrazione di Milano, quando i magistrati scoprono che in Comune funzionava un “assessorato ombra†che rallentava o accelerava a suon di tangenti le pratiche edilizie. Cinque arresti. Intanto era in corso, non senza colpi di scena, il processo Duomo connection, che per la prima volta aveva certificato la presenza di Cosa nostra a Milano. Il sindaco socialista Paolo Pillitteri però dichiarava: “Milano non è Palermoâ€. Il ministro Psi Claudio Martelli aggiungeva: “Se davvero l’Italia avesse la situazione di criminalità che c’è a Milano, saremmo tutti in un’isola feliceâ€. Il comunista Gianni Cervetti dava la sua spiegazione tranquillizzante: “È in corso una speculazione politicaâ€.

Mancavano pochi mesi all’inizio di Mani pulite: questo ancora nessuno poteva saperlo. L’articolo però ricostruiva il clima in città e ricordava i passati allarmi, nel bel mezzo della Milano da bere, arrivati da personaggi come Piero Bassetti, quando da presidente della Camera di commercio di Milano dichiarava: “Ho l’impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca. Secondo come organizzi il metodo, organizzi il furtoâ€. E Antonio Ballarin, allora segretario provinciale della Democrazia cristiana: “Oggi i politici onesti sono costretti ad accettare o perlomeno a convivere con il costume della tangente per poter reggere la concorrenza dei politici disonestiâ€. E ancora, il presidente dell’Ordine degli architetti di Milano Demetrio Costantino: “Vi sono professionisti che io chiamo architetti da riporto, perché il loro compito non è disegnare dei bei palazzi, ma portare al cliente la licenza edilizia approvata, è questa la loro specialitàâ€.

In quella vigilia di Mani pulite, chi guardava la città con occhi disincantati si rendeva conto che la narrazione non corrispondeva alla realtà. Non solo qualche giornalista attento e indipendente, ma anche persone con incarichi pubblici come l’allora vicepresidente di Confindustria e patron di Artemide, Ernesto Gismondi, che dichiarava: “Milano non sarà Palermo, ma è una città a rischioâ€. E Aldo Fumagalli, allora presidente dei giovani della Confindustria, che denunciava “la stretta connessione esistente tra cattiva politica, sconfitta della cultura dell’impresa e del mercato, penetrazione del modello mafioso, indebolimento della democraziaâ€.

La politica invece non vedeva e non voleva vedere. I politici conoscevano eccome il sistema sotterraneo di finanziamenti illeciti che sarà scoperto pochi mesi dopo. Ma non potevano ammettere la “patologia di Milanoâ€. La riducevano, tutt’al più, “a singoli episodi riprovevoli ma in qualche modo fisiologici dentro un sistema sostanzialmente sanoâ€. Si leggeva, in quell’articolo per MicroMega: “Lo scontro sulla definizione di Milano è una battaglia eminentemente politica. È cruciale per la sorte di questa politica. La reazione degli uomini dei partiti non è solo sovrapposizione tra ragioni del buon senso e strumentalità politica (gli altri ci attaccano per un loro tornaconto di partito). Non è solo autodifesa di ceto (la corruzione politica esiste, ma non è generalizzata). Non è solo disputa nominalistica sul nome della cosa (è mafia o non è mafia la criminalità che prospera a Milano?). Non è solo il triste revival della vecchia miopia colpevole dei politici siciliani negli anni Sessanta (‘La mafia a Milano non esiste’). Un vecchio, storico titolo dell’Espresso segnalava con una formula diventata famosa il rapporto tra la capitale e il Paeseâ€: capitale corrotta, nazione infetta.

“Ebbene quel rapporto è oggi tanto più stretto per Milano capitale italiana della produzione e della comunicazione. Il Paese vive una profonda crisi. Il debito pubblico schiaccia le finanze dello Stato, i servizi e le grandi rete reti sono a un livello d’efficienza infinitamente più basso che nei Paesi dell’Occidente, la criminalità organizzata occupa quattro regioni, il sistema dei partiti è incapace di trovare soluzioni efficaci di governo. Insomma Roma, per ciò che questo nome significa nella concretezza politica e nell’immaginario sociale, è pesantemente sotto accusa. Mantenere Milano in qualche modo fuori da tutto ciò, diversa se non proprio indenne, significa per il ceto politico dislocare la crisi in un altrove che salva ancora il cuore del sistema. Accettare il fatto che Milano sia come il resto del Paese, di contro, significherebbe dover ammettere una irrimediabile crisi di regime, la bancarotta di una nomenklatura. E Milano è come il resto del Paeseâ€.

Seguiva un’analisi dei legami tra mafia e politica messi in luce dall’inchiesta Duomo connection, sviluppata da Giovanni Falcone e Ilda Boccassini. “Questa ha svelato una rete di rapporti e di amicizie pericolose tra amministratori e imprenditori dell’illecito, che prefigurano quel clima di collusioni che rende la mafia potente al Sud. A giudicare da molti segnali, sembra che a Milano i rapporti siano ancora per lo più inconsapevoli, le complicità non volontarie. Ma questo potrebbe essere solo il primo atto della tragediaâ€.

“La posta in gioco del filone politico della Duomo connection (che nel filone mafioso vede la presenza di personaggi di primo piano come Antonino Zacco, uno dei responsabili della più grande raffineria di eroina mai scoperta, quella di Alcamo) è infatti la concessione di licenze edilizie a Milano e nell’hinterland al gruppo di Toni Carolloâ€, uomo delle famiglie siciliane trapiantato al Nord. Il processo era ancora in corso, le responsabilità penali ancora da definire, ma certo era già visibile una vicinanza, una commistione tra uomini della politica e uomini delle cosche, in un balletto “delle licenze da concedere, delle pratiche da spingere, dei favori da chiedere, delle ruote da ungereâ€.

Dopo aver chiaramente sottolineato che i contatti erano o potevano essere inconsapevoli, l’articolo allineava i personaggi a vario titolo coinvolti: un sindaco di Milano, un ex assessore all’Urbanistica, una dirigente socialista, un capologgia massone, un presidente del Coreco, il sindaco socialista di un Comune dell’hinterland milanese, un avvocato diventato politico democristiano. E poi: un segretario locale del Psi che organizza una cena elettorale per 300 invitati, con conto pagato da Gioacchino Matranga, condannato a 7 anni al maxiprocesso di Palermo e a 20 a Milano per traffico di cocaina, che aveva offerto un pacchetto di voti al Psi. E ancora: un assessore regionale socialista i cui spot elettorali erano andati in onda negli spazi televisivi comprati da uno degli imputati della Duomo connection. Negli uffici di quest’ultimo, era stato trovato anche materiale di propaganda elettorale di un altro importante candidato del Psi.

Nessun reato, nessuna prova di consapevolezza (le condanne in primo grado saranno poi annullate, solo per i colletti bianchi, dalla Cassazione), ma molti segnali di pericolo, per una “fitta e pasticciata rete di rapporti a rischio che al di là delle responsabilità penali dovrebbe almeno preoccupare gli uomini dei partiti, metterli in allarme. Un allarme che i politici milanesi invece non hanno mostrato di recepireâ€.

Dopo la bocciatura da parte di Ruffolo dell’articolo che conteneva quello fin qui riportato, arrivano le dimissioni di un ben più autorevole collaboratore di MicroMega, Corrado Stajano: “Caro Paolo, mi chiedi per il prossimo numero un articolo su Psi, Craxi, craxismo, clima degli anni Ottanta. Sono molto imbarazzato dopo la censura dell’articolo di Gianni Barbacetto sui rapporti tra politica e criminalità a Milano: il mio articolo potrebbe avere infatti la stessa fine. Capisco che Ruffolo difenda le sue ragioni di partito che non sono le ragioni della sinistra, ma in questo modo non si fa davvero un passo in avanti… E allora viene a mancare anche la ragione di far parte del consiglio di redazione di MicroMega. Ti prego perciò, con molto dispiacere, di togliere il mio nome dell’elenco dei consiglieri di redazione della rivistaâ€.

La risposta di Paolo Flores d’Arcais fu limpida: “Carissimo Corrado, insisto nel proporti un articolo per la rivista… Per evitare che in futuro dei veti (da parte di chiunque) possano creare situazioni di stallo, in caso di controversie la decisione verrà presa a maggioranza in un comitato di redazione formato dai due direttori e dal redattore capo (Lucio Caracciolo). Questo varrà per ogni articolo, da quello di un principiante a quello di un premio Nobel… Sul caso Barbacetto concordo pienamente con te. Ma questo già lo sai. Ho giudicato e giudico il suo un ottimo lavoro del tutto degno di pubblicazioneâ€.

I titoli di coda di questo film. Ruffolo si disse disponibile a spiegarmi i motivi della sua censura, ma la spiegazione non arrivò. La sua promessa di incontrare Stajano non fu mantenuta. In seguito, Ruffolo abbandonò la direzione della rivista, che restò nelle mani di Paolo. Stajano riprese la collaborazione con MicroMega. Il 14 febbraio 1992 fu arrestato a Milano Mario Chiesa e iniziò l’inchiesta Mani pulite. Un mio saggio sul Sistema Milano fu pubblicato in uno dei numeri successivi di MicroMega. Ogni riferimento a fatti avvenuti a Milano non nel 1991, ma oggi, è (forse) puramente casuale.

Data articolo: Thu, 26 Sep 2024 15:28:12 +0000

Regione Piemonte

A Torino la sagra del Corpo, il campo Hobbit della Generazione Z (paga la Regione)

Correte ragazzi alla sagra del Corpo, alla fiera dei Balilla 2.0, al campo Hobbit della generazione Z: a spese della Regione. Lasciate i Murazzi, infestati dalla sinistra torinese, e venite al “Giovani Adulti Festival†che si svolge a Torino da oggi al 27 settembre con finanziamento regionale e con tema “il Corpoâ€: “Uno spazio per la carne, il sangue e ovviamente l’animaâ€, promettono gli organizzatori.

Rivolto gramscianamente ai ragazzi delle scuole, propone utilissimi laboratori di kung fu, di autodifesa, di arti marziali e imperdibili incontri dal titolo “Maschi contro femmineâ€, o “Scuola di Cavalleriaâ€, con ospite Francesco Borgonovo. Non perdetevi “La guerra spiegata ai ragazziâ€, ma spiegata bene, da Renato Daretti, presidente dell’Associazione nazionale Incursori dell’Esercito: un esperto del ramo. Il mio preferito è però il “workshop di armi medievaliâ€.

Grande folla è attesa per l’incontro su “Anima e corpoâ€, tenuto da don Ambrogio Mazzai, “l’influencer con la tonacaâ€, la star di Tiktok che predica che la masturbazione è come la droga “perché dà dipendenza†e paragona l’aborto allo “sterminio di massaâ€. Ci sarà anche street food e dj set, ma il culmine sarà il talk serale “Il Corpo della Nazioneâ€, confronto a più voci (!) tra Maurizio Belpietro, Francesco Borgonovo e Francesco Giubilei: sarà un corpo a corpo.

Il “corpo della musica†sarà quello del direttore Beatrice Venezi, mentre “il corpo della lingua†(quale?) sarà quello corposo di Giuseppe Cruciani. A organizzare l’iniziativa è un’associazione dal nome tenero, “Fiori di Ciliegioâ€, guidata a corpo morto dal consigliere metropolitano di Fratelli d’Italia Davide D’Agostino. A finanziarla è l’amico Maurizio Marrone, black boy della Giunta Cirio e immarcescibile assessore regionale al Welfare, con in tasca la tessera di Fratelli d’Italia e in corpo l’amicizia con gli ultrà della destra di Alleanza Cattolica. Non esibisce più l’amicizia con la Russia di Putin, ma continua a sventolare la vittoria antiabortista: la pillola Ru486 fuori dai consultori del Piemonte.

Ha dato ai Fiori di Ciliegio un contributo di 100 mila euro, presi dal capitolo di spesa dedicato a “famiglie e minori, tutela materno-infantile, persone anziane e disabili, altri soggetti in condizioni di fragilitàâ€. Insomma ha tolto soldi dal budget per l’assistenza, le famiglie, i minori e i disabili, nella Regione che non ha voluto pagare i voucher per i libri di scuola a oltre 62 mila famiglie che ne avevano diritto.

Data articolo: Thu, 26 Sep 2024 10:25:46 +0000

Stadio

Stadio di San Siro. Il giocatore di poker e la partita senza fine

Che differenza c’è tra un sindaco e un giocatore di poker? Lo si capisce esaminando la storia infinita dello stadio di San Siro. Un sindaco tiene fermo l’interesse generale della sua città e tratta con gli investitori privati, forte della sua posizione di amministratore per conto dei cittadini. Così la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, al proprietario del Paris Saint Germain, il qatariota Nasser al-Khelaïfi, che chiedeva di comprare dal Comune di Parigi lo stadio Parc des Princes a 38 milioni di euro, ha risposto di sentirsi offesa per l’offerta economica: “Dunque il nostro stadio varrebbe meno di Leandro Paredes (calciatore del Paris oggi alla Roma) o meno dei 200 milioni che il Paris ha pagato per un singolo calciatore (Neymar jr.)?â€.

Un giocatore di poker, invece, si siede al tavolo, rischiando di subire i bluff e di perdere molto di quello che punta, o tutto. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala sta giocando da cinque anni (cinque anni!) una partita a poker su San Siro con i rappresentanti di Milan e Inter, cedendo ogni volta ai loro bluff e puntando fiches (lo stadio Meazza, i terreni attorno, un possibile sviluppo immobiliare milionario) che non sono sue, ma dei cittadini milanesi.

La partita è degna di un film di George Clooney o di Paul Newman e Robert Redford, ma purtroppo senza il fascino di quei protagonisti. In questi anni è successo di tutto. Dapprima i due club hanno tentato la stangata: abbattere il Meazza (la “Scala del calcioâ€, di proprietà del Comune) e costruire al suo posto uno stadio nuovo più piccolo infarcito di posti vip, ma soprattutto un grattacielo a uffici e un centro commerciale urbano, il più grande d’Europa. Cementificazione su terreni comunali e ad altissimo indice di edificabilità (0,70).

Sala, che non è Hidalgo, invece di alzarsi dal tavolo indignato e offeso, subisce il primo bluff: la minaccia delle squadre di abbandonare il Meazza e andare a costruire il loro stadio altrove (con soldi che i due club proprio non hanno). Le proteste dei cittadini, la nascita dei comitati, la proposta di un paio di referendum riescono almeno a ridurre il cemento e abbassare l’indice di edificabilità (prima a 0,51 poi a 0,35).

Infine la Soprintendenza ai beni artistici ribadisce quello che tutti sanno, e cioè che il secondo anello del Meazza nel 2025 compirà settant’anni e dunque scatterà il vincolo di legge che ne impedisce l’abbattimento. Il giocatore di poker, che fino a un minuto prima era favorevole alla demolizione, di colpo scopre la bellezza della “Scala del calcio†e propone alle squadre di ristrutturare il Meazza, secondo un progetto preparato dagli amici di Webuild. I due club (ormai la loro proprietà è di due fondi speculativi Usa) continuano il bluff: dicono di volere due stadi, il Milan a San Donato e l’Inter a Rozzano. Ma poi aprono all’ipotesi ristrutturazione, volendo però la proprietà dello stadio e soprattutto un grattacielo o due, cioè l’operazione immobiliare attorno allo stadio.

Da ultimo, il giocatore di poker invita al tavolo anche la rappresentante della Soprintendenza e questa cede: forse si può abbattere almeno una parte del secondo anello, se la proprietà del Meazza diventa in fretta privata; però “i club devono farsi amare dalla cittàâ€: dal vincolo artistico si passa al vincolo erotico. Invece di incassare, le due squadre rilanciano: vogliamo due stadi e forse vogliamo costruirne uno nuovo vicino al Meazza. Il giocatore di poker continua a subire il bluff: “Preferisco non parlare finché non c’è qualcosa di concretoâ€.

Mai vista una vicenda così incredibile, in cui gli interessi privati di due fondi americani, che puntano a “valorizzare†i loro asset per poi vendere le squadre, dettano l’agenda di una pubblica amministrazione. Interessi dei cittadini, valorizzazione dei beni del Comune, tutela delle aree verdi, coinvolgimento del Consiglio comunale, gara internazionale per scegliere le soluzioni migliori: tutta roba sconosciuta al giocatore di poker.

Data articolo: Thu, 19 Sep 2024 19:37:34 +0000

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