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#news #Potere #Popolo
20 novembre ore 18:00 Isola pedonale Via Flavio Stilicone
La nuova legge di bilancio presentata dal governo Meloni risponde alla logica del riarmo e alla scelta di dirigere il nostro Paese verso un’economia di guerra.
Mentre salari e pensioni continuano a perdere potere d’acquisto, crescono disuguaglianze, precarietà e lavoro sottopagato; il costo della vita aumenta, il diritto alla casa, all’istruzione e alla sanità pubblica non sono garantiti.
Nonostante ciò, il governo continua a investire nelle spese militari, nel riarmo europeo e a sostenere il genocidio del popolo palestinese.
Le mobilitazioni di settembre a sostegno della Palestina hanno mostrato che sempre più persone si rifiutano di essere complici di queste scelte scellerate, rifiutando la linea del governo Meloni e delle finte opposizioni che, insieme all’Unione Europea e alla NATO, ci spingono verso un futuro di guerra e ingiustizia: serve rompere con Israele, con il sionismo e con il genocidio, vogliamo la Palestina libera!
Dai quartieri popolari diciamo chiaramente che serve un’alternativa!
Ogni giorno vediamo scuole che cadono a pezzi, università senza fondi, sanità sempre più privatizzata, mezzi pubblici inadeguati, affitti insostenibili e sfratti all’ordine del giorno.
Mentre i servizi essenziali vengono tagliati, il denaro pubblico viene dirottato verso la guerra e gli interessi dei privati.
È in corso un processo che, attraverso le politiche di riarmo, tenta di militarizzare l’intera società , aggravando il peggioramento delle condizioni di vita.
A Cinecittà , dove alle nostre spalle sorge la base militare del COVI (comando operativo di vertice interforze), questo lo sappiamo bene: nel cuore di un quartiere popolare dove mancano fondi e servizi troviamo ancora luoghi legati alla filiera bellica. Vogliamo la guerra fuori dai nostri quartieri e pretendiamo che le risorse vengano destinate a spese sociali, non a quelle militari.
Mentre il governo e le false opposizioni si schierano dalla parte della guerra e del genocidio, nei quartieri popolari mancano ospedali, scuole, trasporti e case popolari. Situazione peggiorata ulteriormente dal modello Giubielo e dalla giunta Gualtieri, che hanno scelto di svendere la città a speculatori, palazzinari e turisti ignorando le necessità di chi la vive, e per cui diciamo chiaramente che vogliamo un consiglio comunale aperto in cui portare le rivendicazioni di chi lotta nei territori, di chi li abita, e di chi vive questa città .
Noi non ci stiamo, siamo pronti ancora a bloccare tutto. Dai quartieri popolari organizziamo l’opposizione al governo Meloni e alle finte opposizioni, contro la finanziaria di guerra, e il genocidio in Palestina per mettere al centro le necessità di chi lavora, studia e abita in questo paese!
Ci vediamo il 20 novembre alle ore 18:00 all’isola pedonale di Via Flavio Stilicone per un’assemblea pubblica e per partire in corteo. Blocchiamo le basi militari nei quartieri popolari, organizziamo insieme l’opposizione in quartiere, in città e in tutto il paese, scioperiamo il 28 novembre e scendiamo tutti e tutte in piazza per la manifestazione nazionale del 29 novembre alle 14:00 a Porta San Paolo.
Aderiscono:
USB federazione Roma
Asia USB
Movimento per il diritto all’abitare
Potere al Popolo Roma
OSA Roma
Cambiare Rotta Roma
L'articolo [ROMA] BLOCCHIAMO LE BASI MILITARI NEI QUARTIERI POPOLARI. ASSEMBLEA PUBBLICA TERRITORIALE E CORTEO proviene da Potere al Popolo.
La concomitanza tra la manifestazione nazionale di Roma e la mobilitazione “No Ponte†a Messina non è una casualità . È la fotografia di una crisi sistemica che sta esplodendo su fronti diversi ma collegati. Questo doppio appuntamento è un’occasione politica per chi vuole trasformare la protesta in un progetto di potere popolare.
La lotta contro il Ponte non può essere ridotta solamente a una questione ambientale o localistica, perchè rappresenterebbe un errore strategico. Il Ponte è l’emblema del neocolonialismo interno che oggi assume la forma del neoliberismo.
Spreco di risorse pubbliche in Grandi Opere mentre crollano la sanità e la scuola.
Devastazione ambientale a beneficio delle lobby del cemento e della finanza.
Attacco di classe che, sotto la retorica del “declino demograficoâ€, maschera la cancellazione dei servizi e la precarizzazione di massa.
A questo si aggiunge un pericolo concreto e strutturale: l’infiltrazione mafiosa. Come dimostra il precedente dell’asse Salerno-Reggio Calabria, le Grandi Opere sono un moltiplicatore di corruzione e un banchetto per le cosche, che attraverso appalti, subappalti e controllo del territorio si arricchiscono e consolidano il loro potere. Il Ponte sullo Stretto, con i suoi miliardi di euro, rappresenta il massimo bottino possibile.
È lo stesso modello che produce la Legge di Bilancio della Meloni: una macchina da guerra sociale che taglia i redditi dei poveri, finanzia i profitti dei ricchi e regala miliardi all’industria bellica, mostrando il volto autoritario e razzista di questo sistema.
Il “filo rosso†che unisce Messina a Roma, e la lotta No Ponte alla solidarietà con la Palestina, è la consapevolezza che stiamo combattendo lo stesso sistema.
Il capitalismo che devasta lo Stretto è lo stesso che bombarda Gaza.
Il riarmo della NATO e il sostegno al sionismo sono due facce della stessa medaglia: la crisi di un sistema che cerca profitto nella guerra e nel genocidio.
Le complicità del governo Meloni con il massacro dei palestinesi svelano gli stessi appetiti speculativi delle lobby immobiliari, pronte a “ricostruire†ciò che le bombe hanno distrutto, esattamente come fanno con i territori italiani.
Non è una coincidenza, ma un modello di business. Le stesse grandi aziende italiane di costruzioni e ingegneria (come Webuild, già Salini Impregilo, leader del consorzio per il Ponte) sono in prima fila nei progetti di “ricostruzione” a Gaza, pronti a trasformare un genocidio in un’opportunità di profitto. È la “shock economy” in azione: si sfrutta la devastazione di un territorio, sia essa causata da una bomba o da una decisione politica, per aprire nuovi mercati e intascare soldi pubblici.
Come denuncia l’appello “Blocchiamo Tuttoâ€, siamo di fronte a un “modello di sviluppo fondato sulle grandi opere, sul riarmo, sullo sfruttamento”, un modello che non si può riformare, ma che deve essere fermato e smantellato. La guerra in Palestina, le Grandi Opere, la finanziaria di guerra sono anelli della stessa catena. Non viviamo la stessa tragedia, ma abbiamo gli stessi nemici: il capitale, il fascismo, il riarmo, il sionismo.
La lotta contro il ponte continua a rappresentare la capacità del mezzogiorno di proporre all’intero paese un modello sociale e produttivo diverso per esso, che garantisca lavoro sicuro e onesto, servizi pubblici di qualità , che rendano certi ed esigibili il diritto all’acqua, alla salute, alla scuola.
La lezione di Gramsci è più attuale che mai: il vero conflitto non è Nord contro Sud, ma tra chi subisce il modello di sviluppo capitalista e chi ne trae profitto. Il Mezzogiorno è stato storicamente una colonia interna sfruttata dall’alleanza tra il capitale del Nord e i poteri locali.
Oggi, adottando una prospettiva di classe, la lotta per il territorio diventa lotta per un Piano Pubblico e Popolare che blocchi le Grandi Opere inutili e destini quelle risorse a sanità , scuola, trasporti, salari e pensioni,  che socializzi i settori strategici, togliendoli dalla logica del profitto e che riconverta l’industria bellica in un sistema produttivo al servizio dei bisogni sociali.
La sfida di queste giornate è dimostrare che esiste un’alternativa di sistema. Non ci accontentiamo di protestare; vogliamo cambiare tutto!
Dobbiamo affermare la necessità di unire tutte le lotte: dai movimenti No Ponte ai sindacati di base in sciopero, dai comitati per la casa ai movimenti che lottano contro la devastazione ambientale e sociale della speculazione energetica fino ai movimenti che lottano per la Palestina libera.
L’obiettivo è costruire un blocco sociale antagonista in grado di unire il proletariato metropolitano, le periferie, il Sud e tutti gli sfruttati, per rovesciare l’attuale rapporto di forza e imporre un programma che metta al centro la vita, la pace e i diritti, e non il profitto di pochi.
Per queste  ragioni Potere al Popolo parteciperà alla manifestazione No Ponte del 29 novembre a Messina.
Dallo Stretto a Roma, un solo filo rosso: blocchiamo tutto, per cambiare tutto!
L'articolo DA ROMA ALLO STRETTO DI MESSINA: UN SOLO FILO ROSSO CONTRO LA DITTATURA DEL CAPITALE proviene da Potere al Popolo.
Nella primavera del 2026 si svolgerà il Referendum Confermativo sulla legge “Nordioâ€, cioè sulla legge costituzionale del Governo Meloni che fa cambiato le regole interne alla magistratura. Noi di Potere al Popolo votiamo e invitiamo a votare NO per queste ragioni:
1) Questa non è una riforma della giustizia, ma solamente un cambiamento nel sistema di carriere e autogoverno della magistratura. Noi riteniamo necessario che in Italia si garantiscano effettivi diritti alle persone, in primo luogo alla grande maggioranza che non può permettersi di spendere montagne di soldi per accedere alla giustizia o per avere giustizia. Questo significa cambiare le leggi che puniscono i migranti, i poveri, i lavoratori, questo significa abolire i decreti sicurezza e la Bossi Fini. Questo significa investire risorse per permettere l’accesso gratuito ai tribunali di chi denuncia sfruttamento e violenze per le persone e devastazione per l’ambiente. Questo significa applicare l’articolo 3 della Costituzione per rimuovere quella giustizia debole coi forti e forte coi deboli che si sta affermando nei fatti. La legge Nordio non fa nulla di tutto questo, chiunque la presenti come una riforma della giustizia imbroglia.
2)  Il risultato più esaltato della legge Nordio è la separazione delle carriere tra i magistrati che fanno le indagini, i pubblici ministeri, e i magistrati che emettono le sentenze, i giudici. Come al solito quando in Italia si fa una “riforma†si annuncia: facciamo come gli Stati Uniti. Questo americanismo nella giustizia sicuramente non porta nulla di buono, visto che se c’è al mondo una giustizia di classe dove decidono i soldi, è quella degli USA. In concreto la separazione delle carriere in Italia a riguarda poche decine di magistrati su migliaia, perché allora tanto clamore? Perché con la separazione in proprio sistema dei pubblici mi isteri, questi diventerebbero dei super poliziotti. E alla fine sarebbero sicuramente soggetti al controllo del potere politico e di quello economico ad esso collegato. Non è vero? E allora perché tutti gli esponenti di governo che esaltano la legge Nordio partono dalle presunte “persecuzioniâ€Â che avrebbero subìto Berlusconi e i politici, dalla bocciatura del Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei Conti, dalle indagini della magistratura sul Sistema Milano? È proprio la propaganda a favore della Legge Nordio a chiarire le reali intenzioni di chi l’ha voluta e cioè sottoporre la magistratura al potere politico in modo che non osi disturbare il manovratore.
3)   Ancora più grave sul piano della democrazia è l’eliminazione del diritto dei magistrati a eleggere liberamente i propri rappresentanti nel CSM. D’ora in poi i rappresentanti dei magistrati negli organi di autogoverno sarebbero estratti a sorte e non più eletti. Solo il corporativismo fascista, per il quale nessuna forma di democrazia è ammessa nelle strutture delle Stato, può dare origine ad una tale controriforma, non solo nemica delle libertà  dei magistrati, ma di quelle di tutti. L’elezione del CSM è stata una conquista della stagione delle grandi riforme democratiche degli anni sessanta e settanta. L’abolizione del diritto al voto per i magistrati fa parte del modello aziendalista con cui si distrugge la democrazia. In più nel CSM resterebbe la quota di membri di nomina politica. Quindi la politica ufficiale potrebbe inserire i suoi esponenti nel CSM, mentre ai magistrati sarebbe vietato scegliere democraticamente i propri rappresentanti. Una ulteriore subordinazione della giustizia agli interessi di chi comanda.
4) Il governo Meloni, il mondo politico e mediatico berlusconiano, liberali e centristi anche del PD, sono a favore della legge Nordio. Per essi questa legge è parte di un pacchetto di controriforme neoliberali che vorrebbero smantellare ciò che resta della Costituzione antifascista. L’autonomia differenziata, il premierato, leggi elettorali sempre più truffaldine, norme da stato di polizia, sono tutte parte un sistema autoritario che il Governo Meloni vuole imporre nel nome della libertà d‘impresa e dell’arbitrio del potere politico. Per questo la magistratura va posta sotto controllo, così come ogni potere indipendente dal palazzo e dal sistema degli affari.
Il nostro NO alla controriforma Nordio del Governo Meloni è coerente con quello del 2016 alla controriforma costituzionale del Governo Renzi, ma non ha nulla a che fare con qualsiasi forma di giustizialismo “legge e ordineâ€. Noi non difendiamo la magistratura, ma la libertà popolare contro ogni potere autoritario che voglia imporre i privilegi dei potenti e dei ricchi.
Con questa impostazione la nostra campagna per il NO sarà contro la destra e indipendente dal campo largo, nel nome dell’eguaglianza sociale e di quella dei diritti.
L'articolo REFERENDUM GIUSTIZIA: PERCHE’ VOTIAMO NO! proviene da Potere al Popolo.
È di ieri la notizia di una nuova operazione militare degli USA al largo delle coste caraibiche. Venerdì 14 novembre infatti il Segretario della Difesa statunitense Pete Hegseth ha twittato: “Oggi annuncio l’operazione ‘Southern Spear’. Guidata dalla Joint Task Force Southern Spear e dal U.S. Southern Command, questa missione difende la nostra patria, elimina i narco-terroristi dal nostro emisfero e protegge la nostra patria dalle droghe che stanno uccidendo la nostra genteâ€.
L’operazione viene annunciata nel momento in cui la USS Gerald R Ford, la portaerei più potente degli Stati Uniti, si sta avvicinando alle coste del Venezuela, in quello che è stato descritto come uno straordinario dispiegamento di forza militare statunitense che non si vedeva da generazioni in Sud America. Quello che sta succedendo è un vero e proprio rinnovamento della Dottrina Monroe: con il pretesto di combattere il traffico della droga proveniente dal continente sudamericano, il Presidente sta semplicemente affermando la supremazia degli Stati Uniti sulle due Americhe. La posta in gioco per gli USA è chiara: da un lato si tratta di garantirsi l’accesso alle immense risorse di petrolio, acqua e altre materie prime, ma anche alla produzione di generi alimentari del continente sudamericano (guerra economica e commerciale); dall’altro lato vogliono soffocare le esperienze di governi progressisti e socialisti (battaglia ideologica).
L’ampliamento della presenza militare USA in Sud America e nei Caraibi è confermato dalla riapertura di una base militare in Puerto Rico chiusa nel 2006: già a settembre di quest’anno l’esercito statunitense aveva spostato vari caccia F-35 nella vecchia base “Roosevelt Roads” in cui le piste di partenza e atterraggio sono state nuovamente asfaltate.
Inoltre, il governo Trump sta esercitando una forte pressione sul presidente dell’Ecuador Daniel Noboa – un giovane 38enne nato a Miami, Florida, USA, e figlio di una famiglia di imprenditori che si è arricchita con il commercio di banane (sic!) – che ha indetto un referendum volto a eliminare l’esplicito divieto costituzionale di aprire basi militari straniere sul suolo ecuadoriano. Se il referendum del 16 novembre dovesse passare, l’Ecuador – reduce da uno sciopero generale di 35 giorni indetto dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) contro l’eliminazione del sussidio sul diesel e contro le ingerenze straniere nel paese – in pratica consegnerebbe agli USA le sue isole dell’Oceano Pacifico, le Galapagos in primis.
Ma l’offensiva imperialista degli USA non si limita alla militarizzazione del Continente. Prima delle elezioni parlamentari di fine ottobre in Argentina, il segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent è venuto in soccorso al presidente di ultra-destra Javier Milei con l’acquisto di pesos argentini e l’accordo per uno scambio valuta con la Banca Centrale argentina per un valore di 20 miliardi di dollari. Questa iniezione di dollari ha tranquillizzato i mercati argentini, ma si tratta di una stabilizzazione a breve termine che non risolve i problemi strutturali del Paese (crollo della produzione industriale, insicurezza alimentare, povertà dilagante, smantellamento del welfare etc.). Il ricatto di Trump, però, ha funzionato.
Un ultimo esempio per come l’internazionale reazionaria si sta strutturando lo abbiamo visto sempre a fine ottobre di quest’anno a Rio de Janeiro, in Brasile. Il governatore dello Stato di Rio, Claudio Castro, ha condotto un’operazione militare nelle favelas delle città uccidendo oltre 120 persone, molte di cui innocenti. Infatti, più che un intervento contro la banda criminale “Comando Vermelho” si è trattato di un attacco violento contro i poveri e di un messaggio verso l’esterno: il governatore Castro è uno sfegatato bolsonarista; l’operazione è stato un esempio per come i metodi trumpiani vengano applicati sempre di più all’interno dei paesi latinoamericani, ma anche una “richiesta” di un diretto intervento di Trump in vista delle prossime presidenziali nell’ottobre del 2026.
Trump risponde alla crisi dell’egemonia statunitense con una maggiore militarizzazione del mondo. L’Europa – con a capo il governo italiano di Giorgia Meloni – segue a pari passo aumentando le spese militari e attaccando i diritti delle classi popolari. Oggi, più che mai, è un nostro obbligo interrompere il funzionamento di questa vera e propria generalizzata economia di guerra, come ci hanno insegnato i portuali del nostro Paese con gli scioperi generali dei mesi scorsi e milioni di persone di tutto il mondo scese in piazza per la pace e contro la guerra.
Così, di fronte a quello che sta avvenendo nel continente latinoamericano, una nostra massiccia partecipazione allo sciopero generale del 28 novembre e alla manifestazione nazionale del 29 novembre a Roma è ancora più importante.
L'articolo GLI STATI UNITI D’AMERICA AVVIANO UNA NUOVA AGGRESSIONE MILITARE CONTRO IL VENEZUELA E L’INTERA REGIONE proviene da Potere al Popolo.
Lo scorso settembre è stato annunciato dal CEO del gruppo Rheinmetall l’avvio della fase finale della trattativa di cessione del ramo d’azienda Power Systems, cui appartiene anche lo stabilimento Pierburg di via Salvatore Orlando, a Livorno. Tale trattativa mette a rischio il futuro di 245 lavoratrici e lavoratori, che hanno già costituito un’assemblea e approvato lo stato di mobilitazione permanente per salvaguardare il proprio futuro occupazionale.
Lo stabilimento Pierburg rappresenta una realtà produttiva di rilievo per la città , costruita nel tempo grazie alla professionalità , alla competenza e all’impegno quotidiano delle lavoratrici e dei lavoratori che vi operano. La prospettata cessione del ramo d’azienda coinvolgerebbe il fondo di investimento statunitense One Equity Partners, un soggetto di natura puramente finanziaria e orientato a strategie di breve e medio periodo, che non garantirebbe automaticamente la continuità industriale dei siti produttivi.
Tale prospettiva suscita una forte preoccupazione per il futuro del polo livornese, dove lavorano 245 addette e addetti altamente specializzati in ambiti tecnici e meccanici, competenze cruciali anche nell’ottica di transizione verso una mobilità più sostenibile.
La multinazionale tedesca, negli ultimi anni, ha concentrato i propri investimenti sul settore della cosiddetta difesa (armi, munizioni, veicoli militari e tecnologie belliche) avviando un progressivo disimpegno dalle attività civili, in particolare dal comparto automotive. Quest’ultimo, che impiega oltre diecimila dipendenti in circa quaranta sedi tra Europa, Nord America, Cina e Giappone, è destinato ad essere ceduto in blocco. In Italia gli stabilimenti coinvolti sono tre, e tra questi quello di via Salvatore Orlando a Livorno.
Se da una parte tutto questo porta a licenziamenti e delocalizzazioni già di per sé inaccettabili, non possiamo non far notare che è solo una delle inevitabili conseguenze di ciò che rappresenta e comporta il piano RearmEurope votato da larga parte dei partiti rappresentati anche in questo consiglio comunale, sia all’opposizione che nella giunta.
La spinta folle nella direzione di una conversione della produzione civile in bellica, con lo stanziamento di decine se non centinaia di miliardi a debito, è destinata inevitabilmente a riprodurre questi scenari in tutta Italia e a tagliare ancora una volta ai diritti sociali e al welfare di questo paese.
Da quando Rheinmetall ha comunicato ai sindacati la volontà di uscire dal settore automotive, il destino delle lavoratrici e dei lavoratori livornesi è diventato incerto.
Un messaggio chiaro arriva anche dalla loro assemblea del 13 maggio scorso:
“Vogliamo informazioni complete e trasparenti. Qualora avvenga tale passaggio societario, deve essere a un soggetto industriale che garantisca tutti i contratti in essere e tutti i lavoratori dell’indotto, con clausole di stabilità per i prossimi anni e anti-delocalizzazione. La direzione aziendale deve presentare un preciso piano industriale che preveda investimenti, nuovi prodotti, mercati, formazione, tempistiche e ricadute operative sul sito di Livorno.â€
In sostanza, la cessione così come prospettata rischia di compromettere la continuità del lavoro delle maestranze locali, minando la sicurezza economica e sociale di decine di famiglie e privando la comunità di un patrimonio di esperienze e capacità tecniche che costituisce un valore per l’intero territorio.
Il prossimo 25 novembre 2025 si terrà un tavolo di confronto presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, riguardante il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti. Da questo tavolo è necessario emerga un percorso che garantisca la piena tutela dei livelli occupazionali, contrattuali e produttivi, garantendo trasparenza e coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori, delle istituzioni locali e delle rappresentanze sindacali.
L’Amministrazione comunale, pur non avendo competenze dirette nell’ambito delle trattative societarie, ha il dovere politico di difendere il tessuto produttivo cittadino e di rappresentare con forza la comunità livornese nelle sedi istituzionali opportune.
Proprio per questo pochi giorni fa siamo intervenuti in consiglio comunale, così da fare pressione affinché l’amministrazione e la giunta si interessino attivamente alla faccenda e ne seguano da vicino gli sviluppi a tutela esclusiva dei 245 lavoratori coinvolti.
Potere al Popolo esprime la piena solidarietà e vicinanza alle lavoratrici e ai lavoratori della Pierburg di Livorno, impegnati nella lotta a difesa dei propri diritti e del proprio futuro.
L'articolo [LIVORNO] EX PIERBURG: 250 POSTI A RISCHIO proviene da Potere al Popolo.
Ai primi di novembre, il Segretario Generale delle Nazioni Unite (ONU) António Guterres ha parlato della “terribile crisi in Sudan, che sta sfuggendo ad ogni controlloâ€. Ha esortato le parti in conflitto a “porre fine a questo incubo di violenza – oraâ€. Esiste un modo per porre fine alla guerra, ma semplicemente non c’è la volontà politica di farlo. Nel maggio del 2025 abbiamo scritto della storia del conflitto. Nel 2019 abbiamo parlato della rivolta sociale che ha avuto luogo quell’anno e delle sue conseguenze. Oggi come Tricontinental: Institute for Social Research, Assemblea Internazionale dei Popoli e Pan Africanism Today pubblichiamo l’allerta rossa n. 21 sulla necessità della pace in Sudan.
Qual è la realtà sul campo in Sudan?Il 15 aprile 2023 è scoppiata la guerra tra le Forze Armate Sudanesi (Sudanese Armed Forces SAF) guidate dal capo del Consiglio Militare di Transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido (Rapid Support Forces RSF) guidate dal tenente generale Mohamed “Hemedti†Hamdan Dagalo. Da allora, sostenute da vari governi esterni al Sudan, le due parti hanno combattuto una terribile guerra di logoramento in cui le vittime principali sono i civili. È impossibile dire quante persone siano morte, ma è chiaro che il bilancio delle vittime è significativo. Secondo una stima, solo nei giorni tra aprile 2023 e giugno 2024 il numero delle vittime è stato pari a 150.000; inoltre, diversi crimini contro l’umanità commessi da entrambe le parti sono già stati documentati da varie organizzazioni per i diritti umani. Almeno 14,5 milioni di sudanesi su una popolazione di 51 milioni sono stati sfollati. Le persone che vivono nella fascia tra El Fasher, nel Darfur settentrionale, e Kadugli, nel Kordofan meridionale, stanno lottando contro la fame acuta e la carestia. Una recente analisi della Classificazione integrata della sicurezza alimentare delle Nazioni Unite (scala IPC) ha rilevato che circa 21,2 milioni di sudanesi, pari al 45% della popolazione, sono esposti a livelli elevati di grave insicurezza alimentare, con 375.000 persone in tutto il paese che soffrono di fame a livelli “catastrofici†(cioè sull’orlo della morte per inedia).
Dall’inizio della guerra, centinaia di migliaia di sfollati interni hanno cercato rifugio a El Fasher, allora controllata in gran parte dalle SAF. Circa 260.000 civili erano ancora lì nell’ottobre 2025, quando le RSF hanno spezzato la resistenza, sono entrate in città e hanno compiuto una serie di massacri documentati. Tra le vittime c’erano 460 pazienti e i loro accompagnatori del Saudi Maternity Hospital. La caduta della città ha fatto sì che le RSF controllino ora gran parte della vasta provincia del Darfur, mentre le SAF controllano gran parte del Sudan orientale, compreso Port Sudan, l’accesso del Paese al mare e al commercio internazionale, nonché la capitale Khartoum.
Al momento non vi sono segni di de-escalation.
Perché le SAF e le RSF stanno combattendo?Nessuna guerra di questa portata ha una causa semplice. La ragione politica è chiara: si tratta di una controrivoluzione contro la rivolta popolare del 2019 che è riuscita a rovesciare il presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1993 e i cui ultimi anni di governo sono stati caratterizzati da un aumento dell’inflazione e da una crisi sociale.
Le forze popolari e di sinistra che hanno guidato la rivolta del 2019 – il Partito Comunista Sudanese, le Forze di Consenso Nazionale, l’Associazione Professionale Sudanese, il Fronte Rivoluzionario Sudanese, le Donne dei Gruppi Civici e Politici Sudanesi e molti comitati di resistenza locali e di quartiere – hanno costretto i militari ad accettare di supervisionare la transizione verso un governo civile. Con l’assistenza dell’Unione Africana, è stato istituito il Consiglio di sovranità transitorio, composto da cinque membri militari e sei civili. Abdalla Hamdok è stato nominato primo ministro e il giudice Nemat Abdullah Khair presidente della Corte Suprema, con al-Burhan e Hemedti anch’essi membri del consiglio. Il governo civico-militare ha ulteriormente distrutto l’economia lasciando fluttuare la valuta e privatizzando lo Stato, rendendo così più redditizio il contrabbando di oro e rafforzando le RSF (questo governo ha anche firmato gli Accordi di Abraham, che hanno normalizzato le relazioni con Israele). Le politiche del governo civico-militare hanno esacerbato le condizioni fino ad arrivare alla perdita di controllo dello Stato di sicurezza (potere) e del commercio dell’oro (ricchezza).
Nonostante i loro ruoli nel consiglio, al-Burhan e Hemedti hanno tentato dei colpi di Stato fino a quando non ci sono riusciti nel 2021. Dopo aver messo da parte i civili, i due leader militari si sono scontrati tra loro. Gli ufficiali delle SAF hanno cercato di mantenere il controllo sull’apparato statale, che nel 2019 ha assorbito l’82% delle risorse di bilancio dello Stato (come confermato dal primo ministro Abdalla Hamdok nel 2020). Hanno inoltre cercato di mantenere il controllo delle sue imprese, gestendo più di 200 società attraverso entità come il Defence Industries System controllato dalle SAF (le entrate annuali sono stimate a 2 miliardi di dollari) e conquistando una quota significativa dell’economia formale del Sudan nei settori minerario, delle telecomunicazioni e del commercio di materie prime di import-export. Le RSF – provenienti dalla milizia Janja’wid (diavoli a cavallo) – hanno cercato di sfruttare l’economia di guerra attorno alla Al Junaid Multi-Activities Corporation, che controlla le principali aree di produzione dell’oro nel Darfur e circa una mezza dozzina di siti minerari, tra cui Jebel Amer. Poiché il 50-80% della produzione totale di oro del Sudan è contrabbandato (numeri del 2022) principalmente verso gli Emirati Arabi Uniti e poiché le RSF dominano la produzione nelle zone minerarie artigianali del Sudan occidentale (che rappresentano l’80-85% della produzione totale), le RSF incassano ogni anno ingenti somme provenienti dai proventi dell’oro (stimati a 860 milioni di dollari nel 2024 solo per le miniere del Darfur).
Al di là di queste contese politiche e materiali, vi sono pressioni ecologiche che aggravano la crisi. Una delle ragioni del lungo conflitto nel Darfur è stata l’inaridimento del Sahel. Per decenni, le piogge irregolari e le ondate di calore dovute alla catastrofe climatica hanno ampliato il deserto del Sahara verso sud, rendendo le risorse idriche una causa di conflitto e scatenando scontri tra nomadi e agricoltori stanziali. Metà della popolazione sudanese vive in condizioni di grave insicurezza alimentare. L’incapacità di creare un piano economico per una popolazione devastata dai rapidi cambiamenti climatici, insieme al furto di risorse da parte di una piccola élite, rende il Sudan vulnerabile a conflitti di lunga durata. Non si tratta solo di una guerra tra due personalità forti, ma di una lotta per la trasformazione delle risorse e il loro saccheggio da parte di potenze esterne. Un accordo di cessate il fuoco è nuovamente sul tavolo, ma la probabilità che venga accettato o rispettato è molto bassa fintanto che le risorse rimangono il premio ambito dai vari gruppi armati.
Quali sono le possibilità di pace in Sudan?Il percorso verso la pace in Sudan richiederebbe sei elementi:
1. Un cessate il fuoco immediato e monitorato che includa la creazione di corridoi umanitari per il transito di cibo e medicine. Questi corridoi dovrebbero essere gestiti dai Comitati di Resistenza, che hanno la credibilità democratica e le reti per fornire aiuti direttamente a chi ne ha bisogno.
2. La fine dell’economia di guerra, in particolare la chiusura dei canali di approvvigionamento di oro e armi. Ciò comporterebbe l’imposizione di sanzioni severe sulla vendita di armi e sull’acquisto di oro dagli Emirati Arabi Uniti fino a quando questi non interromperanno ogni relazione con le RSF. È inoltre necessario attuare controlli sulle esportazioni a Port Sudan.
3. Il ritorno in sicurezza degli esiliati politici e l’avvio di un processo di ricostruzione delle istituzioni politiche sotto un governo civile eletto o sostenuto dalle forze popolari, principalmente dai Comitati di Resistenza. Le SAF devono essere private del loro potere politico e dei loro beni economici e sottomesse al governo. Le RSF devono essere disarmate e smobilitate.
4. La ricostruzione immediata dell’alta magistratura sudanese per indagare e perseguire i responsabili delle atrocità .
5. La creazione immediata di un processo che identifichi le responsabilità , incluso il perseguimento dei signori della guerra attraverso un tribunale adeguato costituito in Sudan.
6. La ricostruzione immediata della commissione di pianificazione del Sudan e del suo ministero delle finanze per trasferire le ricchezze verso i beni pubblici e le protezioni sociali e non dedicarle semplicemente all’export.
Questi sei punti seguono i tre pilastri dell’Unione Africana e dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo AU-IGAD Joint Roadmap for the Resolution of the Conflict in Sudan (2023). La difficoltà di questa roadmap, come di proposte simili, è che dipende dai donatori, compresi gli attori implicati nella violenza. Per realizzare questi sei punti è necessario esercitare pressioni sulle potenze esterne affinché cessino il loro sostegno alle SAF e alle RSF. Tra queste figurano l’Egitto, l’Unione Europea, il Qatar, la Russia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti. Né questa roadmap ufficiale né il canale di Jeddah – un percorso di mediazione saudita-statunitense avviato nel 2023 che si concentra esclusivamente su brevi tregue militari e l’entrata di aiuti umanitari – includono i gruppi civili sudanesi, tanto meno i Comitati di Resistenza.
Il Sudan ha prodotto i suoi propri poeti che cantano il dolore e la sofferenza, ma abbiamo deciso di chiudere con una nota diversa. Nel 1961, il poeta comunista Taj el-Sir el-Hassan (1935-2013) scrisse “Una canzone afro-asiaticaâ€, che inizia commemorando il massacro di Kosti a Joudeh nel 1956, quando 194 contadini in sciopero furono soffocati a morte mentre erano in custodia della polizia. Ma è alla fine della canzone che ci rivolgiamo, con la voce del poeta che risuona sopra gli spari:
Nel cuore dell’Africa sto in prima linea,
e fino a Bandung il mio cielo si sta espandendo.
L’olivo è la mia ombra e il mio cortile,
O miei compagni:
O compagni d’avanguardia, che guidate il mio popolo alla gloria,
le vostre candele stanno inondando il mio cuore di luce verde.
Canterò la strofa finale,
alla mia amata terra;
ai miei compagni in Asia;
alla Malesia,
e alla vivace Bandung.
Al popolo di El Fasher, a quelli di Khartoum, ai miei compagni a Port Sudan: camminate verso la pace.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantaseiesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo CHE IL POPOLO SUDANESE CAMMINI VERSO LA PACE proviene da Potere al Popolo.
Costruiamo l’opposizione alla giunta Gualtieri e al governo Meloni
L’8 Novembre, a Roma, eravamo a Metropoliz – un luogo simbolico delle lotte delle fasce popolari della città , delle lotte per la casa e per la cultura per tutti e tutte – insieme a tante realtà sociali e politiche di Roma e dei territori limitrofi, che sono intervenute nell’assemblea pubblica cittadina di Potere al Popolo “Anche a Roma cambiamo tutto”.
Dall’assemblea è emersa chiarame la volontà politica di opporsi alle politiche antipopolari di speculazione e di guerra della giunta Gualtieri e del governo Meloni, confrontandosi sulla necessità di costruire un blocco politico e sociale autonomo e indipendente, alternativo alla destra fascista, alle finte opposizioni di “centrosinistra†e a tutte quelle opzioni politiche e sindacali che negli anni hanno peggiorato progressivamente le condizioni di chi vive, studia o lavora in questo paese e nella città di Roma.
Oggi più che mai è necessario opporsi senza ambiguità alle politiche belliciste, al genocidio in Palestina, ad una legge finanziaria lacrime e sangue, che ancora volta le spalle alle fasce popolari per fare gli interessi delle banche, dei privati e della guerra; così come è necessario opporsi allo sfruttamento, alla speculazione sui territori, alla devastazione sociale e ambientale.
Negli ultimi mesi le mobilitazioni oceaniche al grido “Blocchiamo tutto†ci hanno mostrato come la possibilità di cambiare le cose è reale, concreta e possibile se lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti, le abitanti di questo paese si uniscono per organizzarsi e lottare. Come abbiamo visto mobilitandoci con forza e fermando il paese e le città , contro chi, sotto i dettami dell’UE e della NATO, continua a portare avanti spese militari, il sostegno incondizionato al sionismo e il genocidio del popolo palestinese.
Abbiamo affrontato insieme la discussione dell’assemblea nazionale “Cambiamo tutto” del 25 ottobre dove abbiamo lanciato la costruzione di un percorso verso il 2027, aprendo un patto di consultazione permanente a tutte le realtà che vogliono lavorare insieme in questa direzione, continuando a costruire l’alternativa.
L’8 novembre a Roma segna infatti un ulteriore passaggio, in cui le voci che hanno partecipato si sono confrontate sulla necessità che la stessa alternativa va costruita anche a Roma, schierandoci convintamente contro la giunta Gualtieri e il suo modello Giubileo, che non ci rappresentano e portano avanti gli interessi dei privati, vendendo la città a speculazione, cementificazione e devastazione mentre a pagare il prezzo sono le fasce popolari. Parliamo di un modello di città che è appoggiato pienamente dal governo Meloni, come ci dimostra la volontà politica di assegnare nuovi poteri commissariali al sindaco di Roma. Rifiutiamo l’unità di Governo e la gestione politica raffigurata dalla volontà politica bipartisan sulla gestione dei fondi giubilari a Piazza Pia.
Per questo, mentre la giunta Gualtieri è sorda e indifferente di fronte alle istanze degli abitanti, e conferma i legami con Israele, abbiamo ribadito non ci fermeremo finché non otterremo un consiglio comunale aperto, che rimetta al centro le necessità degli abitanti della città e le vertenze territoriali.
Continuiamo a costruire l’alternativa al governo Meloni e alla giunta Gualteri.
Per tutto questo ci vediamo nei tanti appuntamenti che ci aspettano:
14 novembre: “No Meloni Dayâ€
16 novembre: Assemblea nazionale “Blocchiamo tuttoâ€
Consiglio comunale aperto a Roma
28 novembre: Sciopero generale
29 novembre: Manifestazione nazionale
Al fianco di lavoratrici e lavoratori, studenti e studentesse, a chi lotta per la casa, per la giustizia ambientale e sociale, cambiamo tutto, in questo Paese e in questa città !
Potere al Popolo Roma
L'articolo [ROMA] ASSEMBLEA PUBBLICA CITTADINA DI POTERE AL POPOLO: ANCHE A ROMA CAMBIAMO TUTTO! proviene da Potere al Popolo.
Ancora una volta, con la firma della convenzione integrativa del sindaco Gualtieri per il progetto degli ex mercati generali, assistiamo ad un gravissimo attacco al patrimonio pubblico della città , con un’area già al centro di mire immobiliari definitivamente sottratta alla gestione pubblica, il tutto nella assoluta assenza di dialogo con la città e con l’aperta complicità dell’intero panorama politico cittadino.
Utilizzando vuote formule quali “riqualificazione urbanaâ€, viene portato avanti l’ennesima grande operazione immobiliare privata da parte di un fondo quale Hines, che tra l’altro risulta coinvolto nel caso Milano che è scoppiato poco tempo fa.
Ancora una volta ci viene data la dimostrazione di come questo modello di città sia piegato agli interessi dei grandi fondi immobiliari, come dimostra la ridicola dichiarazione di pubblica utilità per un progetto che vedrà sorgere uno studentato di lusso, che garantirà al concessionario ben 21 milioni di ricavi l’anno e che, essendo accessibile unicamente ad una minoranza di studenti ricchi, non allieverà minimamente una crisi abitativa che, anche a livello studentesco, è ormai drammatica.
È significativo notare come tutto ciò avvenga in un municipio, l’VIII, che da decenni viene amministrato da quel centrosinistra che oggi promuove le logiche della speculazione incarnate dal modello giubileo e che ci dimostra come la favola della rigenerazione urbana in verità nascondi la più spregevole predazione del territorio da parte di interessi privati.
Di fronte a tutto questo, appare sempre più necessario un modello di città alternativo, una Roma città pubblica che si opponga alle mire immobiliari e speculative e che rimetta al centro gli interessi dei suoi abitanti, soprattutto di quei quartieri popolari che vivono ogni giorno i risvolti drammatici di questo modello.
Inoltre, di fronte alla solite procedure antidemocratiche, come dimostra la totale estromissione dal processo decisionale degli abitanti del territorio, a cui sono stati resi inaccessibili i documenti fondamentali quali il bando di gara e la prima convocazione, continuiamo a chiedere l’indizione di un consiglio comunale aperto in cui Gualtieri risponda delle azioni che sta portando avanti.
L'articolo [ROMA] EX MERCATI GENERALI: UN ALTRO PEZZO DI CITTÀ NELLE MANI DELLA SPECULAZIONE IMMOBILIARE proviene da Potere al Popolo.
La legge di Bilancio presentata dal governo Meloni risponde alla logica del riarmo ed alla scelta di incanalare il nostro Paese verso una economia di guerra. Mentre i salari e le pensioni continuano a perdere potere d’acquisto, le disuguaglianze sociali aumentano, si allarga il mondo della precarietà e del lavoro sottopagato e sono sempre di più le persone che non possono curarsi o che non vedono soddisfatto il diritto alla casa, il governo aumenta in modo clamoroso la spesa per l’acquisto e la produzione di nuovi armamenti, individuando nel settore bellico l’unica soluzione alla crisi economica. Anzi, il vincolo europeo di contenimento del deficit pubblico, con conseguente taglio ai servizi e alla spesa sociale, viene perseguito proprio con l’obiettivo di avere le mani libere per poter investire in armamenti.
La stessa ipocrisia utilizzata per nascondere il genocidio in Palestina e la complicità del governo con lo Stato terrorista di Israele viene utilizzata per fingere di voler affrontare le grandi questioni sociali del Paese: con i numeri sull’occupazione si continua a voler coprire l’aumento della povertà e dei lavori con salari da fame, con le modifiche dell’IRPEF si finge di voler sostenere i ceti medi quando si stanno soltanto favorendo i settori più ricchi, con i contributi volontari delle banche si lasciano nelle mani del sistema finanziario più di 100 miliardi di extraprofitti sottratti al nostro paese negli ultimi tre anni.
E che di fronte ad un processo di grave deindustrializzazione, riesce solo a proporre la conversione di alcune aziende alla fabbricazione delle armi. L’industria bellica e i suoi collegati vengono utilizzati per uscire dalla crisi in cui versa il capitalismo.
Nei vari teatri di guerra si nascondono dietro le parole “pace†e “ricostruzione†si muovono già gli interessi dei grandi gruppi italiani e occidentali del cemento, dell’energia e delle infrastrutture — come WeBuild, Buzzi Unicem, Cementir, Leonardo, Terna e Italferr — pronti a trarre profitto dalle devastazioni della guerra. La ricostruzione dell’Ucraina e di Gaza diventano un affare per pochi, mentre i costi umani, sociali e ambientali ricadono sui popoli flagellati dai conflitti.
Le mobilitazioni promosse a sostegno del popolo e della resistenza palestinese hanno portato alla luce una indisponibilità in tutta la penisola a essere complici con il genocidio e con le scelte del governo Meloni che ci portano verso un futuro da incubo. Difendere la Palestina oggi significa rompere il patto tra sionismo, capitalismo e destre estreme e aprire una possibilità di liberazione per le lavoratrici, i lavoratori e tutti i popoli del mondo.
La tregua di Trump non riconosce nessun diritto al popolo palestinese e sta consentendo a Israele di proseguire e ampliare l’occupazione di territori palestinesi.
Ma l’Italia parla di pace dopo aver fornito armi, dopo aver sostenuto direttamente il GENOCIDIO.
Anche altri paesi come il Congo e il Sudan stanno vivendo momenti drammatici, e diventa fondamentale unire le lotte e costruire una reale intersezionalità tra tutti i popoli oppressi, mentre aumentano i pericoli di un’aggressione al Venezuela.
Tutto questo dimostra che la competizione imperialista si sposta sempre più dal piano politico, economico e commerciale a quello militare. Il Governo Meloni, che sta sostenendo apertamente l’aumento delle spese in ambito NATO e i programmi di riarmo dell’Unione Europea, è parte attiva di questo processo. Tutto l’arco parlamentare sostiene la necessità di una difesa comune e di un esercito comune europeo quando l’unica difesa dalla guerra è il disarmo.
Queste scelte non hanno un riflesso solo in termini economici ma stanno favorendo una torsione autoritaria tanto contro le lotte sociali come verso il mondo dell’istruzione, arrivando a colpire l’informazione critica e indipendente e a tentare di controllare altri poteri dello Stato.
È in atto, in sostanza, un processo di trasformazione che, utilizzando le politiche di riarmo, tenta di irreggimentare e militarizzare una intera società che sta soffrendo un pesante peggioramento delle condizioni di vita.
Per questo è necessario ribellarsi, mettendo al centro delle mobilitazioni obiettivi chiari che corrispondano senza ambiguità alle necessità di milioni di lavoratori e lavoratrici e alle aspirazioni di pace, disarmo, uguaglianza e giustizia sociale che appartengono a tanta parte del Paese.
CONTRO LA FINANZIARIA DI GUERRA E IL GOVERNO MELONI. PALESTINA LIBERA – ROMPERE CON ISRAELE!
Il 28 novembre incrociamo le braccia e fermiamo tutto con lo sciopero generale e il 29 novembre manifestazione nazionale a Roma:
Primi firmatari:
-Unione sindacale di Base
-Potere al popolo
-Movimento studenti palestinesi
-Unione democratica arabo palestinese
-Comunità palestinese in Italia
-Associazione palestinesi in Italia
-Calp
-Ex Opg
-Movimento diritto all’Abitare Roma
-Arci Roma
-Fronte comunista
-Cambiare rotta
-Cau
-Fronte della gioventù comunista
-Osa
-Movimento migranti e rifugiati Napoli
-Donne contro la guerra e il genocidio
-Casa del popolo Mariella Franco Pavia
-Centro sociale Intifada
-Ecoresistenze
-Ecologia politica Napoli
-Casa del popolo Silvia Picci Lecce
-Spazio Catai Padova
-Casa del popolo Estella Torino
-Sac
-Casa del popolo Marano, Mugnano, Calvizzano
-Contropiano
-Rete dei Comunisti
Per adesioni:Â 29novembreroma@gmail.com
L'articolo CONTRO LA FINANZIARIA DI GUERRA E IL GOVERNO MELONI. ROMPERE CON ISRAELE – PALESTINA LIBERA. 28 NOVEMBRE SCIOPERO GENERALE, 29 NOVEMBRE MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA ORE 14.00 PORTA SAN PAOLO proviene da Potere al Popolo.
Da inizio settembre di quest’anno, ci sono diversi indizi per il fatto che gli Stati Uniti si potrebbero preparare a un attacco militare contro il Venezuela. Tricontinental: Institute for Social Research ha collaborato con ALBA Movimientos, l’Assemblea Internazionale dei Popoli, No Cold War e l’Istituto Simón BolÃvar per produrre l’allerta rossa n. 20, The Empire’s Dogs Are Barking at Venezuela, sui potenziali scenari e le implicazioni dell’intervento statunitense.
Nel febbraio 2006, il presidente venezuelano Hugo Chávez si recò all’Avana per ricevere da Fidel Castro il Premio José Martà dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Nel suo discorso, paragonò le minacce di Washington contro il Venezuela all’abbaiare dei cani, dicendo : “Lasciate che i cani abbaiano, perché è segno che ci stiamo muovendoâ€. Chávez ha aggiunto: “Lasciamo che i cani dell’impero abbaiano. Questo è il loro ruolo: abbaiare. Il nostro ruolo è lottare per ottenere in questo secolo – ora, finalmente – la vera liberazione del nostro popoloâ€. Quasi due decenni dopo, i cani dell’impero continuano ad abbaiare. Ma morderanno? Questa è la domanda a cui cerchiamo di rispondere.
Nel febbraio 2025, il Dipartimento di Stato americano ha designato una rete criminale chiamata Tren de Aragua (Treno di Aragua) come “organizzazione terroristica stranieraâ€. Poi, a luglio, il Dipartimento del Tesoro americano ha aggiunto il cosiddetto Cartel de los Soles (Cartello dei Soli) alla lista delle sanzioni dell’Ufficio di controllo dei beni stranieri come “gruppo terroristico transnazionaleâ€. Nessun precedente rapporto del governo statunitense, né della Drug Enforcement Administration (DEA) né del Dipartimento di Stato, aveva identificato queste organizzazioni come una minaccia, e non sono state fornite prove verificabili pubblicamente per sostanziare la presunta portata o il coordinamento di entrambi i gruppi. Non ci sono prove che Tren de Aragua sia un’operazione internazionale. Per quanto riguarda il Cartel de los Soles, il nome è apparso per la prima volta nel 1993 in un rapporto venezuelano sulle indagini relative a due generali della Guardia Nazionale – in riferimento al simbolo del “sole†sulle loro uniformi – anni prima della vittoria presidenziale di Hugo Chávez nel 1998. L’amministrazione Trump ha affermato che questi gruppi, che collaborano con il governo del presidente venezuelano Nicolás Maduro, sono i principali trafficanti di droga negli Stati Uniti, senza fornire alcuna prova a sostegno di tale affermazione. Inoltre, i rapporti dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) e della stessa DEA hanno costantemente rilevato che i gruppi venezuelani hanno un ruolo marginale nel traffico globale di droga. Ciononostante, il Dipartimento di Stato americano ha offerto una ricompensa di 50 milioni di dollari per informazioni che portino all’arresto di Maduro, la più alta nella storia del programma.
Gli Stati Uniti hanno ripreso in mano lo strumento contundente della War on Drugs (guerra alla droga) per esercitare pressioni sui paesi che non cedono alle loro minacce o che si rifiutano ostinatamente di eleggere governi di destra. Recentemente, Trump ha preso di mira il Messico e la Colombia e ha invocato le loro difficoltà con il controllo del traffico di stupefacenti per attaccare i loro presidenti. Sebbene il Venezuela non abbia un problema di droga significativo all’interno del paese, ciò non ha impedito Trump di attaccare il governo di Maduro con molto più astio. Nell’ottobre 2025, la politica venezuelana MarÃa Corina Machado del movimento Vente Venezuela (Vieni qui, Venezuela) ha vinto il Premio Nobel per la Pace. Machado non era eleggibile alla presidenza nel 2024 principalmente perché aveva rilasciato una serie di dichiarazioni traditorie, aveva accettato un incarico diplomatico da un altro paese per chiedere l’intervento in Venezuela (in violazione dell’articolo 149 della Costituzione) e aveva sostenuto le guarimbas (azioni violente di piazza in cui le persone venivano picchiate, bruciate vive e decapitate). Ha anche sostenuto le sanzioni unilaterali degli Stati Uniti che hanno devastato l’economia venezuelana. Il Premio Nobel è stato ottenuto grazie al lavoro della Inspire America Foundation (con sede a Miami, in Florida, e guidata dall’avvocato cubano-americano Marcell Felipe) e all’intervento di quattro politici statunitensi, tre dei quali cubano-americani (Marco Rubio, MarÃa Elvira Salazar e Mario DÃaz-Balart). Il legame cubano-statunitense è fondamentale e dimostra come questa rete politica, concentrata sul rovesciamento della rivoluzione cubana con ogni mezzo, ora veda nell’intervento militare statunitense in Venezuela un modo per promuovere un cambio di regime a Cuba. Non si tratta quindi solo di un intervento contro il Venezuela, ma contro tutti quei governi che gli Stati Uniti vorrebbero rovesciare.
Il morsoNell’agosto del 2025, l’esercito statunitense ha iniziato ad ammassare forze navali nel sud dei Caraibi, tra cui cacciatorpediniere di classe Aegis e sottomarini d’attacco a propulsione nucleare. A settembre ha avviato una campagna di attacchi extragiudiziali contro piccole imbarcazioni a motore nelle acque dei Caraibi, bombardando almeno tredici navi e uccidendo almeno cinquantasette persone, senza fornire prove di alcun collegamento con il traffico di droga. A metà ottobre, gli Stati Uniti avevano schierato più di quattromila soldati al largo delle coste del Venezuela e cinquemila in standby a Porto Rico (compresi caccia F-35 e droni MQ-9 Reaper), autorizzato operazioni segrete all’interno del Paese e effettuato “missioni dimostrative†con B-52 su Caracas. Alla fine di ottobre, il gruppo da battaglia della portaerei USS Gerald R. Ford è stato schierato nella regione. Nel frattempo, il governo venezuelano ha mobilitato la popolazione per difendere il Paese.
Cinque scenari per l’intervento degli Stati UnitiScenario n. 1: l’opzione Brother Sam. Nel 1964, gli Stati Uniti schierarono diverse navi da guerra al largo delle coste brasiliane. La loro presenza incoraggiò il generale Humberto de Alencar Castelo Branco, capo di Stato Maggiore dell’esercito, e i suoi alleati a organizzare un colpo di Stato che diede inizio a una dittatura durata ventuno anni. Ma il Venezuela è un terreno diverso. Nel suo primo mandato, Chávez ha rafforzato l’educazione politica nelle accademie militari e ha ancorato l’addestramento degli ufficiali alla difesa della Costituzione del 1999. È quindi improbabile che una figura come quella di Castelo Branco possa salvare la situazione per Washington.
Scenario n. 2: l’opzione Panama. Nel 1989, gli Stati Uniti bombardarono Panama City e inviarono truppe speciali per catturare Manuel Noriega, leader militare di Panama, e portarlo in una prigione statunitense, mentre politici sostenuti dagli Stati Uniti prendevano il controllo del Paese. Un’operazione del genere sarebbe più difficile da replicare in Venezuela: il suo esercito è molto più forte, addestrato per conflitti asimmetrici prolungati, e il Paese vanta sofisticati sistemi di difesa aerea (in particolare i sistemi terra-aria russi S-300VM e Buk-M2E). Qualsiasi campagna aerea statunitense dovrebbe affrontare una difesa sostenuta, rendendo improbabile che Washington rischi la prospettiva di abbattere aerei, con una grave perdita di prestigio.
Scenario n. 3: l’opzione Iraq. Una campagna di bombardamenti Shock and Awe (colpisci e terrorizza) contro Caracas e altre città per spaventare la popolazione e demoralizzare lo Stato e l’esercito, seguita da tentativi di assassinare i vertici della leadership venezuelana e di impadronirsi delle infrastrutture chiave. Dopo un simile assalto, la vincitrice del Premio Nobel per la Pace Machado si dichiarerebbe probabilmente pronta ad assumere il comando e ad allineare il Venezuela agli Stati Uniti. L’inadeguatezza di questa manovra sta nel fatto che la leadership bolivariana è profondamente ancorata nel tessuto sociale: le radici della difesa del progetto bolivariano attraversano i barrios della classe lavoratrice e l’esercito non sarebbe immediatamente demoralizzato, a differenza di quanto accaduto in Iraq. Come ha recentemente osservato il ministro dell’Interno del Venezuela, Diosdado Cabello, “Ricordiamoci il Vietnam, quando un popolo piccolo ma unito e con una volontà di ferro è stato in grado di dare una lezione all’imperialismo statunitenseâ€.
Scenario n. 4: l’opzione del Golfo del Tonchino. Nel 1964, gli Stati Uniti intensificarono il loro impegno militare nella guerra del Vietnam dopo un incidente che fu presentato come un attacco ingiustificato contro cacciatorpediniere statunitensi al largo delle coste del Paese. Successive rivelazioni hanno dimostrato che la National Security Agency (NSA) aveva fabbricato informazioni di intelligence per creare un pretesto per l’escalation. Gli Stati Uniti sostengono di stare conducendo “esercitazioni di addestramento†navali e aeree vicino alle acque territoriali e allo spazio aereo venezuelani. Il 26 ottobre, il governo venezuelano ha dichiarato di aver ricevuto informazioni su un piano segreto della CIA per inscenare un attacco sotto falsa bandiera contro navi statunitensi vicino a Trinidad e Tobago, al fine di provocare una risposta degli Stati Uniti. Le autorità venezuelane hanno messo in guardia dalle manovre statunitensi e hanno affermato che non cederanno a provocazioni o intimidazioni.
Scenario n. 5: l’opzione Qasem Soleimani. Nel gennaio 2020, un attacco con droni statunitensi ordinato da Trump ha ucciso il maggiore generale Qasem Soleimani, capo della Forza Quds iraniana. Soleimani era uno dei più alti funzionari iraniani e responsabile della strategia di difesa regionale in Iraq, Libano, Gaza e Afghanistan. In un’intervista rilasciata al programma 60 Minutes, l’ex incaricato degli affari statunitense per il Venezuela James Story ha dichiarato: “Le risorse sono lì per fare tutto il necessario, compresa la decapitazione del governoâ€, una chiara dichiarazione di intenti di assassinare il presidente. Dopo la morte del presidente Hugo Chávez nel 2013, i funzionari statunitensi avevano previsto il fallimento del progetto. Sono passati dodici anni e il Venezuela continua a seguire la strada tracciata da Chávez, portando avanti il suo modello comunitario, la cui resilienza si basa non solo sulla leadership collettiva della rivoluzione, ma anche su una forte organizzazione popolare. Il progetto bolivariano non è mai stato un’opera di una sola persona.
È improbabile che Cina e Russia permettano un attacco contro il Venezuela senza esercitare pressioni per ottenere risoluzioni immediate del Consiglio di sicurezza dell’ONU, entrambi i Paesi operano regolarmente nei Caraibi, anche con esercitazioni congiunte con Cuba e missioni globali come la Missione Armonia 2025 della Cina.
Speriamo che nessuno di questi scenari si verifichi e che gli Stati Uniti ritirino le loro opzioni militari. Ma la speranza da sola non basta: dobbiamo lavorare per ampliare il campo della pace.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantacinquesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo GLI STATI UNITI CONTINUANO A TENTARE DI ROVESCIARE LA RIVOLUZIONE BOLIVARIANA IN VENEZUELA proviene da Potere al Popolo.