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#news #Potere #Popolo
Gli eredi del fascismo italiano lavorano, in Parlamento, ad un DDL (n. 1627) denominato “Disposizioni per il contrasto all’antisemitismo e per l’adozione della definizione operativa di antisemitismoâ€. Per capire perché l’attuale maggioranza – costituita dal partito della Gioventù Meloniana, da eredi del Movimento Sociale, cosplay di Hitler e altra gente non particolarmente nota per la lotta alle discriminazioni antiebraiche – abbia abbracciato in maniera così focosa la causa del contrasto all’antisemitismo occorre fare un passo indietro.
Dal 7 Ottobre 2023, chiunque osasse criticare, anche solo lievemente, la mattanza della popolazione di Gaza da parte delle forze di occupazione israeliane, veniva sistematicamente accusato di essere contro gli ebrei. L’accusa è parte di una storica opera di mistificazione volta a screditare – derubricandole come manifestazioni di razzismo antiebraico – tutte le critiche alle politiche di espansione illegale dello Stato denominato Israele.
Questo è l’esito di un movimento politico, denominato sionismo, che dalla fine del XIX secolo ha prima promosso e organizzato migrazioni di ebrei europei in Palestina, poi ha avuto la concessione per un insediamento ebraico sotto il mandato britannico e infine, nello shock successivo alla scoperta dello sterminio nazista, ha ottenuto che, in territorio palestinese, nascesse uno stato per gli ebrei di tutto il mondo (dal 1950 ogni ebreo, di qualunque parte del mondo, può trasferirsi in Israele e avere la cittadinanza); dal 2018 Israele è definito da una legge fondamentale lo stato nazionale del popolo ebraico.
Il sionismo non aveva il sostegno unanime degli ebrei europei e americani; proprio nel 1948, nomi illustri come Albert Einstein e Hannah Arendt presero pubblicamente posizione contro il primo ministro israeliano, Begin, appartenente ad un’organizzazione di estrema destra con dichiarate simpatie fasciste.
Pochi anni dopo la fondazione dello Stato d’Israele fu subito chiaro quale fosse il ruolo e lo scopo di questa nuova entità statuale: quello di stato coloniale di insediamento, presidio imperialista in un territorio, quello mediorientale, strategico sul piano economico e politico. È diventato quindi fondamentale, sul piano ideologico, accusare chi critica l’entità sionista di essere mosso da pregiudizi antisemiti; in questo modo, richiamando in modo ossessivo l’Orrore per eccellenza del XX secolo, si ergeva un potentissimo scudo protettivo contro l’illegale e continua espansione dello stato israeliano nella regione.
L’Unione Europea e ora la bozza del DDL adottano la definizione di antisemitismo di un’organizzazione internazionale nata nel 1998, l’International Holocaust Remembrance Alliance.
Questa definizione include esplicitamente le accuse ad Israele nella categoria di antisemitismo. Non si può dire che Israele sia razzista e non si possono fare paragoni tra Israele e il nazismo.
Il capolavoro è la precisazione che è possibile rivolgere ad Israele le stesse critiche che si rivolgono ad altri stati, ma non lo si può criticare in quanto manifestazione di collettività ebraica. Peccato che sia Israele stessa, con l’ultima delle sue Leggi Fondamentali, a definirsi come espressione di collettività ebraica, trasformando così ogni attacco in odio antiebraico.
È importante sottolineare quanto sia irrituale questo processo. Un’organizzazione internazionale priva di alcuna rappresentatività (sono solo 35 gli stati membri) elabora una definizione “operazionale†di antisemitismo; al termine viene attribuito un significato preciso, voluto da un’autonominatasi autorità , posto come indiscutibile, quando per nessun termine, che non sia ultratecnico, c’è un’autorità a definirne il significato; questa definizione entra in raccomandazioni parlamentari, direttive e oggi disegni di legge, con tanto di sanzioni penali per chi, sulla base di ciò, viene accusato di odio e discriminazione nei confronti degli ebrei.
Un ruolo centrale, nel ddl Gasparri, ce l’hanno il Ministero dell’Istruzione e del Merito e quello dell’Università e della Ricerca. Avrebbero, infatti, il compito di organizzare una formazione continua sull’antisemitismo e sulla cultura ebraica e israeliana (notare la distinzione) per il personale e gli studenti, e di prevenire e reprimere ogni episodio di antisemitismo nei luoghi del sapere.
La repressione in nome dell’antisemitismo l’abbiamo già sperimentata; il prossimo passo sarà l’indottrinamento a senso unico, perché ovviamente non esiste una sola cultura ebraica e in realtà nemmeno una sola cultura israeliana, come non esiste una sola cultura francese, o italiana, dal momento che, per fortuna, la produzione culturale di uno stato, o di un popolo, ma anche di uno stato nazionale che si vuole unico rappresentante legittimo di un popolo, non è, non può essere, omogenea.
A meno che, come in questo caso, non si stabilisca per legge (o meglio, per regolamenti attuativi, o circolari) che cosa è cultura ebraica e che cosa no; sarà cultura ebraica quella che legge tutta la storia del popolo e delle persecuzioni subite come un lungo e tortuoso processo giustificativo della fondazione dello Stato d’Israele, mentre sarà espunta tutta la parte che ha espresso ed esprime critiche rispetto a stato e governo israeliano, sia dentro che fuori Israele.
Scuola e Università sono ovviamente nell’occhio del ciclone perché giustamente visti come luoghi sensibili da attenzionare: l’applicazione eventuale di una norma del genere sarebbe patentemente incostituzionale, perché violerebbe la libertà di ricerca e insegnamento col tentativo di bollinare contenuti e critiche autorizzate ed altre illecite. I paragoni con la politica scolastica e culturale del fascismo sono inutili, perché banali.
Un disegno di legge così malmesso, con così palesi profili di incostituzionalità , così contrario al sentire comune del paese non potrà mai veramente attuarsi. Le piazze di queste settimane lo hanno dimostrato.
Il ddl Gasparri potrebbe diventare operativo solo se tutta l’energia sprigionatasi sparisse, spontaneamente, per stanchezza, presunzione, repressione o, peggio, paura e conformismo. Quello che dobbiamo fare, a partire proprio da lavoratrici e lavoratori della scuola, è quindi concentrare la nostra attenzione e le nostre energie contro questo tentativo maldestro di mettere il bavaglio a ogni critica nei confronti di un vero e proprio stato canaglia, razzista e genocida, difeso dai ricchi e potenti di tutto il mondo perché, oggi come quasi 8 decenni fa, è baluardo e cane da guardia degli interessi dei grandi gruppi industriali occidentali nel Medio Oriente.
Soprattutto, abbiamo il dovere di difendere, nel respingere questo ddl, la nostra Costituzione antifascista, la libertà nell’esercizio dell’arte e della scienza contro ogni tentativo di censura e controllo preventivo.
E abbiamo, come democratici e antifascisti, il dovere di difendere e rivendicare la vera lotta all’odio e alla discriminazione razziale nei confronti degli ebrei, la vera battaglia contro l’antisemitismo.
L’antirazzismo è nel nostro bagaglio culturale, che sia nei confronti degli ebrei o di qualunque altro popolo. Non possiamo lasciare che questa sacrosanta battaglia venga inquinata e distrutta dai nipotini di Giorgio Almirante (redattore della rivista “La difesa della razzaâ€, che preparava il sostrato ideologico del genocidio nazifascista), quelli che ancora oggi, nelle loro festicciole, inneggiano al nazismo, usano la parola “ebreo†come insulto e snocciolano con disinvoltura tutto il peggio del razzismo.
Noi non prendiamo, né prenderemo, lezioni di lotta all’antisemitismo dagli eredi della storia peggiore del Novecento.
L'articolo No al bavaglio contro la solidarietà al popolo palestinese! Blocchiamo il ddl Gasparri! proviene da Potere al Popolo.
Nel febbraio 2025, la Corte dei conti del Senegal ha pubblicato una relazione che ha riscontrato “anomalie†nella gestione delle finanze pubbliche tra il 2019 e il 2024, durante la presidenza di Macky Sall (2012-2024). La Corte ha scoperto che, mentre il governo di Sall aveva comunicato che il deficit di bilancio per il 2023 era pari al 4,9% del prodotto interno lordo (PIL), in realtà era del 12,3%. La Corte ha avviato questa ricostruzione delle finanze pubbliche a seguito di una accusa molto significativa mossa dal nuovo primo ministro del Senegal, Ousmane Sonko, durante una conferenza stampa tenutasi a Dakar nel settembre 2024. Ciò che i revisori hanno scoperto, e che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha confermato, è che il rapporto debito/PIL effettivo nel 2023 era pari al 99,7% – e non al 74,7% – e che il deficit era stato sottostimato del 5,6% del PIL (nell’agosto 2025, il rapporto debito/PIL è stato rivisto al 111% del PIL).
La situazione finanziaria del Senegal, ha affermato il primo ministro Sonko, è “catastrofica†a causa di tre problemi ereditati dal decennio di governo di Sall:
1. Una “politica di indebitamento sfrenato†che ha aumentato il debito pubblico del Paese cancellando la possibilità di qualsiasi crescita per ripagarlo.
2. Un’amministrazione che ha nascosto questo indebitamento e i profondi problemi dell’economia al popolo senegalese (che tuttavia ha respinto il successore scelto da Sall, Amadou Ba, nelle elezioni presidenziali del marzo 2024 e ha scelto invece Bassirou Diomaye Faye).
3. “Corruzione diffusaâ€, compresa la frode ai danni del fondo COVID del Paese da parte di quattro ministri.
Le prove che il governo di Sall abbia consapevolmente portato il Paese alla bancarotta e abbia sottratto denaro dalle casse dello Stato stanno lentamente venendo raccolte dal presidente Faye e dal primo ministro Sonko. Faye (nato nel 1980) e Sonko (nato nel 1974) sono entrambi ex funzionari fiscali che sono entrati in politica frustrati dai livelli di incompetenza, frode e corruzione nella politica e nella burocrazia senegalesi. Da giovani con ideali patriottici, Faye e Sonko hanno studiato all’École nationale d’administration e poi si sono incontrati alla Direzione generale delle imposte e dei beni immobili (DGID), dove Sonko aveva creato il sindacato autonomo degli agenti fiscali e immobiliari.
Nel 2011, la società canadese SNC-Lavalin si è aggiudicata un contratto da 50 milioni di dollari per la costruzione di un impianto di lavorazione delle sabbie minerali a Grande Côte. Tuttavia, in seguito nei Paradise Papers è stato rivelato che il governo senegalese aveva firmato il contratto con un’entità nota come SNC-Lavalin Mauritius. In altre parole, la società canadese era diventata una società delle isole Mauritius (fortunatamente, esisteva un trattato fiscale tra il Senegal e Mauritius che esentava le società registrate a Mauritius dal pagamento delle tasse in Senegal). Grazie a questo cambiamento di giurisdizione, SNC-Lavalin è riuscita a evitare di pagare almeno 8,9 milioni di dollari di tasse al Senegal (il fatturato annuo di SNC-Lavalin è di circa 6 miliardi di dollari, pari a un terzo del PIL del Senegal, che ha una popolazione di 18 milioni di abitanti).
Il primo ministro Sonko era un acceso oppositore di questo progetto e, nel gennaio 2014, ha formato un partito politico chiamato Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità (PASTEF) per portare avanti la lotta. Nel 2017 ha ottenuto un seggio all’Assemblea nazionale, dove ha sollevato la questione dei paradisi fiscali e dei furti aziendali. “Un paradiso fiscale può essere un paradiso per le multinazionali che vogliono evitare di pagare le tasseâ€, ha affermato nel 2018. “Ma per il Paese è un infernoâ€. Nel 2019, Sonko ha ottenuto quasi il 16% dei voti in una controversa elezione presidenziale. Nelle elezioni comunali e parlamentari del 2022, la coalizione guidata dal PASTEF denominata Yewwi Askan Wi (Liberate il popolo) ha ottenuto importanti risultati e il candidato del Partito Socialista del Senegal Barthélémy Dias è stato eletto sindaco di Dakar. L’allora presidente Sall era furioso con questi ex funzionari e ha cercato di mettere al bando il loro partito e di zittire Sonko. Ciò ha portato a grandi manifestazioni nel 2023-2024 che sono culminate nella vittoria elettorale di Faye e Sonko. Non sorprende che questi ex funzionari fiscali abbiano scavato nei registri contabili e scoperto prove di frode.
Ma Sall e il suo governo sono gli unici colpevoli di frode? Dopo tutto, l’intera burocrazia senegalese, compresa la Corte dei conti, non sembra aver dato seguito alle denunce presentate da Sonko e altri, né alle rivelazioni dei Paradise Papers.
Forse l’atto di malversazione più eclatante non è stato commesso dal governo senegalese, ma dall’FMI. Da quando Sonko ha iniziato a sollevare la questione nel 2017, l’FMI ha pubblicato almeno sette rapporti sul Senegal, nessuno dei quali indicava che ci fossero problemi con le modalità di rendicontazione del debito o delle finanze. Il rapporto del personale dell’FMI del 2019, ad esempio, ha osservato che le modalità di revisione contabile del Senegal erano conformi agli International Financial Reporting Standards e che il Paese aveva sottoscritto lo Special Data Dissemination Standard dell’FMI nel 2017. Se l’FMI ha approvato i dati forniti dal Senegal, allora è responsabile di frode tanto quanto il governo Sall e dovrebbe essere chiamato a risponderne.
Nell’ottobre 2024, a seguito delle rivelazioni sulle irregolarità nella rendicontazione di bilancio, l’FMI ha sospeso il programma di prestiti al Senegal. Nel marzo 2025, la relazione dello staff del FMI ha sottolineato la “necessità di riforme urgenti†nella burocrazia e nelle istituzioni del Senegal (ma non nell’FMI stesso). Nello stesso periodo, il portavoce dell’FMI Julie Kozack ha affermato che il Senegal potrebbe non dover restituire i prestiti fraudolenti del governo Sall grazie alla buona fede con cui il governo Faye-Sonko ha condotto una verifica per chiarire tali irregolarità . Tuttavia, questa deroga era soggetta a condizioni, in quanto doveva essere parte dei negoziati tra l’FMI e il Senegal.
L’FMI ha mostrato le sue carte nel rapporto del personale dell’agosto 2025: voleva utilizzare la possibilità di una deroga per ottenere concessioni dal nuovo governo, compresi cambiamenti strutturali per erodere ciò che restava della sovranità senegalese. Il governo Faye-Sonko ha ottenuto un mandato popolare per rafforzare la sovranità . L’FMI sta utilizzando l’onestà del governo Faye-Sonko riguardo alla frode del governo precedente per minarlo. Ciò che l’FMI cerca è un maggiore accesso ai “settori strategici†(come l’energia e l’agricoltura) attraverso le multinazionali, una disciplina fiscale più rigorosa da parte del governo (cioè meno spesa sociale per la classe operaia e i contadini) e la continuazione del Plan Senegal Émergent del 2014 di Sall, che usa parole d’ordine tecnocratiche per mascherare il drenaggio della ricchezza nelle mani delle multinazionali straniere e dell’élite senegalese. La deroga penderà sul governo di Faye-Sonko per costringerlo a scambiare la sua agenda di sovranità con l’agenda di sottomissione dell’FMI.
Il caso del Senegal non è insolito. Negli anni ’80, i governi militari sostenuti dagli Stati Uniti in America Latina hanno contratto prestiti fuori bilancio, che l’FMI ha preso sul serio a parole ma non nei fatti. Nel 2000, l’FMI ha individuato una falsa dichiarazione da parte del governo militare pakistano, ma ancora una volta non ha fatto nulla, soprattutto dopo che il Pakistan ha aderito con entusiasmo alla guerra al terrorismo degli Stati Uniti nel 2001. Nello stesso periodo, l’FMI ha perdonato all’Ucraina la falsa dichiarazione sul debito, agendo ancora una volta sotto la pressione del governo statunitense che cercava di mantenere l’orientamento filo-occidentale del presidente Leonid Kuchma. Più o meno lo stesso è accaduto al Congo-Brazzaville nel 2002 e al Gambia nel 2003. Nel 2006, l’FMI ha pubblicato un documento su come rendere le politiche di rendicontazione errata “meno onerose†in modo da non gravare i paesi con pesanti sanzioni. Questo atteggiamento ha influenzato il trattamento riservato dall’FMI al Mozambico nel 2016, quando l’esportatore di energia ha dovuto affrontare le sfide poste dai debiti nascosti.
I governi favoriti da Washington vengono puniti con una semplice bacchettata sulle mani, mentre quelli desiderosi di sviluppare una politica sovrana vengono puniti severamente.
A settembre, il grande musicista senegalese Cheikh Lô (nato nel 1955) ha pubblicato un nuovo album intitolato Maame (2025). L’album contiene un brano reggae intitolato African Development che inizia con Cheikh Lô che intona i nomi di Cheikh Anta Diop, Thomas Sankara e Nelson Mandela prima di improvvisare sulle parole “Free, free, free Africa… Africa must go be freeâ€. Questa canzone è un ritorno alle origini, alle speranze e alle aspirazioni di quando il Senegal conquistò l’indipendenza nel 1960 e issò la sua bandiera sotto la guida del suo primo presidente, Léopold Sedar Senghor. “La salute prima di tuttoâ€, canta Cheikh Lô, che prosegue elencando una serie di richieste:
Agricoltura, allevamento, pesca.
Istruzione: tempio della conoscenza.
Formazione professionale.
Creazione di posti di lavoro per i giovani.
Sicurezza pubblica.
Preservare le risorse naturali.
Combattere la povertà .
Combattere la corruzione.
Giustizia indipendente ed equa.
Sviluppare la democrazia.
La libertà per l’Africa è ben lungi dall’essere garantita dalle cinquantaquattro bandiere che sventolano nelle cinquantaquattro capitali del continente. La libertà potrà arrivare solo quando i popoli africani affermeranno il controllo sovrano sulle proprie risorse e si emanciperanno dalle umiliazioni del capitalismo e dell’imperialismo.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantunesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo L’AFRICA SARÀ LIBERA QUANDO L’FMI SMETTERÀ DI COLLUDERE PER RUBARNE LE RICCHEZZE proviene da Potere al Popolo.
14 ottobre, Manifestazione nazionale, UDINE, piazza della Repubblica, ore 17:30
“Qual è la differenza tra Israele e la Russia, esclusa dalle competizioni sportive? Io credo che ci sia una differenza […]. La Russia è un Paese aggressore, Israele è stato aggreditoâ€.Queste sono le parole incredibili di un Ministro della Repubblica, il Ministro dello Sport Abodi, pronunciate in pieno agosto.
Il 14 ottobre a Udine è in programma Italia-Israele, partita valida per le Qualificazioni ai Mondiali 2026, dopo due anni di genocidio certificato dall’ONU. Fino a oggi Israele ha ucciso almeno 64mila palestinesi.Di questi, almeno 20mila erano bambini. Il 90% di Gaza è stato raso al suolo. E Israele sarebbe il paese aggredito.
Questa partita, Italia-Israele, non s’ha da fare.
Che c’entrano il calcio e lo sport, chiederà qualcuno? Peccato non possiamo più chiederlo ad almeno 807 sportivi palestinesi, perché non sono più tra noi. Uccisi da Israele. 420 erano calciatori. 103 giovanissimi.
Chi è l’aggressore, Ministro Abodi?
Il sistema calcio israeliano è direttamente partecipe dell’occupazione della Palestina: prima dell’inizio del genocidio 6 club sotto l’egida della Associazione Calcistica Israeliana avevano la propria sede nei Territori Occupati. Oggi sono addirittura 9.
Ospitare la nazionale israeliana significa normalizzare e legittimare l’occupazione israeliana della Palestina.
In quasi due anni di genocidio, chi ha il potere ha deciso che non ci fosse un minuto di silenzio. Nessuna fascia a lutto sulle braccia dei calciatori.
Ospitare la nazionale israeliana significa essere complici dell’occupazione e del genocidio. Significa aver dimenticato la lezione della Storia, quando sconfiggemmo un altro Stato di Apartheid, il Sudafrica razzista, che escludeva dallo sport la popolazione nera, grazie anche al boicottaggio sportivo.
Questa partita, Italia-Israele, non s’ha da fare.
L'articolo NO ALLA PARTITA ITALIA ISRAELE proviene da Potere al Popolo.
Il rientro dell’equipaggio della Global Sumud Flotilla non esaurisce il percorso che abbiamo iniziato, anzi. Innanzitutto perché il popolo palestinese è ancora sotto l’azione martellante dell’esercito israeliano e il genocidio non si è fermato. Ma anche perché è sempre più evidente la ragione della complicità del governo Meloni con lo Stato terrorista di Israele.
Tel Aviv sta agendo per conto dei paesi occidentali, Stati Uniti in testa, sta facendo il lavoro sporco per loro, come ha ammesso il cancelliere tedesco Merz qualche mese fa. Israele è il paese che guida la crociata dell’occidente contro il resto del mondo, il leader mondiale del neocolonialismo e della salvaguardia della supremazia bianca sul pianeta. Ecco perché, mentre i paesi europei mantengono inalterato il sostegno al regime di Netanyahu, contemporaneamente approvano un gigantesco piano di riarmo da 800 miliardi, aumentano le risorse economiche alla Nato e promuovono una drastica conversione del sistema produttivo verso l’economia di guerra. La complicità con Israele e le politiche di riarmo sono le due facce di una stessa medaglia. E il prezzo che stiamo pagando per queste politiche da incubo lo sentiamo nei salari e nelle condizioni di vita e di lavoro.
La riuscita di due scioperi generali in pochi giorni e i milioni di persone che si sono riversati nelle piazze di tutto il Paese, bloccando porti, stazioni ed autostrade, segnalano un risveglio molto forte della voglia di cambiamento. L’opposizione parlamentare non è stata in grado farsi interprete di questa spinta ed ora non dobbiamo consentirgli di imbrigliarla nelle vecchie logiche che portano alla sconfitta e alla smobilitazione. C’è la possibilità di scrivere una pagina completamente nuova e non dobbiamo lasciarci intimorire.
La solidarietà al popolo palestinese deve restare la priorità di tutti e dobbiamo continuare a boicottare e sanzionare l’economia israeliana, in modo sempre più capillare, a cominciare dal blocco del commercio delle armi con Israele. Ma è arrivato il momento di allargare il nostro sguardo alle politiche di riarmo, sapendo che “non vogliamo lavorare per la guerraâ€. Dal rifiuto di collaborare con le operazioni belliche all’obiezione di coscienza verso le attività che alimentano il settore militare: è il momento di organizzare una mobilitazione permanente che impedisca al governo Meloni di trascinarci verso la guerra. E per farlo abbiamo bisogno di collegare la lotta contro la guerra agli effetti sociali del riarmo: i bassi salari, l’aumento dello sfruttamento, la precarietà , il taglio dei servizi pubblici, il carovita. È ora di costruire un ampio fronte popolare contro il governo Meloni che non svenda la straordinaria partecipazione di queste settimane.
Le 100 piazze per Gaza ora devono avere la capacità di trasformarsi in 100 assemblee permanenti operative e darsi da subito un piano d’azione che le porti in poche settimane a convocare una grande assemblea nazionale per “Blocchiamo tutto – Blocchiamo genocidio, guerra e riarmoâ€.
Non è il momento di fermarsi ma di organizzarsi in tutto il Paese per proseguire la mobilitazione. Ora sappiamo che è possibile. Blocchiamo tutto per cambiare tutto.
L'articolo BLOCCHIAMO TUTTO, SI PUÃ’ CAMBIARE TUTTO! NON ABBASSIAMO LA GUARDIA, ORGANIZZIAMOCI! PROPONIAMO 100 ASSEMBLEE OPERATIVE PERMANENTI PER FERMARE IL GENOCIDIO E FERMARE LA GUERRA proviene da Potere al Popolo.
ASSEMBLEA NAZIONALE
SABATO 25 OTTOBRE, ORE 10:30
NUOVO CINEMA AQUILA, ROMA
Oggi che milioni di persone in tutto il mondo rialzano la testa.
Oggi che il sostegno alla Palestina e il ripudio del genocidio israeliano mobilitano una massa sempre più vasta, che attorno alla Global Sumud Flotilla si realizza una solidarietà senza precedenti che vede in prima linea i lavoratori dei porti.
Oggi che scioperare, manifestare, bloccare, diventano di nuovo pratiche per migliaia di lavoratrici e lavoratori, per cittadini a cui è stato raccontato che “tanto non serve a nullaâ€.
Oggi che una nuova generazione prende consapevolezza dei rischi globali, della catastrofe ecologica, delle guerre, dello sfruttamento – ma anche delle potenzialità dello sviluppo, della forza della cooperazione sociale…
Oggi che si fa avanti il bisogno e il desiderio di ribellarsi, non possiamo permettere che questi movimenti siano sconfitti o assorbiti dal sistema. Dobbiamo svilupparli e costruire una vera alternativa.
Negli ultimi trent’anni in Europa abbiamo visto allargarsi la separazione tra popolo e istituzioni. Governi di destra e di centrosinistra hanno applicato sostanzialmente la stessa politica economica: privatizzazioni, austerità di bilancio, smantellamento dei diritti del lavoro e dello stato sociale, contenimento salariale, attacco alle pensioni, priorità assoluta al mercato e ai profitti delle imprese.
Hanno portato avanti la stessa politica migratoria, erigendo una fortezza intorno all’Europa, finanziando Libia e Turchia, lasciando i migranti morire in mare, rinchiudendoli in veri e propri lager, ricattandoli sui documenti per sfruttarli meglio, deportandoli.
Destra e centrosinistra hanno realizzato la stessa politica sociale, tagliando su istruzione, sanità , ricerca, edilizia pubblica. E hanno poi represso le manifestazioni popolari, restringendo ovunque gli spazi di democrazia e partecipazione… Il risultato è stata la passivizzazione della popolazione e il ritorno sulla scena, a 80 anni dalla sconfitta del nazifascismo, dell’estrema destra in Europa.
In Italia abbiamo visto tutto questo e anche di più, perché le politiche neoliberiste sono state imposte in maniera ancor più forte. I principali sindacati CGIL, CISL, UIL hanno accettato le ragioni del mercato e si sono resi sostanzialmente complici tramite la concertazione e il moderatismo, arrivando all’attiva collaborazione, come nel caso della dirigenza CISL direttamente cooptata nel governo… Con il risultato che nel nostro paese i salari – caso unico in Europa – in trent’anni hanno perso potere d’acquisto, le tutele per i giovani sono minori che altrove, dilagano il lavoro nero, gli stage, gli apprendistati, spingendo centinaia di migliaia di italiani a emigrare.
In questa confusione, in questa guerra tra poveri, in questa stanchezza, il governo Meloni è arrivato per fare quello che sempre fa la destra: comprimere ulteriormente i diritti delle classi popolari, dare più soldi ai ricchi, additare falsi nemici che distolgano l’attenzione. Al di là di qualche dichiarazione populista, Meloni ha continuato la stessa politica anti-popolare di Draghi e Von der Leyen per accreditarsi presso le élite occidentali e sperare di ricevere qualche briciola.
Ma le cose stanno cambiando. Nel permanere della globalizzazione la frammentazione del mercato mondiale sta determinando l’emergere di un mondo nuovo, più complesso, in cui ex stati colonizzati o battuti, provano a mediare i propri interessi, spesso in competizione, tramite strumenti come i BRICS e, cresciuti in ricchezza e potere, cercano di rinegoziare l’ordine mondiale a loro favore. Questo determina una feroce risposta da parte dell’imperialismo a guida USA: interventi militari, economia di guerra, riarmo. E nello scontro torna addirittura la minaccia nucleare, con Stati Uniti e Russia che posseggono più di 5000 testate nucleari ognuno…
È sempre più evidente che lo sbocco delle politiche liberiste è la guerra, come vediamo in Ucraina, o il genocidio, come vediamo in Palestina, dove Israele ha il sostegno o la connivenza occidentali perché si presenta come il bastione del suprematismo, avamposto di controllo del Medio Oriente. E sempre più persone capiscono che per conquistare la pace bisogna rovesciare il sistema economico, guerrafondaio, anti-democratico dominante oggi nel mondo. Mettere pressione ai nostri governi dal basso, nelle piazze, nei luoghi della formazione, nei posti di lavoro. Ma allo stesso tempo essere anche capaci di entrare nelle istituzioni e nei media per denunciare cosa accade, bloccarne il “normale†funzionamento, ottenere delle vittorie. Dove questo è accaduto – come in Francia, Spagna, Belgio, America Latina… – alcuni risultati sono arrivati. Dove l’opposizione sociale non ha prodotto anche una forte rappresentanza politica e mediatica, le politiche guerrafondaie e anti-popolari sono proseguite indisturbate.
È questo il problema che si pone anche in Italia. Lo abbiamo visto con il movimento iniziato il 22 settembre con un milione di persone in piazza e che ha attraversato tutta l’Italia fino ad arrivare allo sciopero generale del 3 e all’oceanica manifestazione di Roma del 4: c’è una vasta sensibilità popolare contro il genocidio, le politiche di guerra, il neoliberismo, l’ingiustizia del forte contro il debole. C’è una grande consapevolezza di cosa non va. C’è ancora un grande odio contro i privilegi piccoli e grandi. Davanti al Governo Meloni che fa la voce forte solo con i deboli ma poi si svende a USA e Israele, davanti alle ambiguità e incoerenze di PD e 5 Stelle, che persino sulla Flotilla non operano per disinnescare il conflitto, entra in difficoltà il sistema e nasce la voglia di qualcosa di nuovo. Che però deve fare i conti con molta sfiducia nella politica. Lo certifica uno studio dell’Istat appena uscito sulla partecipazione politica: milioni di cittadini, soprattutto delle classi popolari, non si informano nemmeno di politica, perché sono convinti di non poter cambiare le cose.
Noi vogliamo combattere questa sfiducia e far apparire in Italia una politica differente. Una politica che dia continuità ai movimenti ed evitare che vengano dispersi dalla repressione o dal riflusso, una politica che sappia interpretare i bisogni popolari, che combatta ferocemente Meloni ma che rifiuti anche un centrosinistra che non è in grado di fare un’opposizione degna, che è compromesso con tutti i poteri, europei, atlantici, fino a quelli di padroni e padroncini sui territori.
Una politica che ripudi la guerra e l’economia di guerra, che rompa con la NATO e lo Stato di Israele, che si batta contro un’Unione Europea sempre più reazionaria e guerrafondaia e che sia per il disarmo e per costruire nuove relazioni internazionali. Una politica di moderno socialismo, in grado di garantire eguaglianza sociale, pianificazione ecologica e giustizia climatica, redistribuzione della ricchezza, diritti e partecipazione alle lavoratrici e ai lavoratori, controllo popolare. Che sappia abolire l’apartheid per i migranti, i sistemi elettorali truccati ripristinando un sistema proporzionale, facendo rispettare le parti più avanzate della nostra Costituzione.
Una politica del genere non è un’utopia. È qualcosa che è già in marcia. Negli ultimi due anni si è andata sempre più stringendo un’alleanza tra settori del mondo studentesco e giovanile, sindacati conflittuali come l’USB, reti ecologiste, case del popolo, centri sociali e comitati locali, mondo della cultura radicale e organizzazioni politiche. Quest’alleanza è scesa in piazza diverse volte, costruendo grandi cortei nazionali, come quello del 21 giugno contro la NATO o giornate come quella del 22 settembre contro il genocidio, attirando l’attenzione mediatica, e anche l’attenzione degli apparati repressivi che non a caso hanno provato ad infiltrare – cosa senza precedenti – Potere al Popolo.
Ora vogliamo allargare quest’alleanza. Vogliamo farla diventare un blocco sociale e politico che nel 2027 riesca a far entrare nelle istituzioni i soggetti sociali che non sono rappresentati. Persone degne e coraggiose che sappiano fare opposizione e soprattutto la facciano a contatto con chi quotidianamente lotta. Che sappiano rappresentare gli interessi della maggioranza contro la minoranza di privilegiati. Che sappiano far apparire una politica bella, entusiasmante, che sfrutti l’invenzione e la forza popolare per fare dell’Italia un paese più felice e non condannato all’estinzione e alla marginalità .
È il momento di cambiare tutto.
Potere al Popolo!
L'articolo IL MOMENTO DI CAMBIARE TUTTO. APPELLO ALLA COSTRUZIONE DI UN BLOCCO POLITICO E SOCIALE INDIPENDENTE VERSO IL 2027 proviene da Potere al Popolo.
Con ancora negli occhi le immagini dell’incredibile mobilitazione di sabato a Roma, che ha visto un milione di persone scendere in piazza, vorremmo ripercorrere e fare qualche considerazione su questo “weekend lungo†di lotta.
Nel giro di dieci giorni ci sono stati ben due scioperi generali indetti per la Palestina, due scioperi “politiciâ€, nel senso migliore del termine, capaci cioè di collegare il malcontento generalizzato, anche se spesso inespresso in forme collettive, per condizioni di vita in via di costante peggioramento e per la compressione dei diritti con questioni di carattere internazionale e generale, con un sentimento di indignazione e di ingiustizia per quello che sta accadendo in Palestina e per il silenzio e la colpevole complicità a riguardo del nostro Governo, ma anche delle forze di opposizione, fin troppo timide nel sottolineare il ruolo dell’Italia nell’azione genocidiaria di Israele.
Non è solo il fatto che lo stato sionista abbia palesemente oltrepassato ogni limite di crudeltà ad aver costituito la leva per una riattivazione così potente; c’è anche il dato di realtà che di Palestina non si è (quasi) mai smesso di parlare, per decenni. Ci sono state epoche in cui la questione palestinese riempiva piazze enormi, altre in cui radunava soltanto qualche centinaio di persone. Se oggi siamo qui a non smettere di contare le piazze, è anche grazie a quelle poche migliaia di persone che, in momenti in cui era letteralmente impossibile, hanno continuato a parlare di Palestina, a gridare il proprio sostegno alla Resistenza, a ribaltare punto su punto la narrazione dominante. A mostrare come la lotta palestinese parlasse anche delle nostre vite.
Da anni ci confrontiamo con indagini e analisi autorevoli che ci restituiscono la fotografia di un paese immobile, in cui a farla da padrone sono il rifiuto e la disaffezione per la politica e dove primeggiano individualismo e menefreghismo; da anni chiunque militi si scontra con un muro di sfiducia, disinteresse, ritiro nel privato, sentimenti di sconfitta talmente forti da sopraffare le persone più generose e determinate tra di noi, finché all’improvviso ti ritrovi questo. Tutto ciò che possiamo dire, oggi, è che quantomeno va corretto l’aggettivo che Censis e compagnia attribuiscono da anni all’Italia: paese “silenteâ€, sicuramente, ma evidentemente non immobile. Un paese dove la crisi economica, diventata la nostra condizione stabile di esistenza, al netto di lievissimi mutamenti, da almeno un quindicennio, ha zittito il dissenso, ma ha probabilmente scavato solchi carsici di insofferenza sempre più profondi, ha man mano esaurito le capacità di sopportazione, non è riuscita a cancellare il bisogno collettivo di una vita più degna.
È quindi particolarmente importante, da nostro punto di vista, tenere assieme entrambi i piani per comprendere la straordinaria riuscita della giornata di sabato e delle mobilitazioni locali dei giorni immediatamente precedenti. Se in tutto il paese, da Nord a Sud, dalle grandi città ai centri più piccoli, abbiamo scioperato, siamo scesi in piazza al grido di “Blocchiamo tutto!†non è per un semplice sentimento umanitario. Quello che sta accadendo in Palestina e la resistenza del suo popolo sono elementi immediatamente politici: che dicono molto sulle ingiustizie che si consumano ad ogni latitudine e sulla capacità di rispondere e reagire ad esse. Ancora una volta la Palestina mostra la strada.
Queste mobilitazioni e questi scioperi hanno visto una partecipazione massiccia e trasversale, ma uno degli aspetti sui quali vorremmo soffermarci in particolare è quello del rinnovato protagonismo di lavoratrici e lavoratori del nostro paese. Per ritrovare nella nostra storia una situazione simile (due scioperi generali sostanzialmente riusciti in meno di due settimane), bisogna tornare al 1953 e ai 2 scioperi generali indetti in una settimana, a Gennaio, contro la cosiddetta “legge truffaâ€; per ritrovare, invece, uno sciopero generale indetto senza preavviso, all’epoca con effetto immediato, occorre risalire “solo†al 16 Marzo 1978, quando le tre principali organizzazioni sindacali proclamarono sciopero dalla notizia del sequestro di Aldo Moro fino alla mezzanotte di quel giorno. Siamo dunque di fronte a qualcosa di eccezionale e di inedito nella vita di diverse generazioni di lavoratrici e lavoratori scesi in piazza il 22 Settembre ed oggi. Se aggiungiamo un altro dato, e cioé la proclamazione del primo sciopero dalle sole sigle del sindacalismo conflittuale (escluso dalla rappresentanza in molti settori per leggi e accordi firmati dai confederali) e del secondo “anche†dalla CGIL alla rincorsa dopo il tremendo harakiri del 19 Settembre scorso, possiamo certamente dirci che c’è qualcosa di oggettivamente nuovo che si muove in questo paese.
Hanno iniziato i portuali e in generale la logistica, interferendo materialmente nella macchina di morte sionista. Li hanno seguiti man mano altri settori, alcuni “insospettabili†come la scuola, dove dopo due anni di repressione e caccia alle streghe sul tema Palestina le e gli insegnanti hanno detto “bastaâ€, e non l’hanno fatto sommessamente. A partire dall’iniziativa di USB e degli altri sindacati di base e dal 22 settembre migliaia di lavoratori e studenti sono scesi in piazza anche nelle più piccole città di provincia, sono stati bloccati i porti a Livorno, Marghera, Salerno, Genova, le autostrade e le tangenziali invase a Roma, Bologna, Firenze, le stazioni occupate a Napoli, Roma, le università e le scuole chiuse. Il 2 e il 3 ottobre altrettante manifestazioni e blocchi in tutto il paese hanno mostrato che le proteste non cessavano, ma anzi si rafforzavano reciprocamente di giorno in giorno. E l’autunno è appena iniziato.
Quello che è stato possibile nell’ultimo mese è dunque il risultato di un lavoro grigio, noioso, sotterraneo, che poche migliaia di militanti in diverse organizzazioni radicali nel nostro paese, portano avanti da anni. Protagoniste di queste settimane sono organizzazioni piccole, senza soldi, con una quantità incredibile di limiti e problemi, per anni o decenni trascurate e ignorate dai media nazionali perché “ininfluentiâ€: strutture politiche e sindacali, associazioni, collettivi studenteschi, comitati e movimenti sociali che lavorano incessantemente anche nella più piccola provincia italiana. Queste organizzazioni oggi stanno letteralmente dirigendo le piazze. Il primo sindacato italiano, la CGIL, che da troppi anni dell’organizzazione sembrava conservare solo gli elefantiaci apparati, si è dovuta mettere in scia, sotto la pressione di tanti soggetti che sperano che questa sollevazione ritorni, nel più breve tempo possibile, “compatibileâ€. Tutti proveranno a “prendersi†queste piazze per riportarle in un recinto tranquillizzante, ma la partita è aperta. E qui veniamo ai nostri compiti.
Il primo, immediato, è semplice a dirsi: non fermarsi. La bella giornata di sabato non può certo farci dimenticare che in Palestina è ancora in corso un genocidio.
Ma anche – questione che ci consente ancora di evidenziare le contraddizioni dei nostri Governi e di costringerli a modificare i loro piani e i loro rapporti con lo stato sionista – che ci sono attiviste e attivisti della Global Sumud Flottilla che sono ancora illegittimamente nelle prigioni israeliane sotto minaccia di detenzioni lunghe e probabilmente oggetto di torture e vessazioni. Noi dobbiamo continuare bloccare tutto per esigere la loro liberazione. La pressione esercitata in queste settimane è servita tantissimo: lo stato sionista si è trovato in estrema difficoltà , e con esso il nostro servilissimo Governo, che ha messo su il disco rotto della sinistra dei centri sociali, dei weekend, delle barchette di gitanti perché non sa, letteralmente, che cosa fare e dire. Da questo punto di vista, la mancata precettazione di fronte allo sciopero senza preavviso è un segnale di estrema debolezza, o quantomeno di realistica consapevolezza della forza della controparte, cioé noi. Come lo è il tentativo di cancellare il milione di persone scese in piazza ieri: Meloni può anche continuare a parlare della “festa dei nonni†o delle sue preghiere a San Francesco d’Assisi, ma sa che in questi giorni è successo qualcosa di storico con il quale dovrà fare i conti per i prossimi mesi e anni. Che c’è stato un risveglio, una presa di coscienza del fatto che è possibile scioperare e lottare, che vale la pena anche rischiare e pagare (in senso metaforico e non solo) di tasca propria per difendere diritti e ideali.
Per non fermarci dobbiamo capire come continuare, al di là dei momenti collettivi, nel quotidiano. I portuali l’hanno capito, chi lavora nella logistica pure, così come, con le dovute differenze, chi sta nella ricerca o nell’istruzione accademica. E gli altri? Più che cercare indicazioni specifiche per settore, occorre innanzitutto che tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori smettano di chinare la testa e obbedire. La forza dei nostri nemici è il nostro silenzio e la nostra obbedienza. Quando ci solleviamo, loro si spaventano e noi ci rendiamo conto della nostra forza. Dobbiamo portare la resistenza in ogni luogo di lavoro, rifiutandoci di sostenere la catena internazionale dello sterminio con ogni mezzo possibile e necessario. Mai più silenzio, mai più rinuncia, occorre riprendersi il terreno metro dopo metro e rendere questo paese ingovernabile, inceppare la macchina operativa e ideologica del genocidio.
Abbiamo già visto momenti di esplosione delle lotte a cui è seguito il riflusso e la repressione. Riflusso e repressione si arginano in un solo modo: costruire e rafforzare le organizzazioni politiche e sindacali radicali. Non c’è spontaneismo e non ci sono eccedenze: si tratta di lavorare per raccogliere quanto più possibile, riempire i nostri “granai†per aprire nuovi fronti, per portare l’attacco al governo più a destra della storia della Repubblica. Dobbiamo dichiarare e perseguire l’obiettivo della caduta del governo Meloni, vero e proprio perno dell’internazionale “sovranista†reazionaria di estrema destra. Dobbiamo smascherare le ipocrisie delle opposizioni, Partito Democratico in primis, responsabili non solo dell’affermazione di questo Governo autoritario ma, ormai da molti decenni, delle politiche antipopolari che hanno portato a un peggioramento delle nostre vite, a processi di impoverimento e precarizzazione e a una sempre maggior contrazione degli spazi di democrazia sul posto di lavoro e nella società .
L’Italia, per mille motivi, è stata ed è tuttora un laboratorio politico, con incredibili capacità di anticipare tendenze europee ed occidentali. Dopo la manifestazione di sabato tutti i paesi d’Europa – e non solo – ci guardano. Negli ultimi tre decenni almeno abbiamo anticipato solo tendenze negative e reazionarie, come delle orribili Cassandre. Forse è arrivata l’occasione per anticipare una risposta, di divenire avanguardia non del sentimento di sconfitta e della passività ma della lotta e della possibilità di cambiare.
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Il 7 ottobre 2025 segnerà il secondo anniversario del genocidio in corso da parte di Israele a Gaza. La pagine dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle vittime palestinesi, aggiornata regolarmente con le cifre fornite dal Ministero della Salute palestinese e dalle agenzie delle Nazioni Unite, mostra che circa 66.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza negli ultimi due anni, ovvero 30 persone su 1.000 che vivevano a Gaza (questi numeri, tuttavia, potrebbero essere troppo bassi, poiché il ministero ha spesso ammesso di non essere in grado di tenere il passo con il ritmo di morti e di non sapere quante persone siano sepolte sotto le tonnellate di macerie).
L’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, l’UNICEF, calcola che 50.000 bambini palestinesi siano stati uccisi o feriti. Come ha affermato Edouard Beigbeder, direttore regionale dell’UNICEF per il Medio Oriente e il Nord Africa e veterano dell’UNICEF con vent’anni di esperienza:
Questi bambini – vite che non dovrebbero mai essere ridotte a numeri – fanno ora parte di una lunga e straziante lista di orrori inimmaginabili: gravi violazioni contro i bambini, blocco degli aiuti, fame, costanti sfollamenti forzati e distruzione di ospedali, sistemi idrici, scuole e case. In sostanza, la distruzione della vita stessa nella Striscia di Gaza.
La dichiarazione di Beigbeder si basava su una valutazione dei fatti degli ultimi due anni. Infatti, l’anno precedente, il commissario generale dell’agenzia delle Nazioni Unite per la Palestina (UNRWA) Philippe Lazzarini aveva affermato che ogni giorno dieci bambini perdevano una o entrambe le gambe a causa dei bombardamenti israeliani. Pochi mesi dopo, Lisa Doughten dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari al Consiglio di sicurezza dell’ONU ha dichiarato che “Gaza ospita la più grande coorte di bambini amputati della storia modernaâ€. Queste notizie hanno ricevuto poca o nessuna attenzione dai principali media.
Il 16 settembre, la Commissione internazionale d’inchiesta indipendente dell’ONU sui territori palestinesi occupati ha pubblicato un rapporto di settantadue pagine ricco di fatti che concludeva “su basi ragionevoli†che il governo israeliano, i suoi alti funzionari e l’esercito avevano commesso e continuavano a commettere atti (actus reus) di genocidio con l’intenzione di commettere tali atti (mens rea). Questo giudizio è molto più ampio della conclusione della Corte internazionale di giustizia del gennaio 2025, che ha trovato prove “plausibili†di genocidio. La commissione è guidata da Navi Pillay, ex giudice dell’Alta Corte sudafricana e della Corte penale internazionale, che ha ricoperto la carica di Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dal 2008 al 2014. Nella sua dichiarazione alla stampa dopo la pubblicazione del rapporto, è stata chiara e diretta: “La Commissione ritiene che Israele sia responsabile del genocidio a Gaza. È chiaro che esiste l’intenzione di distruggere i palestinesi a Gaza attraverso atti che soddisfano i criteri stabiliti nella Convenzione sul genocidioâ€.
Non c’è bisogno di discutere ulteriormente il caso. Queste sono le parole più forti possibili.
A metà settembre ho visitato i campi profughi palestinesi in Libano, dove lo stato d’animo oscilla tra sconforto e resilienza. Almeno quattro generazioni di palestinesi vivono in tre dei più grandi campi palestinesi del Libano: Ain al-Hilweh, fondato a Saida nel 1948 dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR); Shatila, fondato a Beirut nel 1949 dal CICR; e Mar Elias, fondato a Beirut nel 1952 dalla Congregazione di Sant’Elia.
1. La generazione della Nakba (Catastrofe), arrivata in Libano nel 1948 quando era ancora bambina o giovane adulta, proveniente principalmente da quella che oggi è la parte settentrionale di Israele.
2. La seconda generazione di rifugiati palestinesi, la prima nata nei campi profughi. Essi costituirono il nucleo della resistenza armata come fedayeen (combattenti) attraverso varie nuove organizzazioni politiche palestinesi come Fatah (fondata nel 1957), l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (fondata nel 1964) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (fondato nel 1967).
3. La terza generazione, nata negli anni ’70 e ’80, raggiunse la maggiore età durante l’occupazione israeliana del Libano (1982-2000) e si fece le ossa politicamente nella prima Intifada (1987-1993) e nella seconda Intifada (2000-2005). Molti di loro si sono allontanati dalle organizzazioni della generazione precedente e sono entrati nella Jihad islamica palestinese (fondata nel 1981) e Hamas (fondata nel 1987).
4. La quarta generazione, nata negli anni ’90 e dopo, che è cresciuta in un periodo di opportunità sempre più limitate nei campi e con un crescente senso di futilità e rabbia.
Quattro generazioni hanno vissuto in questi campi, lontani dalle loro case in Palestina, dal 1948. Guardano a sud e si chiedono quando potranno esercitare il loro diritto al ritorno, un diritto garantito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite del dicembre 1948.
Sia in Cisgiordania che in Giordania o in Libano, il senso di rabbia assoluta e disperazione nei campi profughi è travolgente. I palestinesi che vivono lì guardano le immagini provenienti da Gaza, la distruzione assoluta e il genocidio inarrestabile. Si sentono impotenti. L’impulso di prendere le armi e combattere per difendere il popolo di Gaza è travolgente ma impossibile. Si sentono scherniti dagli israeliani, il cui freddo assassinio di bambini palestinesi porta la rabbia al punto di ebollizione. Alcuni di questi giovani mi hanno preso da parte a Shatila e mi hanno mostrato un video virale di un professore cinese, il dottor Yan Xuetong dell’Università di Tsinghua, che discuteva con un rappresentante militare israeliano, il colonnello Elad Shoshan, al Forum di Xiangshan a Pechino nel settembre 2025.
Quando il colonnello Shoshan ha cercato di difendere il genocidio, il dottor Yan lo ha interrotto dicendo: “Il vostro governo non ha alcuna legittimità [o] il diritto di decidere o definire cosa siano i fattiâ€. Il dottor Yan ha zittito i borbottii di Shoshan sul terrorismo con l’affermazione diretta che c’è solo “troppa propaganda†e che “nessuno ci crede, tranne pochi israelianiâ€. La rabbia del dottor Yan è piaciuta ai giovani palestinesi, che hanno visto i propri sentimenti rispecchiati nelle sue parole e nella sua convinzione. Non hanno tempo per sottigliezze. Vogliono che la violenza finisca e che la Palestina sia libera.
Nel frattempo, a Midan al-Jundi al-Majhool (Piazza del Milite Ignoto) nella città di Gaza, il suono della musica si diffonde nell’aria. Ahmed Abu Amsha, insegnante di musica al Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said, sfollato almeno dodici volte durante il genocidio, riunisce i bambini per formare un gruppo chiamato Gaza Birds Singing. Abu Amsha e i suoi studenti creano le loro armonie, una tela sonora di chitarra e canto, attorno al ronzio ambientale dei droni che volano sopra le loro teste.
Una delle loro canzoni più popolari è Sheel sheel ya Jamali (Porta, porta, o mio cammello), un canto palestinese molto conosciuto:
Porta, porta, o mio cammello,
Sopporta il carico nel nome di Dio.
Il sangue del martire è profumato di cardamomo,
O notte, lascia il posto all’alba.
Guai, guai al tiranno,
il giudizio di Dio cadrà .
Nessuna ombra può nascondere le stelle della notte –
io grido per lui.
Dobbiamo abbattere il tiranno.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
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Abbiamo ancora negli occhi l’immagine della marea umana che, da nord a sud, ha attraversato l’Italia nello sciopero generale del 22 settembre. Migliaia di persone hanno incrociato le braccia, riempito le piazze, gridato giustizia per la Palestina. Quel vento nuovo che ha scosso il Paese ha ricevuto una enorme spinta dalla scuola: dalle studentesse e dagli studenti, ma questa volta – dopo anni di silenzio – anche dai docenti.
Docenti in piazza per la solidarietà , per la dignità , per la giustizia. Docenti che hanno avuto il coraggio di dire una verità semplice e netta: il genocidio in Palestina non può lasciarci indifferenti.
Quest’anno la scuola ha preso parola, sfidando quel silenzio che per troppo tempo ha pesato come una cappa sulle nostre aule: un silenzio fatto di paura, precarietà , isolamento, repressione. Quel silenzio figlio di una scuola pubblica martoriata da dirigenti autoritari, da burocrazia sterile, da stipendi fermi da decenni, da carichi di lavoro insostenibili, da organi collegiali ridotti a gusci vuoti.
Quest’anno qualcosa sembra cambiato. Davanti a un genocidio trasmesso in diretta e davanti alla complicità ipocrita dell’Occidente, tanti insegnanti hanno rialzato la testa, hanno rotto il silenzio, hanno imposto che dentro i luoghi della formazione si possa prendere posizione, coltivare il pensiero critico, pretendere giustizia. Hanno trovato la forza di organizzarsi, di parlare con le colleghe e i colleghi, di scendere in piazza insieme a migliaia di altre e altri.
Non è “solo†per la Palestina, anche se è soprattutto per la Palestina.
La violenza inflitta dallo Stato di Israele al popolo palestinese, e la complicità vergognosa dell’Occidente, hanno squarciato un velo: il sistema che sostiene un genocidio è lo stesso che ci vuole muti, stanchi, obbedienti, isolati, impotenti.
Questo inizio di anno, per una volta, dopo anni di isolamento e di assuefazione, dopo anni in cui chi parlava veniva zittito o ignorato, se non deriso, si è sentita la forza della solidarietà . Non più solitudine, non più impotenza: ma la consapevolezza che quell’ingiustizia era condivisa, che la rabbia diventava voce comune, che dentro e fuori la scuola ci si poteva organizzare e marciare insieme.
CONTINUARE A INSEGNARE, MAI PIÙ MUTI DAVANTI ALLE INGIUSTIZIE
È con questa consapevolezza che bisogna continuare. La scuola deve continuare a insegnare a prendere posizione: davanti al genocidio, ma anche davanti a un collega umiliato, a uno studente represso perché ha partecipato a un corteo, a ogni ingiustizia che ci attraversa.
È per questo che abbiamo pensato ad una breve Guida Pratica per Docenti, da condividere tra colleghe e colleghi, perché l’insoddisfazione e l’impotenza sono figlie del silenzio e della solitudine ma ora sappiamo che la scuola si può vivere diversamente e non vogliamo più tornare indietro
GUIDA PRATICA PER DOCENTI RESISTENTI
CONOSCI I TUOI DIRITTI
No, davvero. NON è normale restare a scuola fino alle 18 per “finire la programmazioneâ€. NON è normale fare 10 ore in più gratis. NON è normale che la tua voce valga meno di una circolare scritta con ChatGPT dal Dirigente.
SCRIVI, CRITICA, DENUNCIA
Esponi le tue idee, confrontale con i colleghi, scrivile chiaramente. Che leggano i dirigenti, il ministro, i genitori, che non ci siano dubbi sugli ideali di giustizia che come docenti vogliamo difendere ogni giorno, su cosa vogliamo sia la scuola pubblica. Che si torni a parlare delle cattedre vacanti e dei soffitti che cadono a pezzi perché è quello che viviamo ogni giorno.
ORGANIZZATI
Parla con le colleghe e i colleghi, fonda un comitato, una rete, un collettivo. Non aspettare che sfruttamento e repressione ti logorino, esprimi il tuo malessere, condividilo con gli altri, trasformalo in forza comune, trova con gli altri nuove forme per affrontarlo.
SOSTIENI IL COLLEGA CHE PRENDE POSIZIONE
Tanti docenti hanno cominciato a parlare di Palestina due anni fa, alcuni anche prima e alcuni anche di carcere, scioperi, studenti. Siamo complici e solidali, Non lasciamoci più soli
PORTA IL MONDO IN CLASSE
Le studentesse e gli studenti di ogni indirizzo hanno diritto a trovare nella scuola un luogo in cui danno forma alle proprie idee sul mondo: parla di guerre, migrazioni, cambiamenti climatici, rivolte. Loro sono già dentro al mondo, hanno già le loro idee, ma la classe può diventare un’arena dove sperimentarsi e confrontarsi. Fai della classe il mondo e non un deserto.
SOSTIENI LE RIVOLTE DEGLI STUDENTI
Gli studenti sono dentro i grandi temi del mondo e da dentro li vivono e li esprimono. Stai dalla loro parte: se il dirigente li espelle per le loro idee, se la polizia li reprime. La loro lotta è anche la nostra!
SCENDI IN PIAZZA
Per i temi che porti in classe, per quelli che vivi quotidianamente e quelli che scuotono i tuoi studenti. Per chi non sta in silenzio dinanzi alle ingiustizie, per i diritti, per la giustizia. Perché la scuola torni ad essere partigiana!
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Il 22 settembre a Milano due studenti minorenni sono stati arrestati durante la manifestazione per la Palestina. Tre notti al Beccaria senza udienza, poi domiciliari con aggravanti e – l’atto più infame – il divieto di andare a scuola.
La giudice per le indagini preliminari, Antonella De Simone, avrebbe motivato la scelta affermando la necessità di una “risposta adeguata” fino al manifestarsi dei “sintomi di una crescita morale e di progressiva responsabilizzazione”.
A questi ragazzi non è stata tolta solo la libertà personale: gli è stato tolto il diritto costituzionale all’istruzione, una misura di gravità tale che uno degli avvocati, Mirko Mazzali, ha affermato di non averne memoria in 35 anni di carriera.
Frequentare la scuola è, evidentemente, per il giudice De Simone, un privilegio riservato a chi obbedisce, non contesta, non protesta; una singolare convergenza di vedute con l’idea di scuola del ministro Valditara.
La verità è che lo Stato e il Governo stanno mostrando in molteplici modi di temere la ribellione e il coraggio soprattutto delle giovani generazioni.
Hanno paura che questo “contagi” altri coetanei: il termine medico non è casuale, ma in linea con le parole usate dalla giudice che parla di “sintomi”.
Siccome la lingua non mente, è lampante che per chi comanda, in questo paese, non da oggi, le proteste sono una malattia, una patologia, e la repressione è la cura.
Chi comanda teme soprattutto il risveglio del settore istruzione.
Mentre gli studenti sono in piazza dal primo giorno, il 22 l’elemento sorprendente e imprevisto è stata la massiccia partecipazione delle e dei docenti allo sciopero, con percentuali che non si vedevano da dieci anni e anche molto di più, se si considera che a indire lo sciopero sono stati i sindacati di base.
Perché è proprio lì la misura della sproporzione: mentre i giornali gridano allo scandalo per un vetro infranto, tacciono sulle migliaia di vite spezzate dal genocidio in Palestina. Si fa rumore per un danno materiale per silenziare la rabbia popolare che nasce davanti a un’ingiustizia immensa.
Ma noi sappiamo bene cosa c’è in gioco:
una società capitalista che promuove guerra e repressione;
un sistema che preferisce punire due adolescenti piuttosto che fare i conti con le proprie complicità ;
una scuola che viene usata come arma di ricatto, luogo di indottrinamento e reclutamento, invece che come luogo di crescita.
Per questo gridiamo forte:
la rabbia degli studenti non si processa;
il diritto alla scuola non si sospende per decreto;
una vetrina si ricostruisce, una coscienza libera no: quella resiste e cresce.
Solidali e complici con gli studenti arrestati.
La repressione non fermerà la ribellione.
L'articolo Liceali per la Palestina, in galera senza scuola! proviene da Potere al Popolo.
Ho sentitola parola “depressione†per la prima volta quando avevo circa sedici anni. Mia madre mi portò al National Institute of Mental Health and Neurosciences (NIMHANS) di Bengaluru, in India, per farmi visitare da un professionista per quello che fino ad allora avevo semplicemente considerato degli incubi e pomeriggi difficili. Sono stato fortunato. Oggi, solo il 9% delle persone nel mondo riceve un trattamento per la depressione. Il medico mi ha parlato a lungo e ho trascorso diversi giorni al NIMHANS in cura da lui e da altri medici. Mi era chiaro che i miei problemi derivavano in gran parte da un incidente traumatico avvenuto alcuni anni prima, quando ero stato violentato a scuola.
I miei genitori mi hanno sostenuto durante tutto il processo, dandomi il coraggio di superare le conseguenze e proteggendomi da quella che ritenevano sarebbe stata l’umiliazione assoluta di una denuncia pubblica della violenza subita. Sono loro grato per essere stati così gentili e concilianti, permettendomi di prendermi il tempo necessario prima di parlare apertamente di qualcosa che non ha senso, e non dovrebbe averne, per una bambino. In realtà , l’esperienza della depressione e l’impatto che questa ha sull’autostima continuano per tutta la vita. I farmaci aiutano, così come l’amore degli amici, ma non esiste una “cura†che permetta di superare la complessità del dolore.
Nel corso degli anni ho dovuto affrontare in privato l’immensa vergogna che deriva da tali esperienze e l’incertezza sui fatti dell’incidente (l’ho incoraggiato?). Questa vergogna è comune a chi ha subito atti simili ed è qualcosa che segna le persone dal momento in cui si verifica un incidente traumatico fino al momento della morte, come dimostra il tasso significativamente più alto di suicidi tra le persone che hanno subito tali violenze in gioventù. Per ovvie ragioni, l’importanza dei farmaci e dell’intervento terapeutico non può essere minimizzata. Ma il problema di fondo è un altro: viviamo in un mondo che presta attenzione al rimborso del debito e all’acquisto di armi, ma taglia sempre di più nella sanità pubblica, con il sostegno alla salute mentale che si trova ai minimi storici.
Uno dei motivi per cui sono un convinto sostenitore delle agenzie delle Nazioni Unite, e in particolare dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è che queste istituzioni seguono da vicino i problemi della salute mentale e lo scandaloso sottofinanziamento delle strutture di sostegno per coloro che affrontano queste sfide. Due rapporti in particolare – Mental Health Atlas 2024 e World Mental Health Today (entrambi pubblicati nel 2025) – hanno rilevato che oltre un miliardo di persone convive con un disturbo mentale. Contrariamente a quanto si crede, la maggior parte di coloro che soffrono di queste malattie vive in paesi a basso e medio reddito. I disturbi più comuni sono l’ansia e la depressione, che colpiscono in modo sproporzionato le donne.
Le donne subiscono anche tassi più elevati di violenza domestica, che porta ad un aumento dello stress mentale, e le donne con gravi problemi di salute mentale sono più esposte alla violenza sessuale e ad altre forme di violenza. Tuttavia, sorprendentemente, gli studi dell’OMS rilevano che le donne, per una serie di motivi, hanno meno possibilità di accedere a trattamenti terapeutici. Uno studio condotto in India, citato dall’OMS, mostra che “le donne affette da depressione erano tre volte più propense delle altre donne a spendere più della metà delle loro spese mensili domestiche in spese sanitarie a loro caricoâ€. Tre fattori – costi, stigma e paura – ostacolano il ricorso all’assistenza sanitaria e al supporto legale per coloro che lottano con malattie mentali.
I dati sono terrificanti. La spesa media pubblica per l’assistenza sanitaria mentale rappresenta circa il 2% dei bilanci sanitari, una percentuale rimasta invariata dal 2017. Nel 2022 solo il 9,89% del PIL globale è stato speso per l’assistenza sanitaria, anche se i dati sulla spesa sanitaria mondiale sono del tutto fuorvianti, poiché una parte consistente viene spesa nel Nord globale per le assicurazioni private e per interventi costosi che distorcono i dati. La spesa media per l’assistenza sanitaria pubblica nel Sud globale era pari all’1,2% del PIL nel 2022, con 141 governi che spendono meno dell’indice di riferimento dell’OMS del 5% del PIL (una cifra simile a quella suggerita da un rapporto del 2010, secondo cui la soglia del 6% eviterebbe spese elevate a carico delle cittadine e dei cittadini). Mentre i paesi ad alto reddito spendono 65 dollari a persona per l’assistenza sanitaria mentale, i paesi a basso reddito ne spendono solo 0,04.
In un momento in cui i paesi più poveri spendono circa il 6,5% dei proventi delle esportazioni per ripagare il debito estero, mentre la spesa militare mondiale sale alle stelle, è improbabile che la maggior parte dei paesi abbia la volontà politica di spostare le priorità verso l’assistenza sociale.
Quali solo le conseguenze di un mancato sviluppo del sistema sanitario, compreso quello di assistenza sanitaria mentale?
1. Il numero di persone che si suicidano è scandalosamente alto. È stato riportato che oltre 720.000 persone si tolgono la vita ogni anno, circa 8 ogni 100.000 persone. I tassi di suicidio giovanile sono stabili o in aumento, a seconda del paese (gli ultimi dati affidabili al riguardo risalgono al 2021). Quasi tre quarti dei suicidi globali hanno avuto luogo in paesi a basso e medio reddito. Nei paesi africani, ad esempio, questi numeri sono in aumento, attualmente pari a 11,5 ogni 100.000 persone.
2. Un nuovo rapporto dell’OMS rivela che ogni ora cento persone muoiono di solitudine, per un totale di 871.000 decessi all’anno. Tra i fattori che determinano la solitudine o l’isolamento sociale, spiega il rapporto, vi sono “una cattiva salute fisica o mentale (in particolare la depressione), tratti della personalità come il nevroticismo, l’assenza di un partner o il fatto di essere single, il vivere da soli e caratteristiche dell’ambiente costruito come uno scarso accesso ai trasporti pubbliciâ€. La maggior parte di questi fattori può essere superata aumentando i legami sociali attraverso semplici riforme quali il miglioramento dei trasporti pubblici, dei centri culturali e dei centri di assistenza comunitaria.
3. Gli operatori socio-sanitari sono essi stessi soggetti a problemi mentali e fisici dovuti al superlavoro e alla mancanza di sostegno. Per esempio, ci sono solo 13 operatori della salute mentale ogni 100.000 persone, con i paesi a basso reddito in grado di mobilitare solo un operatore della salute mentale ogni 100.000 persone. Due terzi dei paesi del mondo, per lo più nazioni più povere, hanno solo uno psichiatra ogni 200.000 persone. Lo stress che questo comporta per le persone di buon cuore che intraprendono questa professione è immenso. L’unico paese a basso reddito in cui ho incontrato professionisti della salute mentale veramente felici è Cuba, paese in cui il sistema fornisce tutto il sostegno possibile a coloro che lavorano a livello comunitario con una popolazione neurologicamente martoriata dall’impatto delle sanzioni.
4. Gli studi sull’assistenza dimostrano chiaramente che è molto meglio trattare le persone con gravi problemi di salute mentale attraverso centri di assistenza basati sulla comunità situati vicino alle case delle famiglie dei pazienti piuttosto che in ospedali psichiatrici che sono spesso troppo grandi e sterili. Eppure meno di un paese su dieci è passato dai sistemi ospedalieri psichiatrici ai sistemi di assistenza basati sulla comunità (ammesso che tali sistemi esistano), e molti di quelli che lo hanno fatto sono paesi socialisti. I centri di assistenza locali basati sulla comunità consentono a tutte le persone di essere integrate meglio nella società e agli operatori della salute mentale di comprendere meglio la storia psico-sociale completa dei loro pazienti e delle comunità da cui provengono. Il trattamento è quindi sia sociale che medico.
Dobbiamo spendere più della ricchezza sociale per l’assistenza e meno per la morte e il debito.
Per me è stata una rivelazione scoprire The Dark Side of the Moon (1973) dei Pink Floyd nella mia adolescenza. Stavo seduto nel nostro appartamento di Calcutta per ascoltare a ripetizione l’album mentre i grandi alberi della città filtravano la luce della città e nelle stanze rimbombava il rumore dei tram. È difficile spiegare cosa significasse per me chiudere gli occhi e volare nel mondo di “Breathe (In the Air)â€:
Respira, respira l’aria.
Non aver paura di preoccuparti
Vattene, ma non lasciarmi.
Guardati intorno e scegli il tuo terreno.
Vivi a lungo e vola alto
E i tuoi sorrisi e le tue lacrime
E tutto ciò che tocchi e tutto ciò che vedi
È tutto ciò che la tua vita sempre sarà .
Corri, coniglio, corri.
Scava quella fossa, dimentica il sole,
E quando alla fine il lavoro è compiuto
Non sederti, è tempo di scavarne un’altra.
Vivi a lungo e vola alto
Ma solo se cavalchi la marea
E resti in equilibrio sull’onda più grande
Corri verso una tomba prematura.
Ho spesso pensato che sia stata questa canzone a tenermi in vita, insieme all’amore dei miei genitori, Rosy Samuel, della mia famiglia e delle mie compagne e dei miei compagni.
Rallenta, coniglio, e guarda il sole.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della trentanovesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo OLTRE UN MILIARDO DI PERSONE IN TUTTO IL MONDO SOFFRE DI DISTURBI MENTALI proviene da Potere al Popolo.