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News Potere al popolo

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Estero

GLI STATI UNITI CONTINUANO A TENTARE DI ROVESCIARE LA RIVOLUZIONE BOLIVARIANA IN VENEZUELA
Data articolo:Fri, 07 Nov 2025 09:35:07 +0000

Da inizio settembre di quest’anno, ci sono diversi indizi per il fatto che gli Stati Uniti si potrebbero preparare a un attacco militare contro il Venezuela. Tricontinental: Institute for Social Research ha collaborato con ALBA Movimientos, l’Assemblea Internazionale dei Popoli, No Cold War e l’Istituto Simón Bolívar per produrre l’allerta rossa n. 20, The Empire’s Dogs Are Barking at Venezuela, sui potenziali scenari e le implicazioni dell’intervento statunitense.

Nel febbraio 2006, il presidente venezuelano Hugo Chávez si recò all’Avana per ricevere da Fidel Castro il Premio José Martí dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Nel suo discorso, paragonò le minacce di Washington contro il Venezuela all’abbaiare dei cani, dicendo : “Lasciate che i cani abbaiano, perché è segno che ci stiamo muovendoâ€. Chávez ha aggiunto: “Lasciamo che i cani dell’impero abbaiano. Questo è il loro ruolo: abbaiare. Il nostro ruolo è lottare per ottenere in questo secolo – ora, finalmente – la vera liberazione del nostro popoloâ€. Quasi due decenni dopo, i cani dell’impero continuano ad abbaiare. Ma morderanno? Questa è la domanda a cui cerchiamo di rispondere.

Il suono dell’abbaiare

Nel febbraio 2025, il Dipartimento di Stato americano ha designato una rete criminale chiamata Tren de Aragua (Treno di Aragua) come “organizzazione terroristica stranieraâ€. Poi, a luglio, il Dipartimento del Tesoro americano ha aggiunto il cosiddetto Cartel de los Soles (Cartello dei Soli) alla lista delle sanzioni dell’Ufficio di controllo dei beni stranieri come “gruppo terroristico transnazionaleâ€. Nessun precedente rapporto del governo statunitense, né della Drug Enforcement Administration (DEA) né del Dipartimento di Stato, aveva identificato queste organizzazioni come una minaccia, e non sono state fornite prove verificabili pubblicamente per sostanziare la presunta portata o il coordinamento di entrambi i gruppi. Non ci sono prove che Tren de Aragua sia un’operazione internazionale. Per quanto riguarda il Cartel de los Soles, il nome è apparso per la prima volta nel 1993 in un rapporto venezuelano sulle indagini relative a due generali della Guardia Nazionale – in riferimento al simbolo del “sole†sulle loro uniformi – anni prima della vittoria presidenziale di Hugo Chávez nel 1998. L’amministrazione Trump ha affermato che questi gruppi, che collaborano con il governo del presidente venezuelano Nicolás Maduro, sono i principali trafficanti di droga negli Stati Uniti, senza fornire alcuna prova a sostegno di tale affermazione. Inoltre, i rapporti dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) e della stessa DEA hanno costantemente rilevato che i gruppi venezuelani hanno un ruolo marginale nel traffico globale di droga. Ciononostante, il Dipartimento di Stato americano ha offerto una ricompensa di 50 milioni di dollari per informazioni che portino all’arresto di Maduro, la più alta nella storia del programma.

Gli Stati Uniti hanno ripreso in mano lo strumento contundente della War on Drugs (guerra alla droga) per esercitare pressioni sui paesi che non cedono alle loro minacce o che si rifiutano ostinatamente di eleggere governi di destra. Recentemente, Trump ha preso di mira il Messico e la Colombia e ha invocato le loro difficoltà con il controllo del traffico di stupefacenti per attaccare i loro presidenti. Sebbene il Venezuela non abbia un problema di droga significativo all’interno del paese, ciò non ha impedito Trump di attaccare il governo di Maduro con molto più astio. Nell’ottobre 2025, la politica venezuelana María Corina Machado del movimento Vente Venezuela (Vieni qui, Venezuela) ha vinto il Premio Nobel per la Pace. Machado non era eleggibile alla presidenza nel 2024 principalmente perché aveva rilasciato una serie di dichiarazioni traditorie, aveva accettato un incarico diplomatico da un altro paese per chiedere l’intervento in Venezuela (in violazione dell’articolo 149 della Costituzione) e aveva sostenuto le guarimbas (azioni violente di piazza in cui le persone venivano picchiate, bruciate vive e decapitate). Ha anche sostenuto le sanzioni unilaterali degli Stati Uniti che hanno devastato l’economia venezuelana. Il Premio Nobel è stato ottenuto grazie al lavoro della Inspire America Foundation (con sede a Miami, in Florida, e guidata dall’avvocato cubano-americano Marcell Felipe) e all’intervento di quattro politici statunitensi, tre dei quali cubano-americani (Marco Rubio, María Elvira Salazar e Mario Díaz-Balart). Il legame cubano-statunitense è fondamentale e dimostra come questa rete politica, concentrata sul rovesciamento della rivoluzione cubana con ogni mezzo, ora veda nell’intervento militare statunitense in Venezuela un modo per promuovere un cambio di regime a Cuba. Non si tratta quindi solo di un intervento contro il Venezuela, ma contro tutti quei governi che gli Stati Uniti vorrebbero rovesciare.

Il morso

Nell’agosto del 2025, l’esercito statunitense ha iniziato ad ammassare forze navali nel sud dei Caraibi, tra cui cacciatorpediniere di classe Aegis e sottomarini d’attacco a propulsione nucleare. A settembre ha avviato una campagna di attacchi extragiudiziali contro piccole imbarcazioni a motore nelle acque dei Caraibi, bombardando almeno tredici navi e uccidendo almeno cinquantasette persone, senza fornire prove di alcun collegamento con il traffico di droga. A metà ottobre, gli Stati Uniti avevano schierato più di quattromila soldati al largo delle coste del Venezuela e cinquemila in standby a Porto Rico (compresi caccia F-35 e droni MQ-9 Reaper), autorizzato operazioni segrete all’interno del Paese e effettuato “missioni dimostrative†con B-52 su Caracas. Alla fine di ottobre, il gruppo da battaglia della portaerei USS Gerald R. Ford è stato schierato nella regione. Nel frattempo, il governo venezuelano ha mobilitato la popolazione per difendere il Paese.

Cinque scenari per l’intervento degli Stati Uniti

Scenario n. 1: l’opzione Brother Sam. Nel 1964, gli Stati Uniti schierarono diverse navi da guerra al largo delle coste brasiliane. La loro presenza incoraggiò il generale Humberto de Alencar Castelo Branco, capo di Stato Maggiore dell’esercito, e i suoi alleati a organizzare un colpo di Stato che diede inizio a una dittatura durata ventuno anni. Ma il Venezuela è un terreno diverso. Nel suo primo mandato, Chávez ha rafforzato l’educazione politica nelle accademie militari e ha ancorato l’addestramento degli ufficiali alla difesa della Costituzione del 1999. È quindi improbabile che una figura come quella di Castelo Branco possa salvare la situazione per Washington.

Scenario n. 2: l’opzione Panama. Nel 1989, gli Stati Uniti bombardarono Panama City e inviarono truppe speciali per catturare Manuel Noriega, leader militare di Panama, e portarlo in una prigione statunitense, mentre politici sostenuti dagli Stati Uniti prendevano il controllo del Paese. Un’operazione del genere sarebbe più difficile da replicare in Venezuela: il suo esercito è molto più forte, addestrato per conflitti asimmetrici prolungati, e il Paese vanta sofisticati sistemi di difesa aerea (in particolare i sistemi terra-aria russi S-300VM e Buk-M2E). Qualsiasi campagna aerea statunitense dovrebbe affrontare una difesa sostenuta, rendendo improbabile che Washington rischi la prospettiva di abbattere aerei, con una grave perdita di prestigio.

Scenario n. 3: l’opzione Iraq. Una campagna di bombardamenti Shock and Awe (colpisci e terrorizza) contro Caracas e altre città per spaventare la popolazione e demoralizzare lo Stato e l’esercito, seguita da tentativi di assassinare i vertici della leadership venezuelana e di impadronirsi delle infrastrutture chiave. Dopo un simile assalto, la vincitrice del Premio Nobel per la Pace Machado si dichiarerebbe probabilmente pronta ad assumere il comando e ad allineare il Venezuela agli Stati Uniti. L’inadeguatezza di questa manovra sta nel fatto che la leadership bolivariana è profondamente ancorata nel tessuto sociale: le radici della difesa del progetto bolivariano attraversano i barrios della classe lavoratrice e l’esercito non sarebbe immediatamente demoralizzato, a differenza di quanto accaduto in Iraq. Come ha recentemente osservato il ministro dell’Interno del Venezuela, Diosdado Cabello, “Ricordiamoci il Vietnam, quando un popolo piccolo ma unito e con una volontà di ferro è stato in grado di dare una lezione all’imperialismo statunitenseâ€.

Scenario n. 4: l’opzione del Golfo del Tonchino. Nel 1964, gli Stati Uniti intensificarono il loro impegno militare nella guerra del Vietnam dopo un incidente che fu presentato come un attacco ingiustificato contro cacciatorpediniere statunitensi al largo delle coste del Paese. Successive rivelazioni hanno dimostrato che la National Security Agency (NSA) aveva fabbricato informazioni di intelligence per creare un pretesto per l’escalation. Gli Stati Uniti sostengono di stare conducendo “esercitazioni di addestramento†navali e aeree vicino alle acque territoriali e allo spazio aereo venezuelani. Il 26 ottobre, il governo venezuelano ha dichiarato di aver ricevuto informazioni su un piano segreto della CIA per inscenare un attacco sotto falsa bandiera contro navi statunitensi vicino a Trinidad e Tobago, al fine di provocare una risposta degli Stati Uniti. Le autorità venezuelane hanno messo in guardia dalle manovre statunitensi e hanno affermato che non cederanno a provocazioni o intimidazioni.

Scenario n. 5: l’opzione Qasem Soleimani. Nel gennaio 2020, un attacco con droni statunitensi ordinato da Trump ha ucciso il maggiore generale Qasem Soleimani, capo della Forza Quds iraniana. Soleimani era uno dei più alti funzionari iraniani e responsabile della strategia di difesa regionale in Iraq, Libano, Gaza e Afghanistan. In un’intervista rilasciata al programma 60 Minutes, l’ex incaricato degli affari statunitense per il Venezuela James Story ha dichiarato: “Le risorse sono lì per fare tutto il necessario, compresa la decapitazione del governoâ€, una chiara dichiarazione di intenti di assassinare il presidente. Dopo la morte del presidente Hugo Chávez nel 2013, i funzionari statunitensi avevano previsto il fallimento del progetto. Sono passati dodici anni e il Venezuela continua a seguire la strada tracciata da Chávez, portando avanti il suo modello comunitario, la cui resilienza si basa non solo sulla leadership collettiva della rivoluzione, ma anche su una forte organizzazione popolare. Il progetto bolivariano non è mai stato un’opera di una sola persona.

È improbabile che Cina e Russia permettano un attacco contro il Venezuela senza esercitare pressioni per ottenere risoluzioni immediate del Consiglio di sicurezza dell’ONU, entrambi i Paesi operano regolarmente nei Caraibi, anche con esercitazioni congiunte con Cuba e missioni globali come la Missione Armonia 2025 della Cina.

Speriamo che nessuno di questi scenari si verifichi e che gli Stati Uniti ritirino le loro opzioni militari. Ma la speranza da sola non basta: dobbiamo lavorare per ampliare il campo della pace.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della quarantacinquesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

Chi è Vijay Prashad?

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Lazio

[ROMA] ANCHE A ROMA CAMBIAMO TUTTO! ASSEMBLEA CITTADINA DI POTERE AL POPOLO
Data articolo:Thu, 06 Nov 2025 13:35:47 +0000

Sabato 8 novembre ore 10 al Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, via Prenestina 913

Le grandi manifestazioni e scioperi delle scorse settimane a sostegno della Resistenza Palestinese all’insegna del “Blocchiamo Tuttoâ€, hanno mostrato le straordinarie potenzialità di mobilitazione popolare di organizzazioni politiche e sociali indipendenti ed estranee al politicismo opportunista del cosiddetto “campo largoâ€.

Non solo la denuncia del genocidio in corso in Palestina, ma il rifiuto delle politiche di riarmo dell’Occidente, promosse in nome della difesa comune europea e del potenziamento della NATO, così come l’opposizione diretta al governo Meloni, ha attraversato tutte le mobilitazioni, contrapponendovi l’urgenza di politiche sociali per il diritto al lavoro, alla casa, allo studio, per il diritto ad una condizione di vita dignitosa, incompatibili con gli interessi e le dinamiche dell’economia di guerra.

Nella nostra Città le mobilitazioni per la Palestina, si sono intrecciate con il percorso di mobilitazione contro le politiche cittadine della giunta Gualtieri, che in ragione dei cospicui flussi finanziari del PNRR e del Giubileo e con le relative attribuzioni dei poteri commissariali, ha instaurato il “Modello Giubileo†incurante delle esigenze popolari e del confronto democratico con la cittadinanza. Un modello che agisce sul livello politico, sociale ed istituzionale e che viene pienamente condiviso all’interno dell’opposizione e la totale legittimazione del governo Meloni che materialmente opera per la definitiva affermazione dei poteri speciali attraverso le corsie aperte dall’autonomia differenziata. Un modello che mette le chiavi della Città nelle mani di interessi privati, unici veri interlocutori delle dinamiche economiche del territorio, dai fondi speculativi, al terzo settore colluso passando per multinazionali e banche. Una condizione che ritroviamo in tutte le grandi realtà metropolitane del paese, in cui Roma si propone come modello di riferimento.

Come Potere al Popolo abbiamo sostenuto convintamente tutte le iniziative e mobilitazioni contro la speculazione, la cementificazione, la turistificazione, le devastazioni ambientali, le privatizzazioni con momenti pubblici fortemente partecipati che hanno investito più volte la piazza del Campidoglio e la regione Lazio, in cui è emersa con forza l’opposizione al modello Meloni-Gualtieri, ponendo al centro gli interessi della maggioranza della popolazione, possibile solo con la riaffermazione di un modello di Città Pubblica. Una battaglia che consideriamo fondamentale che conduciamo nei territori e che deve tornare ad investire con decisione il luogo deputato alla rappresentanza politica della Città: chiediamo la convocazione di un consiglio comunale aperto sulle emergenze metropolitane, che rompa la cappa di silenzio e le complicità a tutti i livelli sullo stato della città.

Come abbiamo ribadito nell’assemblea nazionale del 25 ottobre crediamo che si possa “Cambiare tutto†solo fuori dalla logica della subalternità e della complicità. Anche sul terreno della rappresentanza, è possibile ridare voce agli interessi popolari avendo come condizione necessaria, come dimostrato dalle mobilitazioni per la Palestina, il rafforzamento di un profilo autonomo e indipendente, dimostrando che l’alternativa popolare e di classe è non solo necessaria ma possibile.

Crediamo che sia fondamentale farlo all’interno di questa città, consapevoli della necessità di continuare il radicamento e costruendo organizzazione all’interno dei quartieri popolari.

Un percorso che sappia relazionarsi con le mobilitazioni e le campagne nazionali, come l’assemblea del “Blocchiamo Tutto†il giorno 16 novembre al cinema l’Aquila e lo sciopero generale promosso dall’USB per il 28 novembre e la manifestazione nazionale del giorno successivo.

Ci vediamo per parlarne insieme, l’8 novembre alle 10 al Museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz, luogo simbolo della lotta contro la speculazione immobiliare in città. A seguire vi invitiamo tutti a partecipare al pranzo organizzato dalla cucina meticcia di Metropoliz e dopo pranzo alla visita guidata al museo.

ANCHE A ROMA CAMBIAMO TUTTO!
SABATO 8 NOVEMBRE ORE 10

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Tavoli tematici

LA SCUOLA NON SI ARRUOLA – MOBILITAZIONE 4 NOVEMBRE
Data articolo:Sat, 01 Nov 2025 20:50:34 +0000

La scuola non è caserma. La scuola non è propaganda. La scuola si ribella.

Venerdì 31 ottobre 2025, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha stabilito che il corso “4 novembre: la scuola non si arruola†non è valido come formazione professionale per i docenti. I permessi richiesti devono essere annullati.

Non si tratta di tecnicismi: è censura politica.

Discutere di guerra, militarismo, educazione critica e articolo 11 della Costituzione non rientra nei compiti di un insegnante, mentre contemporaneamente, e con crudele ironia, il 4 novembre viene rilanciato come Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate: il Ministero e gli enti pubblici promuovono celebrazioni, esposizione della bandiera e iniziative con le forze armate nelle scuole.
La contraddizione è inquietante: da una parte si spalancano spazi istituzionali alla retorica militare, dall’altra si zittisce chi vuole educare alla critica.
Questo non è un incidente, è una strategia: normalizzare la guerra, silenziare il dissenso, trasformare la scuola in un’istituzione docile e patriottica.

Tutto questo accade in un periodo in cui attorno al mondo dell’istruzione proliferano corsi di formazione su “tecniche”, “metodologie” o “soft skills”, spesso promossi da enti privati a pagamento, mentre nelle scuole i docenti trovano sempre meno spazio per riflettere sul proprio ruolo e la propria funzione all’interno della società. È in atto un processo di tecnicizzazione della professione docente che ha lo scopo evidente di attaccare il principio costituzionale dell’autonomia e della libertà d’insegnamento, al fine di sottomettere l’educazione alla produzione del capitale umano.
L’iniziativa dell’Osservatorio e del Cestes andava chiaramente in controtendenza. Sarebbe stata un’occasione di confronto e dibattito sulla funzione della scuola ed il ruolo dei docenti in una società diretta verso un regime di austerità militare: evidentemente il convegno è stato reputato pericoloso.

Noi diciamo basta.

La pace che vogliamo mette in discussione le alleanze del nostro Paese con i colonizzatori sionisti, con l’imperialismo occidentale e con chi arma e finanzia guerre nel mondo.
Se educare alla pace significa insegnare a sottomettersi alle narrative di chi governa, allora quella non è pace: è obbedienza.
E se il dissenso fa paura al punto da doverlo censurare, significa che solo con la ribellione e con la cultura si può costruire una pace reale, senza vincitori né vinti — e questo è esattamente ciò che i governi del capitale non vogliono.

Oggi la scuola viene trasformata in vetrina della propaganda militare, mentre chi prova a educare alla critica, alla solidarietà internazionale e all’antimperialismo viene censurato.
È un attacco alla libertà di pensiero e alla coscienza civile di studenti e docenti.

Ma noi non ci stiamo.
La scuola non è una caserma, non è un palco per le divise.
È spazio di coscienza, formazione politica, resistenza e libertà.

In queste ore USB, CESTES e l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, insieme ai legali, stanno preparando le contromosse.
Noi rilanciamo: la risposta deve essere immediata e visibile, dalle aule alle piazze.

Il 4 novembre scendiamo in piazza in tutta Italia.

Non per celebrare le guerre di ieri e di oggi, non per applaudire chi le organizza.
Per difendere la scuola pubblica, la libertà di insegnamento, la Costituzione e la possibilità di insegnare verità scomode sui rapporti di potere e sulle alleanze imperialiste.

La scuola non si arruola. La scuola si ribella.

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News

[TORINO] CHIVASSO: DIETRO LE MASCHERE DI “TOLA†DELL’AMMINISTRAZIONE CASTELLO SI CELA TUTTO L’IMMOBILISMO E L’ASSENZA DI SOLIDARIETÀ NEI CONFRONTI DI BETHLEHEM E DELLA PALESTINA
Data articolo:Fri, 31 Oct 2025 09:51:41 +0000

Dalla giunta Castello una strana concezione di solidarietà.

Cosa è successo con la petizione comunale che abbiamo lanciato, nell’autunno dell’anno scorso, in solidarietà con la Palestina e la città gemellata di Bethlehem?

Il consiglio comunale aveva bocciato la petizione popolare e approvato un ordine del giorno di mera facciata proposto da Sinistra Ecologista insieme al PD.

Nei fatti sindaco, giunta e maggioranza di centro “sinistra†mettono ai margini la nostra iniziativa popolare per intestarsi un’azione politica di copertura che non compromette le alleanze, le complicità, la loro linea di sostanziale silenzio e l’assenza di concreta solidarietà nei confronti di Bethlehem e della Palestina.

Per comprendere quello che è accaduto e sta accadendo a Chivasso è utile tornare un momento indietro, allo scorso giugno.

Iniziamo da mercoledì 25 giugno quando si svolse il consiglio comunale durante il quale era stata discussa e votata la petizione che avevamo presentato, sostenuta da oltre un centinaio di firme di cittadinə chivassesi, per chiedere di portare solidarietà concreta al popolo palestinese e alla città di Bethlehem in Cisgiordania, gemellata con Chivasso dal 2016.

Come promotori della petizione popolare, avevamo assistito all’intera seduta del consiglio comunale, anche perché la discussione sulla petizione era stata inserita al punto 12, quasi in fondo all’odg.

Quello che era andato in scena a giugno, che poi si è ripetuto nei mesi successivi, era il solito teatrino a cui la politica istituzionale ci ha abituato in questi ultimi decenni. A Chivasso i protagonisti sono soprattutto i componenti della maggioranza di centro “sinistraâ€, stretti in quella che in passato poteva sembrare la contraddittoria alleanza fra PD e Sinistra Ecologista ma che, invece, si è da tempo dimostrata una consolidata unione dai falsi intenti.

Cosa è successo durante la seduta di quel mercoledì sera? 

A consiglio comunale in svolgimento eravamo stati raggiunti in platea dall’assessore Fabrizio Debernardi, in quota Sinistra Ecologista, che aveva voluto anticiparci l’esito della votazione in merito alla petizione, riferendoci che non sarebbe stata approvata, o meglio sarebbe stata bocciata dal consiglio comunale.

Questo perché, al successivo punto 13, aveva continuato a spiegarci l’assessore, confermando quel che già avevamo intuito, era stato inserito un ordine del giorno, proposto proprio da Sinistra Ecologista, che nel testo comprendeva alcune delle nostre istanze. Anche questa volta, come accaduto già in precedenza, l’anticipazione dell’assessore di SE era stata un tentativo di mediare con noi per smorzare possibili nostre rivendicazioni e provare a convincerci della bontà della loro iniziativa consiliare.

Nelle settimane precedenti, a margine della conferenza stampa che avevamo chiamato davanti al municipio, in concomitanza con il precedente consiglio comunale di maggio, eravamo già stati raggiunti dall’assessore Debernardi e dal presidente del Consiglio comunale Alfonso Perfetto (PD) che ci invitavano a consegnare le firme prima dell’inizio della seduta consiliare, per farcele protocollare, con la proposta di integrare e far confluire le nostre istanze all’interno di una mozione sulla Palestina a cui, a detta loro, SE insieme al PD, stavano lavorando da alcuni mesi e che avrebbero presentato a breve. Già allora riscontrammo il tentativo degli esponenti della maggioranza di centro “sinistra” di sedare la discussione sulla nostra petizione per provare a intestarsi qualcosa di cui ancora non conoscevamo il contenuto. La mozione di cui ci avevano anticipato si è poi tradotta in un ordine del giorno portato in consiglio e inserito al punto 13 dell’odg della seduta, proprio appena dopo la discussione sulla nostra petizione.

Giunti al punto 12 dell’odg per la discussione sulla petizione, avvalendosi dell’ausilio della forza pubblica, il presidente del consiglio comunale Alfonso Perfetto (PD) ci ha subito costretto a ritirare la bandiera palestinese che avevamo appena esposto per l’occasione (nonostante la stessa fosse esposta appena sopra di noi, fuori dal balcone del municipio per iniziativa della stessa amministrazione comunale, poi ritirata all’indomani) e, dopo le dichiarazioni di voto della consigliera Veronica Davico (SE) e del capogruppo del PD Stefano Mazzer, non ci è stato nemmeno consentito di intervenire in qualità di promotori, per dibattere e ribattere sulle esternazioni dei due consiglieri intervenuti. Ai voti il consiglio comunale ha bocciato all’unanimità la petizione popolare e nel tentativo di esprimere il nostro dissenso siamo stati censurati dal presidente del consiglio e dall’intervento della forza pubblica presente in sala che si è frapposta fisicamente dinanzi a noi.

Al punto 13 successivo, l’ordine del giorno proposto da SE insieme al PD, ad oggetto, “riconoscere la Palestina quale Stato democratico e sovrano”, è stato, invece, approvato dal consiglio con la maggioranza.

Nei fatti la nostra petizione viene bocciata e successivamente viene approvato un ordine del giorno di copertura, portato da SE insieme al PD, quando già erano trascorsi 20 mesi dall’inizio del genocidio a Gaza e 18 mesi dalla lettera che, nel dicembre del 2023, il sindaco Castello riceveva dal suo omologo della città di Bethlehem in Palestina, gemellata con Chivasso dal 2016.

Un ordine del giorno che viene portato in consiglio con tempismo perfetto, e quanto mai sospetto, dalla maggioranza di centro “sinistra” in consiglio, dopo quasi due anni di sostanziale silenzio e proprio in concomitanza con l’approdo della nostra petizione. È risultata evidente la volontà politica di mettere ai margini la nostra petizione, davvero troppo radicali le nostre istanze per loro, per intestarsi un’inconsistente iniziativa consiliare sulla Palestina, a cui sono stati costretti ad arrivare per la pressione che abbiamo adoperato dal basso.

Nel contenuto il testo proposto da SE non può nemmeno definirsi la brutta copia di quello della petizione popolare. Un ordine del giorno arretrato sia nelle premesse che nelle richieste. Il consiglio, nonostante decine di migliaia di morti palestinesi ammazzati e Gaza rasa al suolo ancora non si esprimeva e, ancora adesso, dopo la falsa e già violata tregua imperialista proposta da Trump, fa fatica a esprimersi sul genocidio in corso e non condanna nettamente lo stato terrorista di Israele. Nel testo approvato non viene chiesta l’interruzione dei rapporti commerciali con Israele, non viene portata solidarietà alcuna alla città di Bethlehem gemellata con Chivasso, per cui, fra le istanze contenute nella nostra petizione, avevamo chiesto almeno 1.000 euro di finanziamento per un campo profughi in quella zona, e il sindaco Castello non risponderà alla lettera ricevuta dal suo omologo  nel dicembre del 2023.

Il 26 giugno, il giorno dopo che si è malamente consumata la discussione in consiglio sulla solidarietà a Bethlehem e alla Palestina, che ha visto l’esito della bocciatura per la nostra petizione e l’approvazione di un’inconsistente ordine del giorno portato da SE insieme al PD, come accennato prima, sono stati immediatamente rimossi sudario per Gaza e bandiera palestinese appesi dal balcone del municipio e annunciati a gran voce i giorni precedenti. Un chiaro segnale che era tutto funzionale alla loro propaganda e la loro propaganda era finita o si prendeva una pausa estiva.

Poche settimane dopo, a Torino, in consiglio comunale, viene presentata da AVS una mozione comunale sostanzialmente identica all’ordine del giorno approvato a Chivasso. Lo stesso identico testo, con alcune integrazioni che rispondono alle particolari istanze territoriali, per una mozione comunale. Anche in questo caso la mozione viene approvata dalla maggioranza di centro “sinistraâ€, anche in questo caso per rispondere alla crescente pressione che arrivava dal basso attraverso le mobilitazioni di piazza portate avanti dai collettivi che fin dalla prima ora si erano schierati accanto alla resistenza del popolo palestinese.

Sicuramente la nostra pressione dal basso ha costretto la maggioranza di centro “sinistraâ€, e in particolare Sinistra Ecologista, a doversi esprimere più esplicitamente sulla Palestina per evitare di lasciare a noi l’iniziativa. Quello che però emerge è una politica istituzionale, sia a livello nazionale come a livello locale, che continua ad essere complice e allo stesso tempo, attraverso azioni e iniziative di facciata, tenta di intercettare un’opinione pubblica ormai massivamente schierata accanto al popolo palestinese, contro il genocidio e lo stato terrorista di Israele.

Volendo misurare con una sintesi la solidarietà portata dall’amministrazione comunale in questi mesi a Chivasso, abbiamo assistito, nell’ordine, dapprima:

  • agli attacchi ricevuti in pubblica piazza durante i volantinaggi per promuovere la petizione, contestualmente alla raccolta firme che avevamo lanciato, e ai volantini letteralmente strappati dalle mani con l’infondata accusa di fare disinformazione;
  • all’ostruzionismo politico attraverso controlli a orologeria di polizia locale e forze dell’ordine e permessi per i banchetti negati o concessi in posizione molto defilata rispetto all’area mercatale, per tentare di emarginare la nostra azione

poi, quando la nostra petizione aveva ormai raggiunto l’obiettivo minimo di 50 firme, abbiamo assistito:

  • alle iniziative di facciata organizzate da Sinistra ecologista e AVS come “voci da Gazaâ€;
  • all’adesione dell’amministrazione comunale ai “50 mila sudari per Gaza†e, nei giorni successivi, alla bandiera palestinese esposta dal balcone del municipio. Tutte iniziative sbandierate a gran voce.

Quando la petizione è stata presentata in comune, abbiamo ancora dovuto assistere:

  • all’ordine del giorno portato in consiglio da SE e PD (approvato) in concomitanza con la discussione della nostra petizione che, invece, è stata bocciata;
  • alla rimozione immediata della bandiera palestinese e del sudario per Gaza il giorno appena dopo il vergognoso consiglio comunale del 25 giugno (ormai con l’approvazione della loro mozione farsa avevano assolto al compitino di facciata)

Dalle settimane successive sono continuati gli annunci sterili rispetto all’adesione a iniziative a cui l’amministrazione di Chivasso si è sempre solo accodata, come nel caso della mobilitazione on line lanciata per il 26 luglio scorso dal comune gemellato di Bethlehem per denunciare carestia e morte nella striscia di Gaza. In un comunicato diramato dal sindaco e dai canali istituzionali del comune si annunciava la partecipazione e il contestuale suono delle campane della Collegiata Santa Maria Assunta.

Successivamente, il 17 ottobre, c’è stato l’incontro fra il sindaco Castello e l’attuale sindaco di Bethlehem Maher Canawati in cui sostanzialmente vi è estato l’ennesimo annuncio dell’amministrazione di Chivasso su possibili nuove forme di cooperazione e collaborazione in risposta al genocidio nella striscia di Gaza e alla conseguente profonda crisi umanitaria, sociale ed economica vissuta dalla città gemellata in Cisgiordania. Nell’occasione il sindaco Castello ha consegnato al suo omologo Canawati una medaglia raffigurante lo stemma della città e alcuni cimeli provenienti dalla basilica della natività dell’omonima frazione di Betlemme a Chivasso. Davvero un grande sforzo solidale dopo due anni di genocidio e le crescenti violenze coloniali in Cisgiordania denunciati al sindaco Castello sia dal suo attuale omologo Maher Canawati che dal suo predecessore Hanna Hanania attraverso la lettera, ancora senza risposta, inviata nel dicembre del 2023.

Noto alle cronache locali è diventato anche il vergognoso paragone portato dall’assessore ai lavori pubblici, infrastrutture e verde pubblico Fabrizio Debernardi, sempre lui, che è riuscito ad accostare le macerie per la demolizione dell’ex consorzio agrario nei pressi di Via Po a quelle della distruzione totale a Gaza, provocate dallo stato terrorista di Israele. L’attenzione mediatica nasce da un post che ha pubblicato sul suo profilo facebook e che non è passato inosservato, suscitando subito polemiche. Un accostamento, quello tentato dall’assessore, che voleva rimarcare come le macerie per la demolizione dell’ex consorzio agrario siano costruttive e a beneficio della comunità, diversamente da quelle della distruzione e del genocidio di Gaza. Un accostamento che, invece, nasconde una raccapricciante variante sul piano regolatore, proprio contro la collettività e a solito favore di privati e multinazionali. In quell’area, infatti, sorgerà l’ennesimo centro commerciale al posto dell’iniziale progetto di edilizia residenziale che prevedeva 70 nuovi alloggi. Fra le varie insegne che sorgeranno nella nuova piattaforma commerciale c’è anche quella del noto fast food statunitense Burger King, peraltro in un ‘area adiacente al complesso delle scuole primarie e secondarie Marconi. Se non fosse per l’ennesimo favore alle multinazionali a scapito della comunità locale e se non fosse anche per un concetto di educazione alimentare e alla cultura del consumo a cui moltÉ™ cittadinÉ™ hanno già fatto riferimento, non avrebbe almeno dovuto sfuggire la complicità di Burger king con Israele nel sostegno all’apartheid del popolo palestinese, anche attraverso cospicue donazioni all’IDF, l’esercito israeliano. Un vero paradosso se pensiamo al paragone portato dall’assessore, accentuato ancora di più dal fatto che lo scorso 21 maggio, proprio l’assessore, insieme al suo gruppo di Sinistra ecologista e Sinistra Italiana di Chivasso organizzò in sala consiliare l’iniziativa “Voci da Gaza” in cui, fra i relatori, venne invitato anche Alex A. di BDS, il movimento di boicottaggio disinvestimento e sanzioni, che proprio in quell’occasione invitava al boicottaggio delle multinazionali complici del genocidio e dell’apartheid fra cui anche Burger King.

L’ultima pantomima è andata in scena domenica scorsa, 26 ottobre, una marcia della pace con partenza da Chivasso, ritrovo in Piazza della Repubblica, fino a frazione Betlemme, organizzata sempre dal gruppo di Sinistra Ecologista e Sinistra Italiana che ha visto sfilare, in in testa al corteo, l’assessore Debernardi insieme al sindaco Castello e altri rappresentanti istituzionali dai comuni limitrofi. La premiata e consolidata ditta (PD, Sinistra ecologista) è ormai specializzata nei proclami propagandistici per nascondere la reale assenza di azioni politiche solidali, pur avendo avuto più di una possibilità per appoggiarne o metterne in atto di concrete e incisive.

A confermare ulteriormente questa vergognosa e ipocrita politica, o meglio, questa propaganda istituzionale, ci sono anche le testimonianze di un gruppo consiliare di opposizione che si è visto bocciare per ben due volte alcune proposte concrete:

  • la prima proposta, bocciata senza esitazione, lanciata in occasione del consiglio comunale del 29 luglio, chiedeva di finanziare un ospedale di Hebron che si starebbe attrezzando per curare i bambini palestinesi mutilati e destinare il 5×1000 del Comune di Chivasso (poche migliaia di euro su un bilancio di 50 milioni e con un avanzo di 2 milioni, ovvero un impegno più che sostenibile) a vere iniziative di solidarietà sul posto. A tal proposito il sindaco si è esplicitamente espresso dicendo che le iniziative proposte dal comune “sono più che sufficienti”;
  • la seconda mozione, anch’essa bocciata, prevedeva di destinare parte dell’avanzo di bilancio a un capitolo di spesa dedicato alla “cooperazione Internazionale” per finanziare progetti sanitari e formativi in Cisgiordania. Anche in questo caso il sindaco Castello ha dichiarato espressamente che il Comune “non è rimasto fermo” facendo l’elenco di tutte le iniziative di facciata, ovvero: sit in, sottoscrizioni di appello, bandiere e lenzuoli esposti con la clessidra, ordini del giorno farsa.

Entrambi i respingimenti trovano analogia e si inseriscono sulla stessa linea che ha portato alla bocciatura in consiglio della petizione popolare che, fra le varie istanze, chiedeva almeno 1.000 euro di finanziamento per il campo profughi di Al-Azzeh a Bethlehem.

Tutto questo ci conferma come annunci, iniziative, mozioni e ordini del giorno provenienti dalla maggioranza di centro “sinistra”, caratterizzate da arretratezza e sterilità di contenuti, siano solo una copertura e un tentativo che, come accade a livello nazionale con il campo largo, composto da PD cinque stelle e AVS, tenta di salire sul carro delle oceaniche mobilitazioni di piazza che hanno segnato l’inizio di questo autunno, come non se ne vedevano da decenni, grazie a due scioperi generali nazionali, quello del 22 settembre e del 3 ottobre, e dalla grande manifestazione nazionale del 4 ottobre, chiamati da USB, l’unione sindacale di base, che raccogliendo l’appello lanciato dai lavoratori portuali del CALP, collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, sono riusciti, nell’intento di bloccare tutto il paese in solidarietà con la Global Sumud Flotilla, contro il governo Meloni e le sue complicità con lo stato genocida e terrorista di Israele. L’attuale stato di agitazione e la mobilitazione collettiva che stiamo vedendo e vivendo si è potuta costruire partendo dalle mobilitazioni inizialmente meno partecipate della prima ora, ben prima e appena dopo il 7 ottobre. Tutto questo partendo dal basso, dalle lavoratrici e dai lavoratori, dalle studentesse e dagli studenti di questo paese. Solo partendo dal basso si è potuto risvegliare il sentimento popolare per una possibile lotta di classe, adesso rappresentata dalla lotta per una Palestina libera, e verso un nuovo conflitto sociale per troppo tempo rimasto in letargo.

Sulla scia di queste grandi mobilitazioni, noi continueremo a tenere alta l’attenzione, non solo nelle grandi città ma anche nei territori come il Canavese, partendo da Chivasso. Scenderemo ancora in piazza e utilizzeremo ogni strumento consentito, anche nelle sedi istituzionali, efficace a smascherare tutta l’ipocrisia partitica, continueremo a esercitare la nostra pressione dal basso per sollecitare azioni di concreta solidarietà, interrompere ogni relazione con lo stato terrorista di Israele e porre fine al genocidio del popolo palestinese.

Proprio per questo raccogliamo l’appello lanciato a livello nazionale delle “100 assemblee permanenti operative per Gaza” per lanciarlo anche a Chivasso e nel resto del Canavese

A differenza loro sapremo sempre da che parte stare, Palestina libera dal fiume fino al mare!

L'articolo [TORINO] CHIVASSO: DIETRO LE MASCHERE DI “TOLA” DELL’AMMINISTRAZIONE CASTELLO SI CELA TUTTO L’IMMOBILISMO E L’ASSENZA DI SOLIDARIETÀ NEI CONFRONTI DI BETHLEHEM E DELLA PALESTINA proviene da Potere al Popolo.

Estero

IL BARICENTRO DELL’ECONOMIA MONDIALE SI SPOSTA IN ASIA
Data articolo:Thu, 30 Oct 2025 15:40:17 +0000

L’ultimo giorno di ottobre del 2025, i leader dei 21 paesi del forum di cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) si riuniranno nella città di Gyeongju, nella Repubblica di Corea (Corea del Sud), per il 33° vertice dell’organizzazione. Dalla sua fondazione nel 1989 a Canberra, in Australia, l’APEC ha promosso la creazione di una zona di “commercio libero e apertoâ€, un concetto delineato dagli Obiettivi di Bogor, emersi dal vertice tenutosi in Indonesia nel 1994.

L’APEC è un prodotto del suo tempo. In primo luogo, è nata come strumento del Consiglio di cooperazione economica del Pacifico del Giappone con l’obiettivo di costruire catene di approvvigionamento regionali dopo che l’accordo del Plaza (1985) aveva portato a un rafforzamento dello yen rispetto al dollaro. In secondo luogo, è stata progettata durante l’Uruguay Round (1986-1994) dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio, che si è concluso con la formazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO). Era l’era della liberalizzazione del commercio, quando gli Stati Uniti e i partner del G7, convinti che la storia fosse finita e che ogni paese avrebbe orbitato intorno agli Stati Uniti per l’eternità, spingevano i paesi ad aprire le loro economie alle società nordatlantiche e giapponesi. Gli Stati Uniti speravano che il Trattato di Maastricht (1993), che ha dato vita all’Unione Europea, avrebbe portato a un accordo di libero scambio transatlantico (cosa che non è mai avvenuta) e che l’Accordo di libero scambio del Nord Atlantico (NAFTA, 1994) avrebbe legato il Canada e il Messico agli Stati Uniti per sempre.

Per anni, gli Stati Uniti hanno partecipato ai vertici dell’APEC e hanno spinto per la creazione di un’area di libero scambio che consentisse alle loro società di dominare la regione. Gli Obiettivi di Bogor del 1994 erano finalizzati a questo scopo, ma fallirono per vari motivi, tra cui il timore interno che la crescente potenza industriale dell’Asia potesse superare quella degli Stati Uniti. Nel 2005, quattro paesi (Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore) hanno firmato l’accordo di partenariato economico strategico transpacifico, al quale si sono aggiunti altri otto paesi (Australia, Canada, Giappone, Malesia, Messico, Perù, Stati Uniti e Vietnam) entro il 2013. Ma era troppo poco e troppo tardi. La crisi finanziaria del 2008 ha scosso il Sud globale, che ha preso coscienza della fragilità delle economie del Nord Atlantico e della necessità di costruire un’alternativa commerciale e di sviluppo Sud-Sud.

Nel 2007, alla vigilia della crisi finanziaria, la Cina era già la terza economia mondiale. Nel 2010 ha superato il Giappone diventando la seconda economia mondiale. Oggi la Cina è il principale partner commerciale della maggior parte dei paesi dell’Asia-Pacifico, compresi 13 dei 21 paesi dell’APEC. Dopo la crisi finanziaria del 2008, i paesi dell’area del Pacifico hanno smesso di considerare prioritario il raggiungimento di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. E quando il presidente americano Donald Trump nel 2017 ha ritirato il suo paese dalla Trans-Pacific Partnership, i paesi rimanenti hanno continuato le discussioni, anche in assenza di Washington. Dieci degli undici firmatari dell’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico, scaturito da queste discussioni, erano membri dell’APEC.

In occasione di un vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) nel 2011, alcuni membri hanno discusso la possibilità di un accordo di libero scambio incentrato sull’Asia. I negoziati sono proseguiti con la certezza che i dieci membri dell’ASEAN, più Cina e India, avrebbero costituito una rete commerciale significativa. L’India alla fine si è ritirata, ma tutti i dieci paesi dell’ASEAN, insieme a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, sono rimasti nel processo. Nel 2020 questi paesi hanno firmato il Partenariato economico regionale globale (RCEP), il più grande blocco commerciale del mondo con quasi un terzo della popolazione mondiale (2,3 miliardi) e il 2830% del prodotto interno lordo (PIL) mondiale. In confronto, l’Unione Europea rappresenta circa il 185% e il NAFTA circa il 3017% del PIL mondiale. Il RCEP ha realizzato una forma di “commercio libero e aperto†– ciò che l’APEC aspirava a raggiungere con i suoi Obiettivi di Bogor – mentre gli Stati Uniti sono rimasti isolati.

Ma gli Stati Uniti conservano almeno due strumenti per esercitare il loro potere nella regione Asia-Pacifico: l’APEC, più di un forum economico è uno strumento per gli Stati Uniti per disciplinare i loro alleati asiatici, e il Rim of the Pacific (RIMPAC), che è il braccio militare. Il RIMPAC è stato creato nel 1971 come parte dell’architettura della Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica, ma si è trasformato in un meccanismo per esercitare il potere navale contro la Cina e altri paesi che cercano la sovranità. Il RIMPAC, organizzato dal Comando Indo-Pacifico della Marina degli Stati Uniti e con sede alle Hawaii, ora include risorse militari israeliane. Ciò dovrebbe creare problemi a membri come Colombia, Cile e Malesia, che hanno assunto posizioni forti contro l’attuale genocidio israeliano contro il popolo palestinese. Tutti i paesi dell’APEC partecipano al RIMPAC tranne Cina, Russia e Vietnam (la Cina ha partecipato fino a quando non è stata esclusa nel 2018).

La sovrapposizione tra l’adesione all’APEC e al RIMPAC rivela il tentativo degli Stati Uniti di esercitare l’egemonia attraverso il consenso economico (l’APEC, che coordina i circuiti economici del capitalismo) e la coercizione militare (il RIMPAC, che garantisce le condizioni militari per quell’ordine economico). Sebbene l’APEC sembri riguardare solo gli investimenti, le catene di approvvigionamento e l’economia digitale, in realtà è un meccanismo per garantire che gli Stati Uniti – con almeno 260 basi militari e siti di rotazione, dalla base RAAF di Darwin in Australia alla base aerea di Kadena in Giappone, e con le manovre militari del RIMPAC – rimangano la potenza dominante nella regione. La strategia statunitense per contenere la Cina è ora saldamente ancorata alla dinamica APEC-RIMPAC. Incapace di contrastare la vivacità economica della Cina e dei suoi vicini, gli Stati Uniti ricorrono a campagne di pressione militare e diplomatica.

Il vertice in Corea del Sud sarà accompagnato da manifestazioni di massa guidate dai sindacati delle lavoratrici e dei lavoratori industriali e agricoli, dai gruppi per i diritti umani e dalle organizzazioni studentesche. Ci saranno anche sacche di sostenitori ultranazionalisti dell’ex presidente Yoon Suk Yeol (2022-2025) del partito di destra People Power Party, che ha dichiarato la legge marziale nel 2024. Ma questi gruppi non influenzeranno la maggior parte delle manifestazioni, che sono a favore della creazione di un’economia sudcoreana incentrata sulle persone e contro il tentativo di utilizzare il vertice APEC per consolidare l’élite politica del Paese, ancora scossa dalla caduta di Yoon.

Con lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso l’Asia, gli Stati Uniti useranno ogni mezzo possibile per affermare la propria posizione. Ma semplicemente non hanno più gli strumenti per imporre il loro dominio. Un uso produttivo dell’APEC è quello di fornire una piattaforma per l’incontro tra i leader statunitensi e cinesi in un momento in cui gli spazi per il dialogo bilaterale si stanno riducendo. Questo è il motivo per cui l’attenzione dei media si è concentrata sull’incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping.

Nel 2013, il presidente cinese Xi ha utilizzato l’espressione “comunità con un futuro condiviso per l’umanità†(人类命è¿å…±åŒä½“), che è stata inserita nella Costituzione del Partito Comunista Cinese del 2017. Al vertice APEC del 2014 a Pechino, Xi ha affermato che l’Asia-Pacifico non dovrebbe diventare “un’arena di competizioneâ€, ma dovrebbe essere il luogo di “una comunità di destino comuneâ€. I funzionari cinesi hanno iniziato a parlare di una “comunità dell’Asia-Pacifico con un futuro condiviso†(亚太命è¿å…±åŒä½“), che riprendeva la frase del 2013. L’essenza di queste espressioni è che i paesi asiatici non dovrebbero perseguire politiche di blocco o alleanze militari, ma essere aperti al dialogo con tutti e costruire piattaforme che sostengano la dignità di tutti i popoli. Sebbene si tratti di espressioni interessanti, i loro nobili sentimenti possono essere realizzati solo nel processo storico reale, quando le persone di tutta la regione vedranno migliorare le loro vite grazie alla pace e allo sviluppo.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della quarantaquattresima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

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CAMBIAMO TUTTO! FACCIAMO IL PUNTO A SEGUITO DELLA GRANDE ASSEMBLEA DI SABATO 25 OTTOBRE
Data articolo:Thu, 30 Oct 2025 10:30:08 +0000

Sabato 25 ottobre, a Roma, si è svolta una grande assemblea nazionale promossa da Potere al Popolo, che ha riempito le sale del Nuovo Cinema Aquila con circa trecento partecipanti di diverse realtà organizzate, militanti di base, delegazioni territoriali, attiviste e attivisti sociali.

È stato un momento di confronto vivo e appassionato, in cui si è tracciato un percorso collettivo per rilanciare un progetto politico di lunga prospettiva che punti a costruire un blocco politico e sociale indipendente capace di sfidare anche l’appuntamento elettorale del 2027.

La consapevolezza emersa dalle decine di interventi è che in un contesto segnato dalla guerra, da una crisi economica e sociale che colpisce le classi popolari, la pace e la giustizia sociale sono inseparabili. Un’alleanza politica e sociale che va letta in prospettiva come rappresentanza indipendente nella società, per offrire alle elezioni un’alternativa al centrosinistra e alla destra, ma che mira anche a una battaglia culturale e delle idee, a costruire una visione e una pratica di mondo nuovo, di un moderno socialismo in grado di rispondere alla crisi del capitalismo che produce suprematismi, imperialismi e barbarie.

Non si può più avere nulla a che fare con i corpi intermedi legati alle istituzioni a cominciare dalle dirigenze sindacali complici CGIL, CISL e UIL, le ultime due sempre pronte a pattare con il governo, mentre la prima da un lato rincorre le iniziative dei sindacati di base, da un altro però non è conseguente nel conflitto e mira a un accordo.

Arriviamo infatti da due mesi in cui le piazze di tutte le città italiane si sono riempite di milioni di persone attorno allo slogan “Blocchiamo tutto†in supporto alla causa palestinese, esprimendo la rabbia e la speranza di chi non accetta più di guardare un genocidio in diretta con la complicità del nostro stesso Governo Meloni, degli USA, dell’UE e della Nato, e di pagare i costi di un sistema fondato sul profitto, sulla precarietà e sull’obbedienza ai diktat europei e militari. Se la destra svende il nostro paese e si rende complice di una tragedia storica, sempre più persone iniziano ad avere chiaro che l’opposizione non è più delegabile al centrosinistra che siede in Parlamento, compromesso fino al collo con il corso attuale degli eventi. Per questo il prossimo 16 novembre la forza della marea umana vista nelle piazze di questi mesi e nelle “cento assemblee†in corso nei territori si riverserà a Roma in una grande assemblea nazionale.

A quasi otto anni dopo la nascita del nostro movimento, il quadro politico italiano conferma la necessità di un’alternativa netta e credibile. Destra e centrosinistra si alternano al governo senza mai mettere in discussione i pilastri delle politiche liberiste: precarietà, privatizzazioni, subordinazione ai vincoli europei, militarizzazione. La politica si è ridotta a una spartizione di potere, mentre fuori cresce la rabbia e la solitudine di chi non si sente rappresentato. In questa prospettiva, l’USB ha ricordato lo sciopero generale indetto per venerdì 28 novembre, e la grande manifestazione da costruire assieme per il giorno successivo a Roma.

Contro tutto questo, noi vogliamo unire chi lotta per diritti, dignità e giustizia, i collettivi, i comitati di quartiere, il sindacalismo conflittuale, le esperienze diffuse di solidarietà attiva, la lotta delle donne per l’autodeterminazione, il lavoro, la libertà e contro ogni forma di violenza e sfruttamento, le lotte contro le devastazioni ambientali e le grandi opere inutili in un paese martoriato dalle conseguenze del cambiamento climatico, le realtà sociali che ogni giorno resistono alle disuguaglianze imposte dal profitto.

L’assemblea di Roma non è stata un punto d’arrivo, ma l’inizio di un processo che guarda con lucidità al 2027 come orizzonte di costruzione e maturazione politica. “Cambiare tutto†non è uno slogan: significa mettere in campo un progetto strategico capace di sfidare le compatibilità del sistema, di rompere con la rassegnazione e di proporre un’alternativa concreta alle politiche di austerità e guerra.

Nel dibattito collettivo è emersa con forza la capacità di individuare già nell’attuale finanziaria su cui sta lavorando il Governo il focus su cui concentrare la nostra lotta immediata, nella consapevolezza che l’austerità non è solo un errore economico, ma uno strumento politico per disciplinare la società e ridurre i diritti. Il governo attuale, come i precedenti, obbedisce al dogma del 3% di deficit e alla logica dei “conti in ordineâ€, ma i risultati sono disoccupazione, tagli alla sanità e alla scuola, precarietà crescente. Nello stesso tempo, la spesa militare aumenta e la corsa agli armamenti viene esclusa dai vincoli di bilancio: austerità per i servizi pubblici, ma fondi illimitati per la guerra.

Noi diciamo con chiarezza che non c’è giustizia sociale senza pace, né pace senza giustizia sociale. Serve un programma che unisca redistribuzione della ricchezza, riconversione ecologica, democrazia partecipata e disarmo.

Per confrontarsi nelle pratiche di lotta e non a tavolino, l’assemblea ha assunto subito i seguenti appuntamenti (oltre agli appuntamenti specifici rilanciati dai singoli percorsi organizzati e di mobilitazione):

  • 14 novembre con il No Meloni day e lo sciopero studentesco
  • 16 novembre a Roma assemblea nazionale di raccolta delle “cento assemblee†territoriali del movimento Blocchiamo Tutto;
  • 28 novembre sciopero generale promosso da USB, e 29 novembre manifestazione nazionale a Roma;
  • Riconvocarsi a dicembre nelle forme che si valuteranno opportune, per portare avanti il percorso avviato sabato 25 ottobre e iniziare a stabilizzare un “patto di consultazione permanente†con le realtà e i singoli interessati a costruirlo.

Dall’assemblea del 25 ottobre parte quindi un impegno collettivo: costruire nei territori un fronte popolare largo, inclusivo, radicato, capace di parlare ai lavoratori, ai giovani, ai precari, a chi non ha voce. È tempo di tornare protagonisti: non è vero che “non c’è alternativaâ€, un altro Paese è possibile!

 

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E’ ORA DI CONVOCARE L’ASSEMBLEA NAZIONALE PER TORNARE A BLOCCARE TUTTO
Data articolo:Tue, 28 Oct 2025 08:09:18 +0000

Mentre in ogni città si vanno organizzando le assemblee operative per decidere come proseguire la mobilitazione contro lo Stato terrorista di Israele e continuano a moltiplicarsi le iniziative di lotta e di boicottaggio per isolare il sionismo e le mille complicità di cui gode anche nel nostro Paese, è ora di realizzare un primo grande momento di confronto tra tutte le realtà che hanno dato vita allo straordinario movimento che si è manifestato attorno alla parola d’ordine “blocchiamo tuttoâ€.

Che la tregua voluta da Trump rappresenti una boccata d’ossigeno per una popolazione martoriata da un genocidio, che solo il governo Meloni si ostina a negare, è un dato oggettivo almeno quanto il suo carattere discriminatorio e coloniale nei confronti del popolo palestinese. Non è in discussione, quindi, la necessità di continuare a lottare per la libertà della Palestina e per il pieno riconoscimento di tutti i diritti del popolo a cui quella terra appartiene.

Ciò che va discusso, invece, è come continuare la lotta e come dare a questo movimento la capacità di allargare lo sguardo e quindi l’iniziativa a quei temi che le piazze hanno richiamato, primo fra tutti la corsa al riarmo e le sue inevitabili ricadute di natura economica, culturale e repressiva.

Lo smascheramento della vera natura di Israele ha messo in evidenza non solo la complicità del governo italiano ma anche perchè un’intero sistema politico ed economico senta la necessità di continuare a sostenere uno Stato genocida. Gli intrecci economici e militari con Tel Aviv ci raccontano di una relazione funzionale alle scelte di riarmo che sono in corso in tutto l’Occidente e, in particolare, nei paesi dell’Unione Europea.  Gli investimenti supermiliardari programmati dalla Ue per i prossimi dieci anni costituiscono l’asse fondamentale di una politica bellicista che è destinata a trascinare tutto il continente verso un futuro da incubo. E il sostegno ad Israele è la conferma che questo indirizzo è la linea maestra alla quale ci vogliono piegare.

La linea di riarmo ipoteca il nostro futuro e conforma tutto, dall’industria alla scuola, dalla ricerca ai media, dalle libertà ai servizi, alla logica della guerra. Non vogliono solo comprare e costruire nuove armi, vogliono militarizzare e irregimentare tutta la società. E’ in atto un processo complessivo di riorganizzazione delle nostre vite, autoritario, soffocante, liberticida.

Il movimento che ha realizzato innumerevoli mobiltazioni e due grandi scioperi generali ha dimostrato di possedere una forza gigantesca. E, soprattutto, ha dimostrato di non voler rimanere imbrigliato da quelle forze, salite sul carro all’ultimo minuto, che non hanno mai espresso parole chiare nè su Israele nè contro le politiche di riarmo. Ora questo movimento, però, deve riuscire ad operare un salto in avanti, facendo esprimere tutta la forza che ha saputo mettere in campo su un terreno molto più ampio di questioni. Tornare a praticare il “blocchiamo tutto†per cominciare a cambiare davvero.

Proponiamo di vederci a Roma domenica 16 novembre al Nuovo Teatro l’Aquila dalle ore 10:00.

(Mail per adesioni: assembleablocchiamotutto@gmail.com)

-Potere al popolo
-Usb
Calp
-Ex opg
-Movimento diritto all abitare roma
-Arci roma
-Cambiare rotta
-Cau
-Osa
-Movimento migranti e rifugiati napoli
-Donne contro la guerra e genocidio
-Casa del popolo mariella franco Pavia
-Centro sociale Intifada
-Ecoresistenze
-ecologia politica Napoli
-Casa del popolo Silvia Picci Lecce
-Spazio Catai Padova
-Casa del popolo Estella Torino
-Sac
-Casa del popolo Marano, Mugnano, Calvizzano
-Contropiano
-Rete dei comunisti

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Campania

[NAPOLI] IL DEGRADO DEGLI SPAZI VERDI A NAPOLI
Data articolo:Mon, 27 Oct 2025 07:50:19 +0000

In una città che vorrebbe definirsi “modernaâ€, i parchi pubblici dovrebbero essere spazi vitali: luoghi di libertà, di gioco, di aggregazione, di respiro per le comunità.

Invece, allo stato attuale, numerosi spazi verdi di Napoli sono inaccessibili o versano in condizione di grave degrado:

  • L’accordo per la riapertura del parco Urbano dei Camaldoli (135 ettari, un polmone della città) è stato firmato nel 2022, ma ad oggi il parco è ancora chiuso e versa in condizioni di totale abbandono;
  • Il parco San Gennaro e il parco Emilia Laudati sono ancora chiusi, nonostante le dichiarazioni dell’Assessore al verde del Comune di Napoli che, dopo infiniti rinvii, aveva promesso la riapertura il 15 ottobre.

Gli altri parchi segnalano aperture discontinue, manutenzioni rimandate, ambienti rovinati, percorsi non curati, aree completamente abbandonate. Il risultato è che vaste zone verdi che dovrebbero essere fruibili diventano zone fantasma o zone chiuse.

Parallelamente, l’amministrazione comunale apre le porte a società private per la gestione di aree verdi e parchi. Per fare un esempio, la guardiania del parco Re Ladislao è stata affidata alla Cosmopol S.p.a., società di vigilanza che nel 2023 è stata posta in amministrazione giudiziaria in seguito ad un’inchiesta per caporalato che ha evidenziato lo sfruttamento di lavoratori pagati meno di 5 euro all’ora.

Se questa è la ditta cui la pubblica amministrazione affida appaldi per la “gestione†del verde pubblico, viene naturale chiedersi: che modello di qualità, di trasparenza, di cura del bene comune può assicurare?

Il problema non riguarda soltanto casi isolati ma rientra in un disegno più ampio, già annunciato da tempo ma che ormai è sotto gli occhi tutti.

L’amministrazione della città di Napoli sta portando avanti una politica di privatizzazione del verde e dei parchi urbani, così come indicato nella bozza del regolamento sul verde: l’articolo 31 prevede, infatti, il ricorso «forme di partenariato pubblico-privato e contratti di concessione per la realizzazione e/o la gestione e manutenzione di aree verdi comunali», offrendo al gestore privato la possibilità di realizzare “eventi per la cittadinanza, anche a pagamentoâ€.

In sostanza: un diritto collettivo (il diritto al verde, all’aria, al gioco, alla socialità) che dovrebbe essere tutelato come bene comune viene trasformato in una merce, in un asset da “gestireâ€, da “sfruttareâ€, da “mettere a redditoâ€.

Questo processo di privatizzazione apre la strada a parchi “premiati†se gestiti come business (come dimostra l’esempio del parco di Capodimonte), mentre i parchi che non producono reddito vengono penalizzati, creando ulteriori discriminazioni tra i quartieri (chi può pagare / chi non può) e minando alla base l’obiettivo di garantire all’intera popolazione la stessa possibilità di accedere alle aree verdi.

Noi siamo contrari a questo modello di gestione degli spazi verdi e rivendichiamo:

  • La riapertura dei parchi oggi chiusi (Camaldoli, San Gennaro, Emilia Laudati, ecc.) in maniera trasparente, fornendo informazioni certe sulle tempistiche e le risorse dedicate;
  • La reinternalizzazione della gestione dei parchi, la previsione di controlli effetti e garanzie occupazionali per i lavoratori coinvolti;
  • La revisione del regolamento sul verde per escludere la possibilità di introdurre “aree a pagamento†o “attività commercialiâ€;
  • La partecipazione attiva delle comunità locali, dei comitati cittadini, promuovendo forme di autogestione degli spazi, affinché l’accesso sia considerato un diritto e non un privilegio.

Se i parchi sono spazio di libertà e il verde è un elemento di democrazia urbana, quello che oggi accade a Napoli non è semplice cattiva amministrazione: è una scelta politica. E quella scelta politica va contrastata!

Il patto presentato a metà ottobre 2025 – l’“Agenda Napoli†– dal sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi e il candidato alla presidenza della Regione Campania, Roberto Fico, segna un passaggio cruciale: dietro la retorica della “sinergia tra Comune e Regioneâ€, si intende estendere il modello napoletano basato sulla gestione privatistica all’intero territorio campano, trasformando un esperimento fallimentare in un paradigma da applicare a livello regionale

Le ricadute di questa impostazione sarebbero profonde e durature:

  • Snaturamento del concetto di bene comune: il verde non rappresenterebbe più un diritto universale, ma una risorsa da “valorizzare†economicamente.
  • Uniformazione verso il basso: i comuni campani, spesso in dissesto finanziario, verrebbero spinti ad affidare la gestione del verde ai privati per mancanza di risorse.
  • Marginalizzazione delle aree interne: i territori rurali e i piccoli centri, privi di interesse commerciale, resterebbero esclusi dagli investimenti, accentuando lo squilibrio tra città e provincia.
  • Rischio ambientale: la logica del profitto spinge alla trasformazione dei parchi in spazi “eventificatiâ€, con strutture temporanee, pavimentazioni, parcheggi, riducendo la biodiversità e il valore ecologico delle aree verdi.
  • Attacco ai diritti dei lavoratori: la gestione privatizzata comporta appalti esterni, precarizzazione dei lavoratori e perdita di competenze interne nei servizi comunali e regionali.

Di fatto, se il modello Napoli diventa “modello Campaniaâ€, la politica del verde pubblico rischia di essere sostituita da una politica del verde commerciale: i parchi diventano “locationâ€, i giardini “formatâ€, il diritto alla natura un “servizio a domanda individualeâ€.

Questo accordo segna quindi una linea politica precisa: dove c’era pubblico, ci sarà partenariato; dove c’era diritto, ci sarà concessione; dove c’era cittadinanza, ci sarà consumo.

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Estero

SETTE TESI SULLE RIVOLTE DELLA GEN Z NEL SUD GLOBALE
Data articolo:Thu, 23 Oct 2025 09:11:21 +0000

I muri di Santiago del Cile, la città in cui vivo, sono segnati dai graffiti sbiaditi dell’estallido social (rivolta sociale) del 2019. A distanza di anni, questi slogan continuano a riversarsi sui marciapiedi, da Nos quitaron tanto que nos quitaron hasta el miedo (ci hanno tolto così tanto che ci hanno tolto persino la paura) a No son 30 pesos, son 30 años (non sono 30 pesos, sono 30 anni). Entrambi gli slogan si riferiscono ai 30 anni di austerità neoliberista imposta al popolo cileno, compreso un aumento di 30 pesos sul prezzo dei biglietti della metropolitana e profondi tagli al welfare del Paese. La rivolta è stata guidata da studenti delle scuole superiori nati tra il 2001 (18 anni) e il 2005 (14 anni), che fanno parte della Generazione Z o “Gen Zâ€. Tuttavia, questo termine, imposto al mondo dai media mainstream, spesso cancella la complessità sociale e la specificità nazionale di tali rivolte. Ciononostante, vale la pena approfondire questo termine e il concetto di “generazioneâ€.

Le proteste in Cile, che alla fine hanno coinvolto tutte le fasce d’età e delegittimato il governo di destra di Sebastián Piñera, non sono state un caso isolato. I giovani nati in quest’epoca hanno guidato proteste in tutto il mondo, tra cui le mobilitazioni di massa contro uno stupro di gruppo a Delhi, in India (2012); la campagna March for Our Lives contro la violenza delle armi negli Stati Uniti (2018); e la campagna Fridays for Future contro la crisi climatica (2018), avviata dall’attivista svedese Greta Thunberg (nata nel 2003 e recentemente torturata dal governo israeliano). Alla rivolta cilena hanno fatto seguito lo sciopero nazionale in Colombia nel 2021, l’Aragalaya (lotta) in Sri Lanka nel 2022 e la rivolta in Nepal all’inizio di quest’anno che ha portato alle dimissioni del governo di centro-destra. In ciascuno di questi casi, ciò che era iniziato come indignazione etico-morale per una questione singola si è trasformato in una critica a un sistema che si è dimostrato incapace di riprodurre la vita per i giovani.

Il concetto di generazione è stato sviluppato un secolo fa dallo studioso tedesco Karl Mannheim nel suo saggio Il problema sociologico delle generazioni (1928). Per Mannheim, una generazione non era definita dall’epoca in cui era nata una coorte, ma dalla sua “posizione sociale†(soziale Lagerung). In termini politici, una generazione si forma quando subisce cambiamenti rapidi e dirompenti che la portano a riscoprire la tradizione attraverso nuovi “portatori di cultura†(Kulturträger) – individui e istituzioni che trasmettono la cultura – e diventa una forza attiva per il cambiamento sociale, ben lontana dal modo in cui le generazioni sono diventate una tipologia di marketing dopo la seconda guerra mondiale (Baby Boomers, Generazione X, Generazione Y, ecc.). Mannheim vedeva le generazioni come forze di cambiamento sociale, mentre la cultura neoliberista le ha trasformate in “segmenti†nelle loro strategie di marketing.

Il termine Gen Z è stato utilizzato nelle descrizioni delle proteste che hanno avuto luogo dalle Ande all’Asia meridionale, dove i giovani, frustrati dalle limitate possibilità di avanzamento sociale, sono scesi in piazza per rifiutare un sistema fallimentare. Alcuni elementi della teoria di Mannheim sono all’opera in questo caso. È vero che le forze imperialiste spesso intervengono per istigare e plasmare queste proteste, ma sarebbe inesatto considerarle semplicemente il prodotto di un intervento esterno. Ci sono importanti fattori sociologici interni che richiedono un’analisi per comprendere queste “proteste della Gen Zâ€. Molte di esse sono guidate da una serie di processi sovrapposti che emergono dal contesto nazionale, pur essendo condizionati dalla congiuntura internazionale. In questa newsletter proponiamo sette tesi per iniziare a comprendere questi sviluppi e forse incanalarli in una direzione progressista.

Tesi uno. C’è un boom demografico giovanile in tutto il Sud globale, l’età media è di 25 anni, e le persone in queste società giovani sono vittime di dure politiche di austerità del debito, catastrofi climatiche e guerre permanenti. In Africa, l’età media è di 19 anni, inferiore a quella di qualsiasi altro continente. In Niger l’età media è di 15,3 anni, in Mali di 15,5, in Uganda e Angola di 16,5 e in Zambia di 17,5.

Tesi due. I giovani del Sud del mondo sono frustrati dalla disoccupazione. Il neoliberismo ha indebolito la capacità d’intervento dello Stato, lasciando pochissimi strumenti per affrontare questo problema (portando a richieste il lavoro nel pubblico come nel caso del Bangladesh dove il movimento chiedeva una riforma del sistema delle quote). I giovani istruiti con aspirazioni di classe media non riescono a trovare un lavoro adeguato, il che porta alla disoccupazione strutturale o a un disallineamento delle competenze. Esistono vari modi per definire i tipi di lavori precari: in Algeria, esiste un termine per indicare i disoccupati che deriva dall’arabo e dal francese: coloro che “si appoggiano al muro†per sostenerlo (hittiste dall’arabo hayt, che significa vita). Negli anni ’90, il sistema universitario è stato ampliato e privatizzato, il che ha significato un’apertura – ma a pagamento – a gran parte di quella che sarebbe diventata la Generazione Z. Si tratta di figli della classe media e medio-bassa, ma anche della classe operaia e dei piccoli agricoltori che hanno vissuto un’ascesa sociale. La Generazione Z è la generazione più istruita della storia, ma è anche la più indebitata e sottoccupata. Questa contraddizione tra aspirazioni e precarietà produce una grande indignazione.

Tesi tre. I giovani non vogliono essere costretti a emigrare per avere una vita dignitosa. In Nepal, i giovani manifestanti hanno gridato slogan contro la costrizione all’emigrazione economica: Vogliamo posti di lavoro in Nepal. Non vogliamo essere costretti a emigrare per lavorare. Questa costrizione all’emigrazione provoca vergogna per la propria cultura e un distacco dalla storia delle lotte che hanno plasmato la propria società. Ci sono quasi 168 milioni di lavoratrici e lavoratori migranti nel mondo: se fossero un paese, sarebbero il nono più grande al mondo, dopo il Bangladesh (169 milioni) e davanti alla Russia (144 milioni). Tra loro ci sono i lavoratori edili nepalesi negli Stati del Golfo e le lavoratrici agricole andine e marocchine in Spagna. Essi inviano rimesse che sostengono il consumo delle famiglie nei loro paesi; in molti casi, il totale delle rimesse (che ammonta a 857 miliardi di dollari nel 2023) è superiore agli investimenti diretti esteri (come nel caso del Messico). Lo sradicamento sociale, la divisione di lavoro internazionale-razziale e il maltrattamento delle persone migranti – compreso il disprezzo per i loro titoli di studio – diminuiscono drasticamente il fascino della migrazione. .

Tesi quattro. Le grandi aziende agricole e minerarie hanno intensificato il loro attacco ai piccoli agricoltori e alle lavoratrici agricole (che ha scatenato la rivolta dei contadini in India). I giovani di queste classi, stanchi delle difficoltà rurali e radicalizzati dalle proteste spesso fallimentari dei loro genitori, si trasferiscono nelle città e poi all’estero in cerca di lavoro. Portano la loro esperienza dalla campagna alle città e sono spesso la falange principale di questi movimenti di protesta.

Tesi cinque. Per la Generazione Z, la questione del cambiamento climatico e del disagio ambientale non è un’astrazione, ma una causa imminente di proletarizzazione attraverso lo sfollamento e gli shock dei prezzi. Le persone che vivono nelle zone rurali vedono che lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità e le inondazioni colpiscono proprio dove le catene di approvvigionamento imperialiste “verdi†vanno alla caccia di risorse come il litio, il cobalto e l’energia idroelettrica. Capiscono che la catastrofe climatica è direttamente collegata alla loro incapacità di costruire un presente, figuriamoci un futuro.

Tesi sei. La politica dell’establishment non è in grado di affrontare le frustrazioni della Generazione Z. Le costituzioni non riflettono la realtà e le magistrature irresponsabili sembrano vivere su un altro pianeta. Le principali interazioni di questa generazione con lo Stato avvengono attraverso una burocrazia sorda e una polizia militarizzata. I partiti politici sono paralizzati dal consenso di Washington sull’austerità del debito e le ONG si concentrano esclusivamente su singole questioni piuttosto che sull’intero sistema. I vecchi partiti di liberazione nazionale hanno in gran parte esaurito il loro programma o lo hanno visto distrutto dall’austerità e dal debito, lasciando un vuoto politico nel Sud globale. “Sbarazzarsi di tutti†è una politica che finisce con un ricorso agli influencer dei social media (come il sindaco di Kathmandu, Balen Shah) che non hanno mai partecipato alla politica dei partiti, ma che spesso usano le loro piattaforme per predicare l’antipolitica e l’indignazione della classe media.

Tesi sette. L’aumento del lavoro informale ha creato una società disgregata, senza alcuna speranza di solidarietà tra le lavoratrici e i lavoratori o di appartenenza a organizzazioni di massa come i sindacati. L’uberizzazione delle condizioni di lavoro ha creato un’informalità della vita stessa, in cui il lavoratore è alienato da ogni forma di connessione. L’importanza dei social media aumenta con l’aumento dell’informalità, poiché l’internet diventa il principale mezzo di trasmissione di idee, soppiantando le vecchie modalità di organizzazione politica. È allettante ma inesatto suggerire che i social media stessi siano una forza trainante di questa ondata di proteste. I social media sono uno strumento di comunicazione che ha permesso la diffusione di sentimenti e tattiche, ma non sono la condizione per questi sentimenti. È importante notare che l’internet è anche uno strumento per l’estrazione di surplus: le lavoratrici e i lavoratori delle piattaforme – le e i gig worker – sono disciplinati da algoritmi che li spingono a lavorare sempre più duramente per una retribuzione sempre più bassa.

Queste sette tesi cercano di delineare le condizioni che hanno prodotto le rivolte della Generazione Z nel Sud globale. Le rivolte sono state in gran parte urbane, con poco coinvolgimento di contadini e lavoratrici rurali. Inoltre, i proposte politiche di queste proteste raramente affrontano le crisi strutturali a lungo termine nei paesi sottosviluppati. Per dirla senza mezzi termini, la politica tipica delle rivolte della Gen Z conduce all’abisso dell’indignazione della classe media. Queste proteste sono spesso – come in Bangladesh e Nepal – cooptate da forze sociali radicate che si fanno il loro portavoce e sviluppano un programma politico a favore dei finanzieri occidentali. Tuttavia, queste rivolte non vanno sottovalutate: le condizioni oggettive faranno aumentare la loro frequenza. La sfida per le forze socialiste è quella di articolare le genuine rivendicazioni della Gen Z in un programma politico volto a ridistribuire la ricchezza sociale e aumentare gli investimenti fissi netti per trasformare le relazioni sociali nel loro insieme.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della quarantatreeisma newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

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Estero

ANCHE IN ASIA ORIENTALE CONTINUA L’ATTIVISMO CONTRO LA COMPLICITÀ CON ISRAELE
Data articolo:Tue, 21 Oct 2025 15:23:08 +0000

Come PaP Estero abbiamo conosciuto attivisti ed attiviste della Taiwan Alliance for a Free Palestine (TWAFP) sabato 20 settembre 2025, in occasione dell’azione di protesta da loro organizzata a Taipei. Il sit-in di protesta si è tenuto davanti alla Nangang Exhibition Hall 1, dove dal 18 al 20 settembre c’è stata la Taipei Aerospace & Defense Technology Exhibition, una fiera occasione di incontro di imprenditori e commercianti di armamenti.

La protesta eÌ€ durata circa due ore, dalle ore 14 alle 16, slogan e battere di tamburi e coperchi di pentole hanno intervallato gli interventi di attivisti e attiviste che hanno espresso il loro dissenso avendo l’obiettivo di rendere consapevole la collettivitaÌ€ riguardo alla complicità di imprese taiwanesi nel genocidio israeliano a Gaza e denunciare l’inazione del governo di Taiwan nell’indagare e ostacolare questa complicità (vedi il documento Taiwanese companies’ complicity in Israel’s ongoing genocide). Durante la protesta abbiamo preso contatto con Yang Kang a cui poi abbiamo rivolto alcune domande.

***

Sabato 20 settembre durante l’azione di protesta abbiamo parlato personalmente e abbiamo espresso apprezzamento per lo slogan stampato sulla tua t-shirt e per l’intervento che avevi appena fatto al microfono in cui con veemenza hai messo in risalto che la vigente democrazia è evidentemente contraddittoria e incompleta perché convive con e trae profitto dalla colossale violenza e ingiustizia commessa ai danni di tante persone. Poi ti abbiamo chiesto se eri soddisfatto della riuscita dell’azione di protesta in corso. Ci puoi dare un giudizio dettagliato sulla giornata di protesta del 20 settembre, facendo riferimento al maggior numero di aspetti possibili (tra gli altri: difficoltà organizzative, numero e composizione sociale dei partecipanti, svolgimento, rapporti con le autorità di polizia, risultati di breve e lungo termine).

Yang Kang: È stato difficile organizzare questa protesta. Nella nostra protesta ad agosto davanti al Ministero degli Affari Esteri abbiamo organizzato la prima discussione di gruppo per coinvolgere più partecipanti e promuovere più azioni che fossero organizzate dalla collettività piuttosto che dai membri della Taiwan Alliance for a Free Palestine. Come conseguenza questa mobilitazione contro la Taipei Aerospace & Defense Technology Exhibition è l’accumulo di centinaia di ore di discussioni e di ricerca svolta da un gruppo di volontari. Abbiamo avuto circa 100 persone nella protesta, di cui più del 60% di popolazione locale, taiwanesi. Questa è anche l’unica volta in cui la polizia ha rifiutato di approvare la notifica di assembramento, il che potrebbe aver contribuito alla poca partecipazione.

Nonostante la poca presenza credo che siamo riusciti a spostare l’attenzione pubblica sul commercio delle armi. È la prima volta che una protesta considerevole viene organizzata contro una fiera della tecnologia e credo che la nostra presenza abbia così introdotto il concetto di responsabilità della filiera di produzione nella nostra industria della tecnologia, sullo sfondo di questo genocidio in atto. Credo che, indipendentemente da quanto il contributo possa essere piccolo, abbiamo modificato il dialogo.

Potresti per favore ora inserire la giornata di protesta del 20 settembre in un contesto più ampio parlandoci dello sviluppo del movimento taiwanese di solidarietà nei confronti del popolo palestinese negli anni recenti? E a questo proposito: qual è il coinvolgimento diretto dei lavoratori nel movimento di protesta? E più in generale: quali sono gli ostacoli più grandi che il movimento ha dovuto e deve affrontare?

 Yang Kang: Storicamente Taiwan ha avuto da molto tempo organizzazioni che lavorano per la causa palestinese, specialmente negli sforzi di organizzazione sindacale e in spazi di sinistra. Certamente un impegno organizzativo per l’intera società civile è stato riacceso dopo il 7 ottobre per rispondere all’assalto su vasta scala a Gaza, ma Taiwan ha un suo proprio contesto storico riguardante il sostegno alla Palestina: negli anni Ottanta anche più anziane generazioni dell’ala pro-indipendenza annotarono stimoli che ricevettero dalla Palestina.

Una delle sfide più serie con le quali ci siamo confrontati è la diffusa apatia del pubblico, il fascino per una sicurezza da garantire per mezzo di un fronte economico contro la Cina aveva fatto sembrare necessario costruire e proteggere questa “filiera produttiva non rossa†e tutto il male che essa contiene.

Nelle ultime settimane la mobilitazione popolare in Europa ha mostrato aspetti incoraggianti. Utilizziamo l’aggettivo incoraggiante senza allegria: infatti questi avvenimenti arrivano quando così gran parte della tragedia è consumata, però certamente non sono inutili.

In Germania sabato 27 settembre a Berlino hanno manifestato circa 100.000 persone per la fine del genocidio a Gaza e della complicitaÌ€ del governo tedesco. La manifestazione „All Eyes on Gaza – Stoppt den Genozid!“, la piuÌ grande in Germania finora, sembra dare una immagine del cambiamento in corso nel posizionamento dell’opinione pubblica tedesca nei confronti dell’azione di Israele a Gaza. Il corso tragico degli eventi e l’impegno insistente dell’attivismo sociale e politico pare abbiano sconfitto finalmente un elemento di mistificazione che fino a “ieri†ha vinto: in Germania infatti fino a ieri dominava come dogma il principio irrazionale della solidarietaÌ€ senza condizioni con lo Stato di Israele e l’accusa di antisemitismo veniva utilizzata con successo dagli apologeti della politica israeliana come strumento per mettere a tacere la critica. Questo avveniva incredibilmente anche nel partito Die Linke, dove posizioni razionali non riuscivano ad affermarsi.

In Italia per il 22 settembre il sindacato USB ha proclamato lo sciopero generale in sostegno della popolazione di Gaza e della Global Sumud Flotilla. Questo sciopero ha avuto successo: cortei di protesta di lavoratori, studenti e attivisti si sono tenuti nelle maggiori città dal nord al sud Italia. Tra di essi un ruolo importante è stato svolto proprio anche dal nostro partito Potere al Popolo.

Il 3 ottobre il sindacalismo di base ha proclamato ancora uno sciopero generale per la Global Sumud Flotilla – a cui ha anche aderito il sindacato confederale CGIL –  contro l’aggressione a imbarcazioni civili che trasportano cittadini italiani, aggressione interpretabile come attacco all’ordine costituzionale Italiano e alla salute e sicurezza di lavoratori e volontari italiani a bordo. Ancora più persone sono scese in strada, il governo diceva 500mila, gli organizzatori oltre un milione. E dopo il 3 ottobre e dopo l’ulteriore partecipata giornata di mobilitazione del 4 ottobre, si sono avuti ancora alcuni e sono in corso altri presidi in diverse città. Il sindacato USB promuove una Cassa di Resistenza e di lotta, fondo a supporto di chi dicendo no al genocidio mette a rischio le proprie condizioni di esistenza. Una caratteristica della mobilitazione italiana è stato il protagonismo e il coraggio degli operai portuali (porti di Genova, Livorno, Ravenna, Taranto, Trieste) che hanno fermato le navi cariche di armi per Israele.

Abbiamo menzionato questi aspetti di due Paesi differenti, Germania e Italia. Le differenze tra questi contesti e Taiwan sono certamente grandi, non è quindi con lo scopo di un confronto immediato e complessivo che li nominiamo, ma con l’obiettivo di scambiare informazioni e impressioni, parlarci nominando elementi che ci stanno a cuore o con i quali ci misuriamo nelle realtà che viviamo. Del resto, nonostante le dijerenze partecipiamo alla stessa realtà internazionale e in essa veniamo formati.

In che modo la discussione internazionale è presente e ha un effetto a Taiwan dentro e fuori la Taiwan Alliance for a Free Palestine (TWAFP)? Potresti fare degli esempi?

Yang Kang: È motivante essere testimoni dello sforzo organizzativo e della realizzazione di una coalizione di giusta rabbia in Europa. Taiwan è peculiare per il modo in cui è integrata all’interno della comunità globale e per la doppia coscienza che ne è emersa: accogliamo con favore l’idea di diventare uno stato canaglia e ignoriamo tutte le norme internazionali, ma allo stesso tempo siamo preoccupati dall’idea di essere esclusi dalla partecipazione all’arena degli affari globali: alcuni definirebbero la Corte Penale Internazionale e l’ONU “influenzati dalla Cina e senza potere realeâ€, ma essendo allo stesso tempo furiosi che Taiwan non ne possa prendere parte.

Avendo questo sullo sfondo, penso che l’organizzarsi in Europa non solo abbia indicato che il sostegno alla Palestina è numericamente consistente, ma ci abbia ricordato anche che un’alleanza internazionale per la giustizia e le norme rimane possibile. Anche le alleanze all’interno delle Nazioni Unite, come il Gruppo dell’Aia, avevano indicato il rischio di essere complici di Israele in questo genocidio.

Hai idee e/o proposte concrete riguardo a come sviluppare la solidarietà e collaborazione internazionale tra movimenti che operano in diverse parti del mondo?

Yang Kang: Sarebbe infruttuoso ricercare la solidarietà senza riconoscere la sofferenza degli altri. Penso che sia essenziale comprendere l’apatia generale di Taiwan sullo sfondo dell’ansia geopolitica reale e corporea con la quale essa e la sua popolazione si confronta.

Vuoi aggiungere qualcosa? Domandare tu a noi qualcosa? O condividere con chi legge qualcosa? Altrimenti ti ringrazio e ti dico arrivederci: mi auguro, ci auguriamo, di approfondire la conoscenza reciproca e la collaborazione in uno spirito internazionalista!

Yang Kang: Niente da aggiungere. Solo Free Palestine!

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