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L'altra faccia della guerra e l'altro volto di Zelensky - Ucraina e Libia: due facce della stessa guerra e la Profezia di Gheddafi - Libia 2011, i crimini impuniti della Nato - Il sanguinoso conflitto in Iraq che pone l'occidente sotto accusa - Pillole di storia dell'Ucraina
#news #Potere #Popolo
Lavorare a 800 euro al mese?
Secondo l’ultimo rapporto INPS, istruito dalla nuova commissaria Gelera, non esistono lavoratrici e lavoratori poveri. I/le vigilanti, addetti a pulizie, portinerie, servizi bibliotecari e museali con contratti della vigilanza privata e servizi fiduciari o multiservizi o del turismo si guardano allo specchio e pensano di essere dei fantasmi. Specie i primi che vivono con paghe di poco più di 5 euro lordi l’ora,800 euro netti al mese per un full time, ma tutti dentro una vera e propria giostra della precarietà spesso alle dipendenze reali degli enti pubblici: università, enti di ricerca, pubbliche amministrazioni che da decenni hanno esternalizzato diverse attività.
E non parliamo di contratti pirata, ma di Ccnl firmati dai sindacati confederali che non riguardano solo casi eclatanti come quello della vigilanza privata, ma diversi contratti che prevedono paghe sotto o in linea con la soglia di povertà relativa.
È il fallimento di un modello contrattuale a perdere, certificato dal fatto che l’Italia è l’unico paese OCSE dove dal 1990 i salari reali sono diminuiti.
Occorre un salario minimo dignitoso. Con l’introduzione di un salario minimo di 10€ lordi l’ora, previsto dalla nostra proposta di legge, una lavoratrice o un lavoratore della guardiania non armata si troverebbe in busta paga quasi 500€ in più, molti altri uscirebbero finalmente dallo stato di povertà. Inoltre il livello minimo sarebbe adeguato automaticamente all’inflazione, e così di conseguenza anche quelli più alti.
A queste lavoratrici e lavoratori è dedicata la terza giornata di mobilitazione nazionale per il salario minimo.
Giovedì 28 settembre, venerdì 29, sabato 30 e domenica 1° ottobre ci troverete nelle piazze di tutta Italia con banchetti dove firmare per la nostra proposta di legge.
La risposta finora è stata sorprendente: decine di migliaia di persone hanno già firmato, dimostrando che il problema è urgente e che non si vuole delegarne la soluzione alle meline parlamentari.
FIRMA ANCHE TU PER UNA PAGA DIGNITOSA PER TUTTE E TUTTI!
FIRMA ANCHE TU PER INVERTIRE LA ROTTA DI QUESTO PAESE!
METTI UNA FIRMA PER TE E PER I TUOI FIGLI!
L'articolo MAI PIU’ LAVORO POVERO: 28/9 – 1/10 GIORNATE DI LOTTA PER UN SALARIO MINIMO DI 10€/H proviene da Potere al Popolo.
Oggi il ministro dell’ambiente Pichetto Fratin incontra Lo Russo e Cirio per confrontarsi su “politiche e sfide ai modelli del XX secolo”. Siamo andati a disturbarli perché è un tema urgente, ma la soluzione non arriverà da chi tutto vuole, tranne mettere in discussione l’attuale modello produttivo.
La crisi ambientale richiede una transizione ecologica basata su giustizia e condivisione, su produzione e consumo nel rispetto dei ritmi della natura e del nostro tempo di vita. Invece, come giovani e lavoratrici, veniamo sfruttate sul lavoro allo stesso modo in cui voi, politici e aziende, sfruttate questo pianeta, ignorando noi e le persone costrette a migrare per fuggire dalle catastrofi ambientali ed economiche che alimentate.
Il clima è un problema globale. A luglio la temperatura terrestre ha superato la soglia chiave del +1.5°: serve un’azione condivisa a livello internazionale, non guerre per le risorse energetiche. Ma servono anche azioni locali: basta cementificazione, investimenti su trasporto pubblico e tutela del territorio, stop alle grandi opere inutili. Alla val Susa non serve il TAV, che brucia soldi pubblici e consuma acqua e terra, ma manutenzione del territorio, come dimostra l’esondazione di Bardonecchia. Idem in Emilia o in Sicilia, dove in estate la terra bruciava mentre voi blateravate di ponte sullo stretto.
Se questo non accade è colpa di un sistema capitalista, che divora tutte le risorse umane ed ambientali, e dei suoi servitori, come voi. La vostra unica risposta alla nostra eco-ansia sono lacrime di coccodrillo da comode poltrone ai grandi eventi. Noi invece sappiamo che per salvare il pianeta dobbiamo distruggere il sistema. Che l’ansia non è uno stato psicologico da “curare” individualmente, ma qualcosa che deve essere combattuta insieme, trasformando l’eco-ansia in eco-rabbia.
Non vi lasceremo svuotare questa nostra rabbia, continueremo a lottare e solidarizzare con chi viene criminalizzato solo per aver utilizzato il proprio corpo o un po’ di vernice per esprimere dissenso.
DISTRUGGIAMO IL SISTEMA, NON IL PIANETA!
L'articolo [TORINO] LE VOSTRE LACRIME SONO FINTE: SOLDI AI TERRITORI, NON ALLE GRANDI OPERE proviene da Potere al Popolo.
Nei nostri territori gli ospedali continuano a chiudere, oppure si minaccia di privatizzarli come nel caso di Lanzo, e i trasporti pubblici sono sempre più cari ed inefficienti. Sentiamo parlare di “disagi” ora che, riaperte le scuole, i bus sostitutivi non bastano per tutti gli studenti: le parole giuste sono disservizio e ingiustizia.
Nel frattempo è inaccettabile che lo Stato spenda fondi pubblici per spettacoli assurdi che normalizzano le armi e la guerra. Manifestazioni che generano morte, come avvenuto la scorsa domenica qui a Caselle, in cui una famiglia è stata travolta da un aereo fuori controllo. Gli stessi aerei che quando sono in funzione seminano morte e distruzione anche in altri paesi.
Denunciamo inoltre l’assurdo dispiegamento di forze, che per uno striscione, ha visto intervenire ben quattro volanti dei carabinieri e una decina di agenti, che si sono prodigati per ore nel cercare ogni cavillo per far partire ammende e denunce penali nei confronti dei nostri attivisti: nessuna conferma del nostro messaggio politico fu mai più solerte e rapida nel manifestarsi come veritiera. E’ più criminale appendere pacificamente uno striscione o chiudere un ospedale e una linea ferroviaria?
Ci domandiamo quali siano le priorità degli agenti nel nostro territorio e se la loro azione non cercasse invece di intimidire e puntare a silenziare chi in zona denuncia la situazione di crisi crescente che vive il nostro territorio e non la accetta, mentre deve subire la presenza di costosissimi e pericolosi spettacoli mortali a pochi metri dalle nostre case.
Quando invece di spettacolarizzare la guerra inizieremo a garantire i mezzi per una vita degna?
Potere al Popolo Ciriè – Valli di Lanzo
L'articolo [CIRIE’ – TO] GLI SPETTACOLI DI GUERRA FANNO MORTI QUI E ALTROVE. FONDI PER TRASPORTI, SANITA’ E ISTRUZIONE! proviene da Potere al Popolo.
Tre giorni prima del crollo delle dighe di Abu Mansur e Al Bilad nel Wadi Derna, in Libia, la notte del 10 settembre, il poeta Mustafa al-Trabelsi ha partecipato a una discussione presso la Casa della Cultura di Derna sull’incuria delle infrastrutture di base nella sua città. Durante l’incontro, al-Trabelsi ha messo in guardia sulle cattive condizioni delle dighe. Come ha scritto su Facebook lo stesso giorno, negli ultimi dieci anni la sua amata città è stata “esposta a distruzioni e bombardamenti, e poi è stata chiusa da un muro senza porte, lasciandola avvolta nella paura e nella depressione”. Poi, la tempesta Daniel si è sollevata al largo delle coste del Mediterraneo, è arrivata in Libia e ha rotto le dighe. Le telecamere a circuito chiuso nel quartiere Maghar della città hanno mostrato la rapida avanzata delle acque alluvionali, talmente potenti da distruggere edifici e schiacciare vite umane. Secondo quanto riferito, il 70% delle infrastrutture e il 95% degli istituti scolastici sono stati danneggiati nelle aree colpite dall’alluvione. A partire da mercoledì 20 settembre, si stima che tra 4.000 e 11.000 persone sono morte nell’alluvione – tra cui il poeta Mustafa al-Trabelsi, i cui avvertimenti nel corso degli anni sono rimasti inascoltati – e altre 10.000 risultano disperse.
Hisham Chkiouat, ministro dell’aviazione del governo di stabilità nazionale libico (con sede a Sirte), si è recato a Derna in seguito all’alluvione e ha dichiarato alla BBC: “Sono rimasto scioccato da ciò che ho visto. È come uno tsunami. Un enorme quartiere è stato distrutto. Le vittime sono numerose e aumentano di ora in ora”. Il Mar Mediterraneo ha divorato questa antica città che affonda le sue radici nel periodo ellenistico (326 a.C. – 30 a.C.). Hussein Swaydan, capo dell’Autorità per le strade e i ponti di Derna, ha dichiarato che l’area totale con “gravi danni” ammonta a tre milioni di metri quadrati. La situazione in questa città”, ha dichiarato, “è più che catastrofica”. La dottoressa Margaret Harris dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha dichiarato che l’inondazione è stata di “proporzioni epiche”. Non c’era mai stata una tempesta del genere nella regione a memoria d’uomo”, ha detto, “quindi è un grande shock”.
Le grida di angoscia in tutta la Libia si sono tramutate in rabbia per la devastazione, che ora si sta trasformando in richieste di indagine. Ma chi condurrà questa indagine: il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli, guidato dal Primo Ministro Abdul Hamid Dbeibeh e ufficialmente riconosciuto dalle Nazioni Unite (ONU), o il Governo di stabilità nazionale, guidato dal Primo Ministro Osama Hamada a Sirte? Questi due governi rivali – in guerra tra loro da molti anni – hanno paralizzato la politica del Paese, le cui istituzioni statali sono state fatalmente danneggiate dai bombardamenti dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) nel 2011.
Lo Stato diviso e le sue istituzioni danneggiate non sono state in grado di garantire i fabbisogni della popolazione libica di quasi sette milioni di persone in un Paese ricco di petrolio ma ora completamente devastato. Prima della recente tragedia, le Nazioni Unite stavano già fornendo aiuti umanitari ad almeno 300.000 libici, ma, a seguito delle inondazioni, si stima che almeno altre 884.000 persone avranno bisogno di assistenza. Questo numero è destinato a salire ad almeno 1,8 milioni. Il dottor Harris dell’OMS riferisce che alcuni ospedali sono stati “spazzati via” e che sono necessarie forniture mediche vitali, tra cui kit per traumi e sacchi per cadaveri. Le esigenze umanitarie sono enormi e vanno ben oltre le capacità della Mezzaluna Rossa libica e persino del governo”, ha dichiarato Tamar Ramadan, capo della delegazione della Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa in Libia.
L’enfasi sui limiti dello Stato non va minimizzata. Allo stesso modo, il segretario generale dell’Organizzazione meteorologica mondiale Petteri Taalas ha sottolineato che sebbene si sia verificato un livello di precipitazioni senza precedenti (414,1 mm in 24 ore, come registrato da una stazione), il collasso delle istituzioni statali ha contribuito alla catastrofe. Taalas ha osservato che il Centro meteorologico nazionale libico presenta “gravi lacune nei suoi sistemi di osservazione. I suoi sistemi informatici non funzionano bene e c’è una cronica carenza di personale. Il Centro meteorologico nazionale sta cercando di funzionare, ma la sua capacità di farlo è limitata. L’intera catena di gestione dei disastri e di governance è interrotta”. Inoltre, ha affermato che “la frammentazione dei meccanismi di gestione e risposta alle catastrofi del Paese, così come il deterioramento delle infrastrutture, hanno esacerbato l’enormità delle sfide. La situazione politica è un fattore di rischio”.
Abdel Moneim al-Arfi, membro del Parlamento libico (della zona orientale), si è unito ai suoi colleghi legislatori per chiedere un’indagine sulle cause del disastro. Nella sua dichiarazione, al-Arfi ha sottolineato problemi di fondo della classe politica libica post-2011. Nel 2010, l’anno precedente alla guerra della NATO, il governo libico aveva stanziato fondi per il ripristino delle dighe di Wadi Derna (entrambe costruite tra il 1973 e il 1977). Il progetto avrebbe dovuto essere completato da una società turca, che però ha lasciato il Paese durante la guerra. Il progetto non è mai stato completato e i fondi stanziati sono spariti. Secondo al-Arfi, nel 2020 gli ingegneri raccomandarono di ripristinare le dighe perché non erano più in grado di gestire le normali precipitazioni, ma queste raccomandazioni furono accantonate. Il denaro ha continuato a sparire e il lavoro non è stato portato a termine.
L’impunità ha caratterizzato la Libia dal rovesciamento del regime guidato da Muammar Gheddafi (1942-2011). Nel febbraio-marzo 2011, i giornali degli Stati arabi del Golfo hanno iniziato a sostenere che le forze del governo libico stavano commettendo un genocidio contro il popolo libico. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato due risoluzioni: risoluzione 1970 (febbraio 2011) per condannare le violenze e stabilire un embargo sulle armi nel Paese e la risoluzione risoluzione 1973 (marzo 2011) per consentire agli Stati membri di agire “ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite”, che avrebbe permesso alle forze armate di stabilire un cessate il fuoco e trovare una soluzione alla crisi. Guidata da Francia e Stati Uniti, la NATO ha impedito a una delegazione dell’Unione Africana di dare seguito a queste risoluzioni e di tenere colloqui di pace con tutte le parti in Libia. I Paesi occidentali hanno anche ignorato l’incontro con cinque capi di Stato africani ad Addis Abeba nel marzo 2011, in cui Gheddafi aveva accettato il cessate il fuoco, una proposta che ha ripetuto durante la visita di una delegazione dell’Unione Africana a Tripoli in aprile.
Si è trattata di una guerra inutile che gli Stati occidentali e arabi del Golfo hanno usato per vendicarsi di Gheddafi. L’orrendo conflitto ha trasformato la Libia, che si è classificata al 53° posto su 169 Paesi nell’Indice di sviluppo umano del 2010 (il più alto del continente africano), in un Paese caratterizzato da pessimi indicatori di sviluppo umano che oggi è significativamente più in basso nella medesima lista.
Invece di permettere l’attuazione di un piano di pace guidato dall’Unione Africana, la NATO ha iniziato un bombardamento di 9.600 attacchi su obiettivi libici, con particolare attenzione alle istituzioni statali. In seguito, quando le Nazioni Unite chiesero alla NATO di rendere conto dei danni subiti, il consulente legale della NATO Peter Olson scrisse che non c’era bisogno di un’indagine, poiché “la NATO non ha deliberatamente preso di mira i civili e non ha commesso crimini di guerra in Libia”. Non c’era alcun interesse per la distruzione intenzionale di infrastrutture statali libiche cruciali, che non sono mai state ricostruite e la cui assenza è fondamentale per comprendere la carneficina di Derna.
La distruzione della Libia da parte della NATO ha messo in moto una catena di eventi: il crollo dello Stato libico; la guerra civile, che continua ancora oggi; la diffusione di gruppi islamisti radicali in tutta l’Africa settentrionale e nella regione del Sahel, la cui decennale destabilizzazione ha portato a una serie di colpi di stato dal Burkina Faso al Niger. Ciò ha successivamente creato nuove rotte migratorie verso l’Europa e ha portato alla morte di migranti sia nel deserto del Sahara che nel Mar Mediterraneo, nonché a un’operazione di traffico di esseri umani senza precedenti nella regione. A questa lista di pericoli si aggiungono non solo i morti di Derna, e certamente quelli della tempesta Daniel, ma anche le vittime di una guerra da cui il popolo libico non si è mai ripreso.
Poco prima dell’alluvione in Libia, un terremoto ha colpito le vicine montagne dell’Alto Atlante marocchino, spazzando via villaggi come Tenzirt e uccidendo circa 3.000 persone. ‘Non aiuterò il terremoto’, scrisse il poeta marocchino Ahmad Barakat (1960-1994); “porterò sempre in bocca la polvere che ha distrutto il mondo”. È come se la settimana scorsa la tragedia avesse deciso di compiere passi titanici lungo la sponda meridionale del Mar Mediterraneo.
Uno stato d’animo tragico si è insinuato nel profondo del poeta Mustafa al-Trabelsi. Il 10 settembre, prima di essere travolto dalle onde dell’alluvione, ha scritto“[Abbiamo] solo l’un l’altro in questa difficile situazione. Restiamo uniti finché non anneghiamo”. Ma questo stato d’animo era inframmezzato da altri sentimenti: la frustrazione per il “tessuto libico gemello”, secondo le sue parole, con un governo a Tripoli e l’altro a Sirte; la popolazione divisa e i disastri politici di una guerra in corso sul corpo spezzato dello Stato libico. Chi ha detto che la Libia non è una sola?”, lamentava Al-Trabelsi. Scrivendo mentre le acque si alzavano, Al-Trabelsi ha lasciato una poesia che viene letta dai rifugiati della sua città e dai libici di tutto il Paese, ricordando loro che la tragedia non è tutto, che la bontà delle persone che si aiutano a vicenda è la “promessa di aiuto”, la speranza del futuro.
La pioggia
Rivela le strade inzuppate,
l’appaltatore imbroglione
e lo Stato fallito.
Lava tutto,
le ali degli uccelli
e il pelo dei gatti.
Ricorda ai poveri
i loro tetti fragili
e i loro vestiti stracciati.
Risveglia le valli,
scuote la polvere sbadigliante
e le croste secche.
La pioggia
un segno di bontà,
una promessa di aiuto,
un campanello d’allarme.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della trentottesima newsletter (2023) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo LA NATO HA DISTRUTTO LA LIBIA NEL 2011; LA TEMPESTA DANIEL È VENUTA A SPAZZARNE I RESTI proviene da Potere al Popolo.
#Meloni ha annunciato che nel Cdm di oggi lunedì 18 settembre verranno prese misure drastiche contro “l’immigrazione incontrollata“.
Nel suo discorso ha involontariamente negato la sua narrazione sul tema migranti, ammettendo che chi sbarca nel nostro paese fugge da “un quadro difficilissimo tra colpi di stato, calamità naturali, guerra del grano, jihadismo“, insomma da guerra e fame. Tutti motivi che imporrebbero il rilascio del permesso di soggiorno.
Ovviamente il sogno dell’ultradestra è un altro: far si che l’Ue paghi fior di miliardi l’autocrate tunisino Saied per fermare i migranti così come già accade con la Turchia e come l’Italia fa con la Libia. Ma su questo l’accordo non si riesce a trovare perché Saied, altro autocrate in stile Erdogan, ha pretese molto alte, mentre la gran parte dei paesi europei è disposta a investire poco in questa nuova esternalizzazione della frontiera. Morale della favola, l’Ue risponde picche.
Dunque la soluzione immediara proposta dalla premier sono veri e propri campi di concentramento. Non ha usato questo termine ma il senso è chiarissimo: si parla di “strutture in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili”.
Per opporci a questa barbarie dobbiamo in primo luogo smarcarci dalla narrazione che i media del centrosinistra e del grillismo mediatici stanno facendo di questa vicenda: pur di tracciare Meloni di incompetenza stanno facendo apparire l’arrivo di 7mila africani e africane, facilmente gestibili, come una invasione. Nessuno ha usato questo termine nell’ultimo anno e mezzo in cui abbiamo accolto 200mila profughi ucraini.
Si tratta di una tattica pericolosa che paradossalmente rafforza l’egemonia culturale dell’ultradestra nel medio periodo, rafforzando l’idea per cui siamo in preda di una fantomatica emergenza immigrazione (quando le vere urgenze sono ben altre). È questa la vera invasione di propaganda fascista, che parte dalle redazioni dei giornali e ci investe quotidianamente sul divano di casa nostra.
La negazione del diritto alla mobilità per chi viene dall’Africa è in realtà un messaggio a chi è già in Italia: siete esseri senza diritti, per voi il diritto al lavoro e a una vita dignitosa non vale, dovete subire, e subire vuol dire lavorare più degli altri per meno soldi, in silenzio.
Eppure basterebbe poco per eliminare sbarchi, trafficanti e sfruttamento.
🔴Aprire una rotta navale diretta Tunisi Palermo, ed un’altra Tripoli Agrigento per i migranti. Concedere visti legali dall’Ambasciata italiana per cercare lavoro. Azione da farsi come iniziativa autonoma del Governo italiano senza rispettare il trattato di Dublino.
🔴Basta fare la frontiera esterna di Parigi e Berlino impedendo a chi vuole lasciare l’Italia di farlo: l’Unione Europea ha accolto 5 milioni di ucraini in poco tempo e nessuno ha urlato “non possiamo accoglierli tutti!”.
🔴Facciamo altrettanto per le persone che vengono dal Mar Mediterraneo allora, facciamo diventare l’Unione Europea un continente dove la mobilità umana diventa un diritto di civiltà. Non si capisce infatti il perché dobbiamo rispettare l’austerity e i vincoli di bilancio e quando ci troviamo ad affrontare un flusso consistente di migranti l’Europa (Germania e Francia in testa) si rifugiano nella logica dei confini nazionali.
🔴Una scelta del genere sarebbe un segnale politico per un nuovo modello di cooperazione Italia Africa basato sulla mobilità delle persone invece che sulla linea neocoloniale occidentale di rapina, guerra e frontiere. Questo sarebbe il primo passo dovuto di un vero “piano Mattei”: concedere alla popolazione del continente africano la stessa libertà di circolazione che abbiamo noi europei. E la possibilità di trovare un lavoro dignitoso, invece di essere alla mercé del primo sfruttatore.
🔴Ovviamente legando il tutto a una seria politica a favore di lavoratori e lavoratrici, a partire dall’introduzione di un salario minimo di #almeno10 euro l’ora, per tutti, bianchi, neri, gialli o a pallini. La legge d’iniziativa popolare di Unione Popolare va in questa direzione.
Fine dei morti in mare, delle mafie che speculano, degli scafisti, dei razzisti che urlano in tv, dell’emergenza a Lampedusa, e anche di una buona fetta di questa classe politica indegna.
L'articolo IL GOVERNO MELONI E L'”EMERGENZA IMMIGRAZIONE”. BASTA PASSERELLE SULLA NOSTRA PELLE proviene da Potere al Popolo.
La triste vicenda dell’Ospedale Maria Adelaide a Torino
L’ospedale Maria Adelaide di Torino, specializzato in traumatologia e ortopedia, facente parte del complesso della Città della Salute veniva smobilitato dalla Regione Piemonte nel 2016 quando il sostanziale commissariamento della sanità piemontese (luglio 2010 – marzo 2017) impose scelte drastiche per il rientro del deficit di bilancio regionale.
Si tratta di un complesso di 13 mila metri quadrati con affaccio su Lungo Dora Firenze, nel quartiere Aurora della Circoscrizione 7, svuotati prima dei medici e delle discipline, poi degli arredi e delle apparecchiature, facendo perdere al territorio un importante presidio sanitario in un’area della Città caratterizzata da grossi bisogni sociali e sanitari.
Dopo tre anni di abbandono nel 2019 la Regione Piemonte (all’epoca presidente Sergio Chiamparino ed assessore alla Sanità Sergio Saitta – centro sinistra), decideva di metterlo in vendita con l’obbiettivo di mantenere attività di tipo sanitario e assistenziale, all’interno della quale sarebbero stati anche insediati servizi territoriali.
Il valore della struttura era stato stimato in 10,3 milioni di euro, ma il tentativo andava a vuoto.
Dopo la bufera del Covid, nel 2022 la Giunta Regionale con presidente Roberto Cirio (centro destra), riprovava a vendere l’ospedale, l’assessore Icardi confermava in ogni caso la volontà di riservare all’interno del complesso un’area di mille metri quadrati da destinare a Casa di Comunità (27 febbraio 2022).
Veniva rifatta una perizia a cura della Città della Salute che indicava per l’immobile un valore di 8 milioni e 400 mila euro, il Direttore Generale dell’Azienda emanava quindi un avviso per la ricerca di possibili acquirenti.
Erano due le società interessate all’acquisto dell’immobile: la Tecla Srl e la Ream SGR.
Le due società, però, non presentavano ufficialmente delle offerte.
Per uno dei due possibili acquirenti il prezzo di partenza era ritenuto troppo elevato.
Il prezzo secondo la società non avrebbe tenuto conto dell’aumento dei costi dei materiali e dell’energia e della caduta del valore degli immobili in Città dopo la pandemia.
Per venire in contro agli acquirenti, la Città della Salute chiedeva all’architetto che si era occupato della perizia di riformulare il valore dell’immobile considerando i fattori sopra riportati.
La base d’asta per la vendita dell’ospedale Maria Adelaide scendeva a 7,56 milioni di euro.
La REAM SGR offriva 6 milioni di euro, ben 1,5 milioni in meno rispetto alla base d’asta, l’accertamento da parte dell’Agenzia del Demanio riteneva comunque congruo il valore dell’offerta e dava parere favorevole all’alienazione del bene che veniva quindi ceduto in data 23 agosto 2023.
In relazione ai vincoli posti dalla sovraintendenza la destinazione della struttura è quella di residenza universitaria ed in parte ad attività di carattere sanitario-socio-assistenziale.
Si realizzerà quindi uno studentato gestito da privati con prezzi elevati ed escludenti per chi non può permetterselo? E dov’è finita la Casa di Comunità promessa un anno fa? Si realizzerà un poliambulatorio for profit come ne stanno nascendo tanti in città?
Questi sono gli aspetti meramente amministrativi dell’affare Maria Adelaide, già scandalosi di per sé, dove centro sinistra e centro destra fanno a gara a chi può (s)vendere beni pubblici a privati, a cui viene spianata la strada per fare affari lucrosi.
Ma c’è un altro aspetto che fa capire quanto la politica dei palazzi sia lontana dalla gente.
Quando l’ospedale veniva chiuso, gli abitanti e lavoratori di Aurora Rossini Vanchiglietta hanno fondato un comitato (“Riapriamo il Maria Adelaide”), che con raccolte di migliaia di firme e iniziative dal basso, aveva ed ha come obbiettivo la riapertura dell’ospedale per garantire l’assistenza sanitaria in un’area delle città caratterizzata da scarsità di servizi pubblici e da alti indici di deprivazione.
Il comitato con l’aiuto di tecnici e medici qualificati presentava un piano di recupero e riutilizzo del Maria Adelaide (Il Maria Adelaide che vogliamo, marzo 2021) che veniva ufficialmente illustrato alle competenti autorità cittadine e regionali. Il documento è pubblico ed è disponibile qui.
Ma non una parola viene pronunciata dalle pubbliche amministrazioni (regione e comune) tranne affermare che il progetto “è impossibile da realizzare, la struttura è fatiscente ed i costi sarebbero astronomici!”.
Nessun rispetto per le persone che vivono in quella parte della città.
Infine è necessario fare alcune considerazioni su chi si è aggiudicato il bando.
La REAM SGR (Real Estate Asset Management – Società di Gestione del Risparmio) è l’unica società di gestione del risparmio italiana nel cui azionariato sono presenti esclusivamente fondazioni bancarie, quelle del Piemonte, gestisce dieci fondi di investimento immobiliare, riservati ad investitori qualificati per un patrimonio complessivo di 1,2 miliardi suddivisi in residenziale, investimenti finanziari ed etici, realizzazione di strutture a destinazione socio assistenziale, focalizza la propria attività su immobili presenti sul territorio delle fondazioni, con particolare attenzione ai settori del no-profit e del social housing.
A Torino le ultime strutture realizzate sono le due Rsa (Issiglio e Lancia), costruite nel grattacielo da 17 piani in Borgo San Paolo (400 posti in tutto), che sono state accreditate dalla Regione e che quindi ricevono un contributo per calmierare le rette pagate dalle famiglie.
La Regione Piemonte spende quasi 280 milioni di euro l’anno per gestire i costi, ora schizzati alle stelle, delle strutture convenzionate, mentre la Casa di Riposo Città di Asti, ultima struttura pubblica in regione, prima veniva commissariata e poi veniva dichiarata fallita (cfr. Christian Benna, Torino e il business della terza età: l’ex Lancia rinasce come RSA, è boom di case di riposo, Corriere Torino, 24 febbraio 2023).
REAM SGR è nota alle cronache torinesi (quella di cronaca nera) perché il suo Amministratore Delegato è stato portato in tribunale per le vicende relative all’ex Westinghouse, insieme all’allora sindaco Fassino.
I reati ipotizzati erano di turbativa d’asta per aver favorito Esselunga attraverso un’altra società ad aggiudicarsi l’area del giardino Artiglieri da Montagna, a fianco a Comala.
Entrambi sono stati assolti per l’avvenuta prescrizione del reato.
L’azione politica da realizzare è quella contenuta nell’Art. 32 della Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, considerare il Servizio sanitario pubblico un bene comune prezioso in cui investire e difenderlo, denunciando la politica sanitaria attuata negli ultimi anni dalla Regione, realizzata da schieramenti politici diversi, caratterizzate da taglio dei posti letto, blocco del turnover degli operatori sanitari, mancanza di una politica dei servizi territoriali adeguata, incapacità di risolvere il problema delle lunghissime liste d’attesa, aver ceduto molte attività ai privati, in particolare i servizi di lungo assistenza.
La lezione impartita dalla pandemia non è servita a niente …
L'articolo [TORINO] MARIA ADELAIDE: SVENDITA DI UN OSPEDALE PUBBLICO AL PEGGIOR OFFERENTE proviene da Potere al Popolo.
Abbiamo tradotto questo articolo del Peoples Dispatch, un media di base statunitense, che racconta da dentro lo sciopero dei metalmeccanici dell’automotive nel USA.
Per la prima volta da 88 anni infatti lo UAW, il sindacato dei lavoratori automotive, ha lanciato uno sciopero contemporaneo nelle tre Big Threes (Fors, General Motors e Stellantis), tra i giganti dell’automotive mondiale.
I lavoratori chiedono aumenti salariali del 40%, la limitazione dei contratti precari e dei bassi salari tra i nuovi assunti, l’aggancio dei salari all’inflazione, la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali con un salario da 40 ore (quindi a parità di salario), il consolidamento dell’assistenza sanitaria e un ritorno a piani pensionistici aziendali invece che individuali. Pretendono insomma quello che anche in Italia è urgente pretendere: un recupero salariale rispetto ai superprofitti da inflazione, e, dopo il Covid, la priorità della vita sul profitto, liberando tempo di vita al lavoro.
In Italia, dove Fiat è stata assorbita da Stellantis e dove l’egemonia – economica, militare, politica, culturale – dell’imperialismo statunitense è un fatto, uno sciopero nel cuore produttivo USA può parlare anche a noi e ai nostri e contribuire a riaprire un ciclo conflittuale anche in Italia: dove tra l’ultradestra al Governo, un aumento inaccettabile della diseguaglianza e della miseria e un disincanto e una depressione generalizzata dell’umore dei lavoratori e delle lavoratrici, c’è estremo bisogno di “alzarsi in piedi” e riprendere in mano la propria dignità e il proprio destino.
Lo “United Auto Workers”, il sindacato degli operai del settore automobilistico, adotta una nuova strategia, quella dello “sciopero in piedi”: chiudere di volta in volta alcune fabbriche per tenere sulle spine i tre principali produttori di auto.
15 settembre 2023, di Natalia Marques
Gli operai della UAW in sciopero il primo giorno a Toledo, Ohio.
“Questo è il momento decisivo della nostra generazione,” ha dichiarato Shawn Fain, presidente degli UAW, meno di due ore prima che il suo sindacato proclamasse lo sciopero contro i tre principali produttori di automobili degli USA, per la prima volta nella storia. “I soldi ci sono, la causa è giusta, il mondo sta guardando, e la UAW è pronta a alzarsi in piedi.”
A mezzanotte di giovedì, 13.000 dei 146.000 membri della UAW che lavorano per queste tre case automobilistiche (le cosiddette Big Three: General Motors, Stellantis e Ford) hanno incrociato le braccia in tre stabilimenti di assemblaggio (in Michigan, Ohio e Missouri). Questo sciopero parziale, che potrebbe crescere fino a coinvolgere 146.000 persone in ondate graduali a seconda di quando verrà raggiunto un accordo, fa parte della nuova strategia della UAW denominata “lo sciopero in piedi”.
La UAW descrive lo “sciopero in piedi” come “la versione moderna degli ‘Scioperi Seduti’ del 1937 che parteciparono a fondare il nostro sindacato”. Questi scioperi hanno rappresentato un momento chiave nella storia militante della UAW negli anni ’30 e ’40, anche perché ebbero il merito di conseguire importanti vittorie per tutti i lavoratori statunitensi come la COLA [COLA” si riferisce alla “Cost Of Living Adjustment”, che è un adeguamento salariale basato sull’aumento del costo della vita N.d.T.].
Anche se la UAW non sta scioperando contemporaneamente in tutti gli stabilimenti e nei centri di distribuzione di pezzi in tutto il Paese, secondo il sindacato l’opzione è ancora sul tavolo: “Lo sciopero in piedi ci dà il margine di manovra per decidere quando e come intensificare la lotta, arrivando fino a uno stop totale del lavoro a livello nazionale, se necessario. Così facendo lasciamo le aziende nell’incertezza e abbiamo una leva economica contro le Big Three nel tempo, se rifiutano di negoziare un contratto che meritiamo.”
Il fatto di non scioperare in tutte le sedi delle tre case automobilistiche, permette alla UAW di non esaurire tutto il potere negoziale in una sola volta. Il sindacato può intensificare l’azione, lentamente o rapidamente come desidera. Lo sciopero in piedi garantisce anche uno spazio mediatico importante, caratterizzato da un flusso di titoli di notizie man mano che nuovi stabilimenti e centri di distribuzione vengono chiusi per sciopero.
“Gli scioperi sono lo strumento più potente di cui un sindacato dispone. Sono anche, sotto molti aspetti, lo strumento finale,” ha scritto David Kamper dell’Economic Policy Institute su Twitter. “Quindi, ciò che [lo sciopero in piedi] sta facendo è di allungare il processo dello sciopero, anziché usarlo come un singolo momento di conflitto totale. Si inizia scioperando in un paio di stabilimenti. Si manda il messaggio che i lavoratori sono pronti a spingersi più in là, il tutto senza innalzare la tensione troppo rapidamente.”
Lo stabilimento di assemblaggio GeneralMotors a Wentzville (Missouri), quello Stellantis a Toledo (Ohio), e quello Ford a Wayne (Michigan) sono stati i primi a scioperare a mezzanotte. Le scene erano cariche di emozione. Nel cuore della notte a Wayne, i lavoratori si avvolgevano contro il freddo di inizio settembre mentre cantavano di essere il “potente, potente sindacato!”
La strategia dello “sciopero in piedi” finora è stata efficace nel mantenere le aziende nell’incertezza. I lavoratori raccontano che delle false informazioni sono state fatte circolare creando scompiglio presso le dirigenze. Ad esempio si è fatto credere che determinati stabilimenti fossero i prossimi sulla lista degli scioperi. Quindi “Ford ha fatto uscire tutti i motori completati dallo stabilimento in cui lavoro, chiamando centinaia di camion per trasportare questi motori alla loro destinazione finale perché il mio stabilimento era su un pezzo di carta come probabile obiettivo di sciopero, ed è stato tutto inutile,” ha scritto l’operaio Ford Erich Ockuly su Twitter. “Bellissimo!!! È meglio che guardare ininterrottamente una serie TV… Non vedo l’ora di vedere cosa succederà dopo!!! Scommetto che Jim, Mary e Carlos (gli amministratori delegati delle Big Three, per chi non stesse seguendo questa puntata) si stanno grattando la testa dicendo ‘ma che diavolo succede?????'”
Il lavoratore della General Motors, Danny Bragg, di Spring Hill, Tennessee, ha commentato il post dicendo: “È successa la stessa cosa qui da noi”. Ha insinuato la possibilità che delle informazioni siano state trapelate intenzionalmente in modo errato come parte della strategia del sindacato. “Hanno inviato 14 camion carichi di motori a Wentzville oggi pensando che [Spring Hill] sarebbe stato un obiettivo e ora stanno cercando di riportarli indietro per scaricarli perché non c’era nessuno a Wentzville per lo scarico. Strategia geniale e obiettivi trapelati intenzionalmente ieri. Non posso credere che alcuni dei nostri ci siano cascati, dato che era stato divulgato per far abboccare i dirigenti delle tre case automobilistiche.”
Gli amministratori delegati non cedono alle richieste dei lavoratori, nonostante siano sommersi dalla ricchezza
I lavoratori sono in sciopero perché, in sostanza, le Big Three hanno respinto le istanze dei lavoratori che vogliono avere salari più alti, posti di lavoro sicuri, un miglior equilibrio tra vita professionale e privata, migliori pensioni e la fine delle disparità tra i lavoratori.
“Per guadagnare quanto il nostro amministratore delegato della Sellantis guadagna in un anno, un lavoratore come me ci mette 40 ore a settimana, senza straordinari, per 365 anni!” ha detto Vicki, una lavoratrice della Stellantis e membro della UAW Local 685. Infatti, il rapporto fra lo stipendio di un lavoratore e quello di un amministratore delegato alla Stellantis è di 365 a 1, alla Ford è di 281 a 1 e alla GM è di 362 a 1.
Le Big Three hanno anche speso generosamente in riacquisti di azioni per compensare gli azionisti. “Proprio fino alla scadenza del nostro contratto, Stellantis ha comunicato che sta eseguendo UN ALTRO riacquisto di azioni del valore di $500 milioni”, ha annunciato l’UAW ieri, “Se hanno soldi per Wall Street, hanno di sicuro soldi per i lavoratori che fanno funzionare questa industria.” Eppure, quando si tratta di soddisfare le richieste dei lavoratori, gli amministratori delegati di queste case automobilistiche sembrano essere sempre a corto di contante.
Dopo l’inizio dello stop al lavoro da parte dell’UAW, l’AD di GM, Mary Barra, ha espresso la sua frustrazione riguardo allo sciopero davanti alle telecamere della CNN. Un giornalista le ha chiesto i motivi del rifiuto di GM a rispondere positivamente alle richieste dei lavoratori, ovvero di dare un aumento salariale del 40% in quattro anni: “Se lei, in quanto AD, riceve un aumento salariale del 34% in quattro anni, e sta offrendo il 20% ai dipendenti in questo momento, pensa che sia giusto?”
Barra ha risposto: “Considerando ciò che [GM ha] fatto in termini di condivisione della redditività quando l’azienda va bene, penso che abbiamo un’offerta molto convincente sul tavolo, ed è su questo che sto concentrando la mia attenzione ora.”
Le affermazioni di Barra sulla “condivisione dei profitti” dell’azienda sembrano irrilevanti considerando il fatto che “gli stipendi [degli operai del settore automobilistico] sono aumentati di meno del 12% dal 2007”, come sostiene un volantino di Unite All Workers for Democracy (organizzazione di base interna al sindacato). “Adeguato all’inflazione, i lavoratori delle Big 3 guadagnano $9/ora IN MENO rispetto a 15 anni fa.”
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I dilemmi dell’umanità abbondano. Non c’è bisogno di guardare i dati statistici per sapere che ci troviamo in una spirale di crisi, dalla crisi ambientale e climatica, alla crisi della povertà e della fame. Nel 1993 i filosofi Edgar Morin e Anne-Brigitte Kern usarono il termine “policrisi” nel loro libro Terre-Patrie . Morin e Kern sostenevano che “non esiste un unico problema vitale, ma molti problemi vitali, ed è questa complessa inter-solidarietà di problemi, antagonismi, crisi, processi incontrollati e la crisi generale del pianeta che continua a rappresentare il problema vitale numero uno”. Questa idea – secondo cui il problema non è una sequenza di crisi, ma piuttosto diverse crisi che si avvolgono a vicenda e aggravano l’impatto reciproco sul pianeta – è stata riproposta nel 2016 quando è stata menzionata in un discorso dell’allora presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Le varie crisi nel mondo, ha detto, “si alimentano a vicenda, creando un senso di dubbio e incertezza nella mente della nostra gente”. Questa sensazione dell’enormità del succedersi delle crisi (ambientali, economiche, sociali e politiche) è catturata dall’espressione “policrisi” – una crisi unica composta da molte crisi.
Naturalmente, da un punto di vista marxista, il termine “policrisi” produce una serie di confusioni, poiché suggerisce che queste numerose crisi sono discordanti piuttosto che radicate, in definitiva, nei fallimenti del sistema capitalista nell’affrontarle sia in sequenza che nella loro totalità. Ad esempio, dal Summit della Terra di Rio del 1992, ci sono state diverse proposte perfettamente chiare per affrontare la crisi ambientale, inclusa la devastazione della foresta pluviale amazzonica, ma nessuna di queste è stata attuata a causa della presa della proprietà privata capitalista su importanti risorse planetarie e sull’ architettura delle politiche pubbliche sia a livello globale che nei vari Stati che hanno interessi in Amazzonia.
L’osservazione di Juncker secondo cui la policrisi crea “dubbi e incertezze” è allo stesso tempo corretta e sbagliata: se da un lato questa analisi riconosce il senso di dubbio che pervade il pianeta, dall’altro non riesce a offrire nulla che assomigli a una spiegazione per l’emergere della policrisi, lasciando così miliardi di persone senza un’analisi di ciò che sta causando queste numerose crisi e di come possiamo lavorare insieme per uscirne. In quel discorso del 2016, Juncker, dal punto di vista della destra cristiana europea, affermò che la nuova proposta dell’Unione europea per l’Europa, ma non per il mondo, era quella di mobilitare investimenti per costruire infrastrutture e migliorare le condizioni generali della vita quotidiana piuttosto che creando un “mondo di austerità cieca e stupida su cui molte persone continuano a fantasticare”. Nessun progetto del genere è emerso. “L’Europa è in via di guarigione”, disse allora. Ma ora, Peter Mertens, segretario generale del Partito dei Lavoratori del Belgio, come mi disse all’inizio di quest’anno, il “consenso neoliberista” continua a soffocare l’Europa e ha gettato il continente in una disperazione guidata dall’inflazione che – per ora – favorisce l’estrema destra.
Uno degli elementi della policrisi è l’aggravarsi dei problemi legati alla disuguaglianza di genere e alla violenza contro le donne. Un nuovo rapporto di UN Women, Progress on the Sustainable Development Goals: The Gender Snapshot 2023, presenta alcuni numeri molto preoccupanti. Osservando le tendenze attuali, il rapporto prevede che entro il 2030, 342,4 milioni di donne e ragazze – circa l’8% della popolazione femminile mondiale – vivranno in condizioni di povertà estrema e quasi una su quattro sperimenterà un’insicurezza alimentare moderata o grave. Ai tassi attuali, lo studio stima che 110 milioni di ragazze e giovani donne non andranno a scuola. È sorprendente notare che, nonostante gli anni di lotta per la parità di salario a parità di lavoro – cosa peraltro stabilita dall’Unione Sovietica nel decreto del giugno 1920 sulle tariffe salariali – il divario salariale tra uomini e donne rimane “persistentemente alto”. Come si legge nel rapporto, “per ogni dollaro che gli uomini guadagnano in reddito da lavoro a livello globale, le donne guadagnano solo 51 centesimi. Solo il 61,4% delle donne in età lavorativa fa parte della forza lavoro, rispetto al 90% degli uomini in età lavorativa”. UN Women, che ha concentrato il suo rapporto del 2023 sulle donne di età pari o superiore a 65 anni, mostra che in 28 dei 116 Paesi che hanno fornito i dati, meno della metà delle donne anziane ha una pensione. Questo è davvero sconcertante. E tutte le linee di tendenza stanno andando verso il basso.
Ad agosto, l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) e UN Women hanno organizzato un seminario in Nepal sul tema del lavoro dignitoso per le donne nell’economia della cura. Proprio come le donne in molte parti del mondo, le donne nepalesi svolgono l’85% del lavoro quotidiano di cura non retribuito, spendendo complessivamente 29 milioni di ore al giorno rispetto ai cinque milioni di ore trascorse dagli uomini. I numeri dell’ILO mostrano che “a livello globale, le donne svolgono il 76,2% del totale delle ore di lavoro di cura non retribuito”. In Nepal, secondo i dati del governo, quasi il 40% delle donne ha affermato di non poter cercare lavoro a causa della mancanza di alternative al lavoro di cura non retribuito, come gli asili nido pubblici.
Naturalmente, la ragione del divario salariale di genere e del divario di lavoro di cura non retribuito è la duratura presa del patriarcato, che deve essere affrontata attraverso una lotta concertata. Qui possiamo imparare dai cambiamenti istituzionali implementati negli stati socialisti, che utilizzano parte della loro ricchezza sociale per costruire strutture per socializzare il lavoro di assistenza come asili nido di quartiere, programmi di doposcuola e centri sociali per gli anziani. I centri per l’infanzia non solo assorbono parte del lavoro di cura non retribuito a casa; essi forniscono anche bambini con le competenze sociali ed educative necessarie per i loro anni successivi. All’inizio di quest’anno, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) ha chiesto un aumento dei programmi di assicurazione sociale che includessero asili nido. Decenni di tagli di austerità neoliberali hanno smantellato qualunque protezione sociale di base esistente negli stati capitalisti, mentre le affermazioni della destra di essere “a favore della famiglia” hanno significato semplicemente un aumento della pressione sulle donne affinché restassero a casa per svolgere lavori di cura non retribuiti. Alla radice di queste cifre sconcertanti non c’è solo il patriarcato, ma ciò che molti degli elementi della policrisi hanno in comune: che il sistema sociale del capitalismo è guidato dalla classe che controlla la proprietà privata e che rifiuta di utilizzare la ricchezza sociale per emancipare l’intera umanità.
Durante la guerra popolare (1996-2006) in Nepal, Nibha Shah, una giovane donna di famiglia aristocratica, si unì ai maoisti nella foresta. Lì, lottando per la giustizia nel suo paese, scrisse una serie di poesie, tra cui una, nel 2005, sulla tenacia degli uccelli. È una poesia che ci insegna che non basta nutrire speranza per costruire un futuro migliore; dobbiamo essere certi che supereremo questa policrisi, questo disastro del capitalismo, attraverso una lotta audace.
La gente vide solo cadere l’albero.
Chi ha visto cadere il nido dell’uccellino?
Poverino!
Una casa che ha costruito un ramoscello alla volta.
Chi ha visto le lacrime nei suoi occhi?
Anche se vedessero le sue lacrime, chi capirebbe il suo dolore?
L’uccellino non si arrese,
non smise di sperare,
non smise di volare.
Piuttosto, lasciò la sua vecchia casa
per crearne una nuova, raccogliendo di nuovo
un ramoscello, un altro ramoscello.
Sta costruendo il suo nido in una sequoia.
Sta proteggendo le sue uova.
L’uccellino non sapeva come perdere.
Spicca il volo in nuovi cieli.
Spicca il volo in nuovi cieli.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della trentasettesima newsletter (2023) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo SOTTO LA POLICRISI C’È IL SINGOLARE DILEMMA DELL’UMANITÀ CHIAMATO CAPITALISMO proviene da Potere al Popolo.
Con alcuni post su Facebook, l’associazione VI(S)TA NOVA, che organizza l’evento Lucca Film Festival, cerca candidati e volontari da inserire nei reparti Accoglienza ospiti, Gestione Spazi e Allestimento e Tecnica per l’edizione del 2023 e, come avviene in questi casi, avanza richieste molto pretenziose per i profili ricercati (livello B2/C1 di lingua inglese, residenti nel comune di Lucca, o zone limitrofe, ma automuniti), ma anche in termini di disponibilità e flessibilità degli orari.
Tutto poi viene condito da una retorica che pone l’enfasi sulla “passione” per lo stare a contatto con le persone, sull’opportunità di “mettere le proprie abilità in campo” e “conoscere i luoghi e le star della manifestazione”.
Alle richieste di chiarimenti espresse dagli utenti nei commenti Lucca Film Festival replica che quella in questione è una call che riguarda solo giovani volontari e volontarie che vogliono fare un’esperienza e che l’attività di volontariato è sempre stata prevista per manifestazioni di questo genere.
Al di là del solito grave utilizzo di lavoro gratuito da parte di grandi eventi, si deve registrare il contesto in cui questa richiesta si muove. Vi(s)ta Nova è sostenuta nell’organizzazione del festival da Fondazione Sistema Toscana, fondazione di diritto privato che opera nella Regione Toscana. Il main sponsor della manifestazione è la Fondazione Cassa di Risparmio, che una volta di più riafferma il suo dominio sulla città, dopo aver festeggiato a marzo “il miglior bilancio degli ultimi dieci anni”.
Di nuovo, come a Lucca siamo abituati, le fondazioni mostrano il sorriso bonario di chi incassa e governa, mentre addirittura danno opportunità di esperienze irripetibili con i vip di turno, che ben figurano sui CV a costo zero.
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Negli ultimi giorni il governo ha approvato il decreto Caivano, una misura pensata in ottica di contrasto e repressione di ciò che viene definito ”disagio giovanile”, un concetto che semplicemente identifica ed associa la povertà educativa e le difficoltà dei gruppi sociali in condizioni di marginalità con la criminalità.
Così, in nome dei pilastri comunicativi del decoro urbano e del degrado, promossi all’interno dell’agenda politica odierna da tutti i governi che si sono succeduti, dal pd passando per i 5 stelle fino alla lega e fratelli d’italia, si sancisce la definitiva normalizzazione della filosofia della zero tolleranza nella penisola.
Iniziata come pratica sperimentale di repressione delle forme di socialità organizzata all’interno degli stadi, evolvendosi in seguito in un dispositivo di controllo e regolamentazione dei corpi nelle città (si veda il daspo urbano coniato dal decreto Minniti) in sinergia con lo smantellamento graduale delle politiche wellfare e della spesa sociale, questo nuovo modo di declinare la governance giunge ad un nuovo livello, nel quale viene ufficialmente dichiarata guerra alla povertà delegando alle carceri ed i sistemi di giustizia il dovere di formare ed educare i dissidenti, trasformando i servizi sociali in organi di ratifica, di monitoraggio e preparazione al lavoro (quel workfare di cui parlava Wacquant in ”Iperincarcerazione”) invece che piattaforme di wellfare generativo necessarie alla promozione del benessere delle persone e dei territori dove vivono.
Il messaggio del governo è questo: “seguite la linea tracciata dal lavoro sottopagato, ipersfruttato e demansionato, dagli spazi pubblici privati del supporto del mondo delle associazioni e circondati dal valore di scambio, dalle piazze militarizzate e dell’istruzione per pochi -anch’essa militarizzata e gerarchizzata-, perché se doveste scostarvi da questo percorso l’unico modo è forzarvi a camminare dritti come vogliamo noi”.
Fogli di via, allargamento delle ipotesi per l’esecuzione del carcere preventivo, daspo urbano ed arresti domiciliari/semi libertà per i minorenni, in altre parole un inferno in terra.
Di seguito i punti chiave che emergono dalla lettura del decreto Caivano:
-Daspo urbano ai maggiori di 14 anni
-Misure accessorie disposte dal Questore
-Foglio di via obbligatorio
-Carcere preventivo
-Messa alla prova
-Armi e droga
-Le sanzioni sui genitori
-Vittime reati telematici
-Avviso orale e stop ai cellulari (si, divieto di possedere un cellulare per i minori condannati o indagati penalmente)
Potere al popolo si schiererà sempre contro questa visione della società e dei rapporti sociali, non un passo indietro!
L'articolo [LIVORNO] SORVEGLIARE E PUNIRE proviene da Potere al Popolo.