Oggi è Sabato 13/12/2025 e sono le ore 13:45:58
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Sabato 13/12/2025 e sono le ore 13:45:58
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
#news #Potere #Popolo
Il 1° novembre 2025, nello Stato del Kerala, situato nella parte sud-occidentale dell’India e con una popolazione di 34 milioni di abitanti, primo ministro Pinarayi Vijayan ha dichiarato che è stata abolita la povertà estrema. Il Kerala è uno dei pochi luoghi al mondo ad aver sradicato la povertà estrema, solo dopo la Cina che nel 2022 aveva annunciato di aver eliminato la povertà estrema a livello nazionale.
Il risultato raggiunto dal Kerala è significativo per due motivi. In primo luogo, in un Paese in cui centinaia di milioni di persone vivono ancora in condizioni di povertà , il Kerala è l’unico dei ventotto Stati e degli otto territori dell’Unione indiani ad aver superato la povertà estrema. In secondo luogo, il Kerala è governato dal Fronte Democratico di Sinistra (LDF) guidato dai comunisti e quindi gli viene regolarmente negata l’assistenza da parte del governo centrale guidato dal partito di destra Bharatiya Janata Party (Partito Popolare Indiano).
Il progetto Athidaridrya Nirmarjana Paripaadi (Progetto per l’eliminazione della povertà estrema, o EPPE) del Kerala è stato costruito sulla base delle lotte dei lavoratori e dei contadini negli ultimi decenni, che hanno creato forti istituzioni pubbliche e organizzazioni di massa, e sul lavoro di diverse amministrazioni di sinistra. L’EPPE è stato lanciato da Vijayan, leader del Partito Comunista Indiano (Marxista), durante la prima riunione di gabinetto del secondo governo LDF da lui guidato nel maggio 2021. Dopo un rigoroso processo basato su criteri incentrati sull’accessibilità all’occupazione, al cibo, alla salute e all’alloggio da parte delle famiglie del Kerala, il governo ha identificato 64.006 famiglie (ovvero 103.099 individui) come estremamente povere. Per svolgere questa indagine, il governo si è avvalso di circa 400.000 collaboratrici e collaboratori – tra cui funzionari pubblici, membri di cooperative e membri delle organizzazioni di massa dei partiti di sinistra – per identificare i problemi specifici delle famiglie povere. Queste persone hanno creato piani su misura per ogni famiglia – dal garantire i diritti e l’accesso ai servizi pubblici all’ottenimento di alloggi, assistenza sanitaria e sostegno al reddito – per rafforzarle nella lotta contro la povertà . Il ruolo del movimento cooperativo è stato fondamentale in questa campagna. Il processo di pianificazione per l’eliminazione della povertà non sarebbe stato possibile senza il ruolo del sistema di autogoverno locale, risultato del successo del decentramento del potere in Kerala. Mentre questa newsletter viene pubblicata, il Kerala è nel pieno delle nuove elezioni degli enti locali.
Negli ultimi anni, Tricontinental: Institute for Social Research ha lavorato a stretto contatto con il Centro di ricerca della Uralungal Labour Contract Cooperative Society (UL) per approfondire la conoscenza del movimento cooperativo in Kerala. Siamo molto orgogliosi di pubblicare il nostro studio congiunto The Cooperative Movement in Kerala, India a un mese dalla dichiarazione del Kerala di voler sradicare la povertà estrema. Il nostro approfondimento presenta sei diverse cooperative, con saggi di studiosi che hanno lavorato a stretto contatto con loro. Uno di questi si concentra su Kudumbashree, una cooperativa composta interamente da quasi 5 milioni di donne; questa cooperativa ha svolto un ruolo importante nell’attuazione dell’EPPE.
Il primo governo democratico del Kerala, insediatosi nel 1957, era guidato dai comunisti. Ha immediatamente avviato un programma di riforma agraria, che comprendeva la ridistribuzione della terra, e ha ampliato i beni sociali universali come l’istruzione pubblica, l’assistenza sanitaria, gli alloggi e l’accesso alle biblioteche. Questa democratizzazione del panorama rurale, unita a una mobilitazione sociale, ha portato milioni di abitanti del Kerala a raggiungere livelli imparagonabili per quel che riguarda gli indicatori sociali: alfabetizzazione quasi totale, mortalità infantile e materna molto bassa, alta aspettativa di vita e alcuni dei punteggi di sviluppo umano più alti dell’India. Questi investimenti, realizzati nel corso di decenni, hanno creato le condizioni per l’eliminazione della povertà molto prima che emergessero i programmi mirati. Le coalizioni guidate dai comunisti hanno governato il Kerala dal 1957 al 1959, dal 1967 al 1969, dal 1980 al 1981, dal 1987 al 1991, dal 1996 al 2001, dal 2006 al 2011 e dal 2016 ad oggi. Anche quando la sinistra non era al potere, la mobilitazione dal basso organizzata delle forze di sinistra ha fatto sì che i governi di destra non potessero interrompere completamente questi programmi.
Parallelamente alla crescita del modello neoliberista di austerità del debito negli anni ’90 è aumentata la pressione sul governo LDF affinché invertisse alcuni di questi progetti e applicasse politiche di privatizzazione. Tuttavia, l’LDF ha scelto una strada diversa. Attraverso la People’s Plan Campaign for Decentralised Planning (Campagna popolare per la pianificazione decentralizzata), lanciata nel 1996, il governo ha devoluto il 40% della spesa pubblica ai governi locali e ha chiesto alle località di identificare le esigenze, progettare programmi e stanziare budget per progetti di sviluppo. Anziché sviluppare un programma unico per lo sviluppo e la riduzione della povertà , la popolazione del Kerala ha realizzato progetti pianificati a livello locale e specifici per il contesto, incentrati sull’emancipazione delle comunità sfruttate ed emarginate, tra cui gli Adivasi, i Dalit e le comunità costiere. La campagna ha instaurato una cultura di politica sociale democratizzata e ha alimentato una fitta rete di istituzioni pubbliche e cooperative, tutte fondamentali per l’EPPE.
Quando ha annunciato la fine della povertà estrema in Kerala, il primo ministro Vijayan ha presentato l’EPPE come la continuazione di questo lungo percorso. Ha sottolineato diverse iniziative che hanno aperto la strada al programma, tra cui l’universalizzazione del sistema di distribuzione pubblica, che fornisce cibo e carburante sovvenzionati, e gli sforzi a lungo termine per sradicare la mancanza di terra e casa, tra cui la LIFE Mission che ha fornito un alloggio a oltre 400.000 famiglie in tutto lo stato. A queste si aggiungono altri pilastri del modello del Kerala: programmi statali che hanno ampliato l’assistenza sanitaria pubblica, la distribuzione di cibo, l’assistenza educativa e le opportunità di lavoro, e naturalmente le cooperative. Insieme, queste iniziative hanno trasformato la vita sociale nel Kerala e rafforzato il carattere del suo movimento di sinistra.
Il nostro studio condotto con l’UL Research Centre offre una panoramica delle varie cooperative che hanno svolto un ruolo chiave nella democratizzazione dell’economia del Kerala. Costituita nel 1998 nell’ambito della missione statale di eradicazione della povertà , Kudumbashree, che in malayalam significa prosperità della famiglia, è oggi la più grande rete di mutuo soccorso femminile al mondo. Si basa su un’idea trasformativa: se le donne a livello familiare e comunitario rafforzano la loro fiducia e la loro capacità di valutare la vita economica, allora il fulcro dello sviluppo può spostarsi dalle istituzioni patriarcali verso le esigenze delle donne lavoratrici. Le fattorie collettive, le cucine comunitarie, le iniziative cooperative di sviluppo delle competenze e altre forme di impresa congiunta hanno permesso alle donne di Kudumbashree di aumentare il loro reddito e di acquisire potere sia nella vita pubblica che in quella privata. L’enfasi di Kudumbashree sulla solidarietà piuttosto che sulla competizione e sull’imprenditorialità collettiva piuttosto che quella individuale la distingue dalle strategie di riduzione della povertà incentrate sul “libero mercatoâ€. Recentemente, il governo del Kerala ha annunciato un Piano di sicurezza per le donne basato sulla necessità di riconoscere il valore del lavoro domestico non retribuito. Le donne idonee di età compresa tra i 35 e i 60 anni riceveranno 1.000 rupie al mese. Tale iniziativa fa parte del tentativo generale di trasformare i rapporti di proprietà patriarcali nel Kerala.
Kudumbashree fa parte di un più ampio ecosistema di cooperative che sostengono la lotta alla povertà nel Kerala. Nel loro insieme, queste iniziative sono esempi significativi di come, secondo le parole di Marx, “il lavoro salariato non e che una forma transitoria e inferiore, destinata a scomparire per lasciare il posto al lavoro associato, che svolge la sua funzione con mano pronta, con animo vivace e cuore allegro†(Karl Marx, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai, 5 novembre 1864). Esse dimostrano che le cooperative non sono solo reti di sicurezza per i poveri, ma anche veicoli per la pianificazione democratica, il progresso tecnologico e la dignità sociale.
Queste includono:
La Uralungal Labour Contract Cooperative Society (UL). Fondata nel 1925 nel Kerala settentrionale come società di mutuo soccorso per i lavoratori edili vittime di esclusione basata sul sistema delle caste, UL è cresciuta fino a diventare una delle più grandi cooperative di lavoratrici e lavoratori dell’Asia, impiegando decine di migliaia di persone in grandi progetti infrastrutturali. Essa dimostra come le imprese controllate dalle lavoratrici e dai lavoratori possano realizzare opere pubbliche complesse, ampliando al contempo la protezione sociale e il benessere collettivo dei propri lavoratori e della comunità circostante.
La rete di cooperative di credito del Kerala. Più di quattromila cooperative di credito, con decine di milioni di membri, per lo più appartenenti alla classe operaia e emarginati, operano come “banche popolari†che raggiungono aree non coperte dalla finanza privata. Proteggendo i mutuatari dagli usurai, sostenendo la riforma agraria e mobilitando i risparmi locali – anche durante le inondazioni del 2018 e la pandemia di COVID-19 – esse costituiscono la spina dorsale finanziaria per l’eliminazione della povertà .
La Società Cooperativa Centrale dei Lavoratori Dinesh Beedi del Kerala. Costituita nel 1969 dopo che i proprietari delle fabbriche private di beedi (sigarette sottili arrotolate a mano) avevano chiuso le fabbriche piuttosto che attuare nuove misure di protezione del lavoro, la Dinesh Beedi è diventata rapidamente il principale produttore di beedi dell’India meridionale. Ha garantito salari più alti, sicurezza sociale e una ricca vita culturale ai suoi membri e in seguito si è diversificata la propria produzione oltre al tabacco per preservare i posti di lavoro nella produzione socialmente utile.
La Fabbrica Cooperativa del Tè Sahya. Nella regione collinare di Idukki, i piccoli coltivatori di tè e le lavoratrici e i lavoratori agricoli hanno utilizzato la Thankamany Service Cooperative Bank, che conta 15.000 membri, per fondare una propria fabbrica nel 2017 e rompere con i monopoli della “Big Teaâ€. Con una lavorazione di 15.000 chilogrammi di foglie al giorno e oltre 150 lavoratrici/lavoratori, Sahya garantisce prezzi migliori a circa 3.500 coltivatrici/coltivatori e dimostra come le piccole produttrici e i piccoli produttori possano salire nella catena del valore e difendere mezzi di sussistenza dignitosi.
La Udayapuram Labour Contract Cooperative Society. A Kodom Belur, un remoto panchayat nel Kasaragod, le e gli abitanti del villaggio che dovevano affrontare il feudalesimo dei proprietari terrieri, la corruzione dei funzionari e gli appaltatori predatori, nel 1997 hanno organizzato una cooperativa di lavoro. Da poco più di duecento membri è cresciuta fino a contare quasi 3.000 lavoratori-membri, tra cui molti Adivasi, che ora eseguono lavori pubblici a condizioni trasparenti ed eque e definiscono essi stessi le priorità di sviluppo locale.
Nel loro insieme, queste cooperative – insieme a Kudumbashree – dimostrano cosa è possibile realizzare quando la politica statale, le riforme sociali e le lavoratrici e i lavoratori organizzati convergono. Esse non si limitano ad attenuare gli effetti negativi del mercato, ma riorganizzano la produzione in base alle esigenze umane, rafforzano la democrazia sul posto di lavoro e nel villaggio e offrono un esempio concreto di lavoro associato – di comunismo possibile – anche nelle dure condizioni del capitalismo contemporaneo che rendono necessari programmi come l’EPPE.
La storia dell’eliminazione della povertà in Kerala non è priva di sfide. Lo Stato fa ancora parte dell’Unione Indiana ed è quindi vulnerabile alle vicissitudini della politica del governo di destra di Nuova Delhi. Come in molte parti del Sud globale, le persone giovani del Kerala devono affrontare un alto tasso di disoccupazione e spesso emigrano nella regione del Golfo Persico e in altre parti del mondo in cerca di lavoro. I tentativi di costruire nuove forze produttive di qualità che consentano allo Stato di superare le industrie obsolete sono frenati dall’accesso limitato alle entrate fiscali riscosse dallo Stato dal governo centrale. Ciononostante, sono in corso tentativi per superare queste limitazioni e costruire un paradigma di crescita più solido per il Kerala.
Nel febbraio 2021, il presidente Xi Jinping ha annunciato che quasi 99 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà estrema, gli ultimi poveri del Paese. Il Paese di 1,4 miliardi di persone ha raggiunto questo obiettivo con un decennio di anticipo rispetto alla data fissata dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite per il 2030. Il Kerala ha raggiunto il suo obiettivo un anno prima del previsto. Il Vietnam, un altro Paese vicino a questo traguardo, prevede di porre fine alla povertà estrema entro il 2030. Non sorprende che questi tre progetti siano guidati da partiti comunisti, il cui impegno per l’emancipazione umana li spinge a lavorare per garantire che ogni essere umano possa vivere una vita dignitosa. L’eliminazione della povertà non è un fine in sé, ma parte del lungo percorso verso l’emancipazione umana: è un progetto sociale vivo, non una serie di caselle da spuntare. Come disse Kwame Nkrumah: “avanti sempre, indietro maiâ€.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della cinquantesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo IL KERALA HA ABOLITO LA POVERTÀ ESTREMA proviene da Potere al Popolo.
Durante le sessioni plenarie di chiusura della 30a Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30) a Belém do Pará, nell’Amazzonia brasiliana, il segretario esecutivo delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici Simon Stiell ha tenuto un discorso appassionato. Stiell, originario di Grenada, è arrivato alla sua carica dopo una lunga carriera nel settore aziendale e poi come ministro dell’ambiente e della resilienza climatica del suo Paese sotto il governo filo-aziendale del New National Party. Nel suo discorso ha affermato che “il negazionismo, le divisioni e la geopolitica [hanno] inferto duri colpi alla cooperazione internazionale quest’annoâ€. Ha tuttavia insistito sul fatto che “la cooperazione sul clima è viva e vegeta, e mantiene l’umanità nella lotta per un pianeta vivibile con la ferma determinazione di mantenere l’obiettivo di 1,5 °C a portata di manoâ€. Quando ho ascoltato il discorso di Stiell, ho pensato che stesse parlando di un altro pianeta.
Nel maggio 2025, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha pubblicato un rapporto in cui avverte che c’è un’86% di probabilità che la temperatura media globale vicino alla superficie superi di 1,5 °C la media preindustriale (1850-1900) – la soglia fissata nell’Accordo di Parigi del 2015 – in almeno un anno tra il 2025 e il 2029; il rapporto avvertiva inoltre che c’è una probabilità del 70% che la media quinquennale per il periodo 2025-2029 superi di 1,5 °C tale media. Alla fine di ottobre 2025, poche settimane prima della COP30, l’American Institute of Biological Sciences ha pubblicato The 2025 State of the Climate Report: A Planet on the Brink, in cui si afferma che “il 2024 ha stabilito un nuovo record di temperatura media globale della superficie, segnalando un’escalation dei cambiamenti climatici†e che “22 dei 34 segni vitali del pianeta hanno raggiunto livelli recordâ€. Per correttezza nei confronti di Stiell, va detto che egli non ha suggerito di abbassare la guardia: “Non sto dicendo che stiamo vincendo la battaglia contro il cambiamento climatico. Ma è innegabile che siamo ancora in gioco e che stiamo reagendoâ€.
Su questo siamo d’accordo.
Nello stesso mese, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha pubblicato un allarmante rapporto intitolato Adaptation Gap Report 2025: Running on Empty. Il rapporto dipinge un quadro non solo di finanziamenti insufficienti per il clima da parte del Nord globale, ma anche di un abbandono sistematico del Sud globale; descrive un mondo che “si sta preparando alla resilienza climatica, senza i fondi necessari per raggiungerlaâ€. La questione dei fondi è fondamentale. Le promesse di finanziare la transizione climatica sono state fatte per la prima volta alla COP3 (Kyoto, 1997) attraverso il Meccanismo di Sviluppo Pulito, poi alla COP7 (Marrakech, 2001) attraverso il Fondo per i Paesi Meno Sviluppati e il Fondo Speciale per il Cambiamento Climatico. Ma la svolta è arrivata alla COP15 (Copenaghen, 2009), quando i paesi ricchi del Nord si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima a favore dei paesi in via di sviluppo entro il 2020. Anche le promesse di Copenhagen erano vuote: non c’era alcun obbligo trattato per le nazioni più ricche di raggiungere questo obiettivo di 100 miliardi di dollari, nessun meccanismo di applicazione per costringere coloro che avevano fatto promesse a rispettare i loro impegni, e la maggior parte del denaro promesso era sotto forma di prestiti e non di sovvenzioni.
L’impegno di 100 miliardi di dollari all’anno assunto a Copenaghen è stato ribadito alla COP21 (Parigi, 2015) ed esteso al 2025. Alla COP26 (Glasgow, 2021) i paesi più ricchi hanno ammesso di non aver raggiunto i loro traguardi e si sono nuovamente impegnati a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Il rapporto dell’UNEP fornisce un resoconto severo delle promesse non mantenute e delle false dichiarazioni. Tre punti sono essenziali da comprendere:
1. I paesi in via di sviluppo avranno bisogno di 310-365 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 solo per l’adattamento al clima (senza contare la mitigazione e le perdite e i danni). Se si ipotizza un’inflazione del 3% all’anno, il fabbisogno reale per l’adattamento raggiungerà i 440-520 miliardi di dollari all’anno entro il 2035.
2. Nel 2023 i flussi di finanziamenti per l’adattamento dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo sono stati di soli 26 miliardi di dollari, meno che nel 2022, e il 58% del denaro è arrivato attraverso strumenti di debito e non attraverso sovvenzioni – una sorta di adeguamento strutturale verde. I paesi meno responsabili della catastrofe climatica sono quelli che sono costretti a contrarre prestiti per far fronte all’impatto dei disastri incombenti.
3. Da un semplice calcolo, i bisogni sono da dodici a quattordici volte superiori agli attuali flussi, producendo un deficit di finanziamento per l’adattamento compreso tra 284 e 339 miliardi di dollari all’anno.
Una delle grandi tragedie dell’intero dibattito sulla catastrofe climatica è che 172 paesi, per lo più nazioni povere, hanno già sviluppato piani, politiche e strategie nazionali di adattamento. Ma, come sottolinea il rapporto dell’UNEP, un quinto di questi piani è obsoleto a causa di quadri istituzionali deboli, capacità tecniche limitate, mancanza di accesso ai dati climatici e finanziamenti imprevedibili e ritardati. Per le nazioni più povere, l’ostacolo è meno l’apatia politica che i limiti delle risorse. Anche quando cercano di prepararsi al peggio, non riescono a garantire le risorse necessarie per svolgere il lavoro in modo adeguato. Questo cronico sottofinanziamento riduce l’intero processo a un rituale vuoto: i documenti vengono prodotti per ottemperare agli obblighi.
Mentre si discute del debito climatico, si sostiene che la finanza verde attirerà capitali privati. Ma anche questo è un mito. Il rapporto dell’UNEP mostra che gli investimenti del settore privato nell’adattamento sono inferiori a 5 miliardi di dollari e che, anche nella migliore delle ipotesi, il capitale privato non raccoglierà più di 50 miliardi di dollari all’anno per l’adattamento (molto meno di quanto necessario). In pratica, i finanziatori privati partecipano ai progetti di adattamento solo quando i fondi pubblici sono utilizzati per garantire o sovvenzionare i loro rendimenti – i cosiddetti meccanismi di “finanza innovativa†o “finanza mista†progettati per “ridurre il rischio†degli investimenti privati. Quindi, alla fine, il costo è sostenuto dai tesori dei paesi più poveri, i cui governi garantiscono effettivamente il denaro che prendono in prestito per finanziare progetti di adattamento che gli investitori privati considerano troppo rischiosi senza tali garanzie. Come abbiamo sostenuto nel dossier n. 93 (ottobre 2025), The Environmental Crisis Is a Capitalist Crisis, questo modello di finanza verde esacerba il debito climatico nei confronti del Sud del mondo piuttosto che risolverlo.
Quest’anno, alcuni membri di Tricontinental si sono recati a Belém per la COP30. Hanno partecipato al Vertice popolare verso la COP30 – tenutosi dal 12 al 16 novembre 2025 in contrapposizione alla conferenza ufficiale – dove hanno condiviso i risultati del dossier n. 93. Dopo il summit, che ha riunito oltre 25.000 partecipanti e più di 1.200 organizzazioni, il nostro ufficio di Nuestra América ha chiesto a Bárbara Loureiro del Movimento dei lavoratori senza terra (MST) brasiliano di scrivere una newsletter sulla COP30. Nella sua lettera ha scritto che il “generale invisibile†dei lavori era l’industria agroalimentare brasiliana, che cercava di dare un’immagine ecologica alle sue pratiche, espandere il suo accesso ai fondi pubblici e spostare il dibattito dalla mitigazione al rebranding.
Guardando i lavori all’interno della sala della COP ufficiale sorge tuttavia una semplice domanda: vale la pena partecipare al processo o dovremmo semplicemente lasciare che il regime della COP muoia? Ci sono tre ragioni fondamentali per cui è importante continuare a partecipare al processo della COP:
1. La COP offre un palcoscenico globale in cui il Sud globale può chiedere risarcimenti, finanziamenti per perdite e danni e sostegno all’adattamento. È alla COP che si può argomentare contro il finanziamento del debito climatico e contro gli obiettivi volontari. La COP non è un luogo di salvezza, ma può comunque essere un luogo di lotta.
2. La COP consente al Sud globale di mantenere il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate†stabilito nella Dichiarazione di Rio alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo (1992).
3. La COP costringe i paesi ricchi a negoziare apertamente piuttosto che ritirarsi nelle stanze segrete, dove la governance climatica sta completamente nelle mani del capitale privato e dell’informalità dei ricchi. La lotta sul significato del finanziamento climatico (come debito o come risarcimento) è una partita aperta.
Dopo la COP30 ho chiesto ad Asad Rehman di Friends of the Earth perché pensava che valesse la pena lottare nelle strade fuori dalle sale della COP. Per Asad la prima battaglia è convincere il movimento per la giustizia climatica ad accettare che la lotta non riguarda solo l’uso dei combustibili fossili, ma che va anche diretta verso la crisi delle nostre economie e società , che devono essere trasformate. Allo stesso tempo ha detto: “in realtà c’è qualche speranzaâ€. Questo perché il movimento per la giustizia climatica sostiene che il problema non è la mancanza di finanziamenti, ma la mancanza di volontà politica. I finanziamenti sono disponibili (come sostiene la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo in un nuovo rapporto, All Roads Lead to Reform: A Financial System Fit to Mobilise $1.3 Trillion for Climate Finance). Mentre si svolgeva la COP30, a Nairobi, in Kenya, si è tenuto un incontro della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale internazionale, durante il quale i paesi più ricchi hanno bloccato i progressi verso una tassa equa sulle società che costringerebbe chi inquina a pagare per i danni ambientali causati. Se applicata, tale tassa potrebbe raccogliere 500 miliardi di dollari all’anno, un buon inizio verso il risarcimento dei danni climatici. Eppure, proprio mentre il Nord globale insiste che non ci sono soldi per il finanziamento del clima, i paesi della NATO concordano di aumentare la spesa militare al 5% del PIL, nonostante sia evidente che il militarismo è uno dei principali motori delle emissioni di gas serra. “Vedere il movimento per la giustizia climatica battersi per la cancellazione del debito, per le tasse sul patrimonio e per la riforma delle regole commerciali è un passo positivoâ€, ha detto Asad. “Ora il movimento sta cominciando a capire che si tratta di una questione economica. Si tratta di un cambio di paradigmaâ€.
Nella sua lettera per il nostro ufficio di Nuestra América, Loureiro del MST ha descritto la COP30 come uno specchio con due facce: “Da un lato, la celebrazione delle cosiddette ‘soluzioni di mercato’ e della decarbonizzazione finanziaria; dall’altro… la crescente forza del movimento popolare, che ha reso Belém un territorio di denuncia, solidarietà internazionalista e costruzione di alternative realiâ€. Nella sua conclusione ci invita a comprendere la catastrofe climatica come un luogo di lotta di classe, che può essere superata solo andando oltre al capitalismo:
Non c’è una vera via d’uscita dalla crisi climatica senza una rottura con il modello capitalista, e non c’è alcuna rottura possibile senza l’organizzazione popolare, senza la lotta collettiva e senza affrontare le strutture che traggono profitto dalla devastazione ambientale.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantanovesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo LA CATASTROFE CLIMATICA È CAUSATA DAL CAPITALISMO proviene da Potere al Popolo.
Per dirla in breve, i lavoratori ex Ilva, nella lunga guerra di logoramento che li oppone a multinazionali senza scrupoli e Governo, oggi hanno vinto una importante battaglia.
La vittoria immediata, sul piano sindacale, riguarda lo zincato, un prodotto finito che a determinati spessori si produce solo nello stabilimento genovese di Cornigliano. Oltre a questo il Governo ha promesso un intervento pubblico nella produzione qualora la gara di affidamento delle acciaierie non garantisca gli attuali livelli occupazionali.
Ma andiamo con ordine. La vertenza nasce contro il piano di Acciaierie d’Italia e Ilva in Amministrazione straordinaria che prevedeva lo stop temporaneo al ciclo dello zincato prodotto a Cornigliano mentre lo stabilimento di Taranto era in manutenzione. Lo stop di Genova era dovuto ufficialmente alla mancanza di materia prima semilavorata proveniente da Taranto.
Nei fatti quella di chiudere il ciclo dello zincato appariva però una scelta irrazionale. Il semilavorato avrebbe continuato ad arrivare infatti per il ciclo della latta, ma non per quello dello zinco . Fermare un ciclo di lavorazione come quello dello zinco avrebbe avuto un effetto immediato in termini di perdita di commesse e di costi di riattivazione. Il sospetto giustificatissimo da parte dei lavoratori era dunque quello per cui il vero scopo del piano fosse la chiusura della linea dello zinco, più che unol suo stop temporaneo.
Dietro l’apparente irrazionalita del piano c’era cioè il sospetto che il Governo stesse operando da “curatore fallimentare” con l’obiettivo di ottenere la chiusura degli stabilimenti siderurgici italiani e la speculazione immobiliare sulle aree svuotate dall’attività industriale.
La risposta operaia è stata straordinaria: sciopero a oltranza in tutti gli stabilimenti ex Ilva iniziato il 2 dicembre. Occupazione dello stabilimento di Cornigliano, occupazione di assi stradali importanti nei pressi della zona industriale, occupazione di stazione e aeroporto di Genova, fino allo sciopero generale della metalmeccanica genovese che ha portato 5000 lavoratori a scontrarsi con i blocchi della Polizia che impedivano l’accesso alla prefettura.
Dopo questo accordo il Ministro Adolfo Urso ha ceduto, acconsentendo a proseguire il ciclo dello zinco e a promettere un intervento pubblico nella gara di affidamento delle acciaierie.
Certo, questo accordo non risolve la crisi dell’acciaio in Italia, che è prima di tutto crisi del settore e che richiederebbe un piano nazionale pubblico per la bonifica dei siti inquinati e la produzione di acciaio con tecnologie a basso impatto ecologico, con il controllo popolare di lavoratori/trici e cittadini/e su tutto il processo.
La vera vittoria dei lavoratori, oltre ad aver sventato la chiusura di un reparto importante, è quella di aver mostrato, sull’esempio dei portuali di Genova, che siamo deboli solo finché ci crediamo tali. Un movimento come “blocchiamo tutto” nato per respingere l’inerzia del Governo di fronte al genocidio dei Palestinesi, conteneva già in sé la ribellione a un malessere più vasto, come ci dimostrano oggi i lavoratori dell’ex Ilva.
Che ci insegnano una cosa tanto semplice quanto difficile a farsi: quando lottiamo con organizzazione e determinazione, possiamo vincere. Che ci sia da lezione.
L'articolo GENOVA CI INSEGNA CHE SCIOPERARE E BLOCCARE TUTTO PAGA. COSA ABBIAMO IMPARATO DELL’ACCORDO SIGLATO DAI LAVORATORI EX ILVA proviene da Potere al Popolo.
Esprimiamo piena solidarietà e pretendiamo il reintegro immediato!
A pagare le spese della “ristrutturazione” aziendale è ancora una volta chi lavora.
Infatti, pur con un fatturato di oltre 3 miliardi di euro all’anno e negozi fruttuosi in tutta Italia, Pam ha deciso di tagliare sul personale, riducendolo da un organico di 4mila dipendenti a poco più di mille.
Al centro della protesta il cosiddetto “test del carrello”, uno strumento utilizzato dall’azienda come pretesto disciplinare e punitivo, trasformato in un meccanismo di controllo che ha già portato a licenziamenti del tutto infondati e privi di reale motivazione, spesso nei confronti di “personale anziano e ritenuto poco produttivo”.
Siamo al fianco dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte, vittime dei soliti giochi di profitto di chi non ha mai vissuto il lavoro come un’esigenza primaria, ma come un gioco finanziario.
Un “gioco” che però toglie opportunità a chi non ne ha altre e che ad un’età avanzata e dopo anni di lavoro fatica a reinsersi nel mondo del lavoro.
In un contesto di continua contrazione dei salari e dei diritti, di spesa per il riarmo, deindustrializzaione e licenziamenti, la vertenza delle lavoratrici e dei lavoratori PAM non è certo un’eccezione.
Anche per questo il 28 Novembre scioperiamo, perché non può esserci giustizia senza la lotta contro chi specula sulle nostre vite.
Giù le armi, su i salari!
L'articolo [LIVORNO] LAVORATORI STORICI LICENZIATI IN TUTTA ITALIA PER “RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE”. DUE ANCHE A LIVORNO. proviene da Potere al Popolo.
Il 13 novembre, in occasione del Global South Academic Forum tenutosi a Shanghai, in Cina, abbiamo pubblicato il nostro ultimo studio intitolato The 80th Anniversary of the Victory in the World Anti-Fascist War – Understanding Who Saved Humanity: A Restorationist History. Riportiamo qui una versione modificata del mio discorso introduttivo “Due bugie e un’enorme verità â€, pronunciato per presentare lo studio.
A inizio agosto 1942, i sovietici installarono altoparlanti in tutta Leningrado. La città era sotto assedio da oltre 300 giorni. La popolazione stava morendo di fame. Il direttore d’orchestra Karl Eliasberg mantenne in attività l’Orchestra Radiofonica di Leningrado organizzando prove e accompagnando personalmente i musicisti ai centri di distribuzione del cibo. Il 9 agosto, Eliasberg radunò i 15 sopravvissuti dell’Orchestra Radiofonica di Leningrado e portò alcuni membri delle bande militari alla Sala Filarmonica Bolshoi. Eseguirono la Sinfonia n. 7 (la Sinfonia di Leningrado) di Dmitri Shostakovich alla radio e attraverso gli altoparlanti pubblici.
La sinfonia è composta da quattro movimenti. Il primo, calmo e quasi pastorale, evoca Leningrado prima della guerra. Il secondo, costruito attorno a un ostinato di rullante che diventa sempre più forte, allude all’invasione nazista. Il terzo, guidato dagli archi e dagli strumenti a fiato, lamenta le terribili sofferenze del popolo sovietico, con milioni di morti o moribondi. Il movimento finale, in Do maggiore, forte e orgoglioso, anticipa la vittoria contro i mali del fascismo. Non lo sapevano ancora, ma erano a meno della metà dell’assedio. Avevano ancora 536 giorni di fame e battaglie davanti a loro. La scelta di eseguire la sinfonia durante l’assedio, con gli altoparlanti puntati verso le linee naziste in modo che anche i tedeschi potessero ascoltarla, la dice lunga sul coraggio dei cittadini sovietici. Nell’archivio sovietico c’è una frase scritta da un ufficiale dell’intelligence: “Anche il nemico ascoltava in silenzio. Sapevano che era la nostra vittoria sulla disperazioneâ€. Più tardi, un prigioniero tedesco disse che la sinfonia era “un fantasma della città che non potevamo uccidereâ€.
Il nostro studio dimostra che l’Armata Rossa sovietica distrusse l’80% della Wehrmacht nella sua miracolosa avanzata attraverso l’Europa orientale. Quando gli eserciti occidentali arrivarono ai confini della Germania, il regime nazista era già crollato. Fu l’Armata Rossa sovietica a liberare la maggior parte delle persone nei campi di concentramento, e fu il modo scientifico della loro avanzata che costrinse gli alleati nazisti dell’Europa orientale, come i rumeni, ad arrendersi e a cambiare schieramento. Il motivo per cui l’Unione Sovietica è stata in grado di mobilitare tutte le sue forze contro i nazisti è che i comunisti e i patrioti cinesi hanno difeso il fianco orientale dell’Unione Sovietica dagli attacchi dei militaristi giapponesi. Combattendo con armi inadeguate, i comunisti e i patrioti cinesi hanno comunque inflitto danni enormi ai giapponesi, bloccando il 60% del loro esercito e impedendogli di affrontare l’avanzata delle truppe statunitensi che si spostavano da un’isola all’altra nel Pacifico.
Se i cinesi non avessero bloccato le truppe giapponesi, l’Unione Sovietica sarebbe caduta (e la Germania nazista avrebbe conquistato l’Europa) e le truppe statunitensi potrebbero non aver prevalso nelle battaglie di Saipan (1944) e Iwo Jima (1945). L’Armata Rossa sovietica e i comunisti e patrioti cinesi insieme sacrificarono decine di milioni di vite per sconfiggere il fascismo (il calcolo preciso è riportato nel nostro studio e varia da 50 a 100 milioni). Nel maggio 1945, quando il regime nazista crollò, era già chiaro che il militarismo giapponese era sulla via della resa. Non era necessario che gli Stati Uniti conducessero i test Trinity nel luglio 1945 e sganciassero bombe atomiche su Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto). L’immenso sacrificio dei cittadini sovietici e dei comunisti e patrioti cinesi ha reso evitabile l’uso di quell’arma di distruzione di massa; il fatto che gli Stati Uniti l’abbiano utilizzata ci dice molto sul violento disprezzo dell’imperialismo per la vita umana, che è esattamente ciò che vediamo oggi a Gaza.
La prima menzogna. Gli Alleati occidentali si opposero ai fascisti fin dall’inizio e vinsero la guerra contro il fascismo.
La verità . I governi occidentali hanno inviato i loro eserciti per distruggere la Rivoluzione d’Ottobre fin dal momento in cui è iniziata nel 1917. Il governo sovietico ha chiesto la pace nel dicembre 1917, ma la Germania ha comunque attaccato la Finlandia e la giovane repubblica sovietica, il che ha portato a una massiccia invasione alleata (con truppe provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Romania, Estonia, Grecia, Australia, Canada, Giappone e Italia). L’atteggiamento degli Alleati è chiaro dagli scritti e dai discorsi del politico britannico Winston Churchill, che nel 1919 disse che gli Alleati avrebbero dovuto distruggere “la ripugnante buffoneria del bolscevismo†(30 anni dopo disse che “soffocare il bolscevismo alla sua nascita sarebbe stata una benedizione inestimabile per il genere umanoâ€). Negli anni ’30 e ’40, i governi occidentali volevano che i regimi fascisti di Germania e Italia rivolgessero le loro armi contro l’Unione Sovietica e la distruggessero. Questo era il significato della loro “pacificazioneâ€: erano d’accordo con l’anticomunismo di Adolf Hitler e permettevano il suo potenziamento militare fintanto che fosse rivolto contro l’Unione Sovietica. Sebbene la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Germania nel settembre 1939, non fecero nulla nei mesi successivi, un periodo noto come la guerra finta, la Drôle de guerre o la Sitzkrieg (un gioco di parole su Blitzkrieg, o guerra lampo).
Nel 1941, le armate di Hitler invasero l’Unione Sovietica. Alla Conferenza di Teheran del 1943, gli Stati Uniti e il Regno Unito dovettero riconoscere che era l’Armata Rossa a distruggere il fascismo. Churchill, a nome del re Giorgio VI, donò al leader sovietico Joseph Stalin una spada in acciaio di Sheffield chiamata “Spada di Stalingrado†per commemorare il coraggio dei cittadini sovietici che resistettero all’assedio (in cui morirono due milioni di persone) e sconfissero i nazisti. Ma ci volle un altro anno prima che gli Alleati entrassero in guerra in Europa nel 1944. A quel punto, l’esercito tedesco era stato decimato dall’Armata Rossa (e dai bombardamenti aerei alleati). I paesi occidentali entrarono in guerra perché temevano che l’Armata Rossa potesse invadere la Germania e mantenere una posizione nel cuore dell’Europa.
Per i governi occidentali, la contraddizione principale non era tra liberalismo e fascismo: era tra il campo imperialista (o bellico) – che comprendeva sia i fascisti che i liberali – e il campo socialista (o pacifista). Questa contraddizione durò dal 1917 al 1991, attraverso gli anni della Seconda Guerra Mondiale – la Guerra Mondiale Antifascista.
La seconda menzogna. Sono stati i sacrifici degli Stati Uniti nella guerra del Pacifico e le bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki a sconfiggere il militarismo giapponese.
La verità . La guerra mondiale antifascista non iniziò quando la Germania invase l’Austria nel 1939. Iniziò due anni prima in Cina, al momento dell’incidente del ponte Marco Polo (lo scontro del luglio 1937 vicino a Pechino che segnò l’inizio dell’invasione su larga scala della Cina da parte del Giappone) e continuò fino alla guerra degli Stati Uniti contro la Corea, che non si concluse fino all’armistizio del 1953. Milioni di coraggiosi patrioti e antifascisti hanno combattuto contro il militarismo giapponese, che ha attirato il peggio dell’estrema destra in Corea e Indocina. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel dicembre 1941, i patrioti e i comunisti cinesi, così come gli eserciti di liberazione nazionale in Indocina e nel Sud-Est asiatico, bloccarono il 60% delle truppe giapponesi, impedendo così un attacco orientale contro i sovietici. Non vanno dimenticati gli immensi sacrifici dell’Offensiva dei Cento Reggimenti del 1940, in cui il generale Zhu De guidò 400.000 soldati comunisti alla distruzione delle infrastrutture giapponesi nella Cina settentrionale (compresi 900 chilometri di linee ferroviarie).
La mitologia del marine statunitense che si arrampica sulle alture di Iwo Jima o della bomba atomica che costringe i giapponesi alla resa è onnipresente. Tuttavia, essa cancella il fatto che i giapponesi erano già stati sostanzialmente sconfitti, che erano pronti ad arrendersi e che Hiroshima e Nagasaki non erano obiettivi militari. Ciò che accadde nell’agosto del 1945 non riguardava la strategia militare: era solo una dimostrazione di potere degli Stati Uniti, un messaggio al mondo sulla nuova arma che gli Stati Uniti avevano sviluppato e un avvertimento ai comunisti in Asia che quest’arma poteva essere usata contro di loro. I milioni di lavoratori e contadini asiatici che morirono per sconfiggere il fascismo – compresi i miei familiari in Birmania – furono cancellati dal fungo atomico. Questo cominciò ad avere la precedenza nella memoria popolare. La bomba, e non le persone che hanno combattuto per ogni centimetro di terra nel sud-est asiatico, è diventata l’eroina. Questa è la seconda menzogna.
L’enorme verità . Tra queste due menzogne c’è un’enorme verità che è stata sepolta nella nostra memoria collettiva: il fascismo è la negazione della sovranità e della dignità , il brutto gemello del colonialismo. È difficile distinguere tra i due. Dopo tutto, il genocidio era una caratteristica costitutiva del dominio coloniale (si pensi ai sei milioni di persone uccise in Congo, al genocidio dei popoli Herero e Nama dell’Africa sud-occidentale da parte della Germania, al genocidio dei popoli nativi delle Americhe e ai tre milioni di bengalesi morti di fame nel 1943).
Dopo la sconfitta del fascismo tedesco e del militarismo giapponese, olandesi, francesi e britannici, insieme ai loro alleati statunitensi, tornarono a rivendicare le loro colonie in Indonesia, Indocina e Malaya. La violenza di queste guerre coloniali negli anni ’40 e ’50 è grottesca. Riguardo al tentativo olandese di ricolonizzare l’Indonesia, il leader nazionalista Sukarno disse: “La chiamano azione di polizia, ma i nostri villaggi bruciano, la nostra gente muore e la nostra nazione sanguina per la sua libertà â€. Chin Peng, un comunista malese, disse qualcosa di simile: “Ci siamo ribellati perché abbiamo visto i villaggi morire di fame, le voci zittite dal denaro e dal potereâ€. Il generale Sir Gerald Templer, che guidò l’emergenza britannica in Malesia, dopo una ribellione disse che si trattava di un “villaggio di cinquemila codardi†e affamò gli abitanti negando loro il riso.
I villaggi bruciavano. Gli abitanti morivano di fame. Questa era la realtà del tentativo di riconquista delle colonie e poi della guerra degli Stati Uniti contro la Corea. Quando gli Stati Uniti iniziarono le loro operazioni in Corea, il presidente Harry Truman disse che il suo esercito avrebbe dovuto usare “ogni arma a nostra disposizioneâ€, un commento agghiacciante considerando l’uso delle armi nucleari sul Giappone. Ma non c’era bisogno della bomba atomica, poiché i bombardamenti aerei avevano spazzato via le città della Corea del Nord. Come disse il maggiore generale Emmett O’Donnell al Senato degli Stati Uniti nel 1951: “Tutto è distrutto. Non c’è nulla che meriti di essere chiamato così. Non c’erano più obiettivi in Coreaâ€. Questo era il loro atteggiamento: fascismo o colonialismo, scegliete voi.
I colonialisti occidentali resuscitarono elementi fascisti in Giappone, Corea, Indocina e altri paesi e si allearono con loro per rafforzare un asse internazionale contro i lavoratori, i contadini e i comunisti. Ciò rivela che i colonialisti occidentali non erano affatto antifascisti. Il loro vero nemico era la possibilità che operai e contadini acquisissero chiarezza e fiducia e optassero per un futuro socialista.
La grande verità è che furono l’Armata Rossa sovietica e i comunisti e patrioti cinesi a sconfiggere effettivamente la Germania nazista e il Giappone militarista. Furono queste forze a sacrificarsi maggiormente contro il fascismo e a comprendere l’intima relazione tra fascismo, capitalismo e colonialismo. Non si può essere antifascisti e allo stesso tempo favorevoli al colonialismo o al capitalismo. È semplicemente impossibile. Si tratta di formazioni antitetiche.
La mia mente è ancora a Leningrado nell’agosto del 1942. Ricordo l’orchestra e la Sinfonia n. 7 di Shostakovich. Le truppe naziste circondano la città . Tutto è silenzioso. Poi la musica inizia. Continua per un’ora. E poi, la musica si ferma.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantottesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo OTTANT’ANNI FA IL COMUNISMO SCONFISSE IL FASCISMO E LO SCONFIGGERÀ ANCORA proviene da Potere al Popolo.
Nonostante i 43055 e passa voti raccolti, che sono la testimonianza di una crescita assoluta avuta n questi anni, non siamo riusciti ad eleggere un consigliere regionale.
Non abbiamo rimpianti, perché abbiamo fatto tutto il possibile: una campagna ricca di eventi, dibattito politico sui temi, gli unici a fare banchetti per strada, una lista che ha lottato contro l’astensione.
Se non ci fossimo stati sarebbero state molte di più le persone che non sarebbero andate a votare, tante battaglie quotidiane non avrebbero avuto visibilità di esistere nel dibattito elettorale e tanti elementi politici non sarebbero venuti fuori.
Qual è stato allora il problema?
Il problema è che ormai le elezioni, soprattutto quelle regionali, dimostrano che la politica è entrata in una nuova fase. La prima caratteristica di questa nuova fase è un astensionismo strutturale, che non è nemmeno più di protesta, ma di distanza, di abbandono, di passività rispetto alla vita associata.
È chiaro che quando a votare non va il 56% delle persone tra cui la maggior parte giovani, lavoratori e lavoratrici, abitanti dei quartieri popolari, questo impedisce che ci sia un dibattito sui temi politici e comporta il fatto che a essere determinanti siano i pacchetti di voti e le clientele.
E questo è il secondo punto determinante: la scomparsa del voto di opinione ovvero di un voto basato intorno a orientamenti politici generali. In passato un accordo così evidentemente basso e corrotto tra Fico, De luca, Mastella, Cesaro, etc. avrebbe determinato un voto di protesta, un’indignazione morale, una voglia di cambiamento, soprattutto per chi era di sinistra.
Oggi quel poco di opinione che resta a sinistra è ossessivamente dominata dal voto utile, nello specifico CONTRO la destra e non PER qualcosa, per una visione di società o per una capacità dei leader.
Senza dibattito politico, senza una visione generale, senza una differenza morale tra le figure politiche la democrazia muore ed è davvero assurdo chi festeggia il trionfo tra queste macerie. O meglio, festeggiando dimostra qual è il suo vero interesse: quello che la gente non partecipi alla cosa pubblica, perché nel momento in cui partecipasse la cosa pubblica dovrebbe essere di tutti: comporterebbe una redistribuzione, una cura di ciò che è comune.
E qui veniamo al terzo aspetto: i pacchetti di voti.
Soprattutto in Campania, dove per ragioni storiche il voto è sempre stato più marcatamente clientelare, questo è stato l’aspetto più determinante di queste elezioni. Non è un caso che per vincere Fico ha dovuto imbarcare chi ha questi pacchetti. Basti vedere la distribuzione del voto di Mastella, i vecchi socialisti, e persino Cinque stelle e Avs, se si và a vedere la composizione della lista, il voto di consiglieri, assessori, figure istituzionali in genere, che sono in grado di fare piccoli favori, è determinante nei voti raccolti dalle rispettive liste.
Questo vuol dire che la politica è ridotta ad amministrazione nel senso più basso del termine: entra solo chi è già dentro, potendo garantire piccoli o grandi interventi immediati. Senza però alcuna progettazione, alcun orientamento, alcuna risoluzione reale dei problemi. Un sistema che, è solo questione di tempo, è destinato allo sfascio, ma che nel frattempo nella passività generale, nell’emigrazione e nell’impoverimento accresciuto, riesce a restare in piedi.
Noi come Campania popolare abbiamo provato a batterci contro tutto questo, sempre sapendo che è un compito molto difficile, non perché siamo utopisti, ma perché sappiamo che le nostre vite non possono migliorare se non siamo in grado di mettere fine a questa mala politica e di riportare le persone a interessarsi e a non lasciare che pochi decidano al posto loro.
Un’analisi puntuale del voto ci dice che questo lavoro non è inutile, perché siamo cresciuti dove in questi anni abbiamo lavorato con le case del popolo, dove siamo stati nelle lotte, dove abbiamo candidati stimati per le loro battaglie, basti pensare che nel Comune di Napoli, dove maggiore è il radicamento delle nostre organizzazioni, abbiamo preso 11,205 voti, cioè il 4,18% del totale sulla città . I dati ci dicono anche che spariamo da tutte le zone dove non esiste un dibattito o dove non arriva nemmeno la nostra esistenza.
Questo ci da un’indicazione di lavoro molto precisa. Continuare il radicamento territoriale, continuare a fare crescere una nuova generazione che già ora è stato il vero elemento di questa campagna elettorale. Continuare a recuperare ad una ad una tutte le persone che non si arrendono al fatto che la storia sia già scritta e per contare politicamente bisogna essere “figlio di” o “amico di”.
43.055 voti sono 43.055 persone coraggiose e libere che non dobbiamo disperdere e che anzi vogliamo organizzare sempre meglio in vista delle prossime sfide. Anche per questo già dalla prossima settimana terremo ovunque possibile assemblee e momenti di incontro con la nostra comunità che in questi due mesi di campagna si è allargata, perché pensiamo che in questa fase storica ognuno di noi possa fare la differenza.
Continuiamo a cambiare tutto.
Campania Popolare
Â
L'articolo [CAMPANIA] NON CE L’ABBIAMO FATTA PER POCO proviene da Potere al Popolo.
Negli ultimi mesi si è resa sempre più evidente la necessità di una forza capace di mettere al centro gli interessi di chi lavora, studia e vive nelle nostre città . La crisi sociale, l’aumento del costo della vita, la militarizzazione dei territori e la partecipazione dell’Italia ai processi di guerra dimostrano che l’attuale governo non ha alcuna intenzione di difendere i nostri diritti. È quindi sempre più urgente rafforzare un percorso di mobilitazione che parta dal basso e rimetta al centro i bisogni reali delle persone.
La solidarietà con il popolo palestinese e l’opposizione alle politiche di guerra sono parte integrante di questo percorso. Essere contro il genocidio e il riarmo significa anche opporsi alle ricadute sociali che essi producono nel nostro Paese: tagli ai servizi, peggioramento delle condizioni di lavoro, repressione delle lotte sociali. Per questo riteniamo importante continuare a costruire mobilitazione e consapevolezza, legando le battaglie internazionaliste a quelle sociali sul nostro territorio.
Negli ultimi due mesi abbiamo portato avanti un lavoro diffuso sul territorio, fatto di assemblee, iniziative pubbliche, momenti di confronto nei quartieri e in università , costruzione di legami tra realtà sociali, studentesche e lavorative. È un percorso che non si esaurisce in un singolo appuntamento, ma che punta a rafforzare un movimento capace di incidere.
Lo sciopero generale del 28 novembre rappresenta un primo banco di prova per questa prospettiva. Un momento di verifica della nostra capacità di unire i diversi fronti di lotta e di costruire un’alternativa reale al governo Meloni.
È necessario costruire lo sciopero generale, giorno dopo giorno, coinvolgendo lavoratori e facendo fronte comune con altre realtà politici e sociali.
Per questo il 28 novembre in Veneto partecipiamo, insieme a realtà sociali e sindacali di tutta la regione, alla mobilitazione davanti ai cancelli di Leonardo S.p.A. a Tessera per dire basta all’economia di morte e ai profitti sulla guerra, costruendo una risposta collettiva alla finanziaria di guerra. E prima saremo al fianco dei lavoratori e delle lavoratrici USB in sciopero all’aeroporto di Venezia.
Saremo anche in piazza a Padova nel pomeriggio, alle 18.00 da Piazza Antenore, in una mobilitazione cittadina che inizierà alle 17.00 davanti a Palazzo Bo con il presidio di lavoratori e lavoratrici in sciopero degli appalti dell’Università degli Studi di Padova insieme al corpo studentesco e a ricercatori e ricercatrici.
A Verona saremo in piazza anche il 29 Novembre, in un grande corteo cittadino per la Palestina e contro il riarmo.
Infine, raggiungiamo insieme Roma il 29 novembre per partecipare alla manifestazione nazionale contro la finanziaria di guerra e il governo Meloni insieme a decine e decine di realtà promotrici.
Il governo Meloni non fermerà la guerra, continuerà a tagliare i servizi e a militarizzare le città . Tocca a noi costruire dal basso l’alternativa a questo governo, con la Palestina nel cuore, per i diritti e per una vita dignitosa.
Cambiamo tutto!
L'articolo [VENETO] BLOCCHIAMO TUTTO, CAMBIAMO TUTTO: COSTRUIAMO IL PERCORSO DI LOTTA VERSO IL 28 E 29 NOVEMBRE ANCHE IN VENETO! proviene da Potere al Popolo.
Un’intervista con Carmen Haydeé, candidata al Congresso per il partito di governo LIBRE (Libertad y Refundación), ci offre una visione dettagliata della complessa situazione politica in Honduras, tra elezioni imminenti, accuse di frodi elettorali, una feroce opposizione mediatica e le ambizioni di un progetto di trasformazione sociale ed economica.
Molte sfide contemporanee sono il riflesso della tormentata storia recente dell’Honduras, segnata dal colpo di stato del 2009 che depose il presidente Manuel Zelaya. Questo evento, tuttavia, affonda le sue radici in un passato buio: quello dell’autoritarismo militare fino al 1982, dei decenni degli anni ’80 e ’90, quando il paese visse sotto l’ombra di dittature e “regimi di fatto”. L’Honduras rappresentava una pedina fondamentale per gli interessi statunitensi in Centroamerica, funzionando come una portaerei terrestre nella lotta contro i movimenti di sinistra nella regione, in particolare negli anni ‘70 in quanto parte della strategia politico-militare degli USA contro la Rivoluzione Popolare Sandinista in Nicaragua e il Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale (FMLN) ne El Salvador. Questo sostegno permise a governi autoritari di perpetuare gravi violazioni dei diritti umani, mentre l’instabilità politica e l’impunità gettavano le basi per quelle fragilità istituzionali e sociali che oggi il paese tenta di superare.
Carmen Haydeé proviene da una famiglia di militanti della sinistra clandestina degli anni ’80. Suo padre, Guillermo López, fu rapito dalla Squadra della morte 316 e il suo caso, insieme a quello di altri cinque studenti (il “caso dei sei studenti”), finì davanti alla Commissione Interamericana. Questa eredità familiare di impegno politico fu la sua prima impronta. L’evento che ha risvegliato la sua militanza attiva è stato il colpo di Stato del 2009 contro Zelaya. Da allora, si è organizzata prima in collettivi politici giovanili (l’organizzazione politica Los Rojos) e poi ha fondato iniziative femministe (la Rete delle Giovani Donne Femministe). Dopo la laurea in giurisprudenza, ha ricoperto per un breve periodo la carica di viceministro presso il Ministero dell’Interno, della Giustizia e del Decentramento, per poi rendersi conto che la sua vocazione non era la burocrazia, ma la militanza politica diretta, che ora porta avanti nella corsa al Congresso.
Le prossime elezioni generali del 30 novembre 2025 sono descritte come una “battaglia difficile” da Carmen perchè è in ballo la definizioone della mappa del potere politico nel paese. Il partito al governo, LIBRE, aspira a riconfermare la sua vittoria e a eleggere la seconda donna presidente del Paese, Rixi Moncada, dopo l’attuale presidente Xiomara Castro. L’obiettivo principale è quello di ottenere la maggioranza semplice al Congresso Nazionale (128 scanni), considerata fondamentale per dare continuità al progetto politico e superare lo stallo legislativo. Si voterà inoltre per 198 municipalità .
Si prevede un possibile calo dell’affluenza rispetto alle storiche elezioni del 2021, vinte da Castro con un’ampia partecipazione che rappresenta un’eccezione, data la bassa affluenza registrata fino a quel momento, ma si ritiene che il sentimento che ha portato LIBRE al potere sia ancora forte.
Carmen descrive a grandi linee le differenze all’interno di un partito che si è imposto sulla scena politica honduregna dopo 12 anni di governo del Partito Nazionale e il bipartitismo che aveva dominato per decenni con il partito Liberale, ed esprime la sua speranza che l’unità all’interno della coalizione si ricostituisca rapidamente per affrontare il “nemico più grande”, la destra “estremamente aggressiva”.
Le primarie di marzo 2025 per l’elezione delle candidature alla presidenza, alle amministrazioni locali e al Congresso dei tre principali partiti (Nazionale, Liberale e LIBRE) sono state offuscate da un grave scandalo. Carmen parla di “un’operazione criminale orchestrata dalla destra” in cui le urne elettorali sono state “fatte sparire” e “portate in giro” nelle due città più importanti del Paese (Tegucigalpa e San Pedro Sula). L’obiettivo di questo piano, secondo lei, era quello di screditare il processo elettorale, facendo credere all’opinione pubblica che fossero state le forze del governo a voler gonfiare i risultati. In quel momento, la responsabilità ricadde su un “povero capo dei trasporti”, ma fu anche denunciata la mancanza di trasparenza del CNE (Consiglio Nazionale Elettorale), organo tripartito, e l’assenza di una dichiarazione ufficiale che chiarisse le responsabilità . Nonostante le polemiche, LIBRE ha riconosciuto i risultati e convalidato le elezioni, vista la schiacciante vittoria ottenuta grazie a un programma popolare e innovativo.
Il 29 ottobre, con un’indagine in corso presso il Ministero Pubblico e la divulgazione di alcune registrazioni audio da parte del procuratore generale della Repubblica Johel Zelaya, è stato scoperto il piano di destabilizzazione delle elezioni primarie di marzo, nonché l’esistenza di un piano in corso per annullare le elezioni generali di novembre. Le persone coinvolte in queste registrazioni sono Cossette López, consigliera del Consiglio Nazionale Elettorale per il Partito Nazionale, Tomás Zambrano, leader dello stesso partito, e un militare in servizio attivo di cui non si conosce l’identità . In esse si sente che pianificano l’intervento – attraverso aziende in combutta con questo gruppo – negli appalti logistici e di trasporto del materiale elettorale. D’altra parte, per il giorno delle elezioni parlano della necessità di convincere l’opinione pubblica, attraverso i media e i loro osservatori elettorali, che il candidato vincitore è Salvador Nasralla, il candidato presidenziale del Partito Liberale, che Rixi Moncada supera con un ampio margine nei sondaggi.
Questi fatti dimostrano l’unità del bipartitismo nel piano di destabilizzazione. Bisogna quindi che ci sia forte attenzione anche alle elezioni di novembre poichè già ci sono denunce di tentativi di sabotaggio del processo elettorale.
L’Honduras sta attraversando un processo di trasformazione socioeconomica molto profonda. In un paese in cui i servizi di base sono stati a lungo un privilegio, in quattro anni di governo Xiomara Castro ha ottenuto che più di un milione di persone possano uscire dalla povertà e che oltre 900.000 famiglie honduregne non paghino più per l’energia elettrica. La connettività stradale, la sanità e l’istruzione sono stati settori prioritari per l’attuale governo, che vi ha concentrato oltre la metà degli investimenti pubblici.
Il partito LIBRE punta su un forte asse di giustizia economica, identificata come “democrazia economicaâ€, le cui proposte centrali includono:
Una riforma fiscale e una nuova legge sulla giustizia tributaria: per correggere gli abusi e le esenzioni fiscali “a perpetuità ” concesse storicamente a piccoli gruppi di potere, con l’obiettivo di ridistribuire le risorse verso gli investimenti pubblici.
Il recupero delle finanze pubbliche: una delle prime misure del governo è stata il ritorno al principio della “cassa unica” statale, eliminando un sistema di privilegi per le banche che gestivano il denaro pubblico attraverso trust opachi. La questione fondamentale che si cerca di trasmettere è che non c’è alcuna guerra contro gli imprenditori in generale, ma contro gli imprenditori corrotti e che non contribuiscono al benessere sociale comune.
Il governo di Xiomara Castro ha investito molto in opere pubbliche: sono in costruzione otto nuovi ospedali fuori dalla capitale e migliaia di chilometri di strade per collegare le zone rurali (programma “strade produttive).
Nonostante non abbia il sostegno dell’apparato mediatico, grazie alle azioni intraprese dal suo governo, la presidente Xiomara Castro mantiene un livello di gradimento nazionale pari a 56 punti.
Come in tutti i paesi in cui vi è una forte concentrazione di capitale, i grandi gruppi mediatici non sono mai neutrali. Costituiscono il nucleo di un potere mediatico che non è stato costruito per rappresentare gli interessi della maggioranza sociale, della classe lavoratrice o dei progetti di trasformazione della sinistra.
Questo governo, come tutti quelli che osano sfidare l’ordine costituito, deve affrontare un feroce circolo mediatico. Si tratta di una macchina ben oliata i cui ingranaggi – i grandi quotidiani, le televisioni private, i programmi di intrattenimento – lavorano in sincronia per costruire un unico racconto: il racconto del potere, il cui obiettivo non è informare, ma disciplinare.
Ancora più evidente questa operazione poichè il piano mediatico controllato dall’oliogopolio economico e politico è quello di tornare allo status quo antecedente alla vittoria di LIBRE e si esplicita nella strategia propagandistica chiamata Plan Venezuela. Secondo i detrattori del governo LIBRE, è in atto un piano di “venezuelizzazione†di Honduras che si compirà con Rixi Moncada e convertirà il paese in una dittatura socialista. Tutti i grandi media dell’establishment fanno riferimento a questa operazione, martellando la cittadinanza con queste accuse, proprio come era già accaduto in Perù in passato e in altri paesi che avevano la possibilità per forze di sinistra di accedere ai governi di America Latina e dei Caraibi.
Carmen inoltre, racconta che i media privati, abituati a ricevere ingenti fondi pubblici dai governi precedenti in cambio di una copertura favorevole, hanno scatenato un attacco costante quando la presidente Castro ha rifiutato di continuare questa pratica. La strategia di comunicazione del governo si è basata sulla pubblicità a pagamento solo per eventi molto speciali, ma soprattutto sulla visibilità attraverso le opere reali. La presidente ha inaugurato personalmente ponti, strade e scuole, costringendo i media a coprire questi eventi nonostante la linea editoriale ostile.
Si cerca quindi di guadagnare spazio e di informare sui cambiamenti reali che si stanno verificando con questo governo, dove l’unico canale pubblico è seguito da una minoranza minuscola.
Lo sforzo principale si concentra quindi sui social network, con una presenza notevole per poter parlare realmente alla gente comune, per promuovere con tutti i mezzi un’egemonia culturale, elemento costitutivo di un profondo cambiamento nella società .
Al di là della questione nazionale, ci è sembrato opportuno collocare il Paese nel contesto regionale e continentale. LIBRE e, di conseguenza, il Governo, con le dovute differenze, si muove in un contesto regionale in cui la presenza di governi progressisti, sebbene non così egemonica come in passato, continua ad essere rilevante.
Un punto di riferimento del progressismo è il Venezuela, la cui amicizia LIBRE definisce “franca e aperta” e che rappresenta un asse storico fondamentale. Durante la resistenza al colpo di Stato del 2009 contro Manuel Zelaya, Caracas è diventata un bastione di sostegno diplomatico e politico. È un legame che simboleggia la resistenza all’egemonia statunitense e l’adesione a un blocco bolivariano in cerca di rinascita.
La Colombia, sotto il governo di Gustavo Petro, e l’Uruguay sono considerati paesi alleati, il che significa un ponte verso un progressismo più istituzionale. Le relazioni con il governo messicano sono descritte come limitate, in linea con la politica estera di Morena, più incentrata sulle questioni interne. LIBRE mantiene solide relazioni con il PT messicano, che ha una tradizione internazionalista.
La regione più vicina, l’America centrale, è considerata in uno stato di “convulsione” e costituisce il fronte più complesso. Le relazioni con El Salvador, Nicaragua e Guatemala sono apertamente distanti, segnate da profonde differenze ideologiche e non poche difficoltà . Con Bukele, la frattura si dà tra un progetto di socialdemocrazia partecipativa e un altro di populismo autoritario di destra basato su politiche securitarie estreme. Con Ortega, la distanza nasce da una lettura critica, nonostante le comuni radici sandiniste. Questo scenario frammentato mette in evidenza una sfida cruciale per LIBRE: la costruzione di un blocco regionale progressista si confronta con una realtà geopolitica in cui i vicini più prossimi rappresentano, nel migliore dei casi, partner difficili e, nel peggiore, avversari politici dichiarati; ciò rende vitale l’asse con il Sud America.
Il rapporto con Washington è descritto come più fluido del previsto. Dopo un inizio conflittuale (con dichiarazioni forti della presidente Castro sulla sovranità e minacce di rivedere la presenza militare statunitense a causa delle espulsioni), la situazione si è evoluta grazie ad abili negoziazioni. Sono stati avviati tavoli di dialogo su migrazione, estradizione (il trattato, inizialmente denunciato, è stato rinegoziato e mantenuto), un possibile finanziamento statunitense per un canale interoceanico e per progetti di sicurezza regionale. Ci viene riferito che l’amministrazione Trump non ha mostrato un interesse particolarmente ostile nei confronti dell’Honduras, a differenza della tradizionale influenza dei democratici attraverso l’USAID, il cui taglio dei fondi ha indebolito l’opposizione interna.
In uno scacchiere così complicato e con una situazione interna interessante ma instabile, Carmen sostiene che la sfida è quella di costruire una politica diversa, più radicale e di sinistra, coinvolgendo le persone in un nuovo modo di fare le cose.
Resistere al clientelismo non è una semplice questione di stile politico, ma una condizione essenziale per rompere con un modello di Stato predatorio proprio della storia nazionale. Per decenni l’Honduras è stato il prototipo della “Repubblica delle banane”, dove poche aziende straniere, tra cui spiccava la United Fruit Company, non solo controllavano l’economia attraverso le vaste piantagioni del nord, ma disegnavano anche l’architettura stessa del potere politico. Questo modello si è perpetuato nel tempo, trasformandosi: le espropriazioni delle terre comunali per far posto ai latifondi agricoli sono state il primo atto violento di una lunga catena di saccheggi che ha visto una ristretta oligarchia, in simbiosi con il capitale statunitense, appropriarsi sistematicamente del territorio, delle concessioni pubbliche e delle risorse nazionali. Questo blocco di potere ha trasformato la “politica sistemica” in un meccanismo di distribuzione di favori, in cui le stesse famiglie e gli stessi gruppi, elezione dopo elezione, si sono alternati al potere per garantire la riproduzione dei propri privilegi, intrecciando progressivamente legami anche con le economie illegali della criminalità organizzata.
La sfida di LIBRE è quella di non cedere alla riproduzione di quelle stesse dinamiche di conoscenza e favoritismo come unico modo di fare campagna elettorale e di governare. Questo significa costruire un consenso che non si basi sulla distribuzione di piccoli benefici in cambio di lealtà , ma sulla coerenza di un progetto politico, sulla forza di un discorso che parli degli interessi della maggioranza e su una vicinanza autentica, non strumentale, alle comunità . È una scommessa rischiosa: dimostrare che il potere può essere esercitato per servire, non per arricchirsi; che lo Stato può essere restituito ai cittadini, invece di essere utilizzato come bottino da distribuire tra le élite economiche di ieri e di oggi. Solo rompendo questo circolo vizioso sarà finalmente possibile sfuggire all’eredità del dominio straniero.
Un nuovo modo di fare politica significa promuovere la formazione politica a tutti i livelli e combattere la mancanza di speranza perpetuata da troppi anni di violenza e sottomissione. Ciò include anche un approccio diverso all’interno del partito attraverso iniziative sulla memoria storica, il femminismo e i beni comuni.
È in questo scenario che spicca la figura della candidata Rixi Moncada, il cui approccio e la cui scommessa centrale è la democratizzazione dell’economia. In altre parole, che i gruppi economici, che rappresentano l’1% della popolazione ma concentrano l’80% della ricchezza, paghino le tasse e vengano eliminati i loro privilegi fiscali. Ciò consentirà di ampliare le opportunità di accesso al denaro ai dieci milioni di honduregni che muovono l’economia del Paese.
La nostra conversazione si è concentrata inoltre sul femminismo e si è fatto riferimento alla figura così importante per il Paese, e non solo per esso, di Berta Cáceres e sua figlia come esempi di femminismo comunitario e di sinistra, di protezione dell’ambiente e di sfida alle inquietanti trame dei grandi interessi economici (le aziende che promuovono megaprogetti estrattivi ed energetici), dei funzionari corrotti e della violenza e della criminalità organizzata. Berta, rappresentante del movimento ecologista COPINH (Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), è stata assassinata proprio per essersi opposta a un megaprogetto di costruzione di una diga.
Questo approccio popolare e radicale lotta per sopravvivere in un contesto estremamente macista, in cui la religione cattolica ha forte radicamento e la corrente evangelica sta avanzando. Un contesto frammentato in cui lo stesso movimento femminista è disunito, in parte anche a causa dell’immensa presenza della cooperazione internazionale di carattere liberale e, quindi, non del tutto in grado di articolarsi in un movimento unitario e propositivo. Ciononostante, durante il governo della Castro, l’aborto è stato depenalizzato in casi specifici (prima non c’era nessuna circostanza in cui fosse possibile) e si è creato il primo Ministero delle donne e promozione delle politiche di genere.
La sfida del 30 novembre è dunque cruciale: l’entusiasmo popolare chiede a gran voce una continuità delle politiche pubbliche, accesso all’energia e ampliamento dei diritti con una maggioranza congressuale per LIBRE e il consolidamento di Xiomara Castro con la candidata Rixi Moncada che potrebbe segnare questa era con un primato di due presidentesse progressiste di seguito. L’Honduras rappresenta quindi un laboratorio politico da osservare con speranza e vigilanza, nel vortice delle convulsioni che scuote l’intero continente latinoamericano in questo momento storico.
L'articolo L’HONDURAS A UN PUNTO DI SVOLTA: ELEZIONI, SFIDE E IL PERCORSO DI UN GOVERNO PROGRESSISTA proviene da Potere al Popolo.
Martedì 25/11 h 10:30 Piazza del Campidoglio
Appello delle realtà organizzate sui territori contro speculazione, cementificazione e nocività , per la città pubblica
Siamo lavoratori e lavoratrici di Roma, abitanti dei quartieri popolari, organizzazioni, realtà di lotta e comitati attivi sul territorio, impegnati nella difesa dei diritti e dell’interesse pubblico, dei beni collettivi e degli spazi di democrazia. Viviamo quotidianamente la città , i suoi quartieri, le sue contraddizioni e le sue potenzialità . Da questa esperienza nasce la nostra richiesta: restituire centralità alla voce e alle necessità di chi vive la città , tramite la partecipazione e il confronto pubblico, oggi gravemente compressi.
Roma sta attraversando una fase di trasformazione profonda, accelerata dai fondi PNRR e dall’Anno Giubilare. Risorse che avrebbero potuto rafforzare diritti, servizi e coesione sociale stanno invece consolidando un modello decisionale accentrato, opaco e finalizzato agli interessi di privati e speculatori. Di fronte a una città in ginocchio, con l’esplodere di contraddizioni enormi sul piano sociale e di lavoro, democratico e ambientale, l’amministrazione governa sempre più attraverso procedure straordinarie anche in assenza di emergenza, con tempi e percorsi che impediscono un reale confronto pubblico.
Pressata da scadenze fissate a livello nazionale ed europeo, e spesso in ritardo strutturale, la macchina amministrativa accelera: appalti accelerati, progettazione a tappe forzate, processi di condivisione con la cittadinanza ridotti al minimo. Si chiede a chi opera nei territori, nei servizi, nelle reti sociali e nei cantieri una disponibilità incondizionata, a realizzare senza discutere, a eseguire senza poter contribuire realmente alla definizione delle priorità . È dunque una interlocuzione limitata e unilaterale, spesso ridotta a ratifica o adesione passiva.
Così il “Modello Giubileo†si afferma come “Modello Romaâ€: governo per eccezione, centralizzazione delle decisioni, marginalizzazione del ruolo degli organi rappresentativi. Una direzione confermata da una convergenza politica trasversale che rende sempre più labile la distinzione tra maggioranza e opposizione.
Nel frattempo, la città reale parla, con forza e determinazione. Quartieri popolari e periferie, realtà sociali e culturali, movimenti per la casa e per l’ambiente si mobilitano su terreni decisivi: diritto all’abitare contro sfratti, sgomberi e speculazioni edilizie, servizi pubblici contro le privatizzazioni, gestione dei rifiuti, verde e spazi urbani, salute, mobilità , diritti sociali, difesa del patrimonio pubblico e contrasto al consumo di suolo. Sono state organizzate manifestazioni partecipatissime al Campidoglio per ribadire la contrarietà a questo modello, contro le grandi opere del nuovo stadio della Roma, del porto crocieristico di Fiumicino,
dell’inceneritore e dei biodigestori e la grande speculazione degli ex-Mercati Generali, per una città pubblica che rimetta al centro i diritti di tutti gli abitanti di Roma e dell’area metropolitane.
Sono richieste concrete e legittime, che troppo non trovano ascolto: decisioni calate dall’alto, procedure blindate, e talvolta ricorso alla forza pubblica contro chi difende diritti e beni collettivi.
A ciò si aggiunge la scelta dell’amministrazione rispetto al genocidio in corso a Gaza: nonostante una mobilitazione cittadina ampia e trasversale, Roma ha mantenuto continuità politico-commerciale con lo Stato d’Israele, ad esempio attraverso i rapporti che la partecipata ACEA intrattiene con l’azienda idrica israeliana Mekorot, attivamente impegnata a sottrarre risorse idriche alle persone palestinesi nei territori occupati, o attraverso la distribuzione nelle farmacie comunali dei prodotti dell’azienda farmaceutica Teva. Questa cooperazione, insieme alla timidezza nell’esprimere solidarietà contro il massacro perpetrato a Gaza e in Cisgiordania, evidenziano una distanza profonda tra istituzioni e società su temi fondamentali di dignità e giustizia.
Non siamo di fronte a un problema tecnico: siamo davanti a una crisi sociale, politica e democratica. Quando l’urgenza diventa prassi, quando la partecipazione è compressa, quando la città viene governata come un’emergenza permanente, la democrazia si svuota e a pagare il prezzo sono coloro che vivono e lavorano a Roma.
Per questo chiediamo la convocazione urgente di un Consiglio Comunale Aperto il 25 novembre p.v.. in cui si discutano tutte le vertenze e le rivendicazioni sulle questioni della speculazione e della cementificazione in città . Non un gesto simbolico, ma un atto necessario per riaprire spazi di ascolto, trasparenza e responsabilità politica. Roma ha bisogno di un luogo in cui le scelte che la trasformano siano discusse apertamente e confrontate con le esigenze e le voci della città .
Chiediamo a tutte le consigliere e i consiglieri capitolini di farsi promotrici/promotori di questa convocazione e di assumere pienamente la responsabilità che deriva dal loro mandato democratico.
In attesa di un riscontro chiaro, continueremo a rendere pubblica questa richiesta e a sostenerla nelle piazze, nei territori e nelle reti civiche della città .
Primi firmatari:
Realtà Indisponibili Organizzate sui Territori
Movimento per il diritto all’abitare
Federazione Roma Unione Sindacale di Base
Coordinamento Si Parco Si Ospedale No Stadio
Arci Roma
Potere al Popolo Roma
Comunità per le Autonome Iniziative Organizzate – CAIO
ASIA-USB
Circolo ARCI Pietralata
Ecoresistenze
Difendiamo Casal Selce- No Biodigestore
Cambiare Rotta
Donne de Borgata
Collettivo Balia dal Collare
Macchia Rossa
Opposizione Studentesca d’Alternativa – OSA
Pietralata Unita
Zona verde
Comitato Tutela Alberi Monteverde – TAM
Comitato No Corridoio Roma-Latina
Associazione vita di donna-ODV
Casa del Popolo Monterotondo Scalo
Comitato Stadio Pietralata No Grazie
Rete Tutela Roma Sud e Castelli Romani
Strutture USB- AMA, ACEA, TPL
Rete Ecosocialista
Collettivo No Porto Fiumicino
Cortocircuito
Tor Marancia Naturale
Associazione Walter Rossi
Collettivo X – Roma nord ovest
Mera 25 Roma
Associazione Vitinia Bene Comune
Comitato Caravaggio: uniti contro le torri!
Coordinamento No Inceneritore
Tavoli del Porto
L'articolo [ROMA] RECLAMIAMO INSIEME UN CONSIGLIO COMUNALE APERTO proviene da Potere al Popolo.
Cosa sta succedendo in Venezuela? Una lezione di lotta contro l’imperialismo. Â
Mentre gli Stati Uniti avviavano l’operazione “Southern Spear” con la portaerei USS Gerald R. Ford al largo del Venezuela, una nostra delegazione era a Caracas per una conferenza internazionale organizzata dal Consiglio Nazionale per la sovranità e la pace. In questo clima di minacce statunitensi pretestuose, abbiamo però trovato una città non militarizzata, che continua a vivere normalmente la propria quotidianità , con le sue difficoltà . Dopo gli incontri istituzionali, ci siamo immersi nella realtà delle “comunas”, l’autogoverno popolare bolivariano. Per capire come dal basso si porta avanti la lotta contro l’imperialismo, abbiamo parlato con Juan Carlos Lenzo, dirigente dell’Unión Comunera e militante dei movimenti popolari e internazionalisti sin dai primi anni 2000.
Gli Stati Uniti stanno aumentando la tensione con il dispiegamento di portaerei, navi da guerra e minacciando un attacco militare. Eppure, la realtà che stiamo vedendo qui a Caracas è di grande tranquillità . Come sta vivendo il popolo venezuelano questo nuovo attacco da parte dello stato imperialista statunitense?
Il clima che prevale in Venezuela, nonostante la minaccia, è di calma e tranquillità . La gente continua la propria vita quotidiana. Anzi, a breve, il 23 novembre, ci sarà una consultazione nazionale popolare in cui le organizzazioni comunali voteranno il progetto che considerano prioritario per la loro comunità . In termini generali, quindi, il clima è tranquillo e di accettazione. La preoccupazione principale rimane la questione economica: l’inflazione, infatti, si è accentuata nell’ultimo mese, impattando sul potere d’acquisto e sulla qualità della vita. Ma nel complesso, la situazione è serena.
Purtroppo, sappiamo che gli Stati Uniti hanno già attaccato il Venezuela in passato, in vari tentativi di destabilizzare il Paese e insediare un leader scelto da loro. In che modo le “comuna” e l’organizzazione popolare aiutano a combattere l’imperialismo?
La rivoluzione bolivariana, fin dal suo inizio, è stata oggetto di aggressioni da parte dell’imperialismo nordamericano, ma ha sempre saputo contrastarle e difendersi. Colpi di stato, tentati omicidi, guerra economica, pressione diplomatica e, più recentemente, sanzioni: le oltre 900 sanzioni imposte al Venezuela hanno avuto conseguenze gravissime sulla vita economica e sociale della nazione. Tutte queste difficoltà ci hanno insegnato una strategia fondamentale, basata su due pilastri: l’organizzazione popolare e l’unione civico-militare. Il popolo ha abbracciato il principio della democrazia partecipativa e dal basso. Già nel 2006 si iniziarono a costruire le organizzazioni comunali, e nel 2009 nacquero le prime comuna. Questo ha garantito al popolo un alto livello di partecipazione politica, mobilitazione, organizzazione e capacità di risolvere i propri problemi, ma anche di difendere il proprio territorio ed esercitare la sovranità . Un popolo che si mobilita, organizzato e cosciente è un’arma potentissima contro qualsiasi aggressione, esterna o interna. Questo permette di contenere varie forme di attacco: sia sul piano della guerra cognitiva, perché il popolo esercita la propria coscienza e comprende a fondo il senso della rivoluzione, sia sul piano di una guerra territoriale, perché le comuna esercitano la sovranità sul proprio territorio. Grazie a esse, ad esempio, si sono evitati fenomeni di aggressione e violenza, imparando a respingere azioni contro la sovranità nazionale. Anche sul piano economico-produttivo, le comuna sono un muscolo che permette di garantire scorte alimentari per qualsiasi evenienza. Già durante la crisi economica del 2017-19, furono i produttori agricoli (campesinos) delle comuna a distribuire cibo, evitando che il popolo venezuelano sprofondasse in una situazione di fame nera. Nonostante il sabotaggio della borghesia, si riuscì a distribuire alimenti alla popolazione, contenendo così la crisi.
Tutte le organizzazioni comunali hanno il dovere storico di mantenere viva la fiamma socialista e insistere nel cammino della rivoluzione. Come diceva Chávez, è nelle comuna che si costruisce il socialismo. Nelle nostre mani risiede la possibilità concreta e reale di continuare a forgiare, attraverso i territori comunali, l’opzione socialista come unica via per trascendere la logica nefasta del capitalismo.
E invece, nel continente, tra il premio Nobel a Maria Corina Machado e le destre che attaccano qualsiasi alternativa anche minimamente progressista, che aria tira?
La situazione nel continente è complicata. Da un lato, abbiamo il governo di estrema destra di Milei in Argentina e Bukele in El Salvador; dall’altro, emergono alternative progressiste come Sheinbaum in Messico, Petro in Colombia e Lula in Brasile. Ogni territorio vive una propria situazione complessa: si pensi alle proteste della Generazione Z in Messico o alle tensioni verso il governo di Petro, con l’avanzata della destra colombiana, che lasciano poco margine di manovra. Qualcosa si muove anche in Cile, dove Jara ha vinto il primo turno delle presidenziali, ma il candidato Kast ha alte probabilità di vincere il ballottaggio, rappresentando un altro elemento di estrema destra nel continente. In questo scenario, la posizione di Petro in Colombia e di Lula in Brasile, che rifiutano qualsiasi intervento nordamericano in Venezuela, è determinante. Aiuta a riequilibrare le relazioni geopolitiche, ma non possiamo negare che la situazione sia complicata e che il Venezuela debba far fronte a questo panorama, nel solco dell’aggressione che si avvicina. Anche l’assegnazione del premio Nobel a Maria Corina Machado rientra nell’intenzione dei poteri internazionali di promuovere una figura di estrema destra nel continente, conferendole legittimità e riconoscimento. Ritengo che questa sia una congiura, in sintonia con la tendenza dell’Impero a riprendere il controllo del suo “cortile” latinoamericano, anche in risposta alla crescente influenza di Cina e Russia nella regione.
A questo punto non rimane che una domanda: che cosa possiamo fare noi, come compagne e compagni internazionalisti, per sostenere la rivoluzione bolivariana?
Cosa possono fare i compagni al di fuori del Venezuela? Penso che, come esercizio di solidarietà fondamentale, sia cruciale informare e comunicare ciò che sta realmente accadendo qui. Le grandi corporazioni mediatiche hanno diffuso una narrativa fatalista sulla rivoluzione bolivariana. Il compito primario dei compagni e delle compagne, dei movimenti e del popolo organizzato nelle altre nazioni, è quindi quello di raccontare la realtà dei fatti, ciò che succede veramente e come viviamo qui, con le sue luci e le sue ombre, i suoi punti di forza e le sue debolezze, i suoi successi e le sue contraddizioni. Credo, inoltre, che sia ugualmente importante organizzarsi per venire a conoscere di persona come vive e cosa fa il popolo venezuelano: come si organizza per la resistenza e come, nel mezzo di questo processo, stia costruendo una società nuova.
L'articolo IL NOSTRO VIAGGIO NEL VENEZUELA ASSEDIATO DA TRUMP. INTERVISTA A JUAN CARLOS LENZO DE LA UNION COMUNERA proviene da Potere al Popolo.