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[TOSCANA] UN ALTRO LAVORATORE MORTO A CARRARA! INTRODURRE IL REATO DI OMICIDIO SUL LAVORO!
Data articolo:Tue, 29 Apr 2025 14:12:42 +0000

Nella giornata mondiale della sicurezza sul lavoro Paolo Lambruschi ha perso la vita, schiacciato dal mezzo che guidava sprofondato in una cava di marmo a Carrara.
Nella rabbia ci stringiamo ai suoi cari, rivendicando ancora una volta la necessità dell’introduzione del reato di omicidio!
Siamo di fronte ad un governo Meloni che trova il tempo di introdurre ogni impensabile reato, ma che proprio sul reato di omicidio sul lavoro, da imputare alle responsabilità padronali, ha già espresso la sua totale indisponibilità. Così come sul piano regionale ci scontriamo con l’ipocrisia di Giani, che dopo essersi espresso a favore della sua introduzione in seguito alla strage dei 5 operai nel cantiere Esselunga di Firenze, non ha dato seguito con alcun atto concreto!
Le morti sul lavoro non sono fatalità, ma veri e propri omicidi, le cui responsabilità sono tutte in capo ad una classe padronale e a chi li rappresenta, dalla destra al centrosinistra, che trattano la sicurezza sul lavoro come un orpello da sacrificare a tutti i costi sull’altare del profitto.
Con questo comunicato sosteniamo gli scioperi e le mobilitazioni dei lavoratori!

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GIÚ LE ARMI SU I SALARI. IL FOGLIO DEL PRIMO MAGGIO 2025 DI POTERE AL POPOLO!
Data articolo:Tue, 29 Apr 2025 07:27:24 +0000

Questo primo maggio abbiamo raccolto in un “foglio†alcuni comunicati di Potere al popolo che riguardano la festa dei lavoratori. Pensiamo che di fronte alle politiche di riarmo e alla necessità di opporvisi con la manifestazione del 21 giugno, ai 5 referendum abrogativi che ci vedranno tutte e tutti protagonisti l’8 e il 9 giugno, servano posizioni chiare. Abbiamo di fronte un governo “sovranista†a parole, scendiletto del capitale a base USA nei fatti, che punta a mettere al sicuro da un lato i dividendi dell’industria bellica, dall’altro i profitti della borghesia italiana “chiagni e fottiâ€, mandando al macero un intero patrimonio industriale ed erodendo i diritti dei lavoratori.

Il titolo di questo post, “Giù le armi, su i salariâ€, è più di uno slogan, è un programma di lotta. Solo affrontando di petto la questione salariale, a partire dall’introduzione di un salario minimo di 10 euro l’ora agganciato all’inflazione, si può invertire il trend di impoverimento progressivo dei nostri.

Solo impedendo il Rearm Eu e il trasferimento dei nostri soldi verso le spese militari, per più spesa e sicurezza sociale, possiamo restituire dignità alle classi popolari italiane ed europee.

Solo sganciandosi dal riarmo, cioè della Nato, si possono fermare i venti di guerra.

Solo buttando a mare la zavorra di una classe politico-imprenditoriale che punta a salvaguardare i propri interessi e i propri profitti senza nessuna strategia di paese,  potremo organizzare il futuro.

Di seguito trovate gli articoli raccolti nel foglio.

Buona lettura!

 

“Il travaso di ricchezza dai lavoratori al capitale è stato pazzescoâ€. Parola di Riccardo Gallo, docente impegnato in uno studio dell’Osservatorio Imprese dell’Università La Sapienza di Roma sulla dinamica dei redditi nell’industria italiana. Mentre il Governo celebra record su record e Meloni si vanta di “mai così tanti occupati dai tempi di Garibaldiâ€, la realtà per i lavoratori e le lavoratrici dice altro. Nel 2023 il giro d’affari delle imprese di medie e grandi dimensioni era superiore del 34% a quello del 2019, anno precedente alla pandemia. Stessa dinamica per il valore aggiunto: +33%. Più ricchezza prodotta, quindi. Qui sulla terra, però, non ce ne siamo accorti. Perché la quota che è andata a finire nei redditi dei lavoratori è calata del 12%; quella nelle tasche degli azionisti è invece schizzata del +14%.

Com’era la favoletta secondo cui per far stare meglio chi lavora bisogna produrre più ricchezza? La verità è che se non si cambiano i rapporti di potere nella società, la maggiore ricchezza prodotta andrà sempre e solo a ingrassare i ricchi e potenti, non certo i lavoratori e le lavoratrici. Negli ultimi 30 anni l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui i salari medi sono calati (-2,9%) anziché aumentare e dal 2008 a oggi sono crollati addirittura dell’8,7%, a causa dell’inflazione. Se l’aumento dei prezzi ha gonfiato i profitti – soprattutto di banche, farmaceutica, imprese energetiche, assicurazioni – è perché ha fatto crollare il già scarso potere d’acquisto di lavoratori e lavoratrici, soprattutto di quelli che guadagnano meno. Profitti e salari non sono due rette parallele, ma l’una dipende dall’altra. Quando i profitti si impennano è perché i salari sprofondano. Col risultato che oggi 1 operaio su 7 è a rischio povertà: non basta più avere un lavoro per uscire dalla trappola della povertà.

Non è frutto del caso, o della sfortuna, ma di decisioni del potere politico – tanto delle destre quanto del centrosinistra – a tutela di quello economico. Con la giustificazione da parte del potere mediatico, prontissimo a sputare veleno contro giovani e meno giovani che “non hanno voglia di lavorareâ€, “non sanno cosa sia il sacrificioâ€, ecc.. Almeno da trent’anni, ogni norma “dedicata†al mondo del lavoro ha prodotto un arretramento per chi lavora e un avanzamento per il capitale. Terreno inaugurato dalla stagione della concertazione di inizio degli anni ‘90 e che ha significato il disarmo del sindacato di fronte agli attacchi padronali.

Tutto accompagnato dalla continua frammentazione della classe lavoratrice, attraverso leggi, contratti (l’invenzione di decine di forme contrattuali diverse, così che sullo stesso posto di lavoro per la stessa mansione si trovano persone con contratti differenti o dipendenti di aziende diverse), e ideologica (a partire dal razzismo, che prima che arma “culturale†è arma “materiale†nel separare i destini di chi invece è accomunato dagli stessi interessi).

Se oggi l’ultradestra di Meloni affonda come il coltello nel burro è perché altri questo burro l’hanno preparato.Per invertire la rotta serve un cambio di orizzonte. A partire dalla consapevolezza che mai come oggi abbiamo vissuto una tale divaricazione tra le potenzialità del nostro tempo e le condizioni reali. Abbiamo tecnologie per poter alleggerire il lavoro di milioni di lavoratori e lavoratrici. Condizioni che permetterebbero una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. O, anche, con salari più alti. A patto di attaccare i profitti.

La pandemia ci ha reso chiaro che non abbiamo bisogno di miliardari come Bezos e Musk e che il mondo si regge su lavoratrici delle pulizie, cassiere, operai, facchini, braccianti e sulle anonime spalle di milioni di lavoratori e lavoratrici. Cambiare i rapporti di potere significa mettere il nostro mondo nelle mani di chi lo produce e riproduce, togliendolo da quelle di eccelle solo nell’arte del parassitismo e dello sfruttamento. Gli stessi che oggi spingono per il riarmo pagato dai soldi dei lavoratori per ingrassare le imprese belliche e fare la guerra ad altri lavoratori. Dopo questo 1 maggio, organizziamo una manifestazione nazionale a Roma in occasione del vertice NATO, contro il riarmo, che sia europeo o nazionale, e contro l’Alleanza Atlantica che spinge per più soldi alle armi e più guerra.

Vogliamo abrogare il Jobs Act del PD in uno dei suoi punti più iniqui: la libertà di licenziamento. Tornare alla piena applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che stabiliva che chi è licenziato INGIUSTAMENTE deve essere reintegrato nel posto di lavoro. Cancellare il Jobs Act non basta: se vince il sì si torna alla norma Fornero, che già colpiva il diritto al reintegro. Un “sì†è per un primo passo, non certo l’ultimo.

Vogliamo che anche i lavoratori delle piccolissime imprese, per cui non vale l’articolo 18, abbiano diritto a un ampio risarcimento del danno subìto, abrogando le norme che riducono ciò che deve pagare l’impresa.

Vogliamo che le imprese assumano con contratto a termine solo con motivate ragioni, abrogando le norme che permettono contratti precari senza alcun vincolo.Vogliamo che quando chi lavora in un’impresa in appalto viene colpito nella salute, nella stessa vita, sia chiamata a risponderne anche l’impresa che ha dato in appalto l’attività. Un “sì†serve ad abrogare le norme che oggi permettono alle imprese appaltanti di sfuggire alle proprie responsabilità.

Vogliamo che chiunque lavori in Italia abbia gli stessi diritti, che i lavoratori migranti dopo 5 anni possano chiedere di diventare cittadini italiani e sfuggire così a caporalato e schiavismo, alimentati dal ricatto del permesso di soggiorno. Un “sì†per abrogare le norme che allungano a 10 anni e rendono più difficile la domanda di cittadinanza.

A 18 mesi dall’abolizione del Reddito di Cittadinanza, tra le prime misure adottate dal governo Meloni, gli indicatori certificano il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei settori popolari della società meridionale.

Eppure un’interessata propaganda tende ad accreditare un’immagine di una sorta di rinascita meridionale all’insegna delle performance economiche derivanti dai processi di turistificazione selvaggia e da ciò che potrebbe venire dall’implementazione su vasta scala delle famigerate ZES (Zone Economiche Speciali).

Per le vaste platee di disoccupati di lunga durata, con scarsi livelli di scolarizzazione e di capacità professionali e, significativamente, per quanto riguarda il destino di centinaia di migliaia di donne proletarie – la cancellazione del Reddito di Cittadinanza è stata una mazzata. Pur coi suoi limiti e contraddizioni, il RdC aveva permesso di ridurre le diseguaglianze, soprattutto al Nord, e di abbassare i livelli di povertà, soprattutto al Sud. Di rifiutare offerte di lavoro semi-schiavistiche, che oggi tornano ad abbondare. La sua eliminazione, infatti, ha contribuito ad abbassare gli oggettivi livelli di contrattazione individuale a fronte di un’offerta lavorativa totalmente deregolamentata.

Una condizione che scontano anche le altre tipologie di lavoratrici e lavoratori: gli effetti destrutturanti di questo attacco al Salario Sociale e a ciò che residua del sistema di Welfare State toccano tutti. Se c’è chi, più di prima, è costretto ad accettare salari da fame e lavoro irregolare, vuol dire che l’intera classe lavoratrice è più debole.

Al Sud – dove persino i progetti collegati ai Fondi PNRR si stanno rivelando una l’ennesima occasione di speculazione e di aggressione antiproletaria – c’è bisogno di una stagione politica di Meridionalismo Popolare per rimettere al centro dell’iniziativa la difesa intransigente dei nostri diritti e della nostra vita costruendo quell’indispensabile spazio politico indipendente fuori e oltre le consumate liturgie di una “sinistra†e di una “variante populista†che nulla di buono hanno comportato per il mondo del lavoro, i ceti popolari e gran parte della nostra gente.

Il salario è il cuore dello scontro tra capitale e lavoro. Mentre le imprese comprimono i redditi per massimizzare i profitti, i lavoratori sono costretti a lottare per condizioni minime di dignità. In Italia, dove 5 milioni di persone guadagnano meno di 10€ l’ora, la battaglia per un salario minimo legale è un atto di resistenza contro lo sfruttamento strutturale.

Per decenni la contrattazione collettiva ha difeso e incrementato i salari. Il meccanismo si è rotto a partire dagli anni ‘90. Oggi la battaglia per i salari deve investire l’intera società. La classe lavoratrice è frammentata: interi settori sono dominati da lavoro precario, nero o “grigioâ€. Milioni di lavoratori restano senza tutele, spesso la paura della disoccupazione e la mancanza di organizzazione rendono difficile lottare. La nostra Legge di Iniziativa Popolare per un salario minimo di 10€ l’ora nel 2023 ha raccolto più di 70.000 firme: nessuno in Parlamento si è fatto carico di portarla alla discussione. Né le destre, contrarie al salario minimo; né il centrosinistra, che pure ne fa un punto di propaganda.

Non per questo la lotta è finita! Oggi più che mai serve un salario minimo che fermi la corsa al ribasso dei salari, ridia potere ai lavoratori, sia un primo passo verso una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Per questo abbiamo rilanciato la battaglia per un salario minimo anche su base comunale e regionale. Il Primo Maggio siamo in piazza anche per questo: senza salari dignitosi, non c’è giustizia sociale.

Dal governo grandi proclami sul record del tasso di occupazione, ma nessuno parla del “come†lavoriamo.

Il mondo del lavoro offre un quadro desolante: salari così bassi che non ci fanno arrivare a fine mese, contratti irregolari o totalmente inesistenti, precarietà, diritti non rispettati, ricatti e violenze per lavoratori e lavoratrici migranti. Se si è soli, denunciare queste situazioni di sfruttamento, battersi per il rispetto dei propri diritti, tra costi e paura di ripercussioni, non è facile.

Per questo abbiamo aperto nelle nostre sedi sportelli legali e Camere Popolari del Lavoro offrendo non solo un’assistenza legale gratuita, ma campagne informative e politiche: grazie al lavoro collettivo, al supporto reciproco, alla lotta e all’organizzazione si possono strappare vittorie precedentemente impensabili. Lo dimostra la contrattualizzazione, il miglioramento delle condizioni lavorative e le decine e decine di migliaia di euro rimesse nelle tasche dei lavoratori che si sono rivolti a noi, che hanno percorso questo pezzo di strada con noi.

Non sono parole su un foglio, ma fatti. Realtà. Una realtà che ci aiuta a vedere tutti gli attori nella giusta prospettiva. Così, magari, quell’imprenditore che ci sembrava tanto potente si sgonfia come un pallone gonfiato. Perché la loro arroganza riposa sulla convinzione che saremo sempre in ginocchio.

Sportelli legali e Camere Popolari del Lavoro sono un pezzo di quel tessuto che stiamo costruendo per rialzarci in piedi, guardare negli occhi chi ci sfrutta ogni giorno e riprenderci quello che ci spetta.

Secondo i recenti dati ISTAT, l’occupazione femminile italiana a fine 2024 è la più bassa in Europa: quasi 9 milioni di donne sono disoccupate o inattive. Sono le stesse istituzioni ad ammettere che, nella maggioranza dei casi, è proprio quel lavoro di cura e assistenza familiare, storicamente delegato alle figure femminili, ad impedire l’entrata o a determinare l’uscita dal mondo del lavoro alle donne.

Noi però non siamo e non vogliamo essere solo angeli del focolare, vogliamo essere riconosciute nel lavoro che facciamo, dell’istruzione che abbiamo e festeggiare un lavoro dignitoso e paritario: le donne sono il segmento di classe lavoratrice più soggetto a part-time involontario, contratti precari e paghe basse. Spesso siamo relegate in lavori che ricalcano il lavoro di cura che svolgiamo, senza alcuna retribuzione, dentro le mura domestiche.

Vogliamo lavorare tutte per lavorare meno e non dover fare rinunce. Per questo rivendichiamo la settimana lavorativa di 32 ore su 4 giorni a parità di salario:in tanti Paesi in Europa la stanno sperimentando, è ora che si inizi anche in Italia. Come dicono nel Regno Unito: “Friday is the new Saturday!â€

L’omicidio sul lavoro di Yassine Bousenna, 17 anni, morto alcuni giorni fa a Nocera Inferiore (SA) e abbandonato senza documenti al Pronto Soccorso, è l’ennesimo accaduto “il primo giorno di lavoro”. O, almeno, è questa la menzogna che i padroni sempre ci ripetono, facendo appello alla tragica fatalità. La verità è il segreto di Pulcinella: lavoratori in nero che, post mortem, vengono coperti dall’avvio di un contratto di lavoro che mai gli era stato offerto in vita.

L’omicidio di Yassine, come quelli di Satnam Singh, Patrizio Spasiano, Luana D’Orazio, Nicolò Giacalone, Mattia Battistetti e di centinaia di altri lavoratori ogni anno, sono la norma.

La multa per chi assume in nero è proporzionale agli effettivi giorni di impiego che, guarda caso, non vanno mai oltre il primo. La legge riproduce il puro calcolo economico fatto dagli imprenditori sulla nostra pelle: “quanto ci guadagno assumendo un lavoratore a nero? Di quanto aumenta la produttività se violo le norme di sicurezza sul lavoro? E, se mi scoprono, quali sono i rischi per il mio profitto?”.

Agli imprenditori conviene mentire, barare, truffare. Grazie ai governi di ogni colore politico i controlli sono stati indeboliti e le imprese sanno che presumibilmente la faranno franca. E se ci scappa il morto? Nella sua furia panpenalista, il Governo Meloni guarda caso ha dimenticato di inserire un reato che potrebbe servire a difendere i lavoratori: quello di omicidio sul lavoro.

Così le imprese scaricano il costo della competitività sulle teste di noi lavoratori: ogni giorno piangiamo 3 omicidi, commessi sui luoghi in cui produciamo la ricchezza che ci è poi sottratta. Questa strage deve finire adesso.

Dopo l’allentamento delle tutele sui contratti a termine introdotto con il Decreto Lavoro del 2023, il governo continua a spingere sulla strada della precarizzazione. Con il recente Collegato lavoro (legge 203/2024), emergono due interventi di particolare rilievo.

In primo luogo l’introduzione delle “dimissioni per fatti concludenti†dopo 15 giorni di assenza ingiustificata: una misura che, nei contesti lavorativi meno sindacalizzati o caratterizzati da scarsa comprensione della lingua italiana, può trasformarsi in un grimaldello per i datori di lavoro, utile a mascherare licenziamenti illegittimi.

In secondo luogo viene ampliata la definizione di “attività stagionale” per includere anche quelle derivate dall’intensificazione dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno o legate a cicli produttivi o di mercato specifici. Lasciando ampi margini alla definizione delle stesse alla contrattazione collettiva. La modifica tende a svuotare il contratto a termine per far convergere sempre più rapporti di lavoro dentro la categoria del contratto stagionale, caratterizzato da minori garanzie.

Secondo il CNEL nel 2024 l’84% dei contratti di lavoro stipulati sono stati contratti temporanei, il 34% di questi pari o inferiori a 30 giorni. In questo contesto il governo ha una strategia precisa: rendere strutturale una sempre maggiore quota di lavoro povero e precario.

RITORNO AL FUTURO. Per le Canarie il turismo rappresenta il 36,8% del PIL. E il 33,8% della popolazione delle Canarie vive in condizioni di povertà. Alla faccia del turismo che porta ricchezza. Nella settimana di Pasqua, con un tasso di riempimento degli alberghi vicino al 100%, il sindacato delle lavoratrici delle pulizie, Kellys Unión Tenerife, ha proclamato sciopero. Le lavoratrici chiedono che “i profitti che finiscono in poche tasche [vengano] redistribuitiâ€, l’abbassamento dell’età pensionabile a 58 anni, il riconoscimento delle malattie professionali, letti facilmente elevabili. Allo sciopero ha aderito il 70% del personale addetto ai piani.

IL RICATTO DELLA JABIL. “30mila euro di buonuscita o accettate la nuova proprietàâ€, è il ricatto della multinazionale Jabil ai 408 lavoratori dello stabilimento di Marcianise (CE). Le risposte devono arrivare entro il 6 maggio. Il Governo Meloni, anziché respingere l’arroganza della multinazionale USA, sta appoggiando il piano di vendita e Invitalia è già della partita, insieme alla “piccola†TME, che dovrebbe acquisire il gigante Jabil.
In lotta anche 130 lavoratori ex Jabil, oggi Softlab, che protestano anche perché da mesi non percepiscono né stipendio, né cassa integrazione.

ITALIANI, POPOLO DI EMIGRANTI. La vera emergenza è quella di chi se ne va, spesso per non fare più ritorno. Nel 2024 ben 156mila cittadini italiani sono emigrati all’estero. Un boom rispetto al 2023. Il 70% è sotto i 39 anni, vale a dire 113mila. Tra le cause le reali condizioni di lavoro presenti in Italia: salari bassi, precarietà, poco rispetto e prospettive. Se guardiamo agli ultimi 20 anni è un’ecatombe, soprattutto per il Sud. Un tema, però, a cui né potere politico né potere mediatico sembrano prestare attenzione.

FINO A CHE CE NE SARÀ Continua la lotta degli operai ex-Gkn che da luglio 2021 lottano contro la chiusura del loro stabilimento per delocalizzazione. Gli operai non ricevono la CIG dal dicembre 2023 e lo stipendio dal gennaio 2024. Nonostante ciò il Collettivo di Fabbrica ha presentato un piano di reindustrializzazione dal basso che prevede di riattivare la produzione per l’installazione e il recupero di pannelli fotovoltaici e la produzione di cargo-bike elettriche. Lo stabilimento però è stato svenduto dagli attuali proprietari e potrebbe essere oggetto di speculazione. Il tutto sotto il naso del Governo “sovranista”, che continua a non alzare un dito contro multinazionali e speculatori.

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Emilia Romagna

[PARMA] CELEBRARE IL 25 APRILE SIGNIFICA DIRE NO ALLA GUERRA E AL GENOCIDIO: COS’È DAVVERO SUCCESSO VENERDÌ A PARMA DURANTE IL CORTEO
Data articolo:Mon, 28 Apr 2025 07:02:24 +0000

Venerdì abbiamo contestato la presenza di alcune associazioni sioniste che per la prima volta hanno deciso di sfilare a Parma in occasione del 25 Aprile. Lo abbiamo fatto perché siamo stanchi di vedere usare lo sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo e dai suoi satelliti europei, come la triste Repubblichina di Saló, come un lasciapassare per lo stato di Israele per poter compiere un genocidio impunemente. Nel corteo del 25 Aprile non può esserci spazio per chi sostiene che i civili palestinesi meritano il massacro perché durante il cessate il fuoco non hanno dato informazioni utili alla liberazione degli ostaggi, riteniamo che esista un limite alla decenza.

Per cui non è stata contestata la Brigata ebraica che ha combattuto 80 anni fa in Italia per un mese, inquadrata nell’esercito britannico, ma il tentativo di far passare il sionismo, e quindi il genocidio dei palestinesi, come parte del patrimonio della Resistenza. Per queste ragioni ci siamo limitati a chiedere che non venisse esposto lo striscione, inneggiante al sionismo con la scritta “anche loro 5000 sionisti liberarono l’Italia”, non certo il gonfalone della brigata ebraica. E le accuse di antisemitismo sono ormai ridicole: chi sostiene con piú veemenza Israele anche di fronte all’orrore di 100 mila morti in un anno e mezzo sono proprio gli eredi di quel fascismo che la brigata ebraica è venuta a combattere, ma a quanto pare si è antisemiti solo se si contesta Israele.

È semplice spiegare il perché quasi nessuno abbia espresso solidarietà o vicinanza a queste organizzazioni sioniste e perchè, al contrario, la loro presenza sia stata contestata, non da “manifestanti pro Palestina affiancati da gruppi di antagonisti” ma da una determinata e diffusa indignazione popolare: perché è stata una provocazione grossolana e questa volta è andata male.

Venerdì c’è stata una parte consistente della città che celebrando la Liberazione ha voluto dire no alla guerra e no al genocidio, che sono due tratti essenziali del fascismo, vederli e combatterli nel presente ci è sembrato il modo migliore per provare ad essere all’altezza del coraggio di chi 80 anni fa salì in montagna a combattere contro un regime marcio e crudele.

Pensiamo sia l’unico modo possibile per celebrare il 25 Aprile.

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Estero

DUECENTO ANNI FA, LA FRANCIA SOFFOCÃ’ LA RIVOLUZIONE HAITIANA CON UN DEBITO DISUMANO
Data articolo:Thu, 24 Apr 2025 11:52:47 +0000

In una tempestosa notte d’agosto del 1791, Dutty Boukman (1767-1791) e Cécile Fatiman (1771-1883) celebrarono una cerimonia voodoo a Bois Caïman, nel nord di Saint-Domingue, nella parte francese dell’isola di Hispaniola. Boukman era stato catturato in Senegambia (oggi Senegal e Gambia), mentre Fatiman era figlia di una donna dal Congo (come scrisse Aimé Césaire) e di un uomo proveniente dalla Corsica. La loro cerimonia, alla presenza di oltre duecento persone africane schiavizzate, fu il catalizzatore di una rivolta di massa nelle piantagioni francesi. Boukman, in creolo, pronunciò parole che furono tramandate di generazione in generazione e finirono per entrare nei libri di storia (tra cui il classico di C. L. R. James del 1938 I giacobini neri):

Il dio che ha creato il sole che ci dona la luce, che gonia le onde e governa le tempeste, bencheÌ nascosto tra le nuvole, ci guarda. Egli vede tutto cioÌ€ che l’uomo bianco fa. Il dio dell’uomo bianco gli ispira il delitto, ma il nostro dio ci chiama alle buone opere. Il nostro dio, buono con noi, ci ordina di vendicare i torti che ci sono stati fatti. Egli guideraÌ€ le nostre armi e ci aiuteraÌ€. Abbattete il simbolo del dio dei bianchi che ha provocato tanti nostri pianti e ascoltate la voce della libertaÌ€ che parla nel cuore di noi tutti.

L’eco della Rivoluzione francese del 1789 aleggiava ai margini della cerimonia convocata da Boukman e Fatiman. Ma ancora più potenti per loro erano le loro tradizioni di umanità, attinte da una serie di credenze africane e islamiche, entrambe parte del loro patrimonio culturale. Le persone africane schiavizzate si ribellarono. Bruciarono le piantagioni e uccisero coloro che sostenevano di esserne i proprietari. La loro vendetta fu brutale, ma non poteva nemmeno lontanamente eguagliare il trattamento che era stato loro inflitto. Per avere un’idea dell’atteggiamento dei proprietari delle piantagioni, basta leggere queste riflessioni su come sfruttare al meglio unÇ schiavÇ africanÇ, raccontate da un proprietario di piantagioni inglese ad Antigua al capitano John Newton, un commerciante di schiavÇ africanÇ diventato abolizionista, che riportò questo e altri esempi nel suo opuscolo del 1787 Thoughts Upon the African Slave Trade (Riflessioni sulla tratta degli schiavi africani):

Se assegnare loro un lavoro moderato, provviste abbondanti e un trattamento tale da consentire loro di prolungare la vita fino alla vecchiaia? Oppure, sfruttando rigorosamente le loro forze al massimo, con pochi momenti di riposo, cibo scarso e trattamenti duri, logorarli prima che diventassero inutili e incapaci di lavorare, per poi comprarne di nuovi che prendessero il loro posto?

Quella notte iniziò la ribellione che sarebbe stata guidata da Toussaint L’Ouverture (1743-1803). Nel 1791, L’Ouverture, che aveva imparato a leggere dal suo padrino, era amministratore di una piantagione (una posizione che gli consentiva di accedere a molti libri, tra cui i Commentari sulla guerra gallica di Giulio Cesare, che lo introdusse alla scienza militare). L’Ouverture e gli altri capi ribelli si allearono brevemente con gli spagnoli per sconfiggere i francesi, che a loro volta si rivolsero agli inglesi per ottenere sostegno. Gli europei avrebbero dovuto mettere da parte le loro animosità per seppellire la vera minaccia che incombeva su di loro: la ribellione dÇ schiavÇ africanÇ. L’equilibrio sarebbe ulteriormente cambiato con l’ascesa dei giacobini a Parigi, guidati da Maximilien Robespierre. Nel febbraio 1794, Robespierre e i giacobini appoggiarono un decreto della Convenzione Nazionale per porre fine alla schiavitù nelle colonie francesi, provocando un’alleanza tra l’esercito francese e le forze di L’Ouverture contro gli spagnoli e gli inglesi. Aux armes, citoyens! (Alle armi, cittadini!), cantavano in creolo lÇ ex schiavÇ africanÇ dietro L’Ouverture.

Robespierre fu infine rovesciato. Nel 1799 Napoleone Bonaparte salì al potere come Primo Console e ruppe tutti gli accordi tra i francesi e le forze rivoluzionarie africane, compreso il decreto per l’abolizione della schiavitù. Dal 1802 al 1803, il visconte francese di Rochambeau guidò un regno del terrore nella regione settentrionale di Saint-Domingue per ripristinare il controllo francese sulla colonia; i suoi metodi includevano l’uso di 1.500 mastini cubani per dare la caccia alle persone afriane e, secondo quanto riferito, l’incendio di zolfo nelle stive delle navi per soffocare i prigionieri ribelli. Rochambeau diceva ai soldati francesi: “Non è più il coraggio che voglio da voi. È la rabbiaâ€. Gettarono così tanti corpi nelle acque vicino a Le Cap (oggi Cap-Haïtien) che per molto tempo la gente si rifiutò di mangiare il pesce pescato in quella zona. L’Ouverture fu arrestato dai francesi nel 1802 e morì l’anno successivo in una prigione nelle montagne del Giura, vicino al confine svizzero. Tuttavia, il suo esercito, ora sotto il comando di Jean-Jacques Dessalines, continuò a combattere. Il giorno di Capodanno del 1804, le forze di Dessalines dichiararono l’indipendenza dalla Francia e ribattezzarono il loro paese Hayti (ora Haiti, parola taína che significa “terra delle montagneâ€).

Il popolo di Haiti condusse la prima rivoluzione vittoriosa del Terzo Mondo. Durante gli ultimi mesi di combattimenti, Dessalines chiese alla sua figlioccia, Catherine Flon, di rimuovere la parte bianca dalla bandiera francese, cucire insieme il rosso e il blu e scrivere sulla bandiera dell’indipendenza La liberté ou la mort (libertà o morte). Quando conquistarono la libertà, le parole furono rimosse dalla bandiera.

Ma la libertà non è così facile da ottenere.

Gli Stati Uniti d’America appena creati, costruiti sulle fondamenta della schiavitù, temevano che la rivoluzione haitiana potesse diffondersi sul proprio territorio. Nel 1792, il presidente degli Stati Uniti George Washington incaricò il suo segretario di Stato Thomas Jefferson di inviare tre quarti di milione di dollari di aiuti ai proprietari delle piantagioni per reprimere le rivolte. Nel luglio 1802, Thomas Jefferson, allora presidente degli Stati Uniti, scrisse all’ambasciatore britannico negli Stati Uniti, Rufus King: “Il corso degli eventi nelle vicine isole delle Indie Occidentali sembra aver dato un notevole impulso alle menti degli schiavi in diverse parti degli Stati Uniti. Tra loro si è manifestata una grande propensione alla rivoltaâ€. Per questo motivo Jefferson e il suo gabinetto si misero alla ricerca di qualsiasi mezzo per soffocare la rivoluzione haitiana. Il 21 febbraio 1806, Jefferson vietò il commercio con “alcune parti dell’isola di Santo Domingo”, ovvero Haiti. Nel 1824, il senatore della Carolina del Sud Robert Hayne lo disse senza mezzi termini: “La nostra politica nei confronti di Haiti è chiara. Non potremo mai riconoscere la sua indipendenza. La pace e la sicurezza di gran parte della nostra Unione ci impediscono persino di discuterne”. La libertà di Haiti era una sfida alla schiavitù degli Stati Uniti.

Nel 1825, con un atto di diplomazia delle cannoniere, il re Carlo X di Francia inviò una flotta di navi da guerra nelle acque haitiane e chiese alla giovane nazione di pagare 150 milioni di franchi come “risarcimento†per la perdita della colonia e della forza lavoro schiavizzata. La somma era dieci volte il bilancio annuale di Haiti e equivalente all’importo pagato dagli Stati Uniti per il territorio della Louisiana. Haiti prese in prestito denaro dalle banche francesi per pagare la somma e cadde in una trappola del debito dalla quale non è mai riuscita a uscire. Dal 1825 al 1947, quando Haiti finalmente estinse il debito, l’ottanta per cento della sua ricchezza – circa 21 miliardi di dollari – era stato utilizzato per la sua restituzione, lasciando il Paese in uno stato di caos totale (si stima che lÇ haitianÇ abbiano finito per pagare più del doppio del valore dell’indennizzo). Si tratta di un pagamento odioso. Né la Francia né la Citibank, che ha acquistato il debito, si sono mai scusate per questo saccheggio.

Ogni volta che Haiti ha cercato di ribellarsi, è stata repressa.

Nel 1915, quando il nuovo governo di Haiti ha cercato di conquistare la propria sovranità dopo l’assassinio del presidente Jean Vilbrun Guillaume Sam – lui alleato degli Stati Uniti – le forze armate statunitensi sono intervenute, occupando l’isola per diciannove anni fino al 1934, e poi hanno instaurato il brutale regime dittatoriale dei Duvalier, che ha governato per loro conto dal 1957 al 1986. Nel dicembre 1990 una lavalas (marea) di energia popolare, radicata in modo evidente tra i contadini haitiani, portò alla presidenza un ex prete, Jean-Bertrand Aristide, con il 70% dei voti. Nessun haitiano prima di lui aveva vinto le elezioni con un tale risultato e ottenuto un mandato di tale importanza. Fu come se L’Ouverture o perfino la ribellione di Piquet del 1844 e la sua Armée souffrante (Esercito dei sofferenti) fossero tornati. La leadership e l’impegno di Aristide nei confronti dellÇ contadinÇ erano minacciosi quanto questi episodi del passato.

Otto mesi dopo, il 30 settembre 1991, l’esercito e la polizia, sostenuti dagli Stati Uniti, rovesciarono Aristide. Alla fine, sotto pressione internazionale, Aristide poté completare il suo mandato dal 1994 al 1996, ma con severe restrizioni.

Nel 2000 Aristide ottenne un mandato ancora più ampio, assicurandosi il 90% dei voti. Il colpo di Stato e la camicia di forza imposta dagli Stati Uniti per impedirgli di completare il suo primo mandato lo avevano radicalizzato. Chiese alla Francia di pagare 22 miliardi di dollari di risarcimento per l’indennizzo del debito. La Francia rispose che la questione era stata risolta con trattati del XIX secolo e che non avrebbe pagato alcun risarcimento. Nel 2004 Aristide fu rovesciato da un colpo di Stato sostenuto dalla Francia e dagli Stati Uniti e sostituito da una giunta militare che rinunciò alla richiesta di risarcimento di Haiti. La questione dell’indennizzo è stata sepolta sotto uragani, terremoti, l’invasione post-colpo di Stato delle forze di pace delle Nazioni Unite, che ha lasciato dietro di sé un’epidemia di colera e abusi sessuali dilaganti, il flagello del debito estero, il peso della deflazione, la deforestazione diffusa, il collasso dell’agricoltura haitiana a causa del dumping dei prodotti statunitensi, l’impedimento di una legge sul salario minimo, l’assassinio di un presidente non eletto e, più recentemente, la morsa della violenza delle bande.

Tutto questo risale al rifiuto degli imperialisti di permettere ad Haiti di respirare: non hanno mai potuto perdonare il fatto che lÇ haitianÇ siano stati il primo popolo al mondo a condurre con successo una rivoluzione contro l’imperialismo.

Il 20 febbraio 2025, il poeta e pittore haitiano Frankétienne è morto a Delma, Port-au-Prince, all’età di 88 anni. Nel corso della sua vita, ha riflettuto sul fatto di essere nato nel 1936 da una madre haitiana violentata da un uomo statunitense. Frankétienne è rimasto nel suo paese natale nonostante le difficoltà, dando voce a un popolo alla disperata ricerca di un futuro. Nel suo splendido Fleurs d’insomnie (Fiori d’insonnia, 1986), scritto alla fine dell’incubo di Duvalier, Frankétienne rifletteva:

Sognare è senza dubbio la prima
strada che conduce alla libertà.
S
ognare è già essere liberi.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della diciasettesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

Chi è Vijay Prashad?

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[LUCCA] POTERE AL POPOLO: SOSTEGNO ALLA BIBLIOTECA POPOLARE. SERVONO SPAZI DI AGGREGAZIONE E POLITICHE SOCIALI PER RISPONDERE AD AGGRESSIONI E INSICUREZZA
Data articolo:Tue, 22 Apr 2025 07:11:52 +0000

Seguendo la deriva antidemocratica in corso da anni a tutti i livelli di governo, che ha visto la repressione e la chiusura di importanti esperienze e spazi sociali, il Comune di Lucca ha annunciato il prossimo sgombero della Biblioteca Popolare di San Concordio, un luogo libero e aperto dove da 10 anni si organizzano eventi culturali e attività sociali per il quartiere e per la città.

Curioso il fatto che la motivazione sia la concomitante apertura della nuova biblioteca come distaccamento dell’Agorà nella piazza coperta, un progetto fortemente voluto dall’amministrazione Tambellini (a suon di milioni ma senza idee chiare sull’utilizzo e facendo la guerra ai comitati di San Concordio) e contestato in campagna elettorale proprio dagli attuali sindaco e vice sindaco Pardini e Barsanti.

Come Potere al Popolo, riconoscendo da sempre l’importante lavoro di ricostruzione di un tessuto sociale nel quartiere, ci siamo fin da subito attivati per sostenere tutte le iniziative messe in campo a difesa della Biblioteca Popolare, a partire della petizione popolare, che va avanti ormai da un paio di settimane e che è possibile sostenere anche alla Casa del Popolo di Verciano, dove è stata subito attivata la raccolta firme.

L’esperienza della Biblioteca Popolare, così come quella di altri spazi ed esperienze che lavorano per la ricostruzione di comunità, devono essere sostenute e moltiplicate, non limitate o chiuse.

Costituiscono infatti il primo antidoto al clima di insicurezza che ultimamente si respira in città, con le recenti aggressioni che hanno scatenato, come era ovvio aspettarsi, il coro dei partiti che da sempre la governano senza cogliere le reali cause e di conseguenza le risposte necessarie.

Ma se vogliamo parlare di sicurezza bisogna capovolgere il paradigma: non ci sarà sicurezza senza spazi di aggregazione e interventi concreti per promuovere realmente inclusione e diritti sociali.

Sorvegliare e punire non funzionerà. E nemmeno chiudere spazi forse ritenuti “scomodi” ma che da anni lavorano per ricostruire una comunità sempre più disgregata.

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[PISA] 25 APRILE 2025 – 80 VOLTE NO A GUERRA, FASCISMO E SIONISMO! APPELLO PER UNA MOBILITAZIONE ANTIFASCISTA, ANTIMILITARISTA E ANTICOLONIALISTA UNITARIA A PISA!
Data articolo:Tue, 22 Apr 2025 07:07:21 +0000

H.11 concentramento in Piazza Garibaldi

H.12 corteo fino a Piazza Franco Serantini(Piazza San Silvestro)

A seguire brindisi, pranzo, musica e letture antifasciste a cura di PIC, al Circolo Agorà, in Via Bovio 19

A ottanta anni dalla liberazione dal nazifascismo dobbiamo di nuovo fare i conti con gli eredi di quelle pseudo ideologie che devastarono il mondo.

Mussolini, Hitler e i dittatori che li affiancarono, rappresentarono la risposta armata alla profonda crisi del modello capitalistico che aveva messo in discussione il dominio delle classi dominanti, scosso dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalle rivolte operaie e contadine che seguirono, come la rivolta spartachista in Germania nel 1919 e il biennio rosso in Italia tra il 1919 e il 1920.

Di fronte alla possibilità di un cambiamento radicale, le élite industriali e agrarie reagirono nel modo più brutale: in Germania, furono i socialdemocratici della Repubblica di Weimar, già rei di aver votato i crediti di guerra nel 1914, a schiacciare nel sangue i movimenti rivoluzionari, aprendo la strada al nazismo; in Italia, furono direttamente le squadracce fasciste, sostenute da industriali, latifondisti e piccola borghesia, a reprimere il movimento operaio, assassinando sindacalisti, socialisti e comunisti, distruggendo case del popolo, cooperative e sedi politiche.

Oggi, in un contesto storico profondamente mutato, quei fattori che determinarono le condizioni per l’ascesa elettorale dei partiti nazifascisti negli anni 20 e 30, si ripresentano. La crisi economica del capitalismo occidentale sta progressivamente erodendo la sua egemonia globale, minacciata dalla crescita economica dei paesi un tempo considerati “emergenti” come Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (BRICS) e dalla rinnovata spinta anticoloniale dei popoli del sud globale.

Di fronte a questa crisi, le classi dominanti, espressione del grande capitale finanziario e delle multinazionali industriali, tecnologiche e della comunicazione, reagiscono nuovamente con la guerra e la repressione, finanziando la guerra in Ucraina contro la Russia e armandone i nazisti, sostenendo il genocidio del popolo palestinese e promuovendo l’ascesa di partiti di estrema destra come l’AFD in Germania, il Rassemblement National in Francia e altre formazioni reazionarie in tutta Europa. In Italia, gli eredi del fascismo sono oggi alla guida del governo, così come accade in Ungheria e in altri paesi dell’Europa orientale. Negli Stati Uniti, il ritorno di Trump ha portato al potere fascisti, suprematisti bianchi e reazionari di ogni genere.

In questo contesto, in forme originali rispetto ai socialdemocratici tedeschi del secolo scorso, per oltre un trentennio le forze politiche afferenti formalmente al moderatismo centrista, al progressismo ed alla “sinistra”, hanno governato l’Unione Europea con politiche recessive e di forte austerità, che colpiscono duramente le condizioni di vita di sempre più ampi settori sociali. Politiche che hanno spalancato le porte all’estrema destra.

Il piano di riarmo europeo da 800 miliardi con cui i governanti europei compreso quello italiano intendono operare la svolta al keynesismo militare nel continente, sarà soprattutto un attacco ai salari e allo stato sociale, con implicazioni drammatiche sulle condizioni di vita delle classi popolari. Su questo la cosiddetta “difesa comune”, sostenuta dalle false opposizioni al governo Meloni, come alternativa al finanziamento degli eserciti nazionali rappresenta un ulteriore cortina fumogena sul piano inclinato verso l’economia di guerra su cui c’è piena convergenza bipartisan.

Così come sulla svolta autoritaria, di cui è l’ultimo esempio il “golpe istituzionale” del Governo Meloni del 4 aprile ’25 con la trasformazione del DDL 1660 in Decreto Legge per “Sicurezza”, che ha trovato la sua prima applicazione a Bologna con le denunce a chi si opponeva alla repressione subita dagli studenti del Liceo Minghetti. Questa legge fascistissima, frutto di un percorso di una serie di pacchetti repressivi firmati con i governi precedenti dai vari Minniti-Orlando-Conte-Salvini, è la risposta che viene data sul piano interno, con l’individuazione del “nemico pubblico” in chi si oppone alla guerra, alla macelleria sociale e alla devastazione ambientale determinate dalla crisi del capitalismo.

Per oltre trent’anni, le forze politiche che si dichiarano progressiste, afferenti al moderatismo centrista e alla sinistra, hanno governato l’Unione Europea con politiche di forte austerità che hanno colpito duramente la classe lavoratrice, spalancando le porte all’ascesa dell’estrema destra. Il discorso ideologico che ha giustificato queste politiche antipopolari è stato e continua ad essere quello dei valori della democrazia, dei diritti umani e della pace, che caratterizzerebbe l’Occidente come un “giardino” contrapposto alla “giungla” dei totalitarismi asiatici e del sud del mondo: una visione intrisa di orientalismo e profondamente razzista. Questo castello di valori, d’altronde, è crollato miseramente di fronte al sostegno attivo al genocidio palestinese e alle nuove politiche di riarmo votate a larga maggioranza dal parlamento europeo.

Viviamo in un’epoca di grandi e profondi cambiamenti, nella quale il filo nero del ritorno del fascismo passa attraverso forme nuove da leggere e decifrare, per indicare alle vecchie e nuove generazioni la necessità di continuare la lotta contro le politiche reazionarie bipartisan che stanno portando il mondo sull’orlo di un baratro fatto di guerre e devastazioni sempre più gravi.

Ieri come oggi, la lotta contro il fascismo è inscindibile dalla lotta contro il capitalismo, un sistema che nelle sue crisi genera sempre nuove spinte reazionarie e che, ormai privo di prospettive, offre solo distruzione della natura e degli esseri umani, sfruttamento e sofferenza per miliardi di persone, e il furto sistematico delle ricchezze prodotte dal lavoro, che se redistribuite potrebbero risolvere in breve tempo i mali che affliggono il mondo.

Lottare contro tutti i fascismi oggi significa battersi contro i pericoli di nuove guerre alimentate dal militarismo europeo, sostenere il diritto dei popoli all’autodeterminazione, a partire da quello palestinese, opporsi al sionismo e alla politica imperialista sostenuta dal governo Trump e dai governi occidentali. In Italia, significa opporsi al governo Meloni, composto da eredi del fascismo e reazionari di ogni risma, che come i governi precedenti porta avanti politiche repressive e belliciste a beneficio del complesso militare-industriale, delle multinazionali dell’energia, delle comunicazioni e della finanza.

Ieri come oggi i fascisti sono al servizio dei padroni, contro le masse popolari, le loro istanze e bisogni.

Come ogni 25 aprile, invitiamo tutte e tutti a scendere in piazza. Oggi più che mai, questa giornata non può essere una mera celebrazione, ma dev’essere una giornata di lotta per rivendicare l’attualità della Resistenza e della liberazione contro ogni forma di oppressione, contro il colonialismo, il riarmo e la militarizzazione, a partire dall’opposizione alla nuova base militare GIS-Tuscania da 520 milioni di euro partecipando alla due giorni di mobilitazione del Movimento No Base del 26/27 aprile al CISAM.

Il 25 aprile deve essere un giorno di lotta contro il governo Meloni, contro l’Unione Europea bellicista e contro il sistema tutto che sostiene questi valori. Il 25 aprile è un’occasione per riaffermare la nostra solidarietà internazionalista, dalla parte di tutti i popoli che combattono il suprematismo occidentale e bianco: dal popolo palestinese ai governi socialisti dell’America Latina, che continuano a sfidare le nuove forme del fascismo globale, come dimostrato dal governo venezuelano di Maduro con il lancio dell’Internazionale Antifascista, Anticolonialista e Antimperialista.

Nell’ottantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo, ribadiamo con forza che stiamo con la “giungla”, per l’autodeterminazione dei popoli, contro il loro “giardino” suprematista, militarista e colonialista.

Prime realtà promotrici

Potere al Popolo!
Comunità Palestinese
Circolo Agorà
Cambiare Rotta
Collettivo Galilei
Collettivo Dini
Rete dei Comunisti
Collettivo Russoli
Usb
Cobas
Cub

Per aderire scrivere alla mail: 25aprilepisa@gmail.com

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25 APRILE 2025: LIBERIAMOCI DALLE ARMI
Data articolo:Thu, 17 Apr 2025 12:58:38 +0000

80 anni fa, il 25 aprile 1945, l’insurrezione vittoriosa delle forze partigiane italiane metteva fine all’occupazione nazista e al governo fascista e collaborazionista di Benito Mussolini.
La Resistenza italiana, che non si era mai spenta durante tutto il periodo del fascismo, tenuta in vita dalle organizzazioni clandestine, prima fra tutte il Partito comunista, si ingrossò rapidamente dopo l’armistizio 1943.
Decine di migliaia di giovani italiani e italiane rifiutarono le condizioni e i salari miseri imposti dal corporativismo fascista, ma ancora di più rifiutarono di combattere una guerra imperialista che non avevano voluto. Rifiutarono di opprimere altri popoli e scelsero di combattere contro il comune oppressore.
Si organizzarono nelle brigate partigiane in Italia, ma anche in Grecia e Jugoslavia, dove decine di migliaia di italiani e italiane scelsero di lottare al fianco dei fratelli e sorelle greci e slavi contro il comune nemico fascista.
Se il rifiuto della guerra è oggi scolpito nell’art.11 della Costituzione italiana lo dobbiamo a loro.
Per questo il 25 aprile di quest’anno assume per noi un significato particolare. Di fronte al Rearm Eu che ultradestra e liberali, Meloni, Von Der Leyen e il partito trasversale di Repubblica, vorrebbero imporci. Di fronte alle richieste degli Usa di Trump di innalzare al 3,5% del Pil le spese militari dei paesi Nato per foraggiare le industrie belliche. Di fronte alla barbarie della guerra in Ucraina e del genocidio in Palestina, dobbiamo ricordarci per cosa hanno lottato i nostri nonni e le nostre nonne e riprendere in mano quella battaglia.
Non servono più soldi per arricchire l’industria delle armi, servono soldi per i salari, per la sanità e i servizi, per pensare la rivoluzione ecologica e affrontare la vera sfida del nostro tempo, ossia la crisi climatica. Questa è l’unica vera battaglia che vogliamo e dobbiamo combattere oggi, contro il Governo Meloni, la guerra e il riarmo.
Giú le armi, su i salari.
W il 25 aprile, w la Resistenza antifascista.

SCARICA LE GRAFICHE

Torino: 24/4 H 19:30 corteo da piazza Solferino; 25/4 H 10:00 biciclettata dalla casa del popolo Estella (via Martinetto 5h) per arrivare davanti ai cancelli Leonardo
Padova: 25/4 ore 10 biciclettata dalla casa del popolo Berta Càceres (via Pierobon 10); corteo ore 18 Piazza delle Erbe.
Pisa: 2574 ore 11 corteo da piazza Garibaldi
Lucca: 25/4 ore 9:30 corteo da piazza San Michele; ore 13 pranzo popolare in casa del popolo di Verciano (via dei Paoli 22)
Catanzaro: 25/4 Catanzaro Lido, Terrazza Matteo Saliceti, a partire dalle ore 10:30
Roma: 25/4 H9:30 corteo da Largo Bompiani a Porta San Paolo
Napoli: 25/4 H10:00 cura e abbellimento della targa commemorativa all’ex opg je so pazzo. H11:30 corteo cittadino piazza Garibaldi.
Milano 25/4 H 10:30 Piazza Insubria Omaggio ai parigiani di Caivarate caduti nella Resistenza
Bari: 25/4 H 10:30 Piazza Risorgimento corteo
Lecce: 23/4 H20:00 incontro con la poesia di De Andrè, Casa del popolo Via Livio Tempesta 17; 26/4 H17:00 Porta Napoli corteo
Genova 24/4 H 16:00 Piazza Marsala corteo studentesco
Brescia 25/4 H 16:00 via Nino Bixio spezzone palestinese
Verona 25/4 H 9:45 Piazza Bra Spezzone popolare
Bergamo 25/4 H9:00 corteo dalla stazione FS di Bergamo
Monfalcone 25/4 H16:30 via Valentinis
Rimini 25/4 H 11:00 Piazza tre martiri
Ravenna 25/4 H 10:00 Piazza caduti per la Libertà
Bologna 25/4 H 10:00 Piazza dell’unità
Reggio Emilia 25/4 H 10:00 Corso Garibaldi (Basilica della ghiara)
Parma 25/4 H 9:00 Piazza santa croce contro il riarmo
Terni 25/4 h 11:00 Via Lanzi

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Estero

ASPETTANDO UN NUOVO SPIRITO DI BANDUNG
Data articolo:Thu, 17 Apr 2025 10:40:28 +0000

Negli ultimi giorni di marzo mi trovavo in Cina nella nuova città di Xiong’an, a meno di due ore di macchina da Beijing. La città è stata costruita per ridurre il traffico intenso della capitale, ma sarà anche la casa di donne e uomini che sono desiderosi di sviluppare le forze produttive di nuova qualità della Cina e diventerà il centro di università, ospedali, istituti di ricerca e imprese che producono tecnologie innovative, inclusa l’agricoltura high-tech. Xiong’an punta a raggiungere “zero emissioni nette†di diossido di carbonio utilizzando i big data per orientare le scienze sociali nella direzione di migliorare la qualità della vita quotidiana delle persone.

La città è costruita in mezzo a un’enorme rete di laghi, fiumi e canali, con al centro il lago Baiyangdian. In un freddo pomeriggio, un gruppo di noi – che includeva i membri del team di Tricontinental: Institute for Social Research Tings Chak, Jie Xiong, Jojo Hu, Grace Cao e Atul Chandra – ha preso una barca con cui abbiamo attraversato il lago per visitare un museo dedicato alla lotta contro l’imperialismo giapponese. L’ora che abbiamo speso passeggiando per il museo e il ritorno verso l’acqua sono stati magici. Quando l’esercito imperiale giapponese conquistò la provincia di Hebei (che ha al centro Beijing), tentò di reprimere le classi popolari, compresi i contadini e i pescatori nella regione del lago Baiyangdian. La resistenza messa in piedi nell’area dal Partito comunista della Cina (Communist Party of China, CPC) portò le forze giapponesi a condurre delle rappresaglie contro i villaggi situati sulle piccole isole e sulla costa del grande lago. Il CPC, con il supporto di ex ufficiali dell’esercito, costruì la base antigiapponese Jizhong e successivamente il distaccamento di guerriglia Yanling. Che emozione essere sulle acque di questo enorme complesso di laghi, muoversi con la barca tra le isole fatte di giunchi e immaginarsi i coraggiosi contadini e pescatori che combattono contro l’esercito giapponese nei loro veloci mezzi da sbarco DaihatsudÅtei!

Le donne e gli uomini di Baiyangdian mi hanno fatto tornare alla memoria le storie del coraggioso popolo del distretto di Satara (nell’India occidentale), il cui Toofan Sena (esercito dell’uragano) sottrasse seicento villaggi dal dominio britannico tra il 1942 e il 1943 per creare il Prati Sarkar (governo parallelo). Anche loro venivano dalle classi popolari, molti di loro armati con fucili rudimentali oppure con pistole rubate ai britannici, e hanno sacrificato la propria vita pur di conservare la propria dignità. Dal Baiyangdian e da Satara, vale la pena spostarsi fino agli altopiani del Kenya, dove l’esercito della Terra e della Libertà (conosciuto anche come il Mau Mau) sotto la guida di Dedan Kimathi Waciuri portò avanti la ribellione contro l’imperialismo britannico dal 1952 al 1960. Sono state queste donne e questi uomini – con i piedi ben piantati nella terra delle proprie patrie – a costruire uno stato d’animo antimperialista che è poi stato modellato attraverso una serie di processi: la loro indipendenza nazionale dal governo coloniale (per esempio, l’indipendenza indiana del 1947, la rivoluzione cinese del 1949 e l’indipendenza kenyota del 1963); la partecipazione a incontri globali anti-coloniali (al suo apice nella conferenza asiatico-africana del 1955 a Bandung, in Indonesia); e la loro insistenza sul fatto che le organizzazioni internazionali dovessero riconoscere l’importanza di abolire il colonialismo (ad esempio, attraverso la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali del 1960, che afferma che il “processo di liberazione è irresistibile e irreversibileâ€).

Lo stretto legame tra le lotte di massa dei decenni precedenti al periodo della decolonizzazione che è iniziato verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso ha prodotto ciò che è stato poi conosciuto come lo spirito di Bandung. Il termine di riferisce all’incontro svoltosi in quella città dell’Indonesia nel 1955, che riunì i capi di governo di ventinove Paesi dell’Africa e dell’Asia per discutere e costruire il progetto del Terzo Mondo, che avanzò delle proposte di politiche specifiche per trasformare l’ordine economico internazionale e costruire una società antirazzista e antifascista. A quel tempo, la relazione tra la leadership che aveva sviluppato il progetto e le masse nei loro Paesi era organica. Quella relazione rese possibile l’idea che lo spirito di Bandung potesse diventare una forza materiale in grado di guidare un’agenda internazionalista tra i continenti di Africa, Asia e America latina (dopo la rivoluzione cubana del 1959).

Il nostro ultimo dossier, The Bandung Spirit, pubblicato nell’aprile 2025 per celebrare il settantesimo anniversario della conferenza del 1955, esplora l’importanza di quella relazione organica nel mantenere vivo lo spirito di Bandung – guardando a come i leader dei governi di liberazione nazionale provenissero dalle insurrezioni di massa contro il colonialismo e a come dovessero rispondere a quel stato d’animo e a quelle istituzioni – e indaga se quello spirito rimane intatto ancora oggi. Il dossier risolleva lo splendore delle lotte di massa anticoloniali e lo sforzo di costruire Stati postcoloniali sulle rovine del furto e della deprivazione.

Eppure, come dimostriamo, lo spirito di Bandung è stato in gran parte spazzato via negli anni Ottanta, rimasto vittima della violenza contro i movimenti anticoloniali esercitata dalle vecchie potenze imperialiste (ad esempio attraverso colpi di stato, guerre, sanzioni) e la crisi del debito imposta a questi Paesi dai sistemi finanziari occidentali (il cui valore era stato creato proprio attraverso il furto coloniale). Sarebbe fuorviante affermare che lo spirito di Bandung è vivo e vegeto. Esiste ancora, ma più che altro come un senso di nostalgia e non come il risultato della relazione organica tra le masse in lotta e i movimenti alle soglie del potere.

Oggi, dopo molti decenni di stasi, vediamo la crescita di quello che chiamiamo un “nuovo stato d’animo†nel Sud globale. Eppure, questo stato d’animo non è la stessa cosa di uno spirito. È soltanto un accenno a una nuova possibilità, ma ha un potenziale democratico enorme, con il concetto di “sovranità†al suo centro. Qui seguono alcuni aspetti propri di questo nuovo stato d’animo:

  • Vi è un’ampia comprensione del fatto che le politiche guidate dal FMI di importare debito ed esportare prodotti non lavorati non sono più sostenibili.

  • Vi è il riconoscimento che prendere ordini da Washington o dalle capitali europee non è solo controproducente rispetto agli interessi nazionali ma è anche profondamente coloniale. Un senso di sicurezza verso sé stessi si è sviluppato gradualmente nei Paesi del Sud globale, che sentono di non dover più cambiare le proprie idee ma di doverle articolare in modo chiaro e diretto.

  • Vi è la consapevolezza che la crescita industriale della Cina e di altre locomotive del Sud globale (situate soprattutto in Asia) ha cambiato l’equilibrio di forze nel mondo, soprattutto nell’essere in grado di fornire fonti di finanziamento alternative per i Paesi che sono diventati dipendenti dagli obbligazionisti europei e dal FMI.

  • Il senso di sicurezza ha mostrato che la Cina può aiutare ma non può salvare da sola il Sud globale, e che i Paesi del Sud globale devono sviluppare i propri piani e le proprie risorse, oltre a cooperare con la Cina e altre locomotive del Sud globale.

  • L’importanza della pianificazione centralizzata è stata rimessa sul tavolo dopo decenni di discredito da parte della critica neoliberale. Il ravvedimento di istituzioni statali, inclusi ministeri della pianificazione, ha dimostrato che nel Sud globale i Paesi devono costruire e rafforzare sia competenze tecniche che iniziative di impresa nel settore pubblico. La cooperazione regionale sarà necessaria per sviluppare questo tipo di competenze.

Dieci anni dopo la conferenza di Bandung, l’esercito indonesiano – con il via libera degli Stati Uniti e dell’Australia – uscì dalle caserme e rovesciò il governo di Sukarno. Durante il colpo di stato del 1965, l’esercito e i suoi alleati uccisero circa un milione di membri del Partito comunista d’Indonesia (Partai Komunis Indonesia, PKI) e di altre organizzazioni della classe lavoratrice e contadina. Arrestarono anche vaste porzioni di persone che simpatizzavano con la sinistra. Si trattò di un attacco sferrato tanto contro lo spirito di Bandung quando contro il PKI. Nel periodo tra la sua incarcerazione nel dicembre del 1966 e la sua esecuzione nell’ottobre del 1968, il Segretario generale del PKI Sudisman scrisse non solo delle analisi dei problemi che avevano portato al colpo di stato ma anche delle commoventi poesie sulla determinazione e l’impegno del popolo e sulla necessità dell’organizzazione per lo spirito di Bandung:

L’Oceano è connesso al Monte Krakatau
Il Monte Krakatau è connesso all’Oceano
L’Oceano non si prosciuga
Anche se impazza l’uragano
Il Krakatau non si piega
Anche se soffiano i tifoni
L’Oceano è il Popolo
Il Krakatau è il Partito
I due sempre vicini e sempre insieme
I due connessi l’uno all’altro
L’Oceano è connesso al Monte Krakatau
Il Monte Krakatau è connesso all’Oceano.

È incontrovertibile, Sudisman scrisse dalle profondità di una prigione militare a Jakarta da cui sapeva che non avrebbe potuto fuggire che il popolo non avrebbe sopportato le contraddizioni di imperialismo e capitalismo, che prima o poi avrebbe costruito le sue organizzazioni, e che queste organizzazioni – avvolte in un nuovo spirito – si sarebbero sollevate e avrebbero trasceso le condizioni del nostro tempo. Questi momenti arriveranno, il nuovo stato d’animo si svilupperà in un nuovo spirito.

Con affetto,
Vijay

*Traduzione della sedicesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.

Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.

Chi è Vijay Prashad?

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[TORINO] “COSTELLAZIONI IIIâ€: A MAGGIO LA TERZA EDIZIONE DEL NOSTRO FESTIVAL!
Data articolo:Mon, 14 Apr 2025 14:40:12 +0000

Dal 9 al 11 maggio alla Casa del Popolo “Estella” (via Martinetto 5/H, Torino)

TRE GIORNI DI INCONTRI, TEATRO, MUSICA, SOCIALITA’ E TANTO ALTRO!

Dal 9 all’11 maggio torna Costellazioni per la sua terza edizione!

L’anno scorso ci siamo salutati dopo tre giorni intensi di dibattiti, socialità e cultura, con la promessa di tornare per un’edizione ancora più ricca. E ora eccoci qui!

Dalla relazione tra città e periferie alla questione abitativa, dalla precarietà lavorativa alle sfide globali: filiere più giuste, anticolonialismo e un nuovo dibattito transfemminista.

Questa terza edizione guarda il mondo con gli occhi di chi ha un futuro in salita, ma ancora tutto da scrivere.

Una città sempre più proiettata verso i giovani, ma a chi parla davvero? Studenti di lusso che alimentano sfratti e affitti alle stelle, bar e locali alla movida dove proprio quei giovani vengono sfruttati, tagli ai servizi e ai diritti in favore di grandi eventi che dettano l’agenda urbana.

Decenni di egemonia neoliberista ci hanno fatto credere che si può farcela solo da sol3 e che non esiste alternativa al presente. Ma la verità è che c’è ancora spazio per organizzarsi, immaginare e trasformare la storia di tutt3.

Con la terza edizione di Costellazioni, vogliamo contribuire a costruire questo futuro.
Come lo scorso anno, a maggio la Casa del Popolo Estella sarà un luogo di dibattito, socialità e formazione, con musica, buon cibo e tanta bella gente.
Impossibile mancare!

Tutti gli eventi saranno ad ingresso libero.

Oltre ai dibattiti e agli eventi troverai:

  • ogni giorno troverai cibo e bevande per tuttÇ
  • sabato dalle h 15:00 SERIGRAFIA e SWAP PARTY, a cura di Spazio Muffa.
  • sabato e domenica dalle h 15:00 CONTRO/CONSUMO, piccolo mercatino in cui troverete un’insieme di artigiani, artisti e creativi accomunati dalla loro opposizione alle logiche del consumismo.

VENERDÌ 9 MAGGIO, h 17:30

Cibo e moda sono status symbol, ma dietro si nascondono filiere globali che saccheggiano il pianeta e sfruttano milioni di persone. Ogni anno, un terzo del cibo e 40.000 tonnellate di vestiti diventano rifiuti. Le multinazionali rubano terra e acqua, perpetuando forme di colonialismo, mentre i lavoratori rischiano la vita per salari da fame.
Possiamo cambiare questa situazione solo con il “potere” del consumatore o è necessario ripensare l’intero modello di produzione e consumo?

Ne parliamo con:

  • Deborah Lucchetti, coordinatrice di Campagna Abiti Puliti
  • Davide Cirillo, ricercatore su conflitti socio-ambientali
  • Federico Scirchio, attivista di Ecologia Politica Network

VENERDI’ 9 MAGGIO, h 20:30

Un racconto che abbiamo letto su un poeta che non abbiamo conosciuto.

Spettacolo di Nicolas Toselli, con Antonio Capone, Lara Cosentino e Nicolas Toselli.

SABATO 10 MAGGIO, h 15:00

“Alleanze ribelli†(edito da Progetto Me-Ti) non vuole essere solo un testo teorico, ma un progetto militante. Le autrici e gli autori, tra le voci più note del movimento transfemminista spagnolo, muovono dal presupposto che non esiste uno ma molti femminismi e che non solo abbiamo la possibilità di dissentire da alcuni di essi, ma anche il dovere di spiegare le nostre discrepanze.
La proposta teorica e militante è quella un transfemminismo materialista, che non assuma derive identitarie, ma unisca il fronte delle persone oppresse costruendo alleanze con altri movimenti e lotte sociali.

Con:

  • Viola Carofalo, Progetto Me-Ti
  • Clara Serra, filosofa e autrice femminista

SABATO 10 MAGGIO, h 17:30

Maranza, criminali, fannulloni che infestano le nostre città. Per lo Stato, un problema di ordine pubblico da arginare con carcere e zone rosse.

Ma la retorica della sicurezza nasconde la guerra contro gli ultimi. Disoccupazione, tagli ai servizi e precarietà, l’unica risposta è la repressione, anche delle forme di mutualismo e
resistenza.

Ai giovani delle periferie non e solo negato il futuro, ma anche la possibilità di raccontarsi. La loro rabbia è il segno di un conflitto che va riconosciuto e organizzato.

Ne parliamo con:

  • Giuliano Granato, portavoce di Potere al Popolo!
  • Paolo Grassi, antropologo, ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca e co-responsabile di CURA Lab (Laboratorio di Ricerca e Intervento su Culture Urbane e Rappresentazioni del Margine)
  • Quarticciolo Ribelle, realtà attiva nella periferia romana tra autorganizzazione, mutualismo e conflitto
  • Antigone, da anni impegnata nella difesa dei diritti nelle carceri e contro gli abusi del sistema penale

SABATO 10 MAGGIO, h 20:00

Concerto con:

  • Lorenzo Del Grande
  • Carlomagno

DOMENICA 11 MAGGIO, h 12:00

Workshop e pranzo a cura di Sorella Palestina.

DOMENICA 11 MAGGIO, h 16:30

Le città italiane sono spesso descritte come smart e innovative, ma la realtà per molti residenti è ben diversa. L’aumento del lavoro precario e dei bassi salari, unito alla crescente difficoltà di trovare alloggi accessibili, sta trasformando i centri urbani in luoghi sempre più inospitali per chi vive del proprio lavoro.

Ne parliamo con:

  • Paolo “Tex” Tessarin, co-autore di “Foodification – come il cibo si è mangiato le città” e membro del collettivo politico Sistema Torino
  • Francesco Chiodelli, professore presso l’Università di Torino e dirigente del centro di ricerca in studi urbani OMERO
  • Prendocasa, collettivo attivo da anni sulla questione abitativa

DOMENICA 11 MAGGIO, h 19:00

Jam musicale

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News

21 GIUGNO MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA CONTRO GUERRA E RIARMO, 24 MAGGIO ASSEMBLEA NAZIONALE.
Data articolo:Sun, 13 Apr 2025 14:06:12 +0000

L’incontro nazionale che si è tenuto a Roma domenica 13 Aprile, promosso da 40 sigle tra partiti, associazioni realtà del sindacalismo di base e del mondo pacifista e studentesco, ha avviato un percorso per la costruzione di una manifestazione nazionale per il 21 giugno a Roma, a pochi giorni dal vertice Nato dell’Aia. Per preparare la manifestazione si convoca una assemblea nazionale il 24 maggio. È fondamentale in questo momento coinvolgere più realtà, organizzazioni, intellettuali e membri della società civile disponibili a costruire un fronte ampio e indipendente contro le politiche belliciste, il riarmo, la Nato e il genocidio in Palestina e per riconvertire gli investimenti in armi in spese sociali. La lotta contro il riarmo e la guerra non può essere merce di scambio elettorale. Per costruire questo percorso sono stati individuati una serie di punti su cui concentrarsi per favorire la maggior convergenza possibile.

1) il disarmo come unica scelta giusta e razionale per il futuro dell’umanità. Il disarmo richiede la immediata de escalation delle armi e delle spese militari, il cessate il fuoco in ogni luogo di guerra per giungere ad un accordo di disarmo generalizzato che metta al bando le armi nucleari e riduca gli eserciti.

2) No al riarmo europeo, nè su base nazionale nè sotto l’ipocrita ombrello della difesa comune europea. L’esercito comune europeo presentato come alternativa al riarmo nazionale, nella UE burocratica e antidemocratica attuale, sarebbe una mostruosità golpista e guerrafondaia . L’Europa deve diventare un continente di pace dall’Atlantico agli Urali.

3) Il primo atto di pace e giustizia nel mondo è la libertà del Popolo Palestinese. Nessuna vera pacificazione sarà possibile se Israele, con il sostegno e la complicità degli USA e dell’Occidente, potrà continuare il genocidio di un intero popolo. Tutti i criminali israeliani e i loro complici vanno portati alla sbarra della giustizia, il regime coloniale di apartheid in Palestina deve essere smantellato con il pieno diritto al ritorno di tutti i profughi cacciati dalla loro terra e l’autodeterminazione democratica. Fino ad allora la resistenza palestinese all’oppressore va sostenuta in tutte le sue forme e Israele va boicottata e sanzionata.

4) Basta con la NATO, unica alleanza militare aggressiva la mondo, che, al di là della retorica liberale, sostiene con le armi e la guerra il suprematismo bianco occidentale. La NATO va sciolta e in ogni caso l’Italia deve uscire dalla NATO e smantellare le enormi basi e servitù militari americane sul suo territorio. Un ruolo neutrale dell’Italia darebbe un grande contributo alla pace in Europa e nel mondo e aprirebbe spazi enormi per lo sviluppo economico e sociale del paese.

5) Stato sociale e non stato di guerra. Vogliamo la forte riduzione e non l’aumento delle spese militari. Vogliamo la fine delle politiche di austerità e non a favore dell’economia di guerra, ma per la sanità pubblica, la scuola e la formazione, le case, i diritti sociali. Vogliamo la fine della guerra contro il lavoro condotta nel nome del profitto e della competitività a tutti i costi, che oggi ci sta portando alla guerra vera e propria. Vogliamo la redistribuzione della ricchezza tra le classi sociali e tra i popoli e la fine del dominio liberista sull’economia e sulla società.

6) La prima difesa dell’ambiente è eliminare la guerra, che resta la prima devastazione e soppressione di ogni forma di vita sul pianeta. Le colossali risorse economiche e scientifiche oggi spese per le armi e per la guerra vanno riconvertite per la giustizia climatica e ambientale. Per fermare la distruzione della natura oggi è necessario un cambiamento generale del sistema di vita a partire dai paesi più ricchi del pianeta, l’economia di guerra e la guerra invece sostengono con le armi e la violenza un sistema non più sostenibile.

7) No al razzismo. No alle politiche discriminatorie, ai muri, alla guerra verso i migranti che si stanno diffondendo tra tutti i governi del mondo occidentale e che sono parte della follia bellicista dilagante. Non c’è libertà se una parte rilevante degli abitanti di un paese non sono cittadini come gli altri e sono considerati solo in base allo sfruttamento al quale possono essere sottoposti. Non c’è pace se dilaga il razzismo di stato verso i migranti che alimenta quello nella società. La distruzione del regime autoritario speciale che opprime i migranti è parte fondamentale della nostra libertà.

8) No allo stato di polizia e al neofascismo. No alla distruzione della democrazia nel nome della sicurezza interna e del nemico esterno. Leggi fasciste come il Decreto Sicurezza vanno contrastate in ogni modo, così come bisogna lottare contro la propaganda bellicista, contro la caccia alle streghe verso il dissenso e il pacifismo. Oggi il sistema mediatico e la propaganda politica reazionaria e liberale invocano censura e repressione contro chi si oppone al genocidio in Palestina o al riarmo per la guerra. L’intolleranza del potere è parte della logica e della politica di guerra e resistere ad essa è un dovere politico e morale.

La riunione ha poi invitato a fare del 25 aprile una data di mobilitazione diffusa contro riarmo guerra e genocidio in Palestina e ha aderito in modo convinto alla manifestazione del 31 maggio a Roma contro il ddl 1660 promossa dalla rete no ddl. Si invitano i territori a una mobilitazione il 2 giugno nelle modalità da decidere nell’assemblea del 24 maggio.

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