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#news #Potere #Popolo
Martedì 25/11 h 10:30 Piazza del Campidoglio
Appello delle realtà organizzate sui territori contro speculazione, cementificazione e nocività , per la città pubblica
Siamo lavoratori e lavoratrici di Roma, abitanti dei quartieri popolari, organizzazioni, realtà di lotta e comitati attivi sul territorio, impegnati nella difesa dei diritti e dell’interesse pubblico, dei beni collettivi e degli spazi di democrazia. Viviamo quotidianamente la città , i suoi quartieri, le sue contraddizioni e le sue potenzialità . Da questa esperienza nasce la nostra richiesta: restituire centralità alla voce e alle necessità di chi vive la città , tramite la partecipazione e il confronto pubblico, oggi gravemente compressi.
Roma sta attraversando una fase di trasformazione profonda, accelerata dai fondi PNRR e dall’Anno Giubilare. Risorse che avrebbero potuto rafforzare diritti, servizi e coesione sociale stanno invece consolidando un modello decisionale accentrato, opaco e finalizzato agli interessi di privati e speculatori. Di fronte a una città in ginocchio, con l’esplodere di contraddizioni enormi sul piano sociale e di lavoro, democratico e ambientale, l’amministrazione governa sempre più attraverso procedure straordinarie anche in assenza di emergenza, con tempi e percorsi che impediscono un reale confronto pubblico.
Pressata da scadenze fissate a livello nazionale ed europeo, e spesso in ritardo strutturale, la macchina amministrativa accelera: appalti accelerati, progettazione a tappe forzate, processi di condivisione con la cittadinanza ridotti al minimo. Si chiede a chi opera nei territori, nei servizi, nelle reti sociali e nei cantieri una disponibilità incondizionata, a realizzare senza discutere, a eseguire senza poter contribuire realmente alla definizione delle priorità . È dunque una interlocuzione limitata e unilaterale, spesso ridotta a ratifica o adesione passiva.
Così il “Modello Giubileo†si afferma come “Modello Romaâ€: governo per eccezione, centralizzazione delle decisioni, marginalizzazione del ruolo degli organi rappresentativi. Una direzione confermata da una convergenza politica trasversale che rende sempre più labile la distinzione tra maggioranza e opposizione.
Nel frattempo, la città reale parla, con forza e determinazione. Quartieri popolari e periferie, realtà sociali e culturali, movimenti per la casa e per l’ambiente si mobilitano su terreni decisivi: diritto all’abitare contro sfratti, sgomberi e speculazioni edilizie, servizi pubblici contro le privatizzazioni, gestione dei rifiuti, verde e spazi urbani, salute, mobilità , diritti sociali, difesa del patrimonio pubblico e contrasto al consumo di suolo. Sono state organizzate manifestazioni partecipatissime al Campidoglio per ribadire la contrarietà a questo modello, contro le grandi opere del nuovo stadio della Roma, del porto crocieristico di Fiumicino,
dell’inceneritore e dei biodigestori e la grande speculazione degli ex-Mercati Generali, per una città pubblica che rimetta al centro i diritti di tutti gli abitanti di Roma e dell’area metropolitane.
Sono richieste concrete e legittime, che troppo non trovano ascolto: decisioni calate dall’alto, procedure blindate, e talvolta ricorso alla forza pubblica contro chi difende diritti e beni collettivi.
A ciò si aggiunge la scelta dell’amministrazione rispetto al genocidio in corso a Gaza: nonostante una mobilitazione cittadina ampia e trasversale, Roma ha mantenuto continuità politico-commerciale con lo Stato d’Israele, ad esempio attraverso i rapporti che la partecipata ACEA intrattiene con l’azienda idrica israeliana Mekorot, attivamente impegnata a sottrarre risorse idriche alle persone palestinesi nei territori occupati, o attraverso la distribuzione nelle farmacie comunali dei prodotti dell’azienda farmaceutica Teva. Questa cooperazione, insieme alla timidezza nell’esprimere solidarietà contro il massacro perpetrato a Gaza e in Cisgiordania, evidenziano una distanza profonda tra istituzioni e società su temi fondamentali di dignità e giustizia.
Non siamo di fronte a un problema tecnico: siamo davanti a una crisi sociale, politica e democratica. Quando l’urgenza diventa prassi, quando la partecipazione è compressa, quando la città viene governata come un’emergenza permanente, la democrazia si svuota e a pagare il prezzo sono coloro che vivono e lavorano a Roma.
Per questo chiediamo la convocazione urgente di un Consiglio Comunale Aperto il 25 novembre p.v.. in cui si discutano tutte le vertenze e le rivendicazioni sulle questioni della speculazione e della cementificazione in città . Non un gesto simbolico, ma un atto necessario per riaprire spazi di ascolto, trasparenza e responsabilità politica. Roma ha bisogno di un luogo in cui le scelte che la trasformano siano discusse apertamente e confrontate con le esigenze e le voci della città .
Chiediamo a tutte le consigliere e i consiglieri capitolini di farsi promotrici/promotori di questa convocazione e di assumere pienamente la responsabilità che deriva dal loro mandato democratico.
In attesa di un riscontro chiaro, continueremo a rendere pubblica questa richiesta e a sostenerla nelle piazze, nei territori e nelle reti civiche della città .
Primi firmatari:
Realtà Indisponibili Organizzate sui Territori
Movimento per il diritto all’abitare
Federazione Roma Unione Sindacale di Base
Coordinamento Si Parco Si Ospedale No Stadio
Arci Roma
Potere al Popolo Roma
Comunità per le Autonome Iniziative Organizzate – CAIO
ASIA-USB
Circolo ARCI Pietralata
Ecoresistenze
Difendiamo Casal Selce- No Biodigestore
Cambiare Rotta
Donne de Borgata
Collettivo Balia dal Collare
Macchia Rossa
Opposizione Studentesca d’Alternativa – OSA
Pietralata Unita
Zona verde
Comitato Tutela Alberi Monteverde – TAM
Comitato No Corridoio Roma-Latina
Associazione vita di donna-ODV
Casa del Popolo Monterotondo Scalo
Comitato Stadio Pietralata No Grazie
Rete Tutela Roma Sud e Castelli Romani
Strutture USB- AMA, ACEA, TPL
Rete Ecosocialista
Collettivo No Porto Fiumicino
Cortocircuito
Tor Marancia Naturale
Associazione Walter Rossi
Collettivo X – Roma nord ovest
Mera 25 Roma
Associazione Vitinia Bene Comune
Comitato Caravaggio: uniti contro le torri!
Coordinamento No Inceneritore
Tavoli del Porto
L'articolo [ROMA] RECLAMIAMO INSIEME UN CONSIGLIO COMUNALE APERTO proviene da Potere al Popolo.
Cosa sta succedendo in Venezuela? Una lezione di lotta contro l’imperialismo. Â
Mentre gli Stati Uniti avviavano l’operazione “Southern Spear” con la portaerei USS Gerald R. Ford al largo del Venezuela, una nostra delegazione era a Caracas per una conferenza internazionale organizzata dal Consiglio Nazionale per la sovranità e la pace. In questo clima di minacce statunitensi pretestuose, abbiamo però trovato una città non militarizzata, che continua a vivere normalmente la propria quotidianità , con le sue difficoltà . Dopo gli incontri istituzionali, ci siamo immersi nella realtà delle “comunas”, l’autogoverno popolare bolivariano. Per capire come dal basso si porta avanti la lotta contro l’imperialismo, abbiamo parlato con Juan Carlos Lenzo, dirigente dell’Unión Comunera e militante dei movimenti popolari e internazionalisti sin dai primi anni 2000.
Gli Stati Uniti stanno aumentando la tensione con il dispiegamento di portaerei, navi da guerra e minacciando un attacco militare. Eppure, la realtà che stiamo vedendo qui a Caracas è di grande tranquillità . Come sta vivendo il popolo venezuelano questo nuovo attacco da parte dello stato imperialista statunitense?
Il clima che prevale in Venezuela, nonostante la minaccia, è di calma e tranquillità . La gente continua la propria vita quotidiana. Anzi, a breve, il 23 novembre, ci sarà una consultazione nazionale popolare in cui le organizzazioni comunali voteranno il progetto che considerano prioritario per la loro comunità . In termini generali, quindi, il clima è tranquillo e di accettazione. La preoccupazione principale rimane la questione economica: l’inflazione, infatti, si è accentuata nell’ultimo mese, impattando sul potere d’acquisto e sulla qualità della vita. Ma nel complesso, la situazione è serena.
Purtroppo, sappiamo che gli Stati Uniti hanno già attaccato il Venezuela in passato, in vari tentativi di destabilizzare il Paese e insediare un leader scelto da loro. In che modo le “comuna” e l’organizzazione popolare aiutano a combattere l’imperialismo?
La rivoluzione bolivariana, fin dal suo inizio, è stata oggetto di aggressioni da parte dell’imperialismo nordamericano, ma ha sempre saputo contrastarle e difendersi. Colpi di stato, tentati omicidi, guerra economica, pressione diplomatica e, più recentemente, sanzioni: le oltre 900 sanzioni imposte al Venezuela hanno avuto conseguenze gravissime sulla vita economica e sociale della nazione. Tutte queste difficoltà ci hanno insegnato una strategia fondamentale, basata su due pilastri: l’organizzazione popolare e l’unione civico-militare. Il popolo ha abbracciato il principio della democrazia partecipativa e dal basso. Già nel 2006 si iniziarono a costruire le organizzazioni comunali, e nel 2009 nacquero le prime comuna. Questo ha garantito al popolo un alto livello di partecipazione politica, mobilitazione, organizzazione e capacità di risolvere i propri problemi, ma anche di difendere il proprio territorio ed esercitare la sovranità . Un popolo che si mobilita, organizzato e cosciente è un’arma potentissima contro qualsiasi aggressione, esterna o interna. Questo permette di contenere varie forme di attacco: sia sul piano della guerra cognitiva, perché il popolo esercita la propria coscienza e comprende a fondo il senso della rivoluzione, sia sul piano di una guerra territoriale, perché le comuna esercitano la sovranità sul proprio territorio. Grazie a esse, ad esempio, si sono evitati fenomeni di aggressione e violenza, imparando a respingere azioni contro la sovranità nazionale. Anche sul piano economico-produttivo, le comuna sono un muscolo che permette di garantire scorte alimentari per qualsiasi evenienza. Già durante la crisi economica del 2017-19, furono i produttori agricoli (campesinos) delle comuna a distribuire cibo, evitando che il popolo venezuelano sprofondasse in una situazione di fame nera. Nonostante il sabotaggio della borghesia, si riuscì a distribuire alimenti alla popolazione, contenendo così la crisi.
Tutte le organizzazioni comunali hanno il dovere storico di mantenere viva la fiamma socialista e insistere nel cammino della rivoluzione. Come diceva Chávez, è nelle comuna che si costruisce il socialismo. Nelle nostre mani risiede la possibilità concreta e reale di continuare a forgiare, attraverso i territori comunali, l’opzione socialista come unica via per trascendere la logica nefasta del capitalismo.
E invece, nel continente, tra il premio Nobel a Maria Corina Machado e le destre che attaccano qualsiasi alternativa anche minimamente progressista, che aria tira?
La situazione nel continente è complicata. Da un lato, abbiamo il governo di estrema destra di Milei in Argentina e Bukele in El Salvador; dall’altro, emergono alternative progressiste come Sheinbaum in Messico, Petro in Colombia e Lula in Brasile. Ogni territorio vive una propria situazione complessa: si pensi alle proteste della Generazione Z in Messico o alle tensioni verso il governo di Petro, con l’avanzata della destra colombiana, che lasciano poco margine di manovra. Qualcosa si muove anche in Cile, dove Jara ha vinto il primo turno delle presidenziali, ma il candidato Kast ha alte probabilità di vincere il ballottaggio, rappresentando un altro elemento di estrema destra nel continente. In questo scenario, la posizione di Petro in Colombia e di Lula in Brasile, che rifiutano qualsiasi intervento nordamericano in Venezuela, è determinante. Aiuta a riequilibrare le relazioni geopolitiche, ma non possiamo negare che la situazione sia complicata e che il Venezuela debba far fronte a questo panorama, nel solco dell’aggressione che si avvicina. Anche l’assegnazione del premio Nobel a Maria Corina Machado rientra nell’intenzione dei poteri internazionali di promuovere una figura di estrema destra nel continente, conferendole legittimità e riconoscimento. Ritengo che questa sia una congiura, in sintonia con la tendenza dell’Impero a riprendere il controllo del suo “cortile” latinoamericano, anche in risposta alla crescente influenza di Cina e Russia nella regione.
A questo punto non rimane che una domanda: che cosa possiamo fare noi, come compagne e compagni internazionalisti, per sostenere la rivoluzione bolivariana?
Cosa possono fare i compagni al di fuori del Venezuela? Penso che, come esercizio di solidarietà fondamentale, sia cruciale informare e comunicare ciò che sta realmente accadendo qui. Le grandi corporazioni mediatiche hanno diffuso una narrativa fatalista sulla rivoluzione bolivariana. Il compito primario dei compagni e delle compagne, dei movimenti e del popolo organizzato nelle altre nazioni, è quindi quello di raccontare la realtà dei fatti, ciò che succede veramente e come viviamo qui, con le sue luci e le sue ombre, i suoi punti di forza e le sue debolezze, i suoi successi e le sue contraddizioni. Credo, inoltre, che sia ugualmente importante organizzarsi per venire a conoscere di persona come vive e cosa fa il popolo venezuelano: come si organizza per la resistenza e come, nel mezzo di questo processo, stia costruendo una società nuova.
L'articolo IL NOSTRO VIAGGIO NEL VENEZUELA ASSEDIATO DA TRUMP. INTERVISTA A JUAN CARLOS LENZO DE LA UNION COMUNERA proviene da Potere al Popolo.
Nell’aggiornamento n. 340 delle Nazioni Unite sulla situazione umanitaria nella Striscia di Gaza (12 novembre 2025), c’è una sezione dedicata alle sofferenze di oltre un milione di bambini palestinesi a Gaza. I sintomi più comuni rilevati tra i bambini sono “comportamento aggressivo (93%), violenza verso bambini più piccoli (90%), tristezza e isolamento (86%), disturbi del sonno (79%) e rifiuto dell’istruzione (69%)â€. I bambini rappresentano circa la metà della popolazione di Gaza, dove l’età media è di 19,6 anni. Ci vorrà molto tempo prima che riescano a superare questi sintomi. Non si intravede la fine delle condizioni concrete che li provocano, ovvero il genocidio e l’occupazione in corso.
I bambini subiscono attacchi straordinari da parte delle forze israeliane, alcuni dei quali sono stati documentati in un recente rapporto di Defense for Children International. Ad esempio, il 22 ottobre 2025, il sedicenne Saadi Mohammad Saadi Hasanain e un gruppo di altri bambini si sono recati nella casa distrutta di Saadi per raccogliere alcuni dei suoi effetti personali e legna da bruciare. I quadricotteri israeliani hanno aperto il fuoco su di loro, costringendo i bambini a disperdersi. Due dei ragazzi sono riusciti a sfuggire all’attacco, ma Saadi e un altro ragazzo non ce l’hanno fatta. La mattina seguente, la famiglia di Saadi ha trovato il corpo dell’altro ragazzo, con la testa fracassata. Accanto a lui hanno trovato il telefono di Saadi, le sue scarpe e i suoi pantaloni. La camicia di Saadi era legata attorno al corpo del ragazzo assassinato. Non si hanno notizie di Saadi e la sua famiglia teme che sia stato portato via dalle forze israeliane.
Il nostro ultimo dossier, Despite Everything: Cultural Resistance for a Free Palestine, include una frase potente dell’artista diciottenne di Gaza Ibraheem Mohana, che ha compiuto 18 anni durante il genocidio: “Hanno iniziato la guerra per uccidere le nostre speranze, ma non lo permetteremoâ€. Non lo permetteremo. Questo rifiuto è una sensibilità potente.
Il titolo del dossier fa riferimento alle parole dell’attore e regista palestinese Mohammad Bakri: nonostante tutto, compreso il genocidio, la cultura palestinese resisterà e fiorirà . Non solo la cultura palestinese sopravviverà al genocidio, ma saranno proprio le risorse culturali del popolo ad aiutare i bambini a guarire e a fornire loro un percorso per tornare a un certo livello di sanità mentale. L’arte è un rifugio sicuro, una pratica che permette a un popolo di gestire traumi che non possono essere assimilati nella sua vita collettiva. Il trauma inflitto ai palestinesi non è necessariamente un evento, ma un processo, un modo di vivere totale. La vita palestinese, infatti, è segnata dal trauma. L’arte è un rifugio da tale trauma. Non c’è da stupirsi che così tanti bambini sopravvissuti alla guerra e alle sue afflizioni sul corpo e sulla mente possano trovare una misura di guarigione attraverso la terapia dell’arte.
Qualche anno fa, in Palestina, ho avuto una conversazione con alcuni artisti sul ruolo dell’arte tra un popolo impegnato in una lotta per la libertà . Il tema principale della nostra discussione era se tutta l’arte palestinese dovesse riguardare l’occupazione o se potesse riguardare anche altre cose. Il consenso tra noi era che i palestinesi non hanno alcun obbligo né di umanizzarsi nei confronti di coloro che sono complici dell’occupazione, né di produrre solo arte sull’occupazione. “Perché gli artisti non possono creare arte per il proprio piacere o per coloro che amano l’arte o per dimostrare che possiamo sopravvivere di fronte alla distruzione?â€, ha chiesto Omar, un giovane artista di Jenin.
L’arte può essere un rifiuto di essere cancellato, una testimonianza contro le narrazioni imperialiste e un tentativo di mantenere viva la memoria storica. “Tutto ciò che posso usare per proteggermi – pennello, penna, pistola – sono strumenti di autodifesaâ€, ha scritto il defunto romanziere palestinese e militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Ghassan Kanafani. Gli artisti palestinesi hanno sottolineato che i sudafricani hanno prodotto murales, musica, poesia e teatro come parte della lotta contro l’apartheid (che abbiamo documentato nel nostro dossier sul Medu Art Ensemble). L’impronta della lotta per la dignità umana non è presente solo sui campi di battaglia della liberazione nazionale, ma anche nei cuori delle persone che aspirano a conquistare la libertà , anche se altri cercano di negare loro questo diritto. La lotta degli oppressi per conquistare la libertà è una lotta per trasformare le risorse culturali in una loro propria forza democratica.
Hanan Wakeem, cantante della band Darbet Shams (Sunstroke), in un’intervista per il dossier ha raccontato a Tings Chak che nei primi mesi del genocidio lei e altri palestinesi “erano segnati da uno shock totale. Molti artisti non riuscivano a cantare, muoversi o creare. C’erano continue domande sul ruolo dell’arte in un momento di genocidioâ€, ha aggiunto. “È appropriato fare musica? Se la canzone non parla della guerra, ha senso condividerla?†Queste domande rimangono, ripetendosi all’infinito quando lo spazio e il tempo crollano in un genocidio.
Poco prima dell’inizio del genocidio, i Darbet Shams hanno pubblicato una canzone intitolata Raqsa (رَقْصة), che significa danza. Il testo è sublime:
Piedi radicati nella terra,
la testa sollevata verso le stelle.
Occhi che fanno oscillare il dolore,
il cuore inciso nella luce del sole.
Vivere del respiro che ci sostiene,
per accendere sentieri ormai oscuri.
Un pensiero plasmato dallo sguardo delle persone,
un sorriso che nasconde il suo dolore.
Agita la storia che vive in noi
e la riempie di eroi.
Soffiamo una melodia nelle costole della terra
e modelliamo una patria che riflette chi siamo.
Stavo pensando a questa canzone mentre leggevo il dossier, riflettendo su quanto rimanga potente dal punto di vista poetico e politico, anticipando persino un genocidio che sembra essere la condizione permanente del popolo palestinese dal 1948.
Dal 7 ottobre 2023, le bombe israeliane sono cadute sui luoghi della riproduzione sociale palestinese (panetterie, barche da pesca, campi agricoli, case, ospedali) e sulle istituzioni della vita culturale palestinese (università , gallerie, moschee e biblioteche). Una di queste istituzioni è la Biblioteca Pubblica Edward Said nel nord di Gaza, che attirava ogni giorno decine di visitatori. Nel 2017, il poeta Mosab Abu Toha ha fondato la biblioteca e nel 2019 ha deciso di raccogliere fondi per una seconda sede nella città di Gaza, dotata di un laboratorio informatico dove bambini e adulti potevano imparare a usare i programmi per computer e progettare siti web.
Nel novembre 2023, gli israeliani hanno bombardato la Biblioteca Municipale di Gaza. Nei mesi successivi hanno bombardato anche le università pubbliche di Gaza, distruggendo le loro biblioteche. Nell’aprile 2024, tredici biblioteche pubbliche erano state cancellate. La distruzione delle biblioteche di Gaza ha portato alla formazione di Librarians and Archivists with Palestine, che ha lavorato per documentare la rovina. Pochi mesi dopo, gli israeliani hanno bombardato la Biblioteca Pubblica Edward Said e l’hanno distrutta. Nella sua dichiarazione, Abu Toha ha scritto: “Tutti i sogni che io e i miei amici a Gaza e all’estero stavamo costruendo per i nostri figli sono stati bruciati dalla campagna genocida di Israele volta a cancellare Gaza e tutto ciò che respira vita e amoreâ€.
Quando stavamo scrivendo The Joy of Reading sulle biblioteche pubbliche in Kerala (India), Cina e Messico, abbiamo pensato anche alle biblioteche simili a Gaza, molte delle quali costruite e gestite da persone volontarie. L’attacco di Israele alle biblioteche pubbliche non è un caso: distrugge spazi che salvano la vita collettiva, che promuovono il pensiero critico, l’orgoglio del patrimonio palestinese e una coscienza che dà la fiducia necessaria per sognare il futuro. Come ci ha detto Paloma Saiz Tejero della Brigade to Read in Freedom per quel dossier: “I libri ci permettono di comprendere la ragione che costituisce il nostro essere, la nostra storia; elevano la nostra coscienza, espandendola oltre lo spazio e il tempo che fondano il nostro passato e il nostro presente…Grazie ai libri, impariamo a credere nell’impossibile, a diffidare dell’ovvio, a rivendicare i nostri diritti di cittadini e ad adempiere ai nostri doveriâ€. L’occupazione non vuole che il popolo palestinese creda nell’impossibile; proprio come distrugge le loro case, i loro ospedali e le loro vite, vuole distruggere la loro capacità di sognare.
Abu Toha ha costruito la Biblioteca Pubblica Edward Said all’indomani dei cinquantuno giorni di bombardamenti su Gaza nel 2014. Durante i bombardamenti, il poeta Khaled Juma ha scritto quella che è forse una delle elegie più potenti sulla sopravvivenza palestinese:
Oh, bimbi monelli di Gaza.
Che sempre disturbavate con le vostre grida sotto la mia finestra.
Che riempivate ogni mattino di corse e caos.
Voi che avete rotto il mio vaso e rubato l’unico fiore dal mio balcone.
Tornate.
Strillate quanto volete
e rompete tutti i vasi.
Rubate tutti i fiori.
Tornate.
Solo questo, tornate.
Solo questo, tornate.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantasettesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo I PALESTINESI NON PERMETTERANNO CHE IL GENOCIDIO UCCIDA LE LORO SPERANZE proviene da Potere al Popolo.
Negli ultimi giorni la città di Torino è tornata a fare i conti con una questione che da decenni resta aperta: la parabola dell’oggi 83enne Giorgio Maria Molino, proprietario di un impero immobiliare costituito da oltre 1.400 unità immobiliari, che si conclude, almeno penalmente, con un patteggiamento di tre anni ai domiciliari e il versamento di circa 7 milioni di euro per evasione fiscale dovuti a fronte di un introito di 42 milioni di euro da canoni di locazione percepiti.
Questo esito giudiziario non può essere letto come una semplice vicenda personale, né come una conclusione isolata: rappresenta piuttosto la punta dell’iceberg di un sistema abitativo profondamente radicato nella città , che intreccia speculazione, disagio sociale e complicità istituzionali.
Per decenni, il gruppo Molino ha affittato soffitte umide, cantine anguste, sottotetti inabitabili a persone che avevano poche alternative: molti di questi inquilini infatti erano migranti in condizioni di estrema fragilità . Le indagini hanno ricostruito quello che molti di noi sapevano già e cioè che buona parte di questi affitti erano in nero, in una rete opaca di società e associazioni che permettevano al “ras delle soffitte†di nascondere al fisco ricavi enormi.
Ma non è tutto. Emerge infatti la contraddizione di case in condizioni pericolanti, con infissi cadenti, cavi elettrici esposti, controsoffitti instabili, che di fatto venivano affittate con contratti regolari. Questo paradosso racconta una realtà fatta da un lato da una regolarità formale, dall’altro dall’assenza di condizioni minime di vivibilità , abitazioni fatiscenti che non sono un diritto reale ma un ricatto fatto di precarietà .
E non è un segreto che la galassia Molino abbia avuto rapporti stretti (diretti o indiretti) con le istituzioni torinesi. Alcuni esempi sono gli immobili forniti al Comune per accogliere famiglie gravemente vulnerabili o la svendita di immobili comunali come il complesso tra via XI Febbraio, via Fiochetto e via Bazzi, in un rapporto che oscilla tra pseudo-assistenza sociale e speculazione edilizia.
Il fatto che un’attività immobiliare così massiccia e controversa potesse prosperare per decenni implica che non si sia trattato solo di un affarista disonesto, ma di un attore integrato nel tessuto urbano, con connessioni, protezioni e mutui interessi.
Il patteggiamento di Molino, sebbene dica “pagherai qualcosa, ma non finisci in carcereâ€, non risponde affatto al nodo politico: non affronta la natura strutturale del problema che ha plasmato interi quartieri e il destino abitativo di migliaia di persone. Un’indagine fiscale e una multa penale non bastano se non si cambiano le logiche su cui si fonda il mercato immobiliare torinese.
Il palazzinaro Molino ha versato una parte delle somme evase, ma rimane il fatto che per decenni ha accumulato rendite su spazi degradati, ricattando chi aveva bisogno di un tetto. Questo patteggiamento non può essere interpretato come giustizia piena se non è accompagnato da politiche concrete di riappropriazione del patrimonio edilizio speculativo.
Questa vicenda non può restare un caso isolato di rilevanza strettamente penale. Deve diventare un punto di svolta che faccia prendere coscienza delle mille criticità di un sistema che, non solo nell’illegalità , specula sulla fragilità abitativa. Se finalmente dopo anni di collusioni e sfruttamento è stato colpito un simbolo dello sfruttamento immobiliare, la giustizia sociale deve proseguire su un altro piano: quello delle politiche abitative.
Difendere il diritto all’abitare significa non solo denunciare l’illegalità , ma soprattutto costruire un’alternativa urbana in cui la casa non sia più merce per pochi speculatori, ma un diritto garantito a tuttə.
L'articolo [TORINO] OLTRE MOLINO: LE RESPONSABILITÀ DELLE AMMINISTRAZIONI NEL SISTEMA DELLO SFRUTTAMENTO ABITATIVO proviene da Potere al Popolo.
20 novembre ore 18:00 Isola pedonale Via Flavio Stilicone
La nuova legge di bilancio presentata dal governo Meloni risponde alla logica del riarmo e alla scelta di dirigere il nostro Paese verso un’economia di guerra.
Mentre salari e pensioni continuano a perdere potere d’acquisto, crescono disuguaglianze, precarietà e lavoro sottopagato; il costo della vita aumenta, il diritto alla casa, all’istruzione e alla sanità pubblica non sono garantiti.
Nonostante ciò, il governo continua a investire nelle spese militari, nel riarmo europeo e a sostenere il genocidio del popolo palestinese.
Le mobilitazioni di settembre a sostegno della Palestina hanno mostrato che sempre più persone si rifiutano di essere complici di queste scelte scellerate, rifiutando la linea del governo Meloni e delle finte opposizioni che, insieme all’Unione Europea e alla NATO, ci spingono verso un futuro di guerra e ingiustizia: serve rompere con Israele, con il sionismo e con il genocidio, vogliamo la Palestina libera!
Dai quartieri popolari diciamo chiaramente che serve un’alternativa!
Ogni giorno vediamo scuole che cadono a pezzi, università senza fondi, sanità sempre più privatizzata, mezzi pubblici inadeguati, affitti insostenibili e sfratti all’ordine del giorno.
Mentre i servizi essenziali vengono tagliati, il denaro pubblico viene dirottato verso la guerra e gli interessi dei privati.
È in corso un processo che, attraverso le politiche di riarmo, tenta di militarizzare l’intera società , aggravando il peggioramento delle condizioni di vita.
A Cinecittà , dove alle nostre spalle sorge la base militare del COVI (comando operativo di vertice interforze), questo lo sappiamo bene: nel cuore di un quartiere popolare dove mancano fondi e servizi troviamo ancora luoghi legati alla filiera bellica. Vogliamo la guerra fuori dai nostri quartieri e pretendiamo che le risorse vengano destinate a spese sociali, non a quelle militari.
Mentre il governo e le false opposizioni si schierano dalla parte della guerra e del genocidio, nei quartieri popolari mancano ospedali, scuole, trasporti e case popolari. Situazione peggiorata ulteriormente dal modello Giubielo e dalla giunta Gualtieri, che hanno scelto di svendere la città a speculatori, palazzinari e turisti ignorando le necessità di chi la vive, e per cui diciamo chiaramente che vogliamo un consiglio comunale aperto in cui portare le rivendicazioni di chi lotta nei territori, di chi li abita, e di chi vive questa città .
Noi non ci stiamo, siamo pronti ancora a bloccare tutto. Dai quartieri popolari organizziamo l’opposizione al governo Meloni e alle finte opposizioni, contro la finanziaria di guerra, e il genocidio in Palestina per mettere al centro le necessità di chi lavora, studia e abita in questo paese!
Ci vediamo il 20 novembre alle ore 18:00 all’isola pedonale di Via Flavio Stilicone per un’assemblea pubblica e per partire in corteo. Blocchiamo le basi militari nei quartieri popolari, organizziamo insieme l’opposizione in quartiere, in città e in tutto il paese, scioperiamo il 28 novembre e scendiamo tutti e tutte in piazza per la manifestazione nazionale del 29 novembre alle 14:00 a Porta San Paolo.
Aderiscono:
USB federazione Roma
Asia USB
Movimento per il diritto all’abitare
Potere al Popolo Roma
OSA Roma
Cambiare Rotta Roma
L'articolo [ROMA] BLOCCHIAMO LE BASI MILITARI NEI QUARTIERI POPOLARI. ASSEMBLEA PUBBLICA TERRITORIALE E CORTEO proviene da Potere al Popolo.
La concomitanza tra la manifestazione nazionale di Roma e la mobilitazione “No Ponte†a Messina non è una casualità . È la fotografia di una crisi sistemica che sta esplodendo su fronti diversi ma collegati. Questo doppio appuntamento è un’occasione politica per chi vuole trasformare la protesta in un progetto di potere popolare.
La lotta contro il Ponte non può essere ridotta solamente a una questione ambientale o localistica, perchè rappresenterebbe un errore strategico. Il Ponte è l’emblema del neocolonialismo interno che oggi assume la forma del neoliberismo.
Spreco di risorse pubbliche in Grandi Opere mentre crollano la sanità e la scuola.
Devastazione ambientale a beneficio delle lobby del cemento e della finanza.
Attacco di classe che, sotto la retorica del “declino demograficoâ€, maschera la cancellazione dei servizi e la precarizzazione di massa.
A questo si aggiunge un pericolo concreto e strutturale: l’infiltrazione mafiosa. Come dimostra il precedente dell’asse Salerno-Reggio Calabria, le Grandi Opere sono un moltiplicatore di corruzione e un banchetto per le cosche, che attraverso appalti, subappalti e controllo del territorio si arricchiscono e consolidano il loro potere. Il Ponte sullo Stretto, con i suoi miliardi di euro, rappresenta il massimo bottino possibile.
È lo stesso modello che produce la Legge di Bilancio della Meloni: una macchina da guerra sociale che taglia i redditi dei poveri, finanzia i profitti dei ricchi e regala miliardi all’industria bellica, mostrando il volto autoritario e razzista di questo sistema.
Il “filo rosso†che unisce Messina a Roma, e la lotta No Ponte alla solidarietà con la Palestina, è la consapevolezza che stiamo combattendo lo stesso sistema.
Il capitalismo che devasta lo Stretto è lo stesso che bombarda Gaza.
Il riarmo della NATO e il sostegno al sionismo sono due facce della stessa medaglia: la crisi di un sistema che cerca profitto nella guerra e nel genocidio.
Le complicità del governo Meloni con il massacro dei palestinesi svelano gli stessi appetiti speculativi delle lobby immobiliari, pronte a “ricostruire†ciò che le bombe hanno distrutto, esattamente come fanno con i territori italiani.
Non è una coincidenza, ma un modello di business. Le stesse grandi aziende italiane di costruzioni e ingegneria (come Webuild, già Salini Impregilo, leader del consorzio per il Ponte) sono in prima fila nei progetti di “ricostruzione” a Gaza, pronti a trasformare un genocidio in un’opportunità di profitto. È la “shock economy” in azione: si sfrutta la devastazione di un territorio, sia essa causata da una bomba o da una decisione politica, per aprire nuovi mercati e intascare soldi pubblici.
Come denuncia l’appello “Blocchiamo Tuttoâ€, siamo di fronte a un “modello di sviluppo fondato sulle grandi opere, sul riarmo, sullo sfruttamento”, un modello che non si può riformare, ma che deve essere fermato e smantellato. La guerra in Palestina, le Grandi Opere, la finanziaria di guerra sono anelli della stessa catena. Non viviamo la stessa tragedia, ma abbiamo gli stessi nemici: il capitale, il fascismo, il riarmo, il sionismo.
La lotta contro il ponte continua a rappresentare la capacità del mezzogiorno di proporre all’intero paese un modello sociale e produttivo diverso per esso, che garantisca lavoro sicuro e onesto, servizi pubblici di qualità , che rendano certi ed esigibili il diritto all’acqua, alla salute, alla scuola.
La lezione di Gramsci è più attuale che mai: il vero conflitto non è Nord contro Sud, ma tra chi subisce il modello di sviluppo capitalista e chi ne trae profitto. Il Mezzogiorno è stato storicamente una colonia interna sfruttata dall’alleanza tra il capitale del Nord e i poteri locali.
Oggi, adottando una prospettiva di classe, la lotta per il territorio diventa lotta per un Piano Pubblico e Popolare che blocchi le Grandi Opere inutili e destini quelle risorse a sanità , scuola, trasporti, salari e pensioni,  che socializzi i settori strategici, togliendoli dalla logica del profitto e che riconverta l’industria bellica in un sistema produttivo al servizio dei bisogni sociali.
La sfida di queste giornate è dimostrare che esiste un’alternativa di sistema. Non ci accontentiamo di protestare; vogliamo cambiare tutto!
Dobbiamo affermare la necessità di unire tutte le lotte: dai movimenti No Ponte ai sindacati di base in sciopero, dai comitati per la casa ai movimenti che lottano contro la devastazione ambientale e sociale della speculazione energetica fino ai movimenti che lottano per la Palestina libera.
L’obiettivo è costruire un blocco sociale antagonista in grado di unire il proletariato metropolitano, le periferie, il Sud e tutti gli sfruttati, per rovesciare l’attuale rapporto di forza e imporre un programma che metta al centro la vita, la pace e i diritti, e non il profitto di pochi.
Per queste  ragioni Potere al Popolo parteciperà alla manifestazione No Ponte del 29 novembre a Messina.
Dallo Stretto a Roma, un solo filo rosso: blocchiamo tutto, per cambiare tutto!
L'articolo DA ROMA ALLO STRETTO DI MESSINA: UN SOLO FILO ROSSO CONTRO LA DITTATURA DEL CAPITALE proviene da Potere al Popolo.
Nella primavera del 2026 si svolgerà il Referendum Confermativo sulla legge “Nordioâ€, cioè sulla legge costituzionale del Governo Meloni che fa cambiato le regole interne alla magistratura. Noi di Potere al Popolo votiamo e invitiamo a votare NO per queste ragioni:
1) Questa non è una riforma della giustizia, ma solamente un cambiamento nel sistema di carriere e autogoverno della magistratura. Noi riteniamo necessario che in Italia si garantiscano effettivi diritti alle persone, in primo luogo alla grande maggioranza che non può permettersi di spendere montagne di soldi per accedere alla giustizia o per avere giustizia. Questo significa cambiare le leggi che puniscono i migranti, i poveri, i lavoratori, questo significa abolire i decreti sicurezza e la Bossi Fini. Questo significa investire risorse per permettere l’accesso gratuito ai tribunali di chi denuncia sfruttamento e violenze per le persone e devastazione per l’ambiente. Questo significa applicare l’articolo 3 della Costituzione per rimuovere quella giustizia debole coi forti e forte coi deboli che si sta affermando nei fatti. La legge Nordio non fa nulla di tutto questo, chiunque la presenti come una riforma della giustizia imbroglia.
2)  Il risultato più esaltato della legge Nordio è la separazione delle carriere tra i magistrati che fanno le indagini, i pubblici ministeri, e i magistrati che emettono le sentenze, i giudici. Come al solito quando in Italia si fa una “riforma†si annuncia: facciamo come gli Stati Uniti. Questo americanismo nella giustizia sicuramente non porta nulla di buono, visto che se c’è al mondo una giustizia di classe dove decidono i soldi, è quella degli USA. In concreto la separazione delle carriere in Italia a riguarda poche decine di magistrati su migliaia, perché allora tanto clamore? Perché con la separazione in proprio sistema dei pubblici mi isteri, questi diventerebbero dei super poliziotti. E alla fine sarebbero sicuramente soggetti al controllo del potere politico e di quello economico ad esso collegato. Non è vero? E allora perché tutti gli esponenti di governo che esaltano la legge Nordio partono dalle presunte “persecuzioniâ€Â che avrebbero subìto Berlusconi e i politici, dalla bocciatura del Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei Conti, dalle indagini della magistratura sul Sistema Milano? È proprio la propaganda a favore della Legge Nordio a chiarire le reali intenzioni di chi l’ha voluta e cioè sottoporre la magistratura al potere politico in modo che non osi disturbare il manovratore.
3)   Ancora più grave sul piano della democrazia è l’eliminazione del diritto dei magistrati a eleggere liberamente i propri rappresentanti nel CSM. D’ora in poi i rappresentanti dei magistrati negli organi di autogoverno sarebbero estratti a sorte e non più eletti. Solo il corporativismo fascista, per il quale nessuna forma di democrazia è ammessa nelle strutture delle Stato, può dare origine ad una tale controriforma, non solo nemica delle libertà  dei magistrati, ma di quelle di tutti. L’elezione del CSM è stata una conquista della stagione delle grandi riforme democratiche degli anni sessanta e settanta. L’abolizione del diritto al voto per i magistrati fa parte del modello aziendalista con cui si distrugge la democrazia. In più nel CSM resterebbe la quota di membri di nomina politica. Quindi la politica ufficiale potrebbe inserire i suoi esponenti nel CSM, mentre ai magistrati sarebbe vietato scegliere democraticamente i propri rappresentanti. Una ulteriore subordinazione della giustizia agli interessi di chi comanda.
4) Il governo Meloni, il mondo politico e mediatico berlusconiano, liberali e centristi anche del PD, sono a favore della legge Nordio. Per essi questa legge è parte di un pacchetto di controriforme neoliberali che vorrebbero smantellare ciò che resta della Costituzione antifascista. L’autonomia differenziata, il premierato, leggi elettorali sempre più truffaldine, norme da stato di polizia, sono tutte parte un sistema autoritario che il Governo Meloni vuole imporre nel nome della libertà d‘impresa e dell’arbitrio del potere politico. Per questo la magistratura va posta sotto controllo, così come ogni potere indipendente dal palazzo e dal sistema degli affari.
Il nostro NO alla controriforma Nordio del Governo Meloni è coerente con quello del 2016 alla controriforma costituzionale del Governo Renzi, ma non ha nulla a che fare con qualsiasi forma di giustizialismo “legge e ordineâ€. Noi non difendiamo la magistratura, ma la libertà popolare contro ogni potere autoritario che voglia imporre i privilegi dei potenti e dei ricchi.
Con questa impostazione la nostra campagna per il NO sarà contro la destra e indipendente dal campo largo, nel nome dell’eguaglianza sociale e di quella dei diritti.
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È di ieri la notizia di una nuova operazione militare degli USA al largo delle coste caraibiche. Venerdì 14 novembre infatti il Segretario della Difesa statunitense Pete Hegseth ha twittato: “Oggi annuncio l’operazione ‘Southern Spear’. Guidata dalla Joint Task Force Southern Spear e dal U.S. Southern Command, questa missione difende la nostra patria, elimina i narco-terroristi dal nostro emisfero e protegge la nostra patria dalle droghe che stanno uccidendo la nostra genteâ€.
L’operazione viene annunciata nel momento in cui la USS Gerald R Ford, la portaerei più potente degli Stati Uniti, si sta avvicinando alle coste del Venezuela, in quello che è stato descritto come uno straordinario dispiegamento di forza militare statunitense che non si vedeva da generazioni in Sud America. Quello che sta succedendo è un vero e proprio rinnovamento della Dottrina Monroe: con il pretesto di combattere il traffico della droga proveniente dal continente sudamericano, il Presidente sta semplicemente affermando la supremazia degli Stati Uniti sulle due Americhe. La posta in gioco per gli USA è chiara: da un lato si tratta di garantirsi l’accesso alle immense risorse di petrolio, acqua e altre materie prime, ma anche alla produzione di generi alimentari del continente sudamericano (guerra economica e commerciale); dall’altro lato vogliono soffocare le esperienze di governi progressisti e socialisti (battaglia ideologica).
L’ampliamento della presenza militare USA in Sud America e nei Caraibi è confermato dalla riapertura di una base militare in Puerto Rico chiusa nel 2006: già a settembre di quest’anno l’esercito statunitense aveva spostato vari caccia F-35 nella vecchia base “Roosevelt Roads” in cui le piste di partenza e atterraggio sono state nuovamente asfaltate.
Inoltre, il governo Trump sta esercitando una forte pressione sul presidente dell’Ecuador Daniel Noboa – un giovane 38enne nato a Miami, Florida, USA, e figlio di una famiglia di imprenditori che si è arricchita con il commercio di banane (sic!) – che ha indetto un referendum volto a eliminare l’esplicito divieto costituzionale di aprire basi militari straniere sul suolo ecuadoriano. Se il referendum del 16 novembre dovesse passare, l’Ecuador – reduce da uno sciopero generale di 35 giorni indetto dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador (CONAIE) contro l’eliminazione del sussidio sul diesel e contro le ingerenze straniere nel paese – in pratica consegnerebbe agli USA le sue isole dell’Oceano Pacifico, le Galapagos in primis.
Ma l’offensiva imperialista degli USA non si limita alla militarizzazione del Continente. Prima delle elezioni parlamentari di fine ottobre in Argentina, il segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent è venuto in soccorso al presidente di ultra-destra Javier Milei con l’acquisto di pesos argentini e l’accordo per uno scambio valuta con la Banca Centrale argentina per un valore di 20 miliardi di dollari. Questa iniezione di dollari ha tranquillizzato i mercati argentini, ma si tratta di una stabilizzazione a breve termine che non risolve i problemi strutturali del Paese (crollo della produzione industriale, insicurezza alimentare, povertà dilagante, smantellamento del welfare etc.). Il ricatto di Trump, però, ha funzionato.
Un ultimo esempio per come l’internazionale reazionaria si sta strutturando lo abbiamo visto sempre a fine ottobre di quest’anno a Rio de Janeiro, in Brasile. Il governatore dello Stato di Rio, Claudio Castro, ha condotto un’operazione militare nelle favelas delle città uccidendo oltre 120 persone, molte di cui innocenti. Infatti, più che un intervento contro la banda criminale “Comando Vermelho” si è trattato di un attacco violento contro i poveri e di un messaggio verso l’esterno: il governatore Castro è uno sfegatato bolsonarista; l’operazione è stato un esempio per come i metodi trumpiani vengano applicati sempre di più all’interno dei paesi latinoamericani, ma anche una “richiesta” di un diretto intervento di Trump in vista delle prossime presidenziali nell’ottobre del 2026.
Trump risponde alla crisi dell’egemonia statunitense con una maggiore militarizzazione del mondo. L’Europa – con a capo il governo italiano di Giorgia Meloni – segue a pari passo aumentando le spese militari e attaccando i diritti delle classi popolari. Oggi, più che mai, è un nostro obbligo interrompere il funzionamento di questa vera e propria generalizzata economia di guerra, come ci hanno insegnato i portuali del nostro Paese con gli scioperi generali dei mesi scorsi e milioni di persone di tutto il mondo scese in piazza per la pace e contro la guerra.
Così, di fronte a quello che sta avvenendo nel continente latinoamericano, una nostra massiccia partecipazione allo sciopero generale del 28 novembre e alla manifestazione nazionale del 29 novembre a Roma è ancora più importante.
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Lo scorso settembre è stato annunciato dal CEO del gruppo Rheinmetall l’avvio della fase finale della trattativa di cessione del ramo d’azienda Power Systems, cui appartiene anche lo stabilimento Pierburg di via Salvatore Orlando, a Livorno. Tale trattativa mette a rischio il futuro di 245 lavoratrici e lavoratori, che hanno già costituito un’assemblea e approvato lo stato di mobilitazione permanente per salvaguardare il proprio futuro occupazionale.
Lo stabilimento Pierburg rappresenta una realtà produttiva di rilievo per la città , costruita nel tempo grazie alla professionalità , alla competenza e all’impegno quotidiano delle lavoratrici e dei lavoratori che vi operano. La prospettata cessione del ramo d’azienda coinvolgerebbe il fondo di investimento statunitense One Equity Partners, un soggetto di natura puramente finanziaria e orientato a strategie di breve e medio periodo, che non garantirebbe automaticamente la continuità industriale dei siti produttivi.
Tale prospettiva suscita una forte preoccupazione per il futuro del polo livornese, dove lavorano 245 addette e addetti altamente specializzati in ambiti tecnici e meccanici, competenze cruciali anche nell’ottica di transizione verso una mobilità più sostenibile.
La multinazionale tedesca, negli ultimi anni, ha concentrato i propri investimenti sul settore della cosiddetta difesa (armi, munizioni, veicoli militari e tecnologie belliche) avviando un progressivo disimpegno dalle attività civili, in particolare dal comparto automotive. Quest’ultimo, che impiega oltre diecimila dipendenti in circa quaranta sedi tra Europa, Nord America, Cina e Giappone, è destinato ad essere ceduto in blocco. In Italia gli stabilimenti coinvolti sono tre, e tra questi quello di via Salvatore Orlando a Livorno.
Se da una parte tutto questo porta a licenziamenti e delocalizzazioni già di per sé inaccettabili, non possiamo non far notare che è solo una delle inevitabili conseguenze di ciò che rappresenta e comporta il piano RearmEurope votato da larga parte dei partiti rappresentati anche in questo consiglio comunale, sia all’opposizione che nella giunta.
La spinta folle nella direzione di una conversione della produzione civile in bellica, con lo stanziamento di decine se non centinaia di miliardi a debito, è destinata inevitabilmente a riprodurre questi scenari in tutta Italia e a tagliare ancora una volta ai diritti sociali e al welfare di questo paese.
Da quando Rheinmetall ha comunicato ai sindacati la volontà di uscire dal settore automotive, il destino delle lavoratrici e dei lavoratori livornesi è diventato incerto.
Un messaggio chiaro arriva anche dalla loro assemblea del 13 maggio scorso:
“Vogliamo informazioni complete e trasparenti. Qualora avvenga tale passaggio societario, deve essere a un soggetto industriale che garantisca tutti i contratti in essere e tutti i lavoratori dell’indotto, con clausole di stabilità per i prossimi anni e anti-delocalizzazione. La direzione aziendale deve presentare un preciso piano industriale che preveda investimenti, nuovi prodotti, mercati, formazione, tempistiche e ricadute operative sul sito di Livorno.â€
In sostanza, la cessione così come prospettata rischia di compromettere la continuità del lavoro delle maestranze locali, minando la sicurezza economica e sociale di decine di famiglie e privando la comunità di un patrimonio di esperienze e capacità tecniche che costituisce un valore per l’intero territorio.
Il prossimo 25 novembre 2025 si terrà un tavolo di confronto presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, riguardante il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti. Da questo tavolo è necessario emerga un percorso che garantisca la piena tutela dei livelli occupazionali, contrattuali e produttivi, garantendo trasparenza e coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori, delle istituzioni locali e delle rappresentanze sindacali.
L’Amministrazione comunale, pur non avendo competenze dirette nell’ambito delle trattative societarie, ha il dovere politico di difendere il tessuto produttivo cittadino e di rappresentare con forza la comunità livornese nelle sedi istituzionali opportune.
Proprio per questo pochi giorni fa siamo intervenuti in consiglio comunale, così da fare pressione affinché l’amministrazione e la giunta si interessino attivamente alla faccenda e ne seguano da vicino gli sviluppi a tutela esclusiva dei 245 lavoratori coinvolti.
Potere al Popolo esprime la piena solidarietà e vicinanza alle lavoratrici e ai lavoratori della Pierburg di Livorno, impegnati nella lotta a difesa dei propri diritti e del proprio futuro.
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Ai primi di novembre, il Segretario Generale delle Nazioni Unite (ONU) António Guterres ha parlato della “terribile crisi in Sudan, che sta sfuggendo ad ogni controlloâ€. Ha esortato le parti in conflitto a “porre fine a questo incubo di violenza – oraâ€. Esiste un modo per porre fine alla guerra, ma semplicemente non c’è la volontà politica di farlo. Nel maggio del 2025 abbiamo scritto della storia del conflitto. Nel 2019 abbiamo parlato della rivolta sociale che ha avuto luogo quell’anno e delle sue conseguenze. Oggi come Tricontinental: Institute for Social Research, Assemblea Internazionale dei Popoli e Pan Africanism Today pubblichiamo l’allerta rossa n. 21 sulla necessità della pace in Sudan.
Qual è la realtà sul campo in Sudan?Il 15 aprile 2023 è scoppiata la guerra tra le Forze Armate Sudanesi (Sudanese Armed Forces SAF) guidate dal capo del Consiglio Militare di Transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido (Rapid Support Forces RSF) guidate dal tenente generale Mohamed “Hemedti†Hamdan Dagalo. Da allora, sostenute da vari governi esterni al Sudan, le due parti hanno combattuto una terribile guerra di logoramento in cui le vittime principali sono i civili. È impossibile dire quante persone siano morte, ma è chiaro che il bilancio delle vittime è significativo. Secondo una stima, solo nei giorni tra aprile 2023 e giugno 2024 il numero delle vittime è stato pari a 150.000; inoltre, diversi crimini contro l’umanità commessi da entrambe le parti sono già stati documentati da varie organizzazioni per i diritti umani. Almeno 14,5 milioni di sudanesi su una popolazione di 51 milioni sono stati sfollati. Le persone che vivono nella fascia tra El Fasher, nel Darfur settentrionale, e Kadugli, nel Kordofan meridionale, stanno lottando contro la fame acuta e la carestia. Una recente analisi della Classificazione integrata della sicurezza alimentare delle Nazioni Unite (scala IPC) ha rilevato che circa 21,2 milioni di sudanesi, pari al 45% della popolazione, sono esposti a livelli elevati di grave insicurezza alimentare, con 375.000 persone in tutto il paese che soffrono di fame a livelli “catastrofici†(cioè sull’orlo della morte per inedia).
Dall’inizio della guerra, centinaia di migliaia di sfollati interni hanno cercato rifugio a El Fasher, allora controllata in gran parte dalle SAF. Circa 260.000 civili erano ancora lì nell’ottobre 2025, quando le RSF hanno spezzato la resistenza, sono entrate in città e hanno compiuto una serie di massacri documentati. Tra le vittime c’erano 460 pazienti e i loro accompagnatori del Saudi Maternity Hospital. La caduta della città ha fatto sì che le RSF controllino ora gran parte della vasta provincia del Darfur, mentre le SAF controllano gran parte del Sudan orientale, compreso Port Sudan, l’accesso del Paese al mare e al commercio internazionale, nonché la capitale Khartoum.
Al momento non vi sono segni di de-escalation.
Perché le SAF e le RSF stanno combattendo?Nessuna guerra di questa portata ha una causa semplice. La ragione politica è chiara: si tratta di una controrivoluzione contro la rivolta popolare del 2019 che è riuscita a rovesciare il presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1993 e i cui ultimi anni di governo sono stati caratterizzati da un aumento dell’inflazione e da una crisi sociale.
Le forze popolari e di sinistra che hanno guidato la rivolta del 2019 – il Partito Comunista Sudanese, le Forze di Consenso Nazionale, l’Associazione Professionale Sudanese, il Fronte Rivoluzionario Sudanese, le Donne dei Gruppi Civici e Politici Sudanesi e molti comitati di resistenza locali e di quartiere – hanno costretto i militari ad accettare di supervisionare la transizione verso un governo civile. Con l’assistenza dell’Unione Africana, è stato istituito il Consiglio di sovranità transitorio, composto da cinque membri militari e sei civili. Abdalla Hamdok è stato nominato primo ministro e il giudice Nemat Abdullah Khair presidente della Corte Suprema, con al-Burhan e Hemedti anch’essi membri del consiglio. Il governo civico-militare ha ulteriormente distrutto l’economia lasciando fluttuare la valuta e privatizzando lo Stato, rendendo così più redditizio il contrabbando di oro e rafforzando le RSF (questo governo ha anche firmato gli Accordi di Abraham, che hanno normalizzato le relazioni con Israele). Le politiche del governo civico-militare hanno esacerbato le condizioni fino ad arrivare alla perdita di controllo dello Stato di sicurezza (potere) e del commercio dell’oro (ricchezza).
Nonostante i loro ruoli nel consiglio, al-Burhan e Hemedti hanno tentato dei colpi di Stato fino a quando non ci sono riusciti nel 2021. Dopo aver messo da parte i civili, i due leader militari si sono scontrati tra loro. Gli ufficiali delle SAF hanno cercato di mantenere il controllo sull’apparato statale, che nel 2019 ha assorbito l’82% delle risorse di bilancio dello Stato (come confermato dal primo ministro Abdalla Hamdok nel 2020). Hanno inoltre cercato di mantenere il controllo delle sue imprese, gestendo più di 200 società attraverso entità come il Defence Industries System controllato dalle SAF (le entrate annuali sono stimate a 2 miliardi di dollari) e conquistando una quota significativa dell’economia formale del Sudan nei settori minerario, delle telecomunicazioni e del commercio di materie prime di import-export. Le RSF – provenienti dalla milizia Janja’wid (diavoli a cavallo) – hanno cercato di sfruttare l’economia di guerra attorno alla Al Junaid Multi-Activities Corporation, che controlla le principali aree di produzione dell’oro nel Darfur e circa una mezza dozzina di siti minerari, tra cui Jebel Amer. Poiché il 50-80% della produzione totale di oro del Sudan è contrabbandato (numeri del 2022) principalmente verso gli Emirati Arabi Uniti e poiché le RSF dominano la produzione nelle zone minerarie artigianali del Sudan occidentale (che rappresentano l’80-85% della produzione totale), le RSF incassano ogni anno ingenti somme provenienti dai proventi dell’oro (stimati a 860 milioni di dollari nel 2024 solo per le miniere del Darfur).
Al di là di queste contese politiche e materiali, vi sono pressioni ecologiche che aggravano la crisi. Una delle ragioni del lungo conflitto nel Darfur è stata l’inaridimento del Sahel. Per decenni, le piogge irregolari e le ondate di calore dovute alla catastrofe climatica hanno ampliato il deserto del Sahara verso sud, rendendo le risorse idriche una causa di conflitto e scatenando scontri tra nomadi e agricoltori stanziali. Metà della popolazione sudanese vive in condizioni di grave insicurezza alimentare. L’incapacità di creare un piano economico per una popolazione devastata dai rapidi cambiamenti climatici, insieme al furto di risorse da parte di una piccola élite, rende il Sudan vulnerabile a conflitti di lunga durata. Non si tratta solo di una guerra tra due personalità forti, ma di una lotta per la trasformazione delle risorse e il loro saccheggio da parte di potenze esterne. Un accordo di cessate il fuoco è nuovamente sul tavolo, ma la probabilità che venga accettato o rispettato è molto bassa fintanto che le risorse rimangono il premio ambito dai vari gruppi armati.
Quali sono le possibilità di pace in Sudan?Il percorso verso la pace in Sudan richiederebbe sei elementi:
1. Un cessate il fuoco immediato e monitorato che includa la creazione di corridoi umanitari per il transito di cibo e medicine. Questi corridoi dovrebbero essere gestiti dai Comitati di Resistenza, che hanno la credibilità democratica e le reti per fornire aiuti direttamente a chi ne ha bisogno.
2. La fine dell’economia di guerra, in particolare la chiusura dei canali di approvvigionamento di oro e armi. Ciò comporterebbe l’imposizione di sanzioni severe sulla vendita di armi e sull’acquisto di oro dagli Emirati Arabi Uniti fino a quando questi non interromperanno ogni relazione con le RSF. È inoltre necessario attuare controlli sulle esportazioni a Port Sudan.
3. Il ritorno in sicurezza degli esiliati politici e l’avvio di un processo di ricostruzione delle istituzioni politiche sotto un governo civile eletto o sostenuto dalle forze popolari, principalmente dai Comitati di Resistenza. Le SAF devono essere private del loro potere politico e dei loro beni economici e sottomesse al governo. Le RSF devono essere disarmate e smobilitate.
4. La ricostruzione immediata dell’alta magistratura sudanese per indagare e perseguire i responsabili delle atrocità .
5. La creazione immediata di un processo che identifichi le responsabilità , incluso il perseguimento dei signori della guerra attraverso un tribunale adeguato costituito in Sudan.
6. La ricostruzione immediata della commissione di pianificazione del Sudan e del suo ministero delle finanze per trasferire le ricchezze verso i beni pubblici e le protezioni sociali e non dedicarle semplicemente all’export.
Questi sei punti seguono i tre pilastri dell’Unione Africana e dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo AU-IGAD Joint Roadmap for the Resolution of the Conflict in Sudan (2023). La difficoltà di questa roadmap, come di proposte simili, è che dipende dai donatori, compresi gli attori implicati nella violenza. Per realizzare questi sei punti è necessario esercitare pressioni sulle potenze esterne affinché cessino il loro sostegno alle SAF e alle RSF. Tra queste figurano l’Egitto, l’Unione Europea, il Qatar, la Russia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti. Né questa roadmap ufficiale né il canale di Jeddah – un percorso di mediazione saudita-statunitense avviato nel 2023 che si concentra esclusivamente su brevi tregue militari e l’entrata di aiuti umanitari – includono i gruppi civili sudanesi, tanto meno i Comitati di Resistenza.
Il Sudan ha prodotto i suoi propri poeti che cantano il dolore e la sofferenza, ma abbiamo deciso di chiudere con una nota diversa. Nel 1961, il poeta comunista Taj el-Sir el-Hassan (1935-2013) scrisse “Una canzone afro-asiaticaâ€, che inizia commemorando il massacro di Kosti a Joudeh nel 1956, quando 194 contadini in sciopero furono soffocati a morte mentre erano in custodia della polizia. Ma è alla fine della canzone che ci rivolgiamo, con la voce del poeta che risuona sopra gli spari:
Nel cuore dell’Africa sto in prima linea,
e fino a Bandung il mio cielo si sta espandendo.
L’olivo è la mia ombra e il mio cortile,
O miei compagni:
O compagni d’avanguardia, che guidate il mio popolo alla gloria,
le vostre candele stanno inondando il mio cuore di luce verde.
Canterò la strofa finale,
alla mia amata terra;
ai miei compagni in Asia;
alla Malesia,
e alla vivace Bandung.
Al popolo di El Fasher, a quelli di Khartoum, ai miei compagni a Port Sudan: camminate verso la pace.
Con affetto,
Vijay
*Traduzione della quarantaseiesima newsletter (2025) di Tricontinental: Institute for Social Research.
Come Potere al Popolo traduciamo la newsletter prodotta da Tricontinental: Institute for Social Research perché pensiamo affronti temi spesso dimenticati da media e organizzazioni nostrane e perché offre sempre un punto di vista interessante e inusuale per ciò che si legge solitamente in Italia. Questo non significa che le opinioni espresse rispecchino necessariamente le posizioni di Potere al Popolo. A volte accade, altre volte no. Ma crediamo sia comunque importante offrire un punto di vista che spesso manca nel panorama italiano.
L'articolo CHE IL POPOLO SUDANESE CAMMINI VERSO LA PACE proviene da Potere al Popolo.