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Introduzione al pensiero di Gianfranco La Grassa

Introdurre La Grassa a chi non lo conosce (fonte legauche.net)

Per introdurre il pensiero di Gianfranco La Grassa è utile prendere in mano Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa scritto da Piotr Zygulski.

Il termine “meccanico del marxismo†è di Costanzo Preve e serve a descrivere il lavoro dell’economista veneto come un tentativo orientato non alla rianimazione della teoria di Marx bensì alla sua analisi per provare a smontare e rimontare, anche con pezzi nuovi, questa dottrina politica che avrebbe bisogno più di un nuovo motore che di nuovi autisti. Questa operazione richiede di individuare con precisione le parti difettose per poi apporre delle modifiche efficaci che possono produrre un risultato poco lontano dall’originale o la creazione di una vettura del tutto nuova e difficilmente distinguibile dal punto di partenza. Per capire come e perché è stato realizzato tutto ciò è bene presentare qualche dato biografico. Gianfranco La Grassa nasce nel 1935 a Conegliano da una famiglia di origini siciliane che possedeva un’azienda in Veneto specializzata nella produzione di vini e vermut. Nel 1953 approda al marxismo e si avvicina al PCI dopo una vacanza a Palermo dove scopre i libri di Marx e di Stalin. Dopo il diploma presso la scuola enologica di Conegliano si iscrive all’Università Ca’ Foscari di Venezia e inizia a partecipare alle riunioni del PCI pur non prendendo la tessera del partito. Nel 1959, dopo uno scambio epistolare, il suo maestro italiano, Antonio Pesenti, lo convince a trasferirsi all’Università di Parma dove aveva la cattedra di Scienza delle Finanze e di Diritto Finanziario. Nello stesso periodo inizia a prendere le distanze dal PCI e dalla “via italiana al socialismo†di Togliatti e non accetta le conclusioni del XX congresso del PCUS colpevole, secondo La Grassa, di incolpare dei crimini dello stalinismo unicamente la figura di Stalin e per questo iniziò ad avvicinarsi al maoismo. Nel 1963 rompe in maniera definitiva con il PCI dopo una complicata riunione di partito con il Comitato Federale di Treviso a cui fa seguito l’inizio della scrittura di una serie di ciclostilati di analisi politica tramite cui accusava di “neorevisionismo†sia il PCUS che il PCI. Contestualmente prende contatti con le Edizioni Oriente di Milano che si occupavano della traduzione e diffusione nel nostro paese dei testi maoisti cinesi ma non militò mai nei vari gruppi marxisti-leninisti nati in quel periodo perché secondo l’economista veneto proponevano un’analisi politica insufficiente e una prassi politica grossolana. Dopo la laurea nel 1964 venne chiamato da Pesenti all’Università di Pisa, dove nel frattempo si era trasferito, per fare prima l’assistente volontario e poi, nel 1968, l’assistente di ruolo. Nel 1970 pubblica la sua prima opera di un certo rilievo, ovvero l’appendice di microeconomia ai due volumi del Manuale di Economia di Pesenti. Nello stesso periodo La Grassa si sposta per due anni a Parigi per seguire i corsi dell’EPHE, poi divenuto EHESS nel 1975, del suo maestro francese Charles Bettelheim a partire dal libro Calcolo economico e forme di proprietà ed entra in stretta relazione con la scuola di Louis Althusser. Nel 1972, al suo rientro in Italia, divenne professore incaricato a Pisa ed iniziò a collaborare con molte riviste di orientamento marxista come Ideologie diretta da Ferruccio Rossi-Landi, Utopia di Mario Spinella, Che Fare di Francesco Leonetti, Problemi del socialismo di Lelio Basso e l’organo teorico del PCI Critica Marxista. Infatti, nonostante non sia più da tempo vicino al PCI, le sue analisi sono apprezzate dalla dirigenza del partito con cui La Grassa mantiene delle buone relazioni anche grazie alle collaborazioni con il suo maestro Pesenti scomparso nel 1973. Zygulski opportunamente ricorda che in questo periodo l’economista veneto scrive interventi sul pensiero di Marx vicini alla lettura di Althusser, pur con una loro originalità, intervenendo nel dibattito tra Emilio Sereni e Cesare Luporini all’interno di Critica Marxista partito dal lavoro di alcuni gruppi di studio focalizzati sull’analisi dei diversi modi di produzione nati su impulso di Giorgio Amendola. In questo contesto La Grassa scrive il saggio, contenuto in Critica Marxista n.4 del 1972, dal titolo Modo di produzione, rapporti di produzione e formazione economico-sociale che ha come scopo definire la nozione di formazione economico-sociale. Prima di lavorare in tal senso, l’autore fornisce una definizione del concetto di modo di produzione a partire da Marx. Per La Grassa nel modo di produzione è possibile rintracciare fusi due elementi, uno di carattere prevalentemente tecnico e l’altro di carattere squisitamente sociale. Stiamo parlando delle forze produttive, del loro livello e del loro ritmo di sviluppo, e dei rapporti sociali di produzione. Il modo di produzione è il campo comprensivo di questi due elementi che si integrano profondamente, si attraggono l’un l’altro finendo per realizzare un’unità complessa e internamente differenziata. Quindi possiamo dire che le forze produttive rappresentano il contenuto mentre i rapporti di produzione la forma di questa sintesi. Davanti ad una società stabilizzata, ovvero di forme sociali tra loro integrate sia al livello di base economica che di sovrastruttura, è facile individuare il referente reale del concetto di modo di produzione. Il modo di produzione è un dato insieme di metodi tecnici e organizzativi impiegati nel processo produttivo e allo stesso tempo un ben definito sistema di strutturazione in classi della società. Questo ci porta a dire che nella società borghese, nel momento in cui il modo di produzione capitalistico è stabilmente affermato, le forze produttive e le modalità con cui si sviluppano sono in linea con i rapporti di produzione e con le relazioni tra le classi. Tutte queste riflessioni vanno problematizzate nei momenti di passaggio tra il dominio di un modo di produzione e la dominanza di un altro modo di produzione. Infatti la connotazione reale di un modo di produzione in una simile situazione diventa molto incerta e di conseguenza ci troviamo di fronte ad una sfasatura, ad un non coordinamento tra forze produttive e rapporti di produzione. La Grassa fornisce un esempio di ciò quando parla del primo passo compiuto sulla via della transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico con l’affermazione di nuovi rapporti di produzione capitalistici. Questi rapporti esistevano già agli inizi della manifattura, quando ancora non si distinguevano dall’artigianato se non per il numero degli operai impiegati. Perciò il capitale in quanto rapporto storico e particolare rapporto di produzione tra non lavoratori-proprietari dei mezzi di produzione, inizialmente proprietari degli oggetti di lavoro e capitale monetario e in un secondo momento anche degli strumenti di produzione, e lavoratori-non proprietari ha preceduto la trasformazione tecnica. I capitalisti potevano comprare sul mercato la forza lavoro con le sue particolari abilità tecniche e abitudini lavorative da questa contratte con l’esercizio dell’industria artigiana mentre la tecnologia impiegata non poteva che essere quella collegata a quel tipo particolare di industria. Successivamente, grazie all’opera di dissolvimento delle vecchie forme sociali provocata dai nuovi rapporti di produzione, anche il modo di sviluppo delle forze produttive venne modificato e si adattò ai nuovi bisogni della produzione nati a seguito dell’affermazione dei nuovi rapporti di produzione. Queste conclusioni, sostiene Nicola Simoni in Tra Marx e Lenin. La discussione sul concetto di formazione economico-sociale, potrebbero sembrare in contrasto con alcune note riflessioni di Marx contenute in Per la critica dell’economia politica:

“A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione socialeâ€.

La Grassa cita questo passo nel suo saggio e dice che ad un primo sguardo sembra come se Marx stesse sostenendo l’idea delle forze produttive come elemento più mobile e dinamico del sistema economico-sociale. I rapporti di produzione sembra che debbano modificarsi per meglio adattarsi al nuovo livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Per La Grassa questa affermazione entra in contrasto con tutto ciò che Marx ha sostenuto durante la sua analisi della sottomissione prima formale e poi reale del lavoro al capitale. Quali conseguenze ne trae l’economista veneto? Sicuramente i rapporti di produzione anticipano la completa trasformazione del modo di produzione ma solamente la modificazione delle forme organizzative e tecniche del processo produttivo, cioè elementi come divisione del lavoro non solo sociale, ma anche tecnica al livello dell’unità produttiva e del sistema delle macchine, rende stabile ed irreversibile il nuovo modo di produzione e in questo modo riesce a garantire la sua evoluzione lungo le direttrici indicate dalla sua nuova strutturazione in classi. I rapporti di produzione, che in un certo senso avevano anticipato e guidato la trasformazione, finiscono per assumere un nuovo significato e nuovi contenuti a trasformazione compiuta. Per La Grassa i rapporti di produzione sono l’elemento mediano tra la spinta iniziale delle forze produttive e la loro successiva rifondazione necessaria per garantire la temporanea stabilità e l’irreversibilità della trasformazione dal vecchio al nuovo modo di produzione. A questo punto della riflessione La Grassa, utilizzando il testo di Lenin Che cosa sono gli “amici del popoloâ€, affronta il concetto di formazione economico-sociale a partire dalla sua connotazione strutturale, esattamente come il modo di produzione. Ne consegue l’esclusione dell’idea che il primo termine rappresenta la società nel suo complesso mentre il secondo sia associato al suo scheletro. Lenin ci ricorda come Marx non si è mai limitato a studiare lo scheletro, cioè la base economica, della società ma sostiene che sia stato il primo a portare la sociologia su un terreno scientifico elaborando il concetto di formazione economico-sociale come complesso di determinati rapporti di produzione e stabilendo che lo sviluppo di queste formazioni è un processo storico naturale. Quindi per Lenin il concetto di formazione economico-sociale non rappresenta l’intera società ma la struttura della società, l’insieme dei rapporti di produzione. Sembra che il termine formazione economico-sociale descriva la stessa realtà indicata dal concetto di modo di produzione. In entrambi i casi si tratterebbe della struttura di un certo tipo di società. Questa difficoltà viene superata da La Grassa utilizzando il termine formazione economico-sociale per riferirsi ad un complesso insieme di modi di produzione articolati tra loro in modo tale che ve ne sia uno dominante mentre gli altri sono subordinati. Bisogna però ricordare che il rapporto di produzione del modo di produzione dominante finisce per conformare a sé anche i rapporti di produzione delle forme economico-sociali subordinate pur nella varietà delle forme organizzative e tecniche del processo produttivo e pur nella permanenza di una relativa specificità delle forme sociali che a queste ultime corrispondono. Siamo davanti a due diversi casi. Nel primo esiste la presenza di un vero e proprio modo di produzione dominante, la cui strutturazione, ovvero la forma dei rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, spiega i meccanismi di movimento e lo sviluppo della società in questione. La conformazione strutturale della società è formata anche da altre forme economiche e sociali subordinate a cui non possiamo attribuire il carattere di veri e propri modi di produzione diversi da quello dominante. Questo perché nei settori subordinati della base economica della società i rapporti di produzione sono plasmati e assimilati dai rapporti di produzione del modo di produzione dominante. Nel secondo caso, quando siamo in presenza di una situazione di transizione da un modo di produzione all’altro e, di conseguenza, da una formazione economico-sociale all’altra o in altri termini dalla dominanza di un modo di produzione alla dominanza di un altro, la particolare formazione economico-sociale di transizione deve essere vista come una articolazione di modi di produzione diversi. Uno di questi modi di produzione, a partire da un certo momento, manifesta chiaramente la sua dominanza esplicitando il senso e la direzione della trasformazione in atto ma non ha ancora nettamente e irreversibilmente subordinato a sé il modo di produzione dominante della vecchia formazione economico-sociale. Quindi il nuovo modo di produzione non è ancora riuscito a rendere funzionale al proprio tipo di sviluppo, alla propria legge di movimento, le forme sociali, economiche e tecniche relative al vecchio modo di produzione che va cadendo in una posizione subordinata. Di conseguenza possiamo ancora distinguere dentro il vecchio modo di produzione un sistema di rapporti di produzione distinto e non ancora plasmato da quello tipico del nuovo modo di produzione dominante. La Grassa conclude il ragionamento affermando che una formazione economico-sociale in transizione può essere considerata come una effettiva articolazione di modi di produzione differenti e gerarchizzati rispetto ad una forma dominante. In quest’ultimo caso il termine formazione ha una connotazione più genetica che strutturale ed indica una serie di fenomeni e la direzione del loro movimento finalizzato all’enucleazione di una nuova formazione sociale a partire dalla vecchia.

Il periodo in cui prende corpo questo dibattito su Critica Marxista è affiancato dalla pubblicazione di tre saggi per la casa editrice del PCI Editori Riuniti. Si tratta di Struttura economica e società nel 1973, Valore e formazione sociale nel 1975 e Riflessioni sulla merce nel 1977. Questi argomenti saranno ripresi nel 1978 nel libro Dal capitalismo alla società di transizione scritto con la sua principale allieva Maria Turchetto. Il volume prende esplicitamente le mosse delle tesi di Charles Bettelheim identificato come l’unico studioso comunista che abbia dato un contributo decisivo a un’analisi rigorosa e marxista del problema della transizione. Nel 1979 La Grassa ottenne una cattedra all’Università Ca’ Foscari di Venezia e fino al 1981 mantenne anche quella a Pisa. Gli anni ‘80 coincidono con l’inizio della maturazione di un’analisi fortemente critica sulle possibilità di realizzare una transizione socialista e previde con largo anticipo il collasso dell’URSS e del campo socialista. Nel 1983 a Milano fonda il Centro Studi di Materialismo Storico che darà vita ad una collana edita da Franco Angeli mentre inizia, utilizzando Panzieri pur non diventando mai operaista, a porre sempre più enfasi sulle nuove tecnologie e sull’organizzazione del processo di lavoro nelle sue analisi. Siamo entrati nella fase del capitalismo lavorativo che porterà alla pubblicazione di volumi come Il capitalismo lavorativo e la sua ri-mondializzazione scritto con l’allievo Marco Bonzio. Il centro studi si scioglie nel 1993 e negli anni successivi inizia a collaborare con il filosofo Costanzo Preve con cui partecipò ai seminari estivi di Carrara organizzati dai nostri amici di Punto Rosso. A partire da questi incontri vennero scritti dei libri focalizzati sull’analisi della nuova fase del capitalismo in cui eravamo entrati dopo il collasso del socialismo reale. Nel 1996 si ritirò dalla docenza universitaria e pubblicò due opere, La fine di una teoria e Lezioni sul capitalismo, in cui ammette il fallimento irreversibile del marxismo e inizia a lavorare alla terza fase della sua parabola intellettuale che prende definitivamente forma e coerenza con il libro Gli strateghi del capitale. Si tratta di un volume figlio del suo studio sulla ricorsività tra periodi di monocentrismo e policentrismo dove il comunismo è ridotto a scommessa pascaliana, dice Zygulski, ma resta una speranza e un desiderio per cui continuare a battersi senza sostenerne più l’inevitabilità. Questo è anche il periodo in cui le riflessioni dell’autore iniziano a svilupparsi online, prima con il sito Ripensare Marx e infine con Conflitti&Strategie, tuttora attivo.

  1. Il punto di partenza di La Grassa: come viene analizzato il pensiero di Marx

Zygulski a questo punto prova a riassumere il pensiero di La Grassa partendo, inevitabilmente, da Marx. L’economista veneto considera Marx essenzialmente uno scienziato e un rivoluzionario che rappresenta l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. Non aveva in mente di pianificare nei dettagli la futura società comunista ma analizzare scientificamente le caratteristiche strutturali della società del suo tempo e le condizioni per una ridefinizione dei rapporti di classe. Durante questo suo studio era convinto di aver individuato delle dinamiche intrinseche al modo di produzione capitalistico che avrebbero condotto alla trasformazione comunista della società facendo piazza pulita di ogni forma di sfruttamento. Bisognava però prendere le distanze da ogni forma di utopismo attraverso una rappresentazione metodicamente costruita che nel pensiero potesse riprodurre la realtà nella sua esatta strutturazione essenziale per poi poterla indagare. Queste riflessioni rendono evidente a chiunque l’influenza su La Grassa di Althusser che sostenne l’idea secondo cui Marx aprì alla scienza l’esplorazione del continente storia e questo è un fatto da cui la scienza sociale non potrà più tornare indietro. Il progetto di Marx consisteva nell’utilizzare gli strumenti degli economisti classici per realizzare la critica della totalità sociale a partire dalla critica dell’economia politica. Una simile operazione non serviva a criticare le teorie economiche dominanti ma a far capire a tutti che i rapporti sociali eternizzati dall’economia classica non erano affatto eterni. Infatti l’oggetto dell’analisi marxiana del modo di produzione non è lo scambio mercantile che prefigura la riduzione del capitale a cosa, a mezzi produttivi, processo produttivo e finanza, ma i rapporti sociali. Nel suo lavoro Marx, dopo aver individuato nel processo di accumulazione originaria la genesi del capitalismo, riesce a trovare una forma di sfruttamento celata agli occhi dei più nel modo di produzione capitalistico e che è possibile far emergere utilizzando la teoria del valore-lavoro elaborata dagli economisti borghesi. Nel modo di produzione capitalistico ci sono due parti, colui che possiede i mezzi di produzione e il possessore della capacità di lavoro detta forza lavoro, che, diversamente da altri modi di produzione, si scambiano in condizioni di piena libertà ciò che hanno grazie alla contrattazione permessa dalla forma merce generalizzata. Nel capitalismo il possessore della sola forza lavoro è formalmente libero da qualsiasi dipendenza personale o catena servile ma per sopravvivere è costretto a vendere la propria capacità lavorativa al prezzo di mercato che gravita attorno alla media del valore. In potenza questo processo contiene il pluslavoro che diventerà plusvalore. L’esistenza del pluslavoro è resa possibile dalla capacità dell’uomo di produrre di più rispetto al salario, composto da tutte le risorse di cui ha bisogno per la vita in società. Per La Grassa Marx accetta l’idea degli economisti classici secondo cui il valore delle cose dipende dalla quantità di lavoro ma distingue tra forza lavoro in potenza e in atto che ne rappresenta l’estrinsecazione. In questo modo di produzione  la merce decisiva è la forza lavoro, ovvero l’energia lavorativa presente nella corporeità del lavoratore. Il contratto tra lavoratore e possessore dei mezzi di produzione dà al proprietario delle condizioni oggettive di produzione il diritto di impiegare la capacità lavorativa della forza lavoro e, nella fase dello scambio del prodotto, viene realizzato il plusvalore che nel caso più comune è di tipo relativo, ovvero quando a parità di lavoro pagato al suo valore esatto aumenta il prodotto complessivo e perciò i profitti evitando la compressione del salario in termini assoluti. Di questo plusvalore ne beneficia solo il proprietario dei mezzi di produzione e non il lavoratore. Qui risiede l’iniquità e lo sfruttamento che viene nascosto sul mercato del lavoro attraverso una maschera di libertà ed eguaglianza. Questo inganno è una delle fonti della resistenza del modo di produzione capitalistico. Di conseguenza il plusvalore non nasce sul mercato a causa dell’imposizione di una compravendita delle merci sopra o sotto il loro valore ma sorge alle spalle della circolazione di superficie dove c’è un contraccambio che mediamente potrebbe essere a somma zero se venisse supposta la perfetta equità. La teoria marxiana del plusvalore è quindi uno strumento per svelare l’inganno ideologico della scienza economica dei padroni che al livello della sfera circolatoria appiattisce tutti i membri della società capitalistica a eguali possessori e scambiatori di merci con gli stessi diritti. Lo sfruttamento, inteso da Marx come una sottrazione algebrica da cui si ricava la quantità di pluslavoro/plusvalore, è presente nella società del capitale e garantisce a chi possiede i mezzi di produzione un profitto permanente. Dietro l’apparenza, quindi, c’è un gioco a somma non zero. Una simile situazione non muterebbe anche se i lavoratori riuscissero ad ottenere dei salari altissimi perché resterebbe una sostanziale differenza tra la merce forza lavoro e la merce mezzi di produzione che lascia intatta la grave asimmetria tra le due figure che si incontrano sul mercato. Per La Grassa tutto ciò è il merito decisivo ed imperituro della scienza marxiana e viene ribadito anche nei confronti di chi non vuole capire la centralità in Marx della riproduzione del rapporto sociale preferendo la centralità della teoria del plusvalore che legge il modo di produzione capitalistico solo come una modalità tecnico-organizzativa di estrazione del plusvalore. Si tratta di un vero tradimento ad opera di una teoria marxista degenerata che ha trasformato la legge scientifica del plusvalore in, per riprendere Althusser, una teoria contabile. Tra chi possiede solo la forza lavoro e chi detiene il controllo dei mezzi di produzione sussiste una differenza non matematizzabile, ovvero la proprietà di quest’ultimi. Questa separazione è una precondizione per l’esistenza del rapporto sociale compiutamente capitalista e produce le classi sociali borghese, quella che detiene il controllo delle fabbriche e dei macchinari, e il proletariato che può vendere solo la propria capacità lavorativa.

A questo punto La Grassa analizza come i rapporti di produzione presenti nel modo di produzione capitalistico possono essere trasformati secondo Marx. Nelle famose Glosse a Wagner troviamo la descrizione del possessore dei mezzi di produzione capace anche di ottenere un ruolo di coordinamento perché il capitalista non estorce solamente il plusvalore ai produttori ma contribuisce alla creazione di ciò di cui si appropria. Il padrone è sia un proprietario che un direttore d’orchestra. Lo sviluppo del capitalismo avrebbe dovuto produrre un processo di centralizzazione dei capitali che tramite la concorrenza è capace di ridurre il numero delle proprietà in poche grandi fabbriche con dei capitalisti sempre più disinteressati alla produzione e per questo simili a dei signori parassiti che godono di una rendita azionaria tramite le cedole dei dividendi. Coloro che soccombono a causa della concorrenza perdono i mezzi di produzione e iniziano a vendere ad altri padroni la loro capacità di direzione che, sebbene più qualificata rispetto alla semplice forza lavoro, li fa rientrare nella classe dei salariati. I proprietari diventano semplici capitalisti monetari mentre si formano dei dirigenti amministratori del capitale altrui. Questo favorirebbe l’emergere del lavoratore collettivo cooperativo che parte dai dirigenti attivi nella produzione e finisce con l’ultimo manovale giornaliero ed è cosciente di rappresentare la totalità della produzione in contrapposizione ai pochi usurpatori sempre più inutili rispetto alla produzione. Questa aggregazione, una sorta di operaio combinato, non è esente da contraddizioni interne ma è consapevole della ricchezza che produce e non dovrebbe avere alcuna difficoltà nello spazzare via l’esigua aristocrazia finanziaria ottenendo la piena padronanza degli strumenti produttivi, questa volta per gestirli in maniera associata. Si tratta della base economico-sociale del modo di produzione socialista già in formazione all’interno del capitalismo. In questo senso la rivoluzione proletaria dovrebbe solo accelerare il percorso verso il socialismo in cui comunque vigerà il principio del minimax, minimo mezzo dato un risultato oppure massimo risultato dato un mezzo, utilizzato nel capitalismo per estrarre il plusvalore relativo e riproposto nel nuovo modo di produzione per altre finalità. La trasformazione dei precedenti rapporti di produzione, l’efficienza minimax e la distribuzione consapevole del tempo di lavoro tra i vari usi produttivi servirebbero a garantire l’abbondanza nel comunismo e il completo sviluppo della libera individualità umana. Nel socialismo, quindi, si sarebbe applicata la stessa razionalità economica di Robinson ma in maniera collettiva per soddisfare i bisogni di tutti. Sarebbe ancora esistita la competizione per le cose futili ma sarebbe scomparsa quella per la sopravvivenza. Questo processo avrebbe certamente incontrato l’opposizione della borghesia ma, essendo diventata un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, sarebbe stata oggettivamente rimossa prima o poi in un processo che per Marx, dice La Grassa, doveva essere più rapido di quello che ha portato il feudalesimo a trasformarsi in capitalismo. L’ultimo ostacolo, lo Stato che difende gli interessi dei proprietari-azionisti ormai rentier assenteisti, doveva essere distrutto perché garante dei diritti borghesi. A questo punto le strategie per raggiungere questi obiettivi si biforcano in due strade. La prima è quella riformista che puntava al controllo numerico del parlamento per adottare provvedimenti legislativi utili alla trasformazione dei rapporti di produzione. La seconda, quella rivoluzionaria, puntava alla distruzione degli apparati statali identificati con gli strumenti coercitivi per sostituire il tutto con la dittatura della maggioranza proletaria. Una volta preso il potere una serie di misure economicamente insufficienti e insostenibili, come l’imposizione dell’istruzione pubblica e gratuita, avrebbero naturalmente portato alla trasformazione dei rapporti di produzione e gradualmente si sarebbe estinto lo Stato come apparato di repressione e monopolio della forza, non lo Stato come organizzazione amministrativa essenziale per ogni società civile. Per La Grassa tutte queste previsioni non si sono avverate e se ne erano già accorti alcuni marxisti alla fine del XIX secolo in Germania a causa della mancata formazione del lavoratore collettivo cooperativo. Ciò portò Kautsky ad identificare il soggetto rivoluzionario nel lavoratore operaio addetto alle mansioni esecutive inferiori perché le potenze mentali della produzione erano ormai, anche se salariate, dall’altra parte della barricata. Questa classe operaia per l’economista veneto non è stata capace di trasformare il modo di produzione perché aveva una base sociale più ristretta rispetto alla concezione marxiana originaria. A questo problema trovò una soluzione Lenin tramite le alleanze di classe con i contadini, più rivoluzionari e immuni dal pericolo del tradeunionismo che in Inghilterra stava generando una pericolosa aristocrazia operaia, e gli intellettuali che dovevano porsi sotto l’avanguardia operaia del partito bolscevico. Per La Grassa questa fu una revisione del marxismo con suo avanzamento teorico che Lenin seppe sfruttare con una perfetta analisi concreta di una situazione concreta individuando, nel contesto della Prima guerra mondiale, l’anello debole della catena, cioè dove i dominanti si trovano in maggiore difficoltà, per far esplodere la Rivoluzione d’Ottobre. La Grassa sostiene che il percorso dell’URSS non portò ad alcun socialismo ma ad un assolutismo statalista di tipo lasalliano e tutte le rivoluzioni successive furono aggiunte posticce per non ammettere le carenze della teoria originaria. Tutto ciò non spinge l’economista veneto a ripudiare Marx perché continua a pensare che la sua teoria sia la più avanzata finora prodotta per analizzare la società. Tuttavia accetta la sfida di Popper sulla falsificabilità per discriminare le teorie scientifiche da quelle non controllabili e proprio perché il comunismo di Marx è fallibile possiamo definire scientifiche le sue analisi.

  1. Il ripensamento teorico di La Grassa

Zygulski fa partire il ripensamento teorico di La Grassa con la fase teorica del capitalismo lavorativo perché in questo periodo viene colto un aspetto mancante nella teoria di Marx, ovvero il mutamento delle caratteristiche del nucleo predominante del modo di produzione capitalistico cioè la trasformazione della fabbrica in impresa. Per La Grassa la fabbrica è l’entità produttiva in senso stretto dove gli input vengono trasformati in output. Non comprende solamente lo stabilimento industriale ma anche altre sezioni, con una crescente autonomia, come ricerca delle materie prime e dei finanziamenti, contabilità, amministrazione o marketing. Tra questi comparti non manca mai un coordinamento unitario che prende il nome di impresa condotta, spesso, da un gruppo manageriale non proprietario. Nelle sue riflessioni sull’impresa La Grassa recupera alcuni elementi delle teorie di Schumpeter come la differenza tra crescita e sviluppo. Quest’ultimo viene letto come un mutamento nelle proporzioni tra risorse da indirizzare verso settori innovativi anche rinunciando a produrre aumenti quantitativi o generando decrementi dei dati economici. La seconda acquisizione riguarda la differenza tra capitalista, manager e imprenditore. Il primo è il proprietario puro di un pacchetto azionario rilevante, il secondo è un dirigente della produzione mentre l’imprenditore è colui che introduce le innovazioni ed ha una posizione mediana tra capitalista e manager. Queste figure sono funzioni che possono essere ricoperte anche da una pluralità di soggetti fisici e giuridici. In certi casi le funzioni possono fare capo ad una persona mentre in altre situazioni potrebbe sorgere una conflittualità non antagonistica tra questi ruoli. Di Schumpeter La Grassa rifiuta l’individualismo metodologico che, oltre a produrre il mito romantico dell’imprenditore coraggioso contro il mondo, impedisce di cogliere tutta l’articolazione del modo di produzione capitalistico perché continua a fare perno sull’idea di impresa come fabbrica produttiva. Inoltre respinge la previsione del capitalismo stagnante a causa della burocratizzazione delle imprese che aprirebbe le porte al socialismo. La Grassa sviluppa queste idee sostenendo che tra lavoro di tipo esecutivo e direttivo il potere decisivo risiede in quest’ultimo. Infatti l’economista veneto avanza la tesi secondo cui nel capitalismo il potere preponderante non sarebbe la proprietà dei mezzi di produzione ma la direzione imprenditoriale. La competizione tra le imprese, inoltre, scinde la direzione in due con l’emersione di una figura inedita che possiede abilità strategico-decisionali di ampio spettro, come la capacità di ottenere sostegno dagli apparati statali e dai mass media, per favorire l’azione dell’impresa e in contiguità con la gestione finanziaria che fornisce i mezzi monetari per lo svolgimento del conflitto. Questi agenti strategici si affiancano ai dirigenti di fabbrica dotati delle competenze tecniche per trasformare input in output ma sono i primi ad avere la vera funzione dominante nel capitalismo. L’impresa ingloba più fabbriche e di conseguenza la direzione manageriale è sopra quella tecnica. Le imprese sono un’istituzione essenzialmente politica intermedia tra l’organizzazione della fabbrica e l’anarchia del mercato che ha come scopo smussare le ostilità al suo interno e contrastare la disarticolazione tra le entità di cui è composta generata dalla competizione interindividuale. Questo ruolo assume una centralità nei momenti di scontro più acceso che richiedono unitarietà del vertice per preservare l’impresa dalle turbolenze del quasi mercato interno ed esterne. Andando avanti nelle riflessioni, La Grassa si interroga sul tipo di razionalità tipico delle imprese. Non viene rinnegata la razionalità strumentale minimax della direzione di fabbrica ma l’impresa risponde ad una razionalità strategica che contiene un quid essenziale capace di sfuggire ad una razionalità puramente calcolante che la rendono più simile all’arte che alla scienza. Il profitto diventa solo un mezzo per lo scontro tra imprenditori perché essi puntano non al massimo guadagno ma al massimo vantaggio strategico. La razionalità strumentale estrae dai legami sociali mentre quella strategica è immersa nel conflitto. Essa è propria dei dominanti che non sono né economicamente efficienti né rentier ma non sono neanche mossi dalla volontà di potenza perché per dispiegarsi non si può fare a meno di un’analisi dell’arena in cui ci si muove, facendo analisi del passato e previsioni sul futuro. La Grassa giunge a sostenere che è dominante solo chi occupa ruoli di supremazia facendo uso della razionalità strategica. Tutte le configurazioni sociali finora esistite sono contraddistinte dal dominio della razionalità strategica. Da tutto ciò deriva che per La Grassa la politica è una tendenza di fondo, talvolta solo potenziale, di scontro tra idee e pratiche con l’obiettivo, consapevole o meno, di fare gli interessi di gruppi sociali contrapposti. Essa, intesa come lotta di strategie per prevalere, è centrale anche rispetto alla sfera economica. Nella sua dimensione maggiore questi conflitti si traducono in scontri interdominanti tra potenze geopolitiche, cioè Stati, da assimilare ad agenti strategici con opposte strategie. Il marxismo ha sempre visto la lotta tra Stati come una conseguenza della centralizzazione dei capitali e nell’ottica di una stadio anticipatorio del comunismo. Basti pensare a tutti gli studi sull’imperialismo che portarono al noto lavoro di Lenin condensato da La Grassa in 5 punti: centralizzazione monopolistica dei capitali quale stadio supremo del capitalismo, formazione del capitale finanziario in quanto simbiosi tra capitale bancario e capitale industriale, sviluppo relativamente maggiore dell’esportazione di capitali rispetto a quello di merci, competizione tra grandi concentrazioni monopolistiche per la spartizione del mercato mondiale e conflitto tra grandi potenze per la divisione del mondo in zone di influenza. Per Lenin il primo punto è centrale e da esso dipendono tutti gli altri mentre per La Grassa centrali sono il quarto e il quinto punto. Questo perché il primo punto presuppone due assunti marxiani per La Grassa smentiti: la focalizzazione sulla proprietà dei mezzi di produzione e la tendenza alla centralizzazione dei capitali che prelude al socialismo. Inoltre identificare il gigantismo dimensionale delle unità produttive come un effetto dei monopoli è economicismo. Per La Grassa la centralizzazione monopolistica si verifica solo in alcune epoche di conflitto attenuato e non è presente in quelle dove il conflitto si scatena. Zygulski però ricorda che l’economista veneto resta un ammiratore delle intuizioni leniniste secondo cui l’imperialismo esaspera il conflitto tra formazioni economico-sociali con l’obiettivo di prevalere e che il monopolio intensifica ad un livello più alto la concorrenza invece di sopprimerla. Per poter nuovamente usare le tesi di Lenin è necessario riprendere ciò che il leader bolscevico aveva solo percepito con la sua pratica, cioè la possibilità di usare le contraddizioni tra dominanti per produrre rivolgimenti sistemici e a tal fine estrinsecare apertamente le ostilità tra agenti direttivi. Lo sviluppo delle dinamiche del conflitto potrebbero anche far risaltare la legge leniniana dello sviluppo diseguale, utile per analizzare le irregolarità spaziali e temporali con cui avvengono i processi di espansione economica a causa delle turbolenze generate dai contrasti locali. Questa ripresa di Lenin in La Grassa è funzionale al riconoscimento della presenza nel capitalismo di eventi ricorsivi, ciclici e senza direttrici di sviluppo unilineari. Vengono individuate due tipologie di ricorsività: monocentriche e policentriche. Si ha il monocentrismo quando un paese capitalista coordina nel suo insieme la scena mondiale. In questa fase è presenta una certa tranquillità monopolistica che favorisce l’ascesa di gruppi manageriali collocati nei vertici della dirigenza strategica. Alcune di queste imprese si accordano con gli apparati statali per monopolizzare i mercati, prevalgono politiche economiche keynesiane sociali o militari frutto di accordi tra agenti politici e strategico-imprenditoriali del paese centrale per evitare le crisi di sottoconsumo o di sovrapproduzione tipiche delle fasi di monocentrismo. Il conflitto sembra dormiente ma rimane in vita sotto la forma di guerra di posizione. Nella fase di policentrismo abbiamo una competizione tra molti centri capitalisti per ottenere l’egemonia. Gli agenti strategico-imprenditoriali utilizzano la proprietà giuridica come strumento difensivo assieme alle operazioni di acquisto azionario. Le alleanze e le espansioni servono alla competizione. Le crisi di questa fase policentrica sono determinate dal conflitto stesso, da scompensi settoriali, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto o dalla necessità di reperire risorse per le innovazioni. Siamo davanti a delle guerre di movimento che hanno bisogno di spostare rapidamente ingenti risorse facilmente liquidabili e di conseguenza si espande il settore finanziario. Nel policentrismo si afferma l’imperialismo lagrassiano dove il gigantismo imprenditoriale non coincide con il monopolismo ma con maggiore flessibilità. Nella storia del capitalismo il policentrismo sarebbe la regole e il monocentrismo l’eccezione. Oggi, con l’avvento della globalizzazione, ci ritroviamo in una fase di policentrismo inizialmente sorto a livello inter-imprenditoriale per poi espandersi a livello dello scontro tra paesi, in particolare tra USA, Russia e Cina. Questa fase viene anche indicata come multipolarismo e somma forte concorrenza economica e conflitto tra Stati non ancora pienamente dispiegato. Il multipolarismo può evolvere sia verso un nuovo monocentrismo che verso uno scontro policentrico ancora più violento.

Speriamo che questo testo sia utile per introdurre ai nostri lettori il pensiero di uno dei principali economisti marxisti italiani del XX secolo ingiustamente ignorato da larga parte del mondo comunista, in particolare quello legato al PCI. In occasione dei suoi 90 anni abbiamo deciso di dedicare a La Grassa tre pubblicazioni, inclusa quella che state leggendo, con la speranza di contribuire alla diffusione del suo lavoro teorico tra i giovani militanti comunisti. Ci sono anche altri motivi dietro questa scelta. In primis l’incontro con i suoi libri è stato importante per la formazione politica di alcuni di noi e in secondo luogo non ci siamo dimenticati che è stato il primo intellettuale di un certo rilievo a volersi interfacciare con noi nell’ormai lontano 2019 tramite interviste, videoe saggi pubblicati sul nostro sito e di questo gli saremo per sempre riconoscenti.


Articolo del Mon, 13 Jan 2025 13:24:48 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

La censura diventa più democrazia?

I tempi nuovi svelano vecchi inganni.
La democrazia si rivela per quello che è: una pantomima che ha smesso persino di essere funzionale al sistema e all’epoca in corso. Di conseguenza, viene tutelata ricorrendo alla dittatura, abbandonando anche le apparenze di riti elettorali che, in ogni caso, non hanno mai cambiato nulla. Se i sinceri democratici non vincono le elezioni, queste vengono annullate, come accaduto in Romania e come accadrà in Germania qualora a vincerle fosse l’AfD. Lo ha già annunciato l’ex eurocommissario Thierry Breton.

La libertà è una farsa che dura finché tutti sono liberi di fare le stesse scelte. Se qualcuno inizia a esercitare la propria libertà in modo indipendente e non conforme ai poteri costituiti, viene censurato. Questo è ciò che sta accadendo in Italia ai promotori del film sul Donbass, perseguitati dai russofobi che vogliono impedirne la proiezione. Il peggio è che si mobilitano persino parlamentari e media, che si vantano di essere sostenitori del pluralismo, per mettere a tacere chi non è allineato, ricorrendo a campagne di odio e diffamazione.

Esattamente come nelle dittature, si afferma che per difendere la democrazia e la libertà sia necessario sopprimerle. Tuttavia, si sostiene paradossalmente che democrazia e libertà represse equivalgano a “più democrazia†e “più libertàâ€. Tutti democratici, insomma, fino a quando la democrazia non minaccia le loro idee e posizioni.

Poiché siamo in guerra, per ora nascondendo la mano mentre armiamo chi combatte sul campo, tornano in auge i principi della propaganda di guerra identificati da Arthur Ponsonby nel suo famoso, ma dimenticato, libro Falsehood in War-Time (1928). Con la scusa di fermare la propaganda del nemico, ci stanno inondando con la loro disinformazione e con le loro bugie, seppellendo definitivamente, sotto una pietra tombale, l’ingiustificata superiorità morale (ma reale crudeltà) di cui l’Occidente si è sempre vantato.

Arthur Ponsonby, nel suo libro Falsehood in War-Time (1928), espone i principi fondamentali della propaganda di guerra, che manipolano le masse attraverso menzogne.
1. Noi non vogliamo la guerra, il nemico sì.
Ogni nazione si presenta come amante della pace, costretta a entrare in guerra a causa dell’aggressività del nemico.
2. Il nemico è il solo responsabile della guerra.
Tutta la colpa del conflitto viene attribuita all’avversario, dipinto come irrazionale, crudele o espansionista.
3. Il nemico è moralmente riprovevole.
Il nemico viene demonizzato attraverso storie atroci, spesso false, per alimentare l’odio e giustificare il conflitto.
4. Stiamo combattendo per una causa nobile, non per interessi personali.
La guerra viene presentata come una lotta per la libertà, la democrazia o altri ideali elevati, mentre gli interessi materiali e politici vengono nascosti.
5. Il nemico compie atrocità deliberatamente, noi no.
Si diffondono racconti esagerati o inventati sulle crudeltà del nemico, mentre si minimizzano o giustificano le proprie azioni.
6. Il nemico usa armi illegali.
Si accusa il nemico di violare le regole della guerra, mentre le proprie tattiche vengono legittimate come necessarie e difensive.
7. Le perdite nemiche sono enormi, le nostre minime.
Si manipolano i dati per mostrare il nemico come vulnerabile e prossimo alla sconfitta, enfatizzando i propri successi.
8. Gli intellettuali e gli artisti sostengono la nostra causa.
Si mobilitano figure pubbliche di spicco per legittimare moralmente la guerra, creando consenso sociale.
9. La nostra missione è sacra.
Alla guerra viene attribuita una dimensione religiosa o morale, presentandola come un dovere per il bene dell’umanità.
10. Chiunque dubiti della propaganda è un traditore.
Il dissenso viene soffocato, accusando i critici di essere complici del nemico e scoraggiando qualsiasi opposizione.

Prepariamoci al peggio e al superamento di ogni suo limite.
Sotto un esempio di questo superamento:

No, non concedere una sala comunale alla propaganda russa non è censura

 


Articolo del Sun, 12 Jan 2025 07:52:54 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

Italia colonia, governo servile


Articolo del Thu, 09 Jan 2025 18:15:58 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

La nostra dittatura

 

L’Occidente ha bisogno di un riorientamento gestaltico, come direbbero certi filosofi, più precisamente di guardarsi diversamente da come fa adesso perché si percepisce ciò che non è. A causa dei suoi intellettuali allevati in batterie di pensiero sempre più scadenti e di una casta dell’informazione supina ai poteri dominanti, non siamo più in grado di capire chi siamo. Abbiamo superato quei limiti che consentono un minimo di equilibrio tra come ce la raccontiamo e come è nella realtà. Partiamo da un presupposto necessario. Non siamo migliori degli altri ma possiamo essere sicuramente molto peggio. E nei fatti lo siamo quando non tolleriamo in chi ci sta di fronte proprio quei leggeri difetti che sono la nostra cifra, attuale e passata. Ci narriamo storie come vogliamo ma non consentiamo che la controparte faccia altrettanto, peraltro con molta meno enfasi. Così siamo diventati incapaci di cogliere quella ineliminabile contraddizione che è il motore della storia. Accusiamo chiunque non sia nella nostra orbita di fare propaganda fingendo di non comprendere che questo è il nostro modo specifico di fare propaganda. Così la verità è diventata la nostra fonte di manipolazione. Addebitiamo a chi ci combatte, spesso con tante ragioni, di portare il terrore in giro per il mondo ma questo è il nostro modo di terrorizzare tutti. Incolpiamo gli altri paesi di non rispettare i diritti umani ma questa è la nostra maniera di violarli tutti esportandoli a suon di bombe. Chiamiamo dittatori quelli che non si sottomettono alla nostra democrazia e li abbattiamo con ogni violenza. La democrazia pertanto è diventata la nostra dittatura sanguinaria. Poi c’è la libertà. Noi, in nome della libertà siamo disposti a imprigionare chiunque. La libertà è allora diventata una gabbia. Dove già esiste la legge portiamo il caos quando non vogliono accettare e non condividono le nostre leggi. Asseriamo e sosteniamo l’autodeterminazione dei popoli, ma esclusivamente di quelli che decidiamo noi. Così l’autodeterminazione è diventata eterodirezione, una maniera per mutilare le patrie a noi recalcitranti. All’opposto neghiamo quegli stessi principi quando violano le nostre pretese egemoniche. Ciò significa che il nostro primo principio è quello di non averne affatto.
Vi porto solo un caso a mo’ di esempio, per farvi comprendere in quale socing siamo ormai inseriti. Una parlamentare europea italiana (non farò il nome perché non vale nulla) esulta quasi ogni giorno per aver fatto annullare incontri di altri italiani che vorrebbero parlare e discutere di guerra al di fuori delle versioni ufficiali. Ecco quello che scrive: “L’evento di disinformazione con contenuti sanzionati di Russia Today in programma il 18 gennaio ad Arezzo è stato annullatoâ€. E così prosegue nella sua idiozia itinerante che spiattella pubblicamente. Non si rende conto costei, oppure se ne rende perfettamente conto ma deve svolgere la sua funzione socialmente deleteria, che sta impedendo ad altri connazionali di esprimere liberamente e democraticamente il proprio pensiero, di manifestare le loro idee. Si dovrebbe garantire questo diritto sempre, se si è sinceri e coerenti, soprattutto quando non si è d’accordo. Quando invece ci si oppone con dei pretesti propagandistici alle parole altrui, cercando di silenziarle, si chiama dittatura. Ecco dov’è la tirannia, più che in Iran o in Russia, dove comunque la cosa non ci riguarda, essa è proprio in casa nostra, anche se la chiamano libertà, democrazia, Occidente. Nulla si avvicina di più al totalitarismo di questi vecchi e nobili concetti ormai snaturati e svuotati dal loro originario contenuto. Aveva ragione Brecht: chi parla del nemico è il nemico.


Articolo del Sat, 04 Jan 2025 09:41:44 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

Che differenza c’è tra regimi e democrazie?

Che differenza c’è tra regimi e democrazie? Sono dittature diverse.

“Alle nostre coscienze ripugna l’idea che una persona possa essere sbattuta in una cella senza conoscerne la motivazione, senza che le sia stato contestato un reato e, quindi, senza alcuna possibilità di difendersi.â€

Già. È quanto scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera riferendosi alla detenzione in Iran della giornalista Cecilia Sala. Eppure, è esattamente quanto l’Italia ha commesso nei confronti di un cittadino iraniano: arrestato e imprigionato senza motivo.
Perché? Perché ce lo hanno chiesto gli americani. L’iraniano, dunque, ha sicuramente torto, e i nostri “padroni†altrettanta ragione. In questo modo, noi, che ci vantiamo di vivere in una democrazia, adottiamo metodi degni di una colonia tirannica. Abbiamo eseguito gli ordini di un paese straniero senza nemmeno considerare i nostri interessi nazionali o la tutela dei nostri connazionali all’estero.
Siamo una democrazia politicamente inferiore a qualsiasi dittatura, perché, almeno in quelle – ammesso che vogliamo chiamarle così dall’alto della nostra ipocrisia – sanno come difendere i propri cittadini contro i soprusi di altre nazioni.
A questo si aggiunge un episodio altrettanto umiliante: un calciatore, per di più nero, è stato fatto scendere in modo sbrigativo, con metodi da stato di polizia, da un aereo perché inserito in una “black list†del governo israeliano. Loro ordinano e noi eseguiamo. Questa è l’Italia a sovranità limitata. Anzi, sarebbe più corretto chiamarla semplicemente “limitataâ€.
Eppure, al governo abbiamo un partito che si definisce “patriotticoâ€, erede autodiseredatosi di una dittatura che, per come siamo messi oggi, quasi viene da rimpiangere. Con questa democrazia totalitariamente scimunita quasi quasi uno si butta su un altro ventennio o qualcosa in più.
Intanto, i giornali continuano a raccontarci che l’Italia è tornata protagonista sulla scena internazionale. Ma ciò di cui siamo protagonisti somiglia più a un film sul circo, dove interpretiamo il ruolo del primo pagliaccio. E, purtroppo, c’è ben poco da ridere. Come affermava Karl Kraus, democratico vuol dire poter essere schiavo di tutti. Noi italiani abbiamo interpretato l’aforisma come intero Paese.


Articolo del Thu, 02 Jan 2025 11:00:11 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’ Di O. M. Schena

e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.

Un mio caro amico, di nome Franco P., a proposito del ministro Salvini che, con uno straordinario, sbalorditivo, eroico gesto, nonché con rarissimo sprezzo del pericolo, ha raccontato da mane a sera,  a destra e a manca come sia incredibilmente riuscito a salvare gli italiani da un’invasione in atto?) (di alieni?) si è chiesto e mi ha chiesto:

“Ma come è stato possibile arrivare a tutto questo? Forse lo meritiamo?â€

Ed è giunta infine la sentenza d’assoluzione per il ministro Salvini, e così il salvatore dei nostri confini potrà rilucere ora in tutto il suo splendore, rigonfio di carisma e debitamente portato a spalla nonchéaccompagnato dalla celebrativa fanfara. E nessuno potrà mettere mai più nel chiappolo il suo nobile e intrepido salvataggio da narrare ai posteri, con l’accompagnamento di fanfare s’intende!

Non saprei che cosa rispondere al mio amico Franco. Proverei allora ad aprire una parentesi. Davanti alle vicende del 1989/91 in molti (tra i quali il sottoscritto) decisero di contribuire con il proprio impegno e la propria militanza alla scommessa lanciata da Rifondazione Comunista. Forse non tutti erano coscienti, anzi forse in pochissimi erano consapevoli di quanto potesse essere controcorrente l’impresa titanica d’una rifondazione comunista, perché “rifondare†l’ “irrifondabile†è proprio impossibile.

Parentesi:

La “Critica al programma di Gotha†è in buona parte venuta giù per “colpa†di F. Lassalle. Nella “Criticaâ€Â Marx delinea due fasi per il passaggio al comunismo ma, nonostante i buoni propositi intorno alle osterie dell’avvenire, il Moro stavolta avrà voluto giocare d’azzardo e spargere, in giro per il mondo, alcune massicce dosi di metafisica consolatoria. Tanto che si può forse trovare più capacità veritativa nel Manzoni della straordinaria“Storia della Colonna Infame†e nella sua visione della “natura umanaâ€, che non nel Marx di “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!†Senza togliere nulla, però, alla grandezza di Marx , che è di un altro pianeta.

Sia come sia, il tempo passa e si giunge al 2.11.2003, allorché Bertinotti così risponde  ad una domanda del giornalista Carlo Bonini:

“Le racconto un episodio che credo significativo non solo del mio percorso, ma di quello del mio partito e del suo approdo. Conosce “la Battaglia di Algeri†di Pontecorvo? Bene, ho visto quel film almeno dieci volte. Ne conosco a memoria le sequenze. Ora, per una vita mi sono riconosciuto, di più, mi sono immedesimato nella bellissima algerina che si fa saltare in un bar affollato di vita di civili nella parte francese di Algeri, durante l’operazione di insurrezione – anzi no, chiamiamo le cose con il loro nome – durante l’operazione terroristica contro le truppe francesi (insomma, Bertinotti forse non ha il coraggio di dirlo, ma chissà, avrà avuto appena appena il coraggio di pensarlo: … anche la storia della liberazione dell’Italia dal nazifascismo sarebbestata, in fondo, in fondo e magari anche in superfice, un insieme di operazioni terroristiche?)

“Istintivamente, politicamente ero con lei. Sarei voluto essere lei, se soltanto ne avessi avuto il coraggio. Ero, lo dico senza timori, corresponsabile politico di quel massacro. Oggi, mi capita di rivedere quella sequenza e quella complicità si è dissoltaâ€.

Chissà perché F. Bertinotti si è immedesimato solo nella bellissima algerina e non anche nelle altre due donne, forse perché meno belle, ma portatrici del medesimo carico di morte. Chissà mai perché, pur dopo almeno dieci visioni del film “la Battaglia di Algeriâ€, Bertinotti ha memorizzato una sequenza che in quel film proprio non c’è, neppure a volerla cercare col lanternino: infatti la bellissima algerina (come le altre due donne) lascia(no) la borsa/bomba in un bar, ma non “si fanno saltareâ€. Ad essersi dissolto è forse molto di più che un’antica complicità.

Freud, probabilmente, avrebbe incastonato Bertinotti con la sua amnesia nella Psicopatologia della vita quotidiana magari accanto alla figura del giovane viaggiatore austriaco, ebreo, incontrato in treno. Ma qui, a digiuno di tecnica psicoanalitica e di qualsivoglia regola euristica, non si vogliono stabilire, con le buone o con le cattive, arditi rapporti causali tra “omissioni†e “sostituzioni†di immagini. Molto semplicemente il senso dell’immagine mancante e sostituita potrebbe dipendere dal quotidiano impilarsi delle immagini degli attentati suicidi, l’una sull’altra appunto. E’ la furia devastatrice del tempo presente o forse di ogni tempo. Si vuole qui segnalare soltanto che la trasfigurazione del passato (come o più della sua cancellazione) può essere usata per addomesticare il tempo presente. E’ un rischio, non piccolo, da cui nessuno può dirsi immune.

Ed ora, con un pizzico di non chalance, vediamo come si possa traslocare in un baleno, con un autentico furore catechistico, dal coraggio all’amnesia e dall’amnesia all’eutanasia del comunismo e ritorniamo, per il tempo strettamente necessario, alle dichiarazioni di Bertinotti:

Ed ecco, dunque, Bertinotti al convegno di Venezia il 13.12.2003: a)“… Noi non possiamo pensare di battere questa violenza monopolizzata con la guerra. La violenza, in ogni sua variante, quale che sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene riassorbita dalla guerra o viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori gioco la politica,â€

E a proposito della resistenza Bertinotti aggiunge):“… sulla resistenza abbiamo preferito fare un’operazione di “angelizzazione†della nostra parte. Non sto dicendo che in quel momento, in quei momenti così terribili, non si doveva premere il grilletto. Sto dicendo un’altra cosa. Sto dicendo che non dobbiamo mettere sullo stesso piano quello che è e che si sente come dovere di fronte alla storia e il tuo essere umano, la tua umanità, politica  culturale. Che una distanza critica va presa, con coraggio. Che la tua umanità va salvaguardata. Quasi per anticipare, in quell’atto di resistenza, una liberazione che nel momento di premere il grilletto è impossibile, ma domani può avverarsi.â€

Bertinotti è così intento a salvaguardare la sua umanità, così attento a non premere il grilletto, da sembrare la reincarnazione di Danilo  Dolci, che pure le regole le infrangeva, e dimentico pure del buon senso di De Andrè: “e imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesiaâ€, così il Fausto prosegue impavido, ma sconsideratoâ€â€¦ Ma perché la periferia diventi il centro bisogna che la radicalità sia iscritta in una pratica di non violenza. Il massimo di radicalità oggi si può esprimere solo con la non violenza, altrimenti retrocede immediatamente a braccio armato e si inserisce nella dialettica guerra-terrorismo. Diventa la fine della politica.â€

Insomma, con un maestro di “vita politicaâ€- modello Bertinotti- come cavolo volevate che andasse a finire R.C.?

Sarebbe, dunque, nelle parole di Bertinotti la risposta alla domanda postami dall’amico Franco?

Non è ancora finita, servono, infatti, alcune precisazioni utili ad una memoria zoppa (dico della mia naturalmente):

Senza il lancio delle bombe, su Hiroshima e Nagasaki, l’America avrebbe visto le armate sovietiche impegnare in battaglia la maggior parte dell’esercito giapponese, invadere la  Manciuria e fare mezzo milione di prigionieri. E tutto questo sarebbe accaduto mentre l’esercito americano si trovava lontano dal territorio nipponico, a Iwojima e Okinawa. Ecco perché in tutta fretta le due bombe atomiche – le uniche esistenti – furono trasportate attraverso il Pacifico per essere sganciate su Hiroshima e Nagasaki, appena in tempo per ottenere che il governo giapponese si arrendesse unicamente alle forze americaneâ€.

Nulla di nuovo, in verità. Già il 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor era scattata una trappola perfetta, sotto la regia di Roosevelt, alla quale abboccarono i giapponesi regalando le necessarie vittime sacrificali americane. E il 7 maggio 1915 i 1201 passeggeri, tra i quali numerosi americani, del transatlantico Lusitania furono mandati a fondo dai sommergibili germanici. Il Lusitania era un incrociatore ausiliario armato che trasportava materiale bellico, “travestito†da transatlantico perché …. serviva in fondo al mare.

Potremmo dire, dunque, che esiste qualche dubbio sulla legittimità di Hiroshima come modo terribile di opporsi ad Auschwitz? Si badi che la parola legittimazione è parola pesante e impegnativa. Bertinotti, infatti, la nega al terrorismo (come al solito Bertinotti mette sempre troppe erbe nello stesso fascio, nella dimensione dello spazio e del tempo e, come si sa, in una notte senza luna tutte le vacche sono nere) quel terrorismo che tenta di opporsi alla guerra infinita perché … ma perché lo dice Bertinotti:  “ …il terrorismo è espressione di una strategia che si contrappone, in questo caso, alla guerra o a chi occupa un paese in nome della guerra, attraverso le manifestazioni di ciò che viene definito terrore. Organizza il conflitto e la distruzione su obiettivi sociali e civili del paese. Questo è il terrorismo …â€.

Bertinotti tiene la sua “lectio magistralis†sul terrorismo e non ha dubbi, non ha incertezze. Ma noi impavidi, vorremmo domandargli: che cosa sarà mai andato distrutto a Hiroshima, a Bagdad, a Belgrado, forse obiettivi asociali ed incivili? Non sarà per caso, s‘intende, che il requisito della legittimazione sia indissolubilmente legato alla natura del soggetto che infligge l’apocalisse, che sia legato insomma alla dignità istituzionale del massacratore di turno?

Si potrebbe forse spiegare in questo modo perché, tra gulag, foibe e Kronstad nelle parole di Bertinottinon trovi posto, neppure su di uno strapuntino, la resistenza del popolo iracheno interamente sussunta, vale a dire subordinata, inglobata, riassorbita e messa a tacere, soffocata nella spirale guerra/terrorismo.

“...nell’Irak di S. Hussein nessuno potrà mai dire che c’era una Auschwitz in corso. Ed allora la si è inventata (inventando anche i neonati del Kuwait bruciati nelle loro culle dai baffuti nazisti iracheni), perché l’invenzione di inesistenti Auschwitz (al di là invece della Auschwitz vera, che è veramente esistita) permette simbolicamente di attivare il modello Hiroshima.

Ed ora basti dire che la connotazione come “importanti†rispetto a questi due eventi (la Guerra del golfo del 1991 e la guerra della NATO contro la Jugoslavia del 1999) non solo non è adeguata, ma è addirittura fuorviante. Chi li qualifica, anche in perfetta buona fede, come “importantiâ€, di fatto nasconde che questi due eventi siano decisivi per orientarsi nel mondo in cui viviamo. Ma andiamo! Non si vorrà mica sostenere che il Golfo ed il Kosovo siano decisivi come Auschwitz ed Hiroshima? Non si vorrà mica sovvertire una gerarchia d’importanza conosciuta intuitivamente anche dai bambini dell’ asilo?

Una simile domanda merita una risposta. Certo, da un punto di vista quantitativo, ed anche simbolico, Auschwitz ed Hiroshima, il campo di sterminio e la bomba atomica restano più significativi. Non si intende negarlo. Ma Auschwitz ed Hiroshima, o più esattamente la triade infetta costituita dal loro trattamento differenziato, dal pentimento amministrato ed infine dalla doppia destoricizzazione, restano a tutti gli effetti la premessa diretta del Bombardamento Etico-Imperiale sull’Irak e sulla Jugoslavia … come sui bombardamenti a venire (donati ai popoli  del pianeta dalla Democrazia Occidentale). Ci sembraquesto, in estrema sintesi, il cuore del problemaâ€.

Ad essersi dissolta in Bertinotti potrebbe essere, allora, forse molto di più che un’antica complicità, forse, chissà, ad essersi dissolto sarebbe il tentativo della rifondazione del comunismo!

Ed ora saltiamo (all’indietro) nell’anno 1951, avvertendo che, quel che segue, non è affatto un racconto parodico di quegli anni. Non si tratterebbe, infatti, di una critica né tanto meno di una messa in ridicolo di quel tempo, bensì sarebbe, semmai, il frutto marcio d’una memoria strabica e incompleta (che sarebbe la mia!).

(Tratto da “Storia del movimento antimafia di Umberto Santino – Editori Riuniti 2000 p.209):

L’istituzione della commissione d’inchiesta veniva riproposta nel maggio 1951 da una mozione di alcuni senatori tra cui Scoccimarro, Pertini, Li Causi, Morandi e Lussu. Su proposta di De Gasperila discussione della mozione veniva rinviata per l’inopportunità di discuterla mentre era in atto il processo di Viterbo per la strage di Portella della Ginestra. Nell’ottobre dello stesso anno tornavano alla carica i parlamentari Basso e Gullo. Bassososteneva che tutti i principali esponenti della banda Giuliano erano in rapporti stretti con personaggi altolocati e che occorreva una commissione d’inchiesta per accertare i rapporti tra polizia e banditi di cui il processo di Viterbo non si occupava. Gullo affermava che solo una commissione d’inchiesta avrebbe potuto far luce su vicende gravissime come quelle riguardanti l’attività e la fine del bandito Giuliano. Solita replica di Scelba cherespingeva la tesi che voleva far credere che i mandanti di Portella si dovessero cercare tra gli uomini della Dc o addirittura tra uomini investiti di responsabilità di governo (il riferimento era a Bernardo Mattarella). Basso e altri presentano una proposta in tre articoli di istituzione di una commissione di inchiesta.

Nel corso della seconda legislatura, nel marzo del ’54 i deputati Gullo, Giancarlo Paietta, Amendola, Ingrao e altri presentano una proposta di “inchiesta parlamentare sulle responsabilità del Governo e della pubblica amministrazione, in relazione ai recenti clamorosi fatti, che hanno vivamente commosso la pubblica opinioneâ€: il riferimento era a “interferenze del potere esecutivo sulle indagini della polizia giudiziaria e sui procedimenti istruttoriâ€, alle cause e responsabilità per connivenze e collusioni di organi dello Stato nel traffico degli stupefacentiâ€.

(Tratto da “Storia del movimento antimafia di Umberto Santino – Editori Riuniti 2000 p.246):

Il 6 gennaio 1980, intanto, viene ucciso il presidente della Regione Piersanti Mattarella, figlio di Bernardo da varie fonti indicato come colluso con la mafia. Ma il figlio … il figlio da qualche tempo è avviato su altre strade che lo portano a scontrarsi con gli interessi mafiosi. Egli vorrebbe interrompere il circuito degli appalti, controllato dai gruppi mafiosi, e aprire il quadro politico al Pci sulle orme di Moro.

Tale orientamento viene ritenuto troppo pericoloso dalla mafia e dalle forze conservatrici e, nel caso Moro, da brigatisti autonomi o strumentalizzati, ed è brutalmente arrestato con il ricorso alla violenza.

Il 4 maggio a Monreale, durante la festa del santo patrono, viene ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Aveva in braccio la figlia di pochi anni. Era impegnato in indagini sulla mafia nella zona e in particolare in indagini patrimoniali.

(…)Si parla di 1000 morti, compresi casi di lupara bianca, difficili da conteggiare. In una ricerca del Centro Impastato sull’omicidio a Palermo e provincia dal 1978 al 1984 sono stati contati 332 omicidi di matrice mafiosa, di cui 203 interni.

(Tratto da “Storia del movimento antimafia di Umberto Santino – Editori Riuniti 2000 p. 365):

Sui legami di Mattarella con il bandito Giuliano cfr.la documentazione raccolta da D. Dolci (Chi gioca solo- Torino Einaudi 1966- Dolci viene processato e condannato a due anni di reclusione per diffamazione, anche se le dichiarazioni raccolte erano molto precise e circostanziate Umberto Santino “Storia del movimento antimafia . Ed. Riuniti 2000).

(Tratto da “Storia del movimento antimafia di Umberto Santino – Rubbettino 1997p. 160):

(…) Quanto al rapporto tra mafia e politica questa era la ricostruzione di Mannino: “La mafia fin dall’epoca di Bernardo Mattarella e di Gioia è stato un potere in connessione con altri. Poi la crescita dei proventi ne ha fatto un’organizzazione feroce che non deve più mediare e spartire con nessuno. Al maxiprocesso fu raggiunta una specie di intesa con il potere politico. Voi disse Cosa nostra, ingabbiate la mafia perdente e alcuni elementi marginali della mafia vincente. L’accordo è che alla fine la Cassazione annulla tutto e rimette i nostri amici in libertà. Noi assicurano i mafiosi, ce ne stiamo buoni e calmi continuando a fare i nostri affari. Ma il governo non ha rispettato i patti. Andreotti ha fatto approvare una serie di leggi repressive. Lima, uomo di confine, aveva garantito sulle “buone intenzioni†di Andreotti. Non ha potuto mantenere gli impegni e per questo è stato ucciso. Anche l’assassinio di Falcone fa parte di questa vendetta.

Sulla sua posizione personale diceva:

“Io, Mannino sono stato avvicinato e ho ricevuto pressioni affinché mi battessi in favore di misure meno restrittive. Mi considerano potente e “intelligenteâ€. “Non ho voluto cedere: perciò sono sulla lista nera. Sono rimasto solo. Neanche una telefonata di Scotti (allora ministro degli interni). In Sicilia non è più possibile fare politicaâ€.

Le forze dell’ordine non sono in grado di proteggere chi è in pericolo e lui più che paura di morire ha orrore della sua condizione di condannato a morte. Le parole assumono il tono di una lamentazione biblica sul destino del politico siciliano e più in generale sulla maledizione che grava sull’isola: “Maledico il giorno in cui ho cominciato a fare politica. Potevo fare il professore universitario a Torino o a Milano. La Sicilia è una terra maledetta. Mi hanno fatto capire che o cedo o è meglio che mi ritiro dalla politica. I carabinieri vogliono che non mi esponga. Dicono che sono troppo nel mirino. Ma io ho una gran voglia di raccontare molte cose. E penso che lo faròâ€.

°°°°°

Per quello che si sa, Mannino non ha raccontato nulla. E più che ritirarsi dalla politica ha cercato di restarci fino all’ultimo. Nelle elezioni politiche del 1994, vistosi escluso dalle liste del partito popolare, ha pensato di correre da solo con una lista “fai da te†e non è riuscito a farsi eleggere. I suoi elettori lo hanno abbandonato, come uno straccio vecchio. E invece del ritorno in Parlamento si sono schiuse per lui le porte del carcere dove si è ridotto così male da diventare irriconoscibile e ottenere, dopo mesi dalla richiesta, gli arresti domiciliari. Quando si è presentato nell’aula del Tribunale di Palermo sembrava un altro: magrissimo, con lo sguardo stralunato e i capelli lunghi.

Il capo di imputazione  del processo in corso all’ex ministro è concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’ordinanza di custodia cautelare si dice che Mannino “si avvaleva del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente politico di un’importante corrente del partito in Sicilia, di segretario regionale, di membro del consiglio nazionale†della Dc e ha contribuito sistematicamente e consapevolmente all’attività di raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché dell’attività politica e amministrativa di esponenti della stessa area collocati in centri di potere e istituzioni (amministrazioni comunali, provinciali e regionali e subistituzionali, enti pubblici e privati) onde agevolare l’attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro e altre utilità in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo, mafioso, nelle province di Palermo, Trapani ed Agrigentoâ€.

(Tratto da “Storia del movimento antimafia di Umberto Santino – Rubbettino 1997p. 245):

Sui contadini dei Fasci siciliani hanno sparato insieme mafiosi e guardie regie inviate da Francesco Crispi, che dietro l’assassinio di Notarbartolo ci fosse l’onorevole Palizzolo è arcinoto, da chi fossero eletti nel collegio di Partinico uomini come Vittorio Emanuele Orlando e più tardi Savarino è altrettanto noto, come note pure le “amicizie†di Bernardo Mattarella e di Calogero Volpe non avevano niente di occulto e di misterioso.

Sui “fanfaniani†di Palermo e su altri la Commissione antimafia ha raccolto in tredici lunghissimi anni (dal 1963 al 1976) montagne di documenti da cui risultano evidenti legami d’interesse, scambi di “favoriâ€, amicizie tenaci e fruttuose. Tutto con nomi, cognomi e indirizzi. Purtroppo la Commissione decise di sotterrare molti di quei nomi e di non pubblicare le “schede†dei politici collusi con la mafia. Un atto di omertà in cui Stato e mafia si trovarono d’accordo nel dichiarare occulto per legge quello che era palese di fatto, preludio a nuove più profonde compromissioni e identificazioni. Ancora oggi quelle “schede†sono segrete, gli “omissis†abbondano nei documenti della Commissione pubblicati con esasperante lentezza, le richieste di mettere fine all’omertà di Stato sono rimaste e rimangono lettera morta. Eppure nonostante tutto, tante cose che si definiscono occulte sono chiare come il sole.

Oronzo mario Schena 22/12/2024


Articolo del Sun, 22 Dec 2024 15:12:06 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

FRAMMENTI DI STORIA GERMANICA E ITALICA di O. M. Schena

Sembrerebbe che a seguito dell’aggressione squadristica al giornalista Andrea Joliy (che ha incassato la solidarietà della Presidente Meloni!) e poi dell’intervento del presidente del Senato Ignazio La Russa, il Presidente Mattarella non abbia voluto assistere silente alle consuete raffinatezze gergali delle citate autorità e abbia voluto impartire al colto e all’inclita un’autentica,  straordinaria lezione di diritto costituzionale, ecco uno  stralcio del discorsodel P.d.R.: “Ogni atto rivolto contro la libera informazione, ogni sua riduzione a fake news, è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica. Garanzia di democrazia è, naturalmente, il pluralismo dell’informazione. A questo valore le istituzioni della Repubblica devono rivolgere la massima attenzione e sostegnoâ€.

Sembrerebbe, dunque, un qualcosa di molto serio, serio nel senso di grave, ovvero il fatto che qualcuno, addirittura dall’alto d’uno scranno istituzionale, abbia dimenticato o, peggio ancora, sbeffeggiato l’art. 21 della Costituzione. A quale dei due presidenti, di grazia, sarà mai scappata la presunta consueta, elegante furbata?

Ma non si può escludere che possa essere anche tutta colpa di un effetto ottico! Qui non è possibile sapere se la lezione presidenziale, sia pure nella Sua consueta tonalità sepolcrale, sia poi giunta a destinazione, né è possibile sapere se il Presidente Mattarella abbia deciso di avviare le procedure previste per la violazione della Costituzione. È, invece, possibile che non se ne sia accorto proprio nessuno o, forse, solo in pochissimi, forse non se n’è accorto … neppure il Presidente Mattarella … ma qui, un passo dopo l’altro, e siamo sprofondati in un vero abisso di abiezione.

Ma tutto questo potrebbe anche essere colpa di un effetto ottico!

C’è, intanto, una gara forsennata, senza esclusione di colpi, anche sotto la cintura, tra i politici al governo e quelli all’opposizione, ma è davvero difficile scoprire chi è che faccia ridere di più, o dare di più di stomaco, la sola cosa certa, ovvero il vero guaio, sono le salatissime lacrime che versa il popolo quasi dormiente. Intanto, qui ci tocca ricordare l’assassinio dell’art.21 della Costituzione, sempre che non trattasi di suicidio, neppure assistito!

(Tratto da: NICO PERRONE “Frammenti taciuti di storia germanicaâ€- Bastogi Libri 2023)

Croce di ferro del Reich

Smith aveva quindici anni, quando nel 1933 incominciò a frequentare l’organizzazione nazista dei ragazzi con la passione del mare. Trascorse qualche tempo non particolarmente significativo in quella militanza. Nel 1937 terminati gli studi liceali si presentò in una caserma per arruolarsi come volontario. Venne inquadrato nell’arma dell’aria che a un giovane poteva apparire la più esaltante (anche se in precedenza aveva pensato invece di servire la patria sul mare). Arruolato incominciò ad Amburgo-Reitbrook a servire il Reich sotto le armi.(…)doveva essere stato piuttosto vivace, perciò in quello stesso 1936 – lo ha raccontato egli stesso – venne espulso per indisciplina da quell’organizzazione

Una pagina tremenda

(“A ciascuno il suo Helmut Schmidt�)

Quando era un militare del Reich, lo Oberleutnant, il primo tenente Helmut Schmidt, aveva adempiuto anche a un incarico tremendo, dopo che gli venne assegnato il compito di “osservatoreâ€. Si trattava di un ruolo importante nella liturgia del terrore nazista, che doveva essere conferito evidentemente a chi avesse già dimostrato di avere una fede politica fuori discussione. Quel compito aveva lo scopo di dare la parvenza giuridica all’esecuzione delle condanne delVolksgerichtshof  (tribunale del popolo). Quell’istituzione operò con particolare ferocia dopo il fallimento dell’attentato al Führer (20/7/1944).

La designazione di Schmidt a un compito talmente delicato indicava che egli doveva essere annoverato tra i fedelissimi del Reich, ai quali poteva essere dato un compito talmente gravido di pubbliche responsabilità. Nel Reich, egli non era stato mai un semplice gregario. In quella funzione Schmidt non rimase a lungo. Nel dicembre 1944, sarà infatti trasferito nel Belgio occupato, come comandante di una batteria. Seguirà, dopo la sconfitta germanica un periodo per il quale non è facile ricostruire le attività di Schmidt. Egli parlerà anche nei dettagli ma solo relativamente agli anni della gloria politica che incominciano dal 1946 col suo ritorno alla politica nella Repubblica federale di Germania. Per il periodo precedente, nei suoi libri egli fa come se non ci fossero stati.

Dopo quella sua clamorosa dichiarazione, Helmut Schmidt era stato molto rapido nell’intraprendere una nuova carriera politica iscrivendosi nel marzo 1946 alla SPD (il partito socialdemocratico tedesco).

(…) dopo la caduta del nazismo, dunque, in Germania non si è voluta fare una reale epurazione. Non l’avevano voluta i vincitori anglo-americani che mirano ad un rapido ritorno alla normalità mettendo  da parte i carichi politici, ma tenendosi attenti soprattutto a una linea liberale tollerante dell’impostazione politica generale: essi badavano specialmente a integrare nel proprio schieramento politico-economico, e presto pure militare, anche una larga parte di quelli che avevano avuto delle responsabilità non lievi nella Germania nazista. Non si possono tenere da parte i problemi, che si faranno sempre più acuti per gli Stati Uniti e i loro alleati, dei regimi autoritari comunisti nell’Europa orientale. Considerato il radicalizzarsi degli schieramenti internazionali contrapposti, diventava utile che fossero protagonisti della nuova politica anche quelli che avevano un robusto passato nazista. Sotto l’insegna freedom, s’identificarono quindi i protagonisti della lotta risoluta contro il comunismo, che era sostenuto invece dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati. Il cambiare bandiera per chi fa un’attività politica deve dunque considerarsi alla stregua di quanto osservava B. Croce. Prima d’innalzare la nuova bandiera, si dovrebbe però dar conto della prima scelta, senza nascondere nulla. Chi deve giudicare, almeno capirà. Naturalmente non  si può dimenticare la differenza che passa fra il capire e l’accettare. Helmut Schmidt aveva voluto persino imbracciare il vessillo della freedom, che non era mai stato il suo ma era quello sventolato dai vincitori. Nessuno si ricordava più che la corrispondente parola veniva allora isolata dal suo contesto originario: liberté, egalité fraternité. Si trattava dunque di qualcosa di ben articolato. La libertà, da sola si riduce alla condizione per il funzionamento del mercato.

In ginocchio per le colpe storiche

Nel giugno del 1945, nel campo di prigionia Zedelgem, Schmidt affermava di aver definito un’illusione quella del nazismo che egli stesso aveva sostenuto fino alla fine e dal quale alla fine si diceva disgustato. Ricorderà anche forse come l’avvio di un pubblico ripensamento che nei fatti è rimasto incompiuto – che dopo aver ascoltato una conferenza (anch’essa nel giugno ‘45) di H. Bhnenkamp, intitolata, “persone ingannateâ€avrebbe accennato alle illusioni di quel regime. Egli, però, aveva sostenuto quel regime fino alla fine. A parte questo, quell’intero racconto presentato con enfasi da Schmidt, appariva falso e incoerente.

Egli venne liberato in breve tempo dalla prigionia il 31 agosto ’45. In anni successivi, accennò perfino di aver fatto parte di una “opposizione interna†al nazismo. Ma non se n’era mai saputo nulla, né egli portò mai delle prove.(…)

L’autobiografia smemorata

Allora la vita del paese era ferreamente regolata dal Fuhrer. Ma subito dopo quel regime, H. Schmidt fu sollecito a dimenticarsene e a nascondere, per darsi con fervore alla nuova politica secondo il metodo democratico. (…)Naturalmente è impossibile sapere se egli fosse stato coerente con se stesso nei trascorsi nazisti, o se lo fosse nella repentina conversione politica.

H. Schmidt è stato cancelliere della repubblica federale dal 16/5/74 al 1/10/82 (…)

demolizione di una prigione, insieme a certe tracce

Dopo la tragica sparizione in prigione di tutti quei terroristi, di azioni della R.A.F. nella repubblica federale non si sentì più parlare. Non solo non si parlò del complesso fenomeno di cui essa era stata l’espressione e lo strumento, ma non si discusse neppure di come alcuni componenti della banda fossero scomparsi. L’opinione pubblica vive anche intensamente il presente, ma mette presto da parte tutto il resto. In questo modo ha messo da parte anche i misteri – chiamiamoli così – che hanno accompagnato la morte delle persone che del terrorismo erano state i protagonisti.

Di un fenomeno tremendo che a lungo ha devastato la vita nazionale tedesca, dopo la lunga successione dei fatti di cui qui abbiamo parlato – il terrorismo e i suoi protagonisti – non si è parlato più. Il nemico era stato sconfitto e non se ne volevano ricordare più i protagonisti; né si volevano discutere le modalità, le contraddizioni, diciamo pure i misteri che avevano caratterizzato la complessiva azione della repressione. D’altronde erano ormai scomparsi i protagonisti dell’una e dell’altra parte e se qualche terrorista era riuscito a scampare alla morte o alla prigione, doveva ormai preoccuparsi solo di farsi dimenticare.

Il governo Schmidt, dopo la conclusione di quel fenomeno devastante, poté finalmente indirizzare verso altri problemi la propria azione.

Nell’agosto del 2007 è stato deciso di demolire la grande prigione di Stoccarda costruita fra il 1959 e il 1963, per essere inaugurata l’anno dopo. Con una spesa ben considerevole, dove essa sorgeva ne è stata costruita una tutta nuova, con fattezze architettoniche del tutto simili a quella precedente. Formalmente quella decisione fu presa dall’amministrazione del Baden-Wurttemberg. Perciò tra il 2007 e il 2017, su quel medesimo suolo è stata edificata una prigione tutta nuova. Questa operazione ha avuto anche il risultato di far scomparire per sempre le tracce rimaste nell’edificio di quello che era successo nell’ottobre 1977, di cui abbiamo parlato, a proposito dell’eco della cultura dei fatti degli anni del terrorismo, potrebbe far riflettere che il Goldener Bar, il premio dell’orso d’oro allo Internationale Filmfestspiele Berlin, il festival internazionale del cinema di Berlino, sia stato attribuito nel 1986 a Stammheim. Si trattava di un film di Reinhard Hauff che in italiano si intitolerà il caso Baader-Meinhof. Fin dal titolo esso appariva molto esplicito. Di premi assegnati a lavori cinematografici tedeschi su quei fatti, ce ne sono stati diversi altri. non hanno avuto la stessa risonanza del primo, perché sono stati realizzati da registi di minore notorietà internazionale. Tutto questo indica però quanto interesse e quanto bisogno di capire a fondo quello che era davvero successo nell’autunno germanico esistessero in Germania e in tutta l’Europa.

La cultura – il cinema ne è oggi un’espressione molto viva ed efficace – in Germania dimostra di essere particolarmente sensibile e talvolta ben più reattiva della politica.

Per ricordare la Separation des pouvoirs

Quando si dovette risolvere davvero il problema del terrorismo – durato troppo a lungo e in modo tale da far sorgere dubbi sul funzionamento delle istituzioni – le modalità scelte determinarono a loro volta in esse qualche grave ferita. Dal punto di vista della legge quelle vicende non possono ormai più mettersi in discussione: è tutto prescritto. Ma sul piano storico, si deve invece parlarne.

Un primo interrogativo concerne il tempo troppo lungo trascorso tra l’insorgere del fenomeno e la sua soluzione. Colpisce anche l’incapacità della politica di affrontarlo con strumenti politici appunto, che non debbono essere quelli militari. A tutto questo è direttamente legato il numero delle persone cadute per mano eversiva, per l’azione repressiva legale, ma anche per cause che non sono state chiarite secondo le regole delle prove rigorose. Infatti, un altro interrogativo viene dal numero, troppo elevato dal punto di vista puramente statistico, dei “suicidi†che hanno concluso la vita dei terroristi in prigione.

Uno stato moderno e democratico, non può mantenere aperti dei problemi di tal genere.

Abbiamo anche visto che per l’eliminazione del terrorismo sono state istituite delle carceri con caratteristiche che presentano evidenti problemi per la tutela dei diritti dei detenuti che sono tutelati dalle convenzioni internazionali. Convenzioni a parte si tratta di esseri umani ai quali dovrebbero applicarsi delle forme di detenzione che non facciano sorgere interrogativi e problemi.

Ogni deviazione dal classico equilibrio fissato dalla massima liberté, egalité, fraternité, può dare origine a pericoli molto gravi per la democrazia. Si potrebbe però obiettare che nel sistema tedesco non c’è alcun richiamo a quella classica tripartizione. Occorrerà riflettere sulla necessità politica che il potere esecutivo rimanga sempre ancorato allo spirito di quella classica massima.

Per concludere in modo critico, come appare necessario, eppure senz’ira per alcuni fatti tremendi, l’autore ricorda quelle parole rese famose da una cantante di grande sensibilità, Edith Piaf (1915-1965) in anni tremendi per la Francia: Non je neregrette rien. Erano poste all’inizio dell’omonima canzone, che ebbe uno straordinario successo. E forse ebbe anche qualche peso politico in anni che furono tanto difficili per l’Europa.

Non, je ne regrette rien (Remastered 2017)

Durante la cancelleria di Smith

Sotto la cancelleria di Schmidt erano circolate notizie di interventi armati contro i detenuti della RAF. Fatti quindi di gravità estrema in un ordinamento democratico. Essi vennero smentiti con sdegno dai portavoce governativi. Però nel giro di qualche ora, le smentite ufficiali vennero demolite in seguito al rinvenimento di prove che dimostravano la fondatezza di quelle accuse.

Sia detto tra parentesi, la gestione democratica del potere avrebbe imposto le dimissioni del ministro responsabile di un falso talmente grave: i fatti subito dimostrarono che esso consisteva proprio in quella smentita. Ma quel fatto cadde invece nell’indifferenza.

Veniamo ora ai dettagli noti di alcuni di quei casi. Il primo era avvenuto nella notte tra il 17 e il 189 ottobre 1977. Si era dovuto parlare inevitabilmente si “sangue†anche nelle dichiarazioni ufficiali che in poche ore si succedettero, talvolta con delle contraddizioni circa dettagli tutt’altro che secondari. D’altronde quella era stata la definizione adoperata anche dai dirigenti carcerari. La stessa parola dovette essere ribadita dai portavoce ufficiali del governo  della Repubblica federale di Germania.

Ufficialmente però, quelli sarebbero stati dei casi di “suicidio quindi per la burocrazia carceraria. Sommando le diverse notizie apparse sui giornali, si arriva a contarne quattordici. Però anche su questo dato puramente statistico mancano conferme ufficiali.

Al suicidio contemporaneo di tre persone – che si trovavano imprigionate nel carcere di massima sicurezza di Stoccarda – parve difficile credere. Eppure proprio con quella definizione era stata diffusa la notizia alla stampa. Quella plurima dipartita di carcerati era avvenuta nella notte tr il 17 e il 18 ottobre 1977 nella notte dei misteri.

Ma faceva davvero parte dei comuni rituali del terrorismo- specialmente quello della RAF – il suicidio singolo o collettivo? Da parte delle autorità tedesche questo non è mai stato dimostrato, anche se talvolta le autorità hanno chiuso polemiche e problemi ricorrendo a tale suggestiva spiegazione.

“facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato:

e mezzi saranno sempre indicati onorevoli, e da ciascuno laudati.â€

N. Machiavelli –Il Principe, XVIII    

(…)Quando il terrorismo divampò, l’informazione ne denunciò il pericolo e la spietatezza, ma non volle approfondire realmente l’analisi delle sue cause tanto complesse che erano alla base di quel fenomeno. La stampa d’informazione puntava piuttosto ad allargare il proprio mercato chiamando a raccolta contro un nemico oscuro. Qualche tentativo di approfondimento veniva invece per impulso politico, attraverso libri, riviste di non larga diffusione e da qualche film. Presto avevano incominciato a circolare nelle sale cinematografiche anche le analisi profonde, irrituali e complesse di R.W. di Fassbinder (1945-1982) che però in principio ebbero influenza solo nell’area piuttosto limitata del pubblico più colto.                                                                  .

La Francia aveva vissuto la Guerre d’Algerie, che quanto a orrori e lacerazioni, non era stata cosa da archiviare facilmente. E portava con sé memoria del regime di Vichy. Ma nella sua grandeur storica, tutto riassorbiva e tutto inseriva nella prospettiva di una storia. La Germania di Helmut Schmidt doveva invece far dimenticare la propria storia e la propria disfatta ma inciampava in una scorciatoia.

21/12/2024

ORONZO MARIOSCHENA


Articolo del Sun, 22 Dec 2024 15:07:58 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

Non Mosca ma un pugno di mosche in mano all’Occidente

L’impresa bellica russa va a gonfie vele. Non parliamo solo dell’operazione speciale in Ucraina ma proprio dell’apparato industriale di Mosca che da solo produce mezzi, munizioni e nuovi armamenti, tra cui missili ipersonici inintercettabili e altre diavolerie a noi sconosciute, che tutto l’Occidente messo insieme non riesce ad eguagliare, né per quantità, né per qualità. Ovviamente, ciò ha dei costi sociali ma è il prezzo da pagare per assurgere a livelli di potenza superiori. La Russia è dovuta risorgere dalla sue rovine, in seguito al crollo dell’URSS e, dopo aver mangiato la polvere e inghiottito bocconi amari negli anni 90 del secolo scorso, è riuscita a ritornare prepotentemente sul palcoscenico globale, non solo come forza regionale ma come player mondiale con una proiezione egemonica su molti scenari. Adesso quella russa è nuovamente una società viva e battagliera che può anche richiedere sforzi e sacrifici ai suoi cittadini ma per una causa legittima e nell’interesse collettivo. Questa è la sovranità nazionale, non quelle balle che ci vengono propinate in Italia dalla destra filo americana e filo israeliana che dalla denuncia dei complotti demoplutogiudaicomassonici di ieri è approdata alla centralità del pensiero solare attuale, coincidente con l’insolazione che le ha bruciato il cervello. Della sinistra nemmeno ne parliamo più perché, con lo scioglimento del PCI, divenuto peraltro ambiguo già con la segreteria Berlinguer, se non prima, questa è diventata il soggetto delegato dello straniero, la quinta colonna di uno Stato estero che occupa con basi militari, servizi segreti e collegamenti vari le istituzioni pubbliche e private del nostro Paese.
Di fronte a questo lungo collasso epocale di tutta l’Europa, perché sul precipizio non c’è solo l’Italia, il circo mediatico ufficiale ci racconta la barzelletta che i moribondi stanno in Russia mentre da noi fiorisce una grande civiltà di diritti e di libertà, salvo incidenti di percorso come l’annullamento di elezioni che non vanno come avrebbero dovuto, l’instaurazione di una dittatura del pensiero e della lingua su cui vigila una psicopolizia ideologica con tentancoli ovunque, la censura di intellettuali, personalità e idee sgraditi, del presente e del passato, che mettono a rischio presunti nuovi valori difficili da comprendere e metabolizzare, sempre più spesso in contraddizione tra loro e che fanno scattare continui cortocircuiti culturali coi quali prendono fuoco gli stessi cantori del potere.
Così si vive ormai nella democrazia che s’inventa tiranni e macellai ovunque, ai quali fare la guerra per procura o con il più becero terrorismo internazionale, non perché questi lo siano davvero ma poiché solo proiettando sugli altri i propri delitti e difetti si evita di farsi il lungo esame di coscienza storico che potrebbe far terminare la supponenza e il complesso di superiorità senza più riscontri nella realtà.
Prepotenza degli USA unita al servilismo dell’Europa in una fase di transizione che da sola smentisce l’assolutismo di queste posizioni ridotte a credenza. Ci stiamo illudendo di avere ancora in mano il mondo e andiamo a caccia di Mosca.


Articolo del Sat, 21 Dec 2024 08:55:01 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

Falsità del mondo

 

Israele può fare quel che vuole anche aggredire e annettere terre altrui, come sta accadendo in questa fase per le alture del Golan, senza che scemi di stampa e di guerra ci ripropinino la storiella dell’aggressore e dell’aggredito.
Peccato, ora l’avremmo anche aggradita. C’è solo un aggressore e un aggredito dicevano gli idiotes dei media che si improvvisano esperti insieme a tutti gli altri don Chisciotte alla rovescia ai quali basta la mancia per diventare baciapale a tradimento.
Quanto valeva per la Russia non vale più ora, esattamente come il voto democratico che viene annullato se a vincere non sono loro. In questo mondo libero o il banco o la banca si prendono sempre tutto.
Ma la ciliegina sulla torta è un’altra. Netanyahu sta bombardando un po’ a cazzo di cammello in tutta la Siria, si dice e si scrive sulla stampa, per distruggere i depositi di armi chimiche. Se davvero ci fossero tali armi ancora immagazzinate in quel Paese l’ultima cosa da fare sarebbe bombardarne le sedi perché, e lo capisce anche uno scemo, compreso quello di guerra, colpirle significherebbe liberare un carico di morte tossica nell’aria. Ancora una volta ci stanno prendendo per il suk.
Ma poiché i giornali sono fogne, molto peggiori di Internet, checché ne scriva quello che ha i gramellini al posto del cervello, nessuno osa affermare il contrario. Eppure siamo di fronte alla prova provata di una menzogna più grande della terra promessa. Internet ha dato fortunatamente la possibilità a tutti di dire la propria e di trovare anche qualcuno in più disposto ad ascoltarla. Verità o menzogna non importa, perché prima della rete sia l’una che l’altra erano appannaggio esclusivo dei mentana impostati sulle dicotomie o così o tiggì. Oggi invece tutti possono propalare e propagandare le loro sciocchezze. Un piccolo passo per il singolo uomo, un grande contrappasso per tutta l’umanità. Anche questa è democrazia ed è per ciò che vogliono cancellarla. Se la puttanata diventa diffusa e collettiva c’è il rischio che alla fine qualcuno cominci a credere, per dispetto, alla verità.


Articolo del Thu, 12 Dec 2024 09:29:57 +0000
a cura di G. P.

analisi di fase attualità

La transizione siriana

La transizione siriana

Solo uno sciocco propagandista può chiamare rivoluzione quella che a tutti gli effetti è una transizione concordata a tavolino. E’ quanto accaduto in Siria dove i cosiddetti ribelli non hanno incontrato nessuna resistenza da parte dell’esercito regolare e sono arrivati quasi indisturbati a prendere la Capitale e i centri nevralgici del potere. Ciò significa che una parte del vecchio regime, alcuni suoi settori in particolare, ha collaborato alla cacciata di Assad che è stata in realtà una “partenza organizzata”. Prima ancora di questi accordi segreti tra cosiddetti ribelli e apparati dello Stato siriano, sono state le varie potenze alleate e nemiche della Siria ad aver stabilito i termini del ‘regime change’ per interessi diversi e calcoli propri. Degli eroi si innamorano solo i romantici o i superficiali mentre la storia non tiene conto dei singoli uomini. Probabilmente i rapporti di forza si erano sbilanciati in maniera tale che altro destino non poteva essere riservato ad Assad, il quale però non ha fatto né la fine di Saddam Hussein e nemmeno quella di Gheddafi, il che dimostra il ruolo avuto dalla Russia e dall’Iran nell’evoluzione degli avvenimenti e quello che continueranno ad avere anche nei prossimi sviluppi. Queste ultime non hanno potuto salvare il presidente siriano, alla guida del Paese da oltre vent’anni, ma hanno scongiurato una fine ancora più ingloriosa e feroce. La Russia in ciò dimostra ancora una volta di essere più affidabile degli Americani, adusi a dimenticarsi dei propri amici, soprattutto nel momento del bisogno. Tenendo peraltro conto di una guerra civile sanguinosa che va avanti da più un decennio e che non finirà oggi perché sono arrivati al potere i tagliagole moderati, come vengono vergognosamente definiti gli insorti dai giornali occidentali. Qualcosa cambierà sicuramente ma non nel senso che credono i servi della stampa nostrana e quei tifosi invasati e prezzolati che qualcuno si ostina a chiamare esperti di geopolitica.
Forse, Russia e Iran avrebbero anche fatto a meno di questo epilogo ma considerate le circostanze hanno pensato a guardare avanti per non dissanguarsi oltremodo in una missione ormai senza approdi e senza obiettivi raggiungibili. I media occidentali presentano quanto accaduto come una sconfitta di Putin e dell’Iran, ormai destinato alla stessa fine, ma è solo una lettura ideologica dei fatti. Così come ideologico è credere che tutto dipenda solo dal “dittatore” di turno. Il presunto “dittatore” è sempre un organo collegiale, il terminale di un sistema di potere che non detiene il potere per sé stesso ma per chi rappresenta. Per questo diventa sacrificabile se mutano le circostanze e gli assetti che lo sostengono.
Ora bisogna capire dai risvolti cosa è realmente accaduto ma non per questo, anche se si presentasse come una battuta d’arresto, la storia tornerà indietro. Stiamo vivendo una fase di transizione verso il multipolarismo che non dipende né dalle sorti della Siria e nemmeno da quelle dell’Ucraina. Bisogna allargare lo sguardo e non farsi prendere dai palpiti del cuore.


Articolo del Tue, 10 Dec 2024 08:53:16 +0000
a cura di G. P.


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