Oggi è Mercoledi' 10/12/2025 e sono le ore 18:50:01
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Mercoledi' 10/12/2025 e sono le ore 18:50:01
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su Wallapop
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
#news #tempi.it
Domenica sera Rai Storia ha trasmesso un film di Bernardo Bertolucci con Ugo Tognazzi e una giovanissima Laura Morante: La tragedia di un uomo ridicolo. Si potrebbe parafrasarlo per descrivere la condizione dell’Europa dopo la pubblicazione della prima National Security Strategy del secondo mandato di Donald Trump: la tragedia di un continente ridicolo. Ridicolo esattamente come il personaggio interpretato da Tognazzi, e cioè non per stupidità o demeriti intrinseci, ma perché vittima della storia, della lotta politica e delle complicità fra gli altri personaggi del racconto.
L’Europa è uscita con le ossa rotte dalla Seconda Guerra mondiale, spartita fra le due potenze che erano entrate nel conflitto due anni dopo il suo inizio: Unione Sovietica e Stati Uniti. La parte occidentale del continente ha avuto la fortuna di vivere una condizione di subalternità agli interessi atlantici che le ha permesso di sviluppare istituzioni più libere e un’economia più efficiente di quelle della parte orientale. Ha potuto pure dare vita a un esperimento di progressiva integrazione fra stati sovrani senza precedenti storici sia per gli aspetti positivi che per quelli problematici, in quanto tale esperimento era nell’interesse della potenza tutelare americana: si trattava di evitare una rinascita della rivalità franco-tedesca e di prevenire attraverso la crescita economica rivoluzioni di stampo comunista (e perciò filo-sovietico).
Ma era nell’interesse americano anche che l’Europa non diventasse un soggetto strategico autonomo, e gli europei si sono lasciati convincere che la soluzione migliore per la loro difesa era la Nato, un’alleanza politico-militare egemonizzata dagli Stati Uniti (che da soli spendevano per armamenti più di tutti gli altri paesi del mondo sommati insieme e giunsero ad avere 260 basi militari nei paesi europei, contro zero dei paesi europei negli Stati Uniti) che doveva proteggerli dalla minaccia sovietica.
Finita la Guerra fredda col tracollo del sistema comunista nell’Est europeo, il buon Mikhail Gorbaciov, l’uomo della glasnost e della perestrojka, premio Nobel per la pace, propose lo scioglimento delle rispettive alleanze militari in Europa (Nato e Patto di Varsavia) e la delega di tutte le questioni della sicurezza del continente all’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, prodotto degli accordi di Helsinki del 1975 (passando per la Csce). La Nato rispose picche, e l’Europa partecipò con entusiasmo all’allargamento a Est dell’alleanza, trasformando di fatto l’ingresso nel patto atlantico in un prerequisito per l’adesione all’Unione Europea: tutti i paesi che sono diventati membri della Ue a partire dal 2004 (e sono dieci) prima sono entrati a far parte della Nato.
L’entusiasmo cominciò a venire meno quando la Nato deliberò (aprile 2008) che anche Ucraina e Georgia sarebbero divenute membri dell’organizzazione. Francia e Germania obiettarono, memori del minaccioso discorso di Putin a Monaco un anno prima, timorose della prevedibile reazione russa. E rimasero scettiche circa la promessa di adesione fatta a Ucraina e Georgia per tutto il quindicennio successivo, fino all’attacco russo a Kiev del febbraio 2022. Mentre durante tutto quel periodo i presidenti ucraini incontravano i presidenti americani che rinnovavano loro la promessa (l’ultima volta avvenne nel novembre 2021, incontro Biden-Zelensky a Washington). Dopo l’invasione dell’Ucraina gli europei hanno accolto con sollievo l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, e hanno cominciato a guardare alla potenziale adesione di Ucraina e Georgia in una luce diversa.

E dopo tutta questa storia, cosa leggiamo a pagina 27 della National Security Strategy, novembre 2025, nel capitolo dedicato alla strategia Usa nei riguardi dell’Europa?
«La nostra politica generale per l’Europa dovrebbe dare priorità (…) al porre fine alla percezione, e impedire la realtà , della Nato come un’alleanza in continua espansione».
Che potremmo tradurre così: per più di trent’anni vi abbiamo convinto ad agire contro i vostri interessi, dando la priorità all’allargamento a Est della Nato anziché alla creazione di istituzioni multilaterali che sviluppassero il partenariato fra Ue e Federazione Russa, perché la nascita di un’entità euroasiatica da Lisbona a Vladivostok avrebbe messo in discussione l’egemonia globale degli Usa; siamo riusciti talmente nei nostri intenti che la Russia è transitata dal benevolo Gorbaciov al crudele Putin. Adesso che abbiamo reso impossibile qualunque convergenza fra Russia e Ue per almeno cento anni, per favore fatevi da parte: quello che oggi ci interessa è la «stabilità strategica con la Russia» (citata tre volte nel capitolo sull’Europa).
Cioè gli Usa hanno impedito all’Europa di sviluppare un partenariato strategico con la Russia dopo la fine della Guerra fredda, e adesso quel partenariato strategico con Mosca se lo accaparrano loro in esclusiva, e a noi lasciano l’Ucraina in rovina da ricostruire e da custodire!
Non è questa l’unica beffa riservata agli europei dal documento. Con loro ci si prende la libertà del doppio standard. I paesi del Medio Oriente vengono esentati dagli standard etico-politici occidentali; al loro riguardo si dichiara che bisogna
«abbandonare l’esperimento maldestro dell’America di costringere queste nazioni – in particolare le monarchie del Golfo – a rinunciare alle loro tradizioni e alle loro forme storiche di governo.(…) La chiave per relazioni di successo con il Medio Oriente è accettare la regione, i suoi leader e le sue nazioni così come sono, lavorando insieme su aree di interesse comune».
Invece per l’Europa vale esattamente il contrario:
«(…) questo declino economico (dell’Europa – ndt) è eclissato dalla prospettiva reale e più cruda della cancellazione della sua civiltà . I problemi più ampi che l’Europa si trova ad affrontare includono le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi. (…) Vogliamo che l’Europa rimanga europea, che riacquisti l’autostima della propria civiltà e che abbandoni la sua fallimentare dedizione al soffocamento normativo».
A quest’ultimo fine Washington si schiera apertamente dalla parte delle forze politiche sovraniste:
«La crescente influenza dei partiti europei patriottici è motivo di grande ottimismo. (…) La nostra politica generale per l’Europa dovrebbe dare priorità (…) al coltivare la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee».
Attribuire motivazioni principalmente ideologiche all’opzione trumpiana favorevole a un’Europa di nazioni sovrane e ostile all’Unione Europea sarebbe però miope. Gli interessi strategici dei soggetti internazionali vengono sempre presentati avvolti in luccicanti involucri ideologici, ma in realtà consistono ultimamente nella nuda volontà di potenza. Molto semplicemente, per gli Stati Uniti è meglio trattare con 27 paesi separati che con una monolitica Unione Europea: il presidente dell’â€art of the deal†lo sa meglio di tutti.
Su questo punto russi, cinesi e mezzo mondo sono d’accordo con lui: ben pochi sentono il bisogno di un’altra superpotenza con cui fare i conti sulla scena internazionale. Che il fantasticato superstato europeo venga presentato dai suoi fautori come una potenza benigna, un attore pacifico e fautore del diritto internazionale cambia poco. Non c’è bisogno di avere letto Mearsheimer o Morgenthau o qualsiasi altro teorico del realismo delle relazioni internazionali: a questo mondo tutti sanno, per esperienza, che le superpotenze agiscono da superpotenze, cioè con aggressività e innata vocazione all’ampliamento della propria sfera di influenza.
La retorica varia: difesa dei valori tradizionali, progressismo liberale, rivincita del Sud del mondo, primato del diritto e dei diritti (sarebbe questa la new entry europea). Ma la realtà è la stessa per tutti: competono per l’egemonia. Per il superstato europeo non sarebbe diverso. Con l’aggravante che per diventare realtà dovrebbe imboccare la strada bismarckiana o cavouriana di una guerra costituente: mandare le truppe dei 27 sui campi di battaglia del Donbass mentre gli esausti ucraini tirano il fiato e gli americani si defilano. Ma allora il culmine del processo di integrazione europea coinciderebbe con la negazione di fatto delle ragioni che lo hanno ispirato ottant’anni fa: nata per prevenire future guerre fra stati europei, l’Unione Europea si trasformerebbe in Stati Uniti d’Europa attraverso quello che prevedibilmente sarebbe il conflitto più sanguinoso di tutti i tempi, con probabile utilizzo di armi di distruzione di massa.
Da cui una paradossale conclusione: mentre nel secolo scorso a precipitare le due grandi guerre sono stati gli squilibri fra i grandi stati europei del tempo, che non sarebbero esistiti se il continente si fosse trovato sotto un potere imperiale, nel nostro secolo gli interessi della pace in Europa sarebbero meglio serviti dal pluralismo degli stati che dalla loro unificazione nel superstato europeo, perché questa passa necessariamente attraverso una guerra costituente.
L’interessato auspicio di Trump, Vance e Musk, che incoraggiano gli europei a restare divisi e a non rinunciare alle sovranità nazionali dietro la speciosa giustificazione che questo rianimerebbe la “grandezza europea†di contro ai rischi di un collasso di civiltà , finisce per essere un buon consiglio al di là delle nascoste intenzioni: la pace e quindi la conservazione in vita dell’Europa è molto più probabile se resta l’attuale pluralità di stati sovrani, che procedono coi necessari compromessi di chi non è troppo potente, che non se la Ue si lancia nel conflitto russo-ucraino vedendo in esso il catalizzatore della propria unificazione. Un altro paradosso, che conferma l’ossimoro iniziale: quella dell’Europa è una tragedia ridicola.
Da due anni l’intelligenza artificiale è diventata la protagonista indiscussa dell’economia globale. Ha ridisegnato i mercati finanziari, riscritto le strategie delle grandi aziende, alimentato entusiasmi, paure, profezie e contro-profezie. E, come accade sempre quando una tecnologia promette di cambiare tutto, la domanda che improvvisamente tutti si pongono è se l’Ai sia davvero la prossima rivoluzione o, al contrario, la prossima grande bolla destinata a sgonfiarsi con la stessa rapidità con cui si è gonfiata.
Anche gli analisti più ottimisti non nascondono che qualcosa non va. Le valutazioni di mercato delle aziende che sviluppano programmi di intelligenza artificiale sono cresciute a velocità vertiginosa, spesso molto più del loro effettivo fatturato. Gli investimenti in infrastrutture — data center, chip, modelli sempre più grandi — hanno raggiunto cifre gigantesche, mentre i ritorni economici, pur in crescita, non sempre giustificano l’ondata di capitali che continua a riversarsi sul settore.
Perfino alcuni sviluppatori e dirigenti di aziende leader, come Sam Altman di OpenAi, la società che ha inventato ChatGPT, ammettono che lo scenario di una bolla non è più un tabù. Parlano, con sorprendente franchezza, di un mercato gonfiato dalle aspettative, in cui il valore promesso supera di gran lunga il valore effettivamente realizzato.
E tuttavia sarebbe troppo facile — e forse troppo affrettato — decretare che l’Ai sia solo l’ennesima illusione speculativa. Molti osservatori avvertono che siamo ancora in una fase embrionale, in cui i benefici reali devono emergere nel tempo e non possono essere misurati con i parametri trimestrali della Borsa. Le grandi imprese che utilizzano l’intelligenza artificiale per automatizzare processi, incrementare produttività o sviluppare nuovi servizi mostrano risultati solidi. Anche la concentrazione degli investimenti in pochi colossi, che per alcuni è un segnale di fragilità , per altri rappresenta la capacità di sostenere costi enormi che un tempo avrebbero impedito qualsiasi innovazione di scala.
Il parallelo con la bolla delle dot-com, evocato da molti commentatori, è solo parzialmente calzante. All’inizio degli anni Duemila il mondo investiva miliardi in aziende che non avevano né clienti né prodotti funzionanti. Oggi, invece, parte dell’Ai è già utilizzata da milioni di persone e sta trasformando concretamente settori come sanità , manifattura, finanza e pubblica amministrazione. Se una bolla esiste — osservano i più prudenti — non riguarda il fatto che l’intelligenza artificiale sia inutile, ma il ritmo con cui il mercato scommette sui suoi potenziali scenari futuri. L’euforia potrebbe ridimensionarsi, alcune aziende potrebbero sparire, altre consolidarsi. Ma il movimento di fondo potrebbe continuare per anni.

Leggendo le analisi più serie, l’impressione è che entrambe le posizioni contengono un pezzo di verità . Da una parte, una bolla dell’Ai è possibile (per Martin Vanden Meyer sullo Spectator la domanda non è se scoppierà , ma quando). Non si tratta di negare l’evidenza: quando il divario tra promessa e realtà si allarga troppo, il rischio di una correzione violenta aumenta. Ma è altrettanto ragionevole riconoscere che l’intelligenza artificiale rappresenta un cambio di paradigma, una trasformazione tecnologica reale il cui impatto si dispiegherà nel tempo, con intensità e velocità difficili da prevedere.
Di fronte a questo quadro, la domanda più importante non è se la bolla ci sia già , o se scoppierà domani. La domanda vera è un’altra: chi governerà l’intelligenza artificiale? Perché ciò che accadrà nei mercati dipende molto meno dalla tecnologia in sé e molto più da come imprese, Stati e società civile sapranno orientarla. Un’Ai dominata dalla logica dell’hype — investimenti freneticamente alla ricerca del prossimo miracolo — è fragile per definizione. Un’Ai integrata in settori produttivi reali, accompagnata da norme chiare, sostenuta da infrastrutture solide e guidata da obiettivi razionali, ha invece la possibilità di essere una forza positiva e duratura.
In altri termini: la bolla non è un destino, ma un rischio. E i rischi, a differenza dei destini, possono essere gestiti. Quello che serve oggi è un equilibrio nuovo, culturale prima ancora che economico: riconoscere che l’Ai non è un giocattolo né una minaccia cosmica, ma uno strumento potentissimo, capace di generare valore solo se collocato dentro una visione umana e politica.
Forse la bolla dell’Ai esiste già . Forse no. Forse scoppierà tra qualche mese, o forse non scoppierà affatto (o forse, come scrive Tyler Cowen su The Free Press, ci conviene credere che sia una bolla). Ma il punto decisivo resta lo stesso: non è l’Ai a determinare il nostro futuro, siamo noi a determinarlo con il modo in cui la guidiamo. In questo senso, più che temere la bolla, dovremmo temere la mancanza di governo. Perché una tecnologia senza guida non è mai soltanto un rischio finanziario: è un rischio per la civiltà .
In ogni storia ci sono uomini e donne che non si possono dimenticare, essendo stati protagonisti indiscussi di quella storia. Uno di questi protagonisti della storia della Chiesa in Sicilia e di quell’esperienza di Chiesa costituita dal movimento di Comunione e Liberazione è, senza ombra di dubbio, don Francesco Ventorino, noto a tutti come don “Ciccioâ€, nato a Catania nel 1932 e ritornato al Padre, sempre a Catania, nel 2015.
Proprio perché indimenticabile, il 3 dicembre scorso, a dieci anni dalla morte, è stata celebrata una sentitissima Santa Messa in suo onore nella Cattedrale di Catania, presieduta da mons. Giuseppe Baturi (segretario della Cei), concelebrata da un cardinale, da altri 5 vescovi e da una ventina di sacerdoti ed alla presenza di un popolo che ha gremito quel bellissimo tempio.
C’ero anch’io, perché avevo un debito nei confronti dell’amico don Ciccio, in quanto non ero riuscito a partecipare al suo funerale nel 2015 a causa di una malattia di Adriana, mia moglie. Per una decina d’anni, fino al 2005, avevo condiviso con lui e con il Servo di Dio Enzo Piccinini la grande responsabilità di avere cura di tante comunità di Cl, essendoci stata conferita (immeritatamente nel mio caso) la funzione di “visitorâ€, come eravamo stati indicati.

In quegli intensissimi anni ho avuto modo di constatare i grandi talenti di don Ciccio, la sua acuta intelligenza, la sua cultura, la sua fede, la sua passione per le persone ed i loro problemi, la sua obbedienza nella sequela del carisma donato dallo Spirito a don Giussani. Una sequela affrontata sempre con virilità e verificata instancabilmente con l’esperienza della propria vita. Un grande aiuto è stato per me: un grande amico nel cammino di fede, cioè umano. Un grande esempio per me ed Adriana.
Perché indimenticabile? Per molti motivi, ma soprattutto perché, cosciente di avere incontrato il segreto dell’esperienza cristiana, ha passato la vita ad approfondire personalmente la ragionevolezza di tale Mistero ed a comunicarla a tutti coloro che incontrava, giovani o adulti che fossero.
Aveva la stoffa dell’intellettuale colto e intelligente e la carità dell’attenzione ad ogni domanda che gli veniva posta e ad ogni bisogno che incontrava. Non a caso, negli ultimi anni della sua esistenza terrena (vissuta cristianamente in compagnia di una salute precaria), quando non aveva più responsabilità di una guida specifica, si dedicò a riassumere, in tre fondamentali libretti, il pensiero ed il metodo educativo di don Giussani e, nel contempo, a occuparsi in misura totale dei carcerati, testimoniando loro la possibilità della redenzione, come ha avuto modo di testimoniare un commosso Giovanni durante l’incontro del 3 dicembre seguito alla Santa Messa. Nei tre libretti don Ciccio ha approfondito tre aspetti fondamentali del carisma di don Giussani: l’amicizia, la fede e la carità . Consiglierei a tutti di leggerli (edizioni Marietti-1820).
Don Ciccio (tutti lo chiamano così, anche i vescovi che lo hanno commemorato il 3 dicembre) è stato ed è importante, come ha sottolineato nella sua partecipata omelia mons. Giuseppe Baturi, perché, a partire dal provvidenziale ed umile incontro con una ragazza di 16 anni, che lo ha indotto a vedersi subito con don Giussani, ha ribadito e proposto le dimensioni fondamentali di ogni autentica esperienza cristiana e per questo è ancora così amato ed apprezzato da tutta la Chiesa presente in Sicilia.
Ha ribadito che il cristianesimo, prima ancora di essere una dottrina, è innanzi tutto un avvenimento incontrabile nella storia concreta della vita di ciascuno di noi dentro la comunità di coloro che sono stati afferrati da Cristo.
L’esperienza vissuta della comunione è, quindi, il punto centrale della novità di vita portata da Gesù nel mondo. L’io cristiano cresce e si sviluppa nella vita della comunità della Chiesa. Per questo, l’appartenenza alla comunità è la condizione ordinaria che permette l’incontro iniziale e poi la crescita della persona, che così viene aiutata a vivere le dimensioni della cultura, della carità e della missione.
Ricordo che mi colpì molto il passaggio di un intervento di don Ciccio, nel quale egli diceva che non basta la citazione della dottrina per rimanere dentro l’esperienza cristiana, perché occorre anche lo “sguardo†che ti fa vedere nel carisma lo sviluppo dell’esperienza in atto.
Così egli diceva il 21 maggio 1995:
«Mi è parso evidente come non mai che si tratta, piuttosto che di un “criterio metodologico” da apprendere e poi da applicare, di uno “sguardo†da imparare: uno sguardo non lo si finisce mai di imparare. […] Lo sguardo è una intelligenza e un’affezione “in azione”, che ti fa penetrare dentro la realtà sempre oltre, più in là di dove arriveresti da te».
Come non bastava sentire le parole di Gesù; occorreva anche guardarlo agire, per immedesimarsi nel cuore della sua esperienza, che prendeva sempre in contropiede gli apostoli, che pure avevano abbandonato tutto per seguirlo. Fu un passaggio molto importante per me e non solo per me. Nel seguire il carisma di don Giussani, don Ciccio riuscì ad esprimere tutta l’originalità della sua intelligenza, che è servita a molti. In altre parole, compì il paradosso cristiano, per il quale l’obbedienza, che potrebbe sembrare una limitazione, invece, in un rapporto di carità , diventa il massimo della valorizzazione di ciascuno. Anche don Ciccio, seguendo il fatto cristiano per come gli si era convincentemente presentato, visse ciò che il Vangelo definisce come “centuploâ€. Seguire un Altro nella comunità cristiana potrebbe sembrare una perdita: invece fa vivere ogni cosa con un gusto moltiplicato cento volte.
Al termine della lettera del 12 marzo 1999, in occasione dei 40 anni di Cl in Sicilia, don Giussani così scriveva:
«Non nobis Domine, sed nomini Tuo da gloriam. Anche se questa gloria pare come affermazione della appartenenza di tutti noi a Lui, è nella persona di monsignor Francesco Ventorino l’inizio visibile ed esemplare dell’avvenimento attraverso cui il carisma, cioè l’azione dello Spirito nella Chiesa, ha investito e mobilitato la vostra vita. A lui, in questo momento, va la nostra umana gratitudine».
Certamente, a don Ciccio va la mia personale gratitudine e la gratitudine di ogni cristiano, non solo dei ciellini. Gratitudine espressa, il 3 dicembre, in modo commosso, convinto ed efficace da Davide Prosperi, a nome di tutta la Fraternità di Cl; dal vescovo di Nicosia mons. Giuseppe Schillaci che fu allievo in seminario di don Ciccio; da Michele Scacciante, presidente della “Fondazione Francesco Ventorinoâ€, che costituisce oggi una presenza educativa ed assistenziale molto importante e significativa nella città di Catania. Evidentemente, don Ciccio ha lasciato un segno indelebile, che arricchisce una storia straordinaria. Per tutto questo, grazie!
Si parla di intelligenza artificiale un po’ ovunque. Tra cieca fiducia nel progresso e irrazionale terrore della probabile messa in discussione di usi consolidati.
Pare però unanime la richiesta di regole che mettano al riparo adolescenti e giovani dai rischi dell’impatto delle nuove tecnologie. È una giusta attenzione, ma non basta.
«Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità », diceva Pierre Teilhard de Chardin, «non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame, né la peste»… né un uso fuori controllo delle nuove tecnologie, potremmo aggiungere oggi… «è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».
Tra qualche giorno sarà Natale. Non è l’inizio di una religione, ma l’accadere di una fede, della possibilità di affidarsi a Dio, al senso della vita, che in Cristo ci è diventato compagno.
Sapendo forse leggere e scrivere, ma di certo non sapendo far di conto, parteciperò al dibattito mettendomi per gioco nei panni dello zio Josh. Chi è lo zio Josh? È un personaggio ricorrente dei cosiddetti rube films di inizio Novecento, i primi a mettere in scena il rapporto tra il cinema e il suo spettatore. In breve, Uncle Josh è il campagnolo che arriva in città e incontra per la prima volta la stravaganza moderna del cinematografo. Non sa bene come comportarsi (del resto non esisteva ancora una liturgia codificata dello stare al cinema) e ovviamente se la fa sotto quando vede arrivare dallo schermo un treno in corsa – una strizzata d’occhio alla celebre leggenda metropolitana storiografica che ancora capita di trovare, incredibilmente, nelle prime pagine di certi manuali di cinema. Attenzione: lo zio Josh, nel mio ragionamento, non è lo spettatore bifolco ma semplicemente lo spettatore naïf, insomma il pubblico pagante, che sia sofisticato o meno nei gusti estetici. Quello che non ha idea di come si producano i film né di come si finanzino, perché gli interessa solo una cosa: vedere qualcosa che valga il prezzo del biglietto.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Sky, diciotto anni, pronome “they/themâ€, ha un’idea molto chiara di sé: «Voglio sembrare una Barbie laggiù». Lo racconta Amy Penkin, assistente sociale del Transgender Health Program dell’Oregon Health & Science University, a un pubblico di clinici e colleghi riuniti a porte chiuse. Sky non aveva mai fatto sesso, non aveva il minimo interesse a farlo, e aspirava a un corpo senza alcuna sensazione erotica: «Sperava fosse possibile rimuovere tutti i tessuti erogeni», dice Penkin.
Non molto tempo fa, pazienti come Sky avrebbero ricevuto una valutazione psicologica e un supporto psicologico. Ma nel mondo in continua evoluzione della medicina di genere, i medici ora vogliono aiutare i giovani come Sky a raggiungere i loro “obiettivi di genere”.
Queste ammissioni emergono dai video ottenuti e pubblicati in esclusiva da The Free Press, registrazioni delle conferenze 2021 e 2022 della famigerata World Professional Association for Transgender Health (WPATH) e della sua sezione americana (USPATH). Materiale che rivela ciò che i clinici di genere si dicono tra loro quando non hanno la stampa addosso.
Penkin spiega che i casi come Sky sono in aumento, le richieste di procedure «non binarie» crescono, ma il sistema, lamenta, è ancora ingessato in presupposti “binari”. La “nullificazione” (cioè l’eliminazione chirurgica dei genitali esterni) o la vaginoplastica con preservazione del pene sono, per ora, trattamenti «meno accessibili di quanto dovrebbero essere». Il messaggio ai colleghi è chiaro: gli standard attuali «non sono sufficienti», per rispondere ai pazienti «dobbiamo passare al livello successivo».
La psicologa Mair Marsiglio, sua collega all’OHSU, rincara la dose sulla necessità di riformulare il ruolo dello psicologo o dell’esperto di salute mentale: non più un filtro, un gatekeeper, ma un vero e proprio «collaboratore». Neppure chi soffre di disturbi gravi («personalità multiple», «psicosi») andrebbe escluso dalla chirurgia di genere solo perché l’équipe «si sente a disagio» a operarlo: far parte del team, per Marsiglio, significa «aiutare il paziente a orientarsi» dentro un percorso di cura, anche quando si tratta di operazioni «mai eseguite prima» o «ad alto rischio».
Nel caso di Sky, sono bastate «due lettere di supporto» da professionisti della salute mentale per ottenere l’autorizzazione alla castrazione. Aveva diciotto anni: era legalmente maggiorenne.
Il caso Sky (e di tanti altri giovani) è emerso grazie a una causa legale, Boe v. Marshall, intentata nel 2022 per bloccare la legge dell’Alabama che criminalizzava le transizioni mediche per minori. Una strategia che si è rivelata un boomerang per chi l’aveva promossa.
I querelanti avevano infatti chiesto al tribunale di fidarsi dell’autorità della WPATH. Peccato che l’indagine legale condotta dallo Stato dell’Alabama, tra il 2023 e il 2024, abbia restituito un quadro sconcertante dell’associazione: revisioni delle evidenze soppresse, limiti di età eliminati per motivi politici, conflitti di interesse ignorati, raccomandazioni modellate sugli interessi di chi le formulava.
Le rivelazioni sono finite sul New York Times, sull’Economist, sul Washington Post, persino sul BMJ. L’Alabama ha potuto acquisire così centinaia di ore di conferenze interne, organizzate da WPATH e USPATH. Una finestra su una medicina che, come ha dimostrato The Free Press pubblicando alcuni materiali, parla a porte chiuse una lingua ben diversa da quella usata con le famiglie e il pubblico.
Nel giugno 2024 la Corte Suprema ha stabilito che gli stati possono limitare o vietare le transizioni pediatriche: vittoria piena per l’Alabama. Nel frattempo WPATH ha supplicato la corte di non rendere pubblici i video. E ha perso.
Nelle sessioni interne raccontate da Tfp, i medici riconoscono ciò che all’esterno negano: la minaccia del suicidio come leva emotiva per convincere le famiglie; la rassicurazione affrettata su interventi che possono comportare infertilità , danni permanenti, effetti collaterali gravi.
Una delle ammissioni più crude riguarda la natura sperimentale – spesso non dichiarata – di molti trattamenti. Nessun protocollo, nessuna ricerca formale, nessuna approvazione etica: si fa perché i pazienti lo chiedono: li chiamano «obiettivi di incarnazione» (sic).
Come nel «caso composito» presentato dall’endocrinologa pediatrica Hayley Baines: quello un tredicenne non binario (pronome «they/them») che voleva «le tette» ma anche «che le mie parti funzionino ancora». Solo durante la visita, lui e il genitore (anche quest’ultimo dichiarato “non binarioâ€) avevano scoperto che gli ormoni avrebbero potuto compromettere la fertilità . Il ragazzo aveva reagito con un laconico «c’est la vie», il genitore, che desiderava dei nipoti biologici, scoppiando a piangere. È compito del team, spiega Baines, capire come far convivere fertilità , erezione, desideri estetici e identità .
Ci sono poi i video in cui i clinici discutono della loro preoccupazione principale: come proteggersi dalle possibili conseguenze legali.
Nel 2022 WPATH aggiorna i suoi standard di cura aggiungendo nuovi capitoli e definizioni, in primis “Non binarioâ€. Per essere non binari basta un «senso interno di genere» in contrasto con le aspettative sociali legate al proprio sesso di nascita.
Questo include generi indigeni o non occidentali, identità multiple o mutevoli, chi non si riconosce in alcun genere, chi fonde elementi di più generi o cambia identità nel tempo. Un caso discusso a OHSU riguardava un adolescente che dichiarava: «Frank-N-Furter di The Rocky Horror Picture Show è la mia identità di genere».
Secondo gli standard la “non binarietà †coinvolgerebbe tra il 25 e il 50 per cento della popolazione transgender, con una quota particolarmente alta tra i giovani. Alla conferenza del 2022 a Montreal, a chi domanda perché gli standard prevedono il consulto di un «team multidisciplinare» prima di passare agli interventi (passaggio che agli addetti ai lavori sembra «più restrittivo» rispetto all’obiettivo dichiarato di WPATH di eliminare barriere alla «affermazione» medica) viene risposto che la misura serve a proteggere i medici: alcuni pazienti inevitabilmente si pentiranno delle procedure e «avere una rete di contatti, in cui il team ha preso una decisione insieme al paziente, offre un quadro per dire: “Bene, l’etica è stata esplorata…â€Â».
Non solo: il consulente endocrinologo britannico Leighton Seal riconosce che gli interventi si basano su prove scarse o nulle – «stiamo eseguendo procedure per le quali non disponiamo di dati sugli esiti» – e che senza questo supporto i medici sarebbero «vulnerabili».
Alla fine della seduta, una terapeuta dello Utah ha raccontato di vedere richieste di interventi non binari «drammaticamente aumentate», ammettendo: «A volte ho la sensazione che stiamo tutti improvvisando», «Forse però possiamo improvvisare insieme». È la medicina della nuova era.
Non sappiamo come sia finita per Sky. Sappiamo però di altri adolescenti che hanno ottenuto l’intervento che Sky desiderava: l’asportazione dei genitali.
Gli standard del 2022 introducono infatti un altro nuovo capitolo: gli “Eunuchiâ€. Non più condizione sociale o pena antica, ma nuova identità di genere, «coloro a cui è stato assegnato lo stato di sesso maschile alla nascita» e «che desiderano eliminare le caratteristiche fisiche maschili, i genitali maschili o la funzionalità genitale», «possono essere consapevoli della propria identità durante l’infanzia o l’adolescenza», e come altre persone «transgender e di genere diverso», sono un gruppo «emarginato».
Gli autori del capitolo (Thomas W. Johnson, professore emerito di antropologia alla California State University di Chico, e Michael S. Irwig, medico del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston) spiegano alla conferenza del 2022 che il desiderio di essere eunuco può nascere dal rifiuto di essere maschio o femmina, dall’idea che i genitali non appartengano al corpo, o da «parafilie estreme».
Durante la discussione, l’unico commento critico riguarda il termine «castrazione», ritenuto troppo stigmatizzante. Un chirurgo di San Francisco ringrazia tuttavia i colleghi per avergli fatto superare ogni dubbio prima di eseguire la sua prima castrazione su un uomo gay: ora ne esegue «un discreto numero» insieme ad altre procedure «non standard» e chiede come convincere più chirurghi a unirsi alla causa.
Secondo Irwig, la risposta è nella normalizzazione: ora che la castrazione è dentro gli Standard di Cura, nelle linee guida ufficiali, non sembrerà più ai medici un intervento di cui vergognarsi o a rischio ritiro di licenza. È tutto lì: far entrare un concetto nel manuale, e il resto seguirà .
WPATH non dedica alcun capitolo ai “detransitionersâ€: liquida anzi il tutto con una formula: la detransizione «sembra essere rara». Un’altra bugia.
Come abbiamo ricordato più volte, è dagli anni 2010 che inizia ad esplodere il fenomeno: sempre più adolescenti, soprattutto ragazze, spesso con fragilità psicologiche, iniziano a chiedere testosterone e mastectomie. Non si tratta appena di applicare il famigerato “protocollo olandese” (mai testato seriamente ma che dagli anni 90 aveva colonizzato l’Occidente) ma di cambiare il dibattito identitario e il target terapeutico: non solo «passare» all’altro sesso, ma farlo in nome del diritto all’autodeterminazione, alla «autenticità » e «all’espressione del sé».
Nel 2024, scrive The Free Press, Annelou de Vries, madrina del protocollo olandese, firma un articolo sul BMC Medical Ethics che invita a superare la «logica del miglioramento clinico». Citando la giurista trans canadese Florence Ashley, propone un nuovo paradigma: l’«euforia di genere», la «trasfigurazione creativa», il corpo come «opera d’arte di genere».
«Questo nuovo paradigma – commenta TFP – implica che i medici non si sentano più come se stessero curando un disturbo di salute mentale, anche se lo dichiarano alle compagnie assicurative per motivi di fatturazione». Anche se dicono «ai genitori dei minori e al pubblico in generale che gli interventi medici che propongono sono “salvavitaâ€Â», ai colleghi, nelle conferenze a porte chiuse, proclamano quasi orgogliosamente di «non effettuare alcuna valutazione, né della salute mentale né dell’identità di genere», e di basare le loro considerazioni «sul trattamento sugli “obiettivi” estetici di un individuo».
All’inizio della sua amministrazione Biden aveva ampliato l’accesso alle cure di affermazione di genere per i minori: «La questione dei diritti civili del nostro tempo», la chiamava. Nel suo primo mese, Trump ha firmato un ordine esecutivo per «proteggere i bambini dalle mutilazioni chimiche e chirurgiche».
Da allora il Dipartimento della Salute ha pubblicato una revisione delle evidenze – in linea con i paesi europei più progressisti – che conclude che la transizione medicalizzata dei minori non è affatto sostenuta da evidenze.
L’aggiornamento pubblicato a novembre Supplement to Treatment for Pediatric Gender Dysphoria Report Peer Reviews and Responses – qui tradotto nei suoi passaggi più significativi da GenerAzioneD – con le repliche a tutte le obiezioni mosse da gruppi medici come l’American Academy of Pediatrics, Endocrine Society o l’American Psychiatric Association – conferma che gli interventi medici e chirurgici su minori (bloccanti della pubertà , ormoni cross-sex, chirurgia di riassegnazione) espongono a rischi gravi e permanenti, a cominciare dall’infertilità , e che non vi sono prove robuste che garantiscano benefici psichici o di riduzione della disforia sufficienti a giustificare tali rischi. Anzi.
Dopo anni in cui clinici, psicologi e chirurghi hanno ampliato le opzioni a giovani come Sky, modificando genitali, sopprimendo tessuti erogeni, prevedendo “identità eunuche†e “corpi neutriâ€, ora l’autorità sanitaria pubblica degli Stati Uniti segna uno spartiacque.
Secondo un recente sondaggio New York Times/Ipsos, più di sette americani su dieci, tra cui più della metà degli elettori democratici, ritengono che ai minorenni non dovrebbero essere offerti bloccanti della pubertà o ormoni cross-sex.
Ma il neosindaco di New York, Zohran Mamdani, ha promesso di spendere 65 milioni di dollari per «espandere e proteggere l’assistenza di genere in tutta la città … sia per i giovani che per gli adulti transgender».
Già travolta dallo scandalo “WPATH filesâ€, l’associazione non mostra segni di voler riconsiderare le proprie posizioni. Ma i suoi video a porte chiuse mostrano, ancora una volta, con nitidezza brutale, dove si trova il confine: nel punto in cui la scienza smette i curare e comincia a improvvisare. Sulla pelle dei ragazzini.