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L'altra faccia della guerra e l'altro volto di Zelensky - Ucraina e Libia: due facce della stessa guerra e la Profezia di Gheddafi - Libia 2011, i crimini impuniti della Nato - Il sanguinoso conflitto in Iraq che pone l'occidente sotto accusa - Pillole di storia dell'Ucraina
#news #tempi.it
L’altro giorno nella sede dell’Istituto Bruno Leoni a Milano abbiamo “battezzato” Lisander, il nuovo substack nato dalla collaborazione tra Tempi e l’Ibl. Un battesimo breve ed essenziale in cui abbiamo cercato di spiegare come è nata l’idea e come funziona. E allora andiamo subito al punto: Lisander è una newsletter che non sarà invasiva (un invio una volta la settimana, più o meno), è gratuita e ci si iscrive inserendo la propria email nello spazio qui sotto.
Funziona così: circa ogni tre mesi sarà pubblicato un saggio breve su un argomento (si può già leggere quello sulla libertà di educazione scritto da Paolo Terenzi, Professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna), cui poi seguiranno articoli più brevi in reazione al saggio. Questi ultimi saranno pubblicati in seguito e, per questo esordio, abbiamo già pronti gli interventi di Anna Monia Alfieri, Giuseppe Bertagna, Giuliano Cazzola, Giovanni Cominelli, Franco Debenedetti, Marco Sermarini. A questi, nel tempo, se ne aggiungeranno altri (l’invito rivolto a tutti è di partecipare alla discussione).
Lisander si chiama così in onore di Alessandro Manzoni – “don Lisander” era il soprannome con cui era conosciuto a Milano -, straordinario scrittore di cui, tra l’altro, proprio quest’anno cade il 150° anniversario della morte. Chi meglio di lui poteva incarnare lo spirito di questa newsletter che, come abbiamo spiegato, nasce con l’intento di essere un “luogo” di dibattito libero, in cui tradizioni diverse come quella cattolica e liberale possono trovare punti di incontro e, se necessario, anche di garbato “scontro”?
I promotori, come detto, sono Tempi e l’Ibl di Alberto Mingardi, il professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi Sergio Belardinelli, il giornalista scrittore Robi Ronza. La redazione è composta da Arianna Liuti e Carlo Marsonet. Il progetto grafico è di Davide Viganò.
Per noi di Tempi Lisander è il tentativo di tenere vivo il suggerimento del fauno di Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate: «Non basta parlare, bisogna parlare seriamente». In un mondo dove l’informazione è stata ridotta a rumore di fondo, dove tutto sembra emergenza – ma non per più di 5 minuti e poi si deve bulimicamente passare ad una nuova emergenza – c’è bisogno di “parlare seriamente”, cioè di esprimere giudizi, non solo vacue o violente opinioni.
Il giudizio è un coltello: taglia in due. Dice tentativamente cosa è bene e cosa è male, prendendosi la responsabilità di indicare un inizio, un percorso, un approdo. Per fare questo occorre “parlare seriamente” cioè confrontarsi liberamente, con punti di vista forti ma aperti a correzioni, curiosi del contributo di tutti, amando quel che si dice e si fa senza mai disprezzare chi dice e fa. Proviamoci, iscrivetevi.
Il Guardian lancia l’allarme democratico, l’ennesimo: ora votano per «l’estrema destra» anche persone «che non lo hanno mai fatto e che non ti aspetteresti lo facessero: donne anziane, elettori residenti in città o della classe media istruita». Persone disposte «a barattare la democrazia» con un despota al potere che promette stabilità economica e che sono finite a ingrossare le file dei sostenitori dei partiti anti-establishment che spopolano in Europa.
Lo denuncia Daphne Halikiopoulou, politologa comparata presso l’Università di York e coautrice di PopuList: secondo la ricerca condotta da Matthijs Rooduijn, politologo dell’Università di Amsterdam, che ha visto la partecipazione di oltre cento scienziati politici in 31 paesi, lo scorso anno un terzo degli elettori europei (il 32 per cento) ha votato infatti per un partito populista. Un record: erano il 20 per cento nei primi anni 2000, il 12 per cento nei primi anni 90. Non solo: la metà di questi elettori sostiene l’estrema destra e cresce ogni giorno di più il il numero di quelli che la «tollera», come spiega al Guardian Cas Mudde, professore alla Scuola di affari pubblici e internazionali dell’Università della Georgia (Stati Uniti) e “padre” della definizione “populismo”, «quelli che non voterebbero Le Pen al primo turno delle elezioni presidenziali francesi ma lo farebbero al secondo. Quel gruppo è davvero, davvero cresciuto».
Insomma, i partiti tradizionali stanno perdendo voti, i partiti anti-establishment stanno guadagnando terreno, e «quando i populisti ottengono il potere, o influenzano il potere, la qualità della democrazia liberale diminuisce» denuncia Rooduijn, ricordando che «per i populisti, tutto ciò che si frappone tra “la volontà del popolo” e la formulazione delle politiche è negativo. Ciò include tutti quei presidi e contrappesi vitali – stampa libera, tribunali indipendenti, protezione delle minoranze – che sono una parte essenziale di una democrazia liberale».
I partiti di estrema destra, in particolare, «hanno ampliato ulteriormente la loro base elettorale coalizzando elettori con preoccupazioni molto diverse», rincara Halikiopoulou motivando l’ascesa della destra al governo (dall’Ungheria dell’illiberale Viktor Orbán alla Polonia di Diritto e giustizia, da Giorgia Meloni alle coalizioni siglate da politici finlandesi e svedesi con l’estrema destra) e dell’aumento di popolarità del FPÖ in Austria, l’AfD in Germania e di Marine Le Pen in Francia. E se in Spagna Vox ha perso più di un terzo dei suoi parlamentari a luglio, i partiti populisti e ribelli potrebbero decidere alle prossime elezioni i governi di Slovacchia, Polonia e Paesi Bassi. Dal problema centrale dell’immigrazione “l’estrema destra” avrebbe infatti imparato a “diversificare”, «capitalizzando tutta una serie di insicurezze degli elettori»: lockdown e vaccini, gender e dintorni, crisi climatica, caro vita e guerra in Ucraina.
Quest’anno il database di PopuList identifica in tutta Europa la bellezza di 234 partiti anti-establishment, tra questi 165 partiti populisti, 61 partiti classificati come di “estrema sinistra”, 112 come di “estrema destra” (la maggior parte, ma non tutti, populisti). Nel grafico titolato “I partiti populisti hanno ottenuto il 58 per cento dei voti alle ultime elezioni italiane”, Lega e Fdi sono classificati come “far-right populist”, M5s e Forza Italia come “other populist”, il resto (ad eccezione di Rc, “far-left”) è tutto “not populist”. Anche l’inquietantissima immagine di apertura dell’articolo del Guardian è dedicata al «primo ministro italiano di estrema destra Giorgia Meloni durante un comizio elettorale ad Ancona», così come un ritrattone, pubblicato lo stesso giorno della ricerca, del premier: «”Fa la moderata ma strizza l’occhio a chi non lo è”: i tanti volti di Giorgia Meloni».
Diversi giornali italiani hanno visto nel ritrattone un’incoronazione di Giorgia Meloni: secondo le fonti interpellate dal Guardian se una volta era difficile trovare qualcuno che amasse Giorgia Meloni, oggi è difficile trovare italiani che ricordino “uno dei politici più potenti d’Europa” solo per i suoi legami col neofascismo, l’odio per gli immigrati, gli Lgbtq+ o verso chiunque macchiasse «la sua autodichiarata visione cristiana e patriottica dell’Italia». «Ho anche clienti di sinistra che mi dicono: “Tutto sommato mi piace abbastanza”», spiegano i romani del presidente che da fan di Trump e Putin è passata a farsi amici Biden, Zelensky, Sunak, Macron e von der Leyen – senza tuttavia rinunciare ai cavalli di battaglia “Dio, patria famiglia” condivisi con gli alleati Vox e Orbán -, e a incassare gli elogi di Letta e Bonaccini. «Ha un modo di fare le cose molto astuto, anche se rimane fedele ai suoi istinti naturali. Ma l’impatto delle sue politiche è pericoloso poiché sta normalizzando le cose». Più che un’incoronazione un ulteriore “dagli al fascista” travestito da premier presentabile che manda all’aria il piano dei più sinceri democratici: odiarla fino all’ultima minoranza perseguitata. Tra le accuse più mosse a Meloni c’è infatti quella di essere «venuta meno ai suoi impegni sull’immigrazione». Era «salita al potere promettendo di “fermare l’invasione”» e che non avrebbe permesso che l’Italia diventasse «il campo profughi d’Europa», e invece. E invece è scandaloso che tocchi al Guardian e non agli impresentabili populisti italiani a cui Meloni piace tanto ricordarglielo.
Caro direttore, pur essendo relativamente giovane (53 anni) in questo periodo della mia vita mi sento stanco e vecchio. Sarà perché ho già troppi anni di lavoro alle spalle, sarà perché faccio fatica a trovare stimoli che appassionino e mi facciano trovare entusiasmo in quel che faccio. Penserai “Antonio, perché sei così profondo oggi? Non mi parli di musica?”. Ed invece è proprio nella musica che qualche piccola risposta l’ho trovata. In questa fine estate mi sono imbattuto in quelli che chiamano “dinosauri” ovvero musicisti di lunga data che non ne vogliono sapere di andare in pensione. Ho assistito ad un concerto di Eugenio Finardi (71). Pura passione, tanto da rinunciare a tutti i suoi successi e dedicarsi per due ore al suo vecchio amore, il blues. Le sue parole sono state: «Oggi non ascolterete il cantautore Finardi, ma il musicista Eugenio». Ed in effetti lui e i suoi quattro coetanei hanno suonato come fossero una cover band in un pub di periferia. Altro artista dinamico e brillante sul palco visto ed ascoltato in questi giorni è stati il Puma di Lambrate, Fabio Treves (73). I suoi musicisti sono miei coetanei e in tutti loro è palpabile il divertimento in quello che in fondo è il loro lavoro. Altro concerto a cui ho assistito in una banale fiera di paese è Bobby Solo (78). Pur non essendo più nei suoi anni migliori sul palco padroneggia la sua chitarra e la sua voce, navigando allegramente tra suoi brani e pezzi indimenticabili di Elvis Presley. A queste serate devo aggiungere brani ascoltati di due novità discografiche. Rolling Stones (75 anni di media), il loro ultimo disco sembra uscito negli anni ’60, stessa carica, stessi suoni. Ed infine è in uscita il disco di Francesco Guccini (83). Ha rotto la promessa di parecchi anni fa, dove comunicò che “l’ultima Thuile” doveva essere il suo ultimo lavoro discografico, ora invece è tornato, non per scrivere canzoni, ma per interpretare brani di suo gradimento. Ora direttore aiutami tu, sbaglio io a sentirmi inadeguato a questi tempi, o sono folli questi musicisti a vivere come se il tempo si fosse fermato?
Antonio Azzarito via email
Non so quanta consapevolezza possano avere questi cantanti, ma, come diceva il Papa, «la vita e il compimento di un sogno di giovinezza».
***
Al direttore – È una strana sensazione sentirsi sul collo il fiato del califfo di Bruxelles; in effetti direi alquanto interessato alle mie orecchie, o meglio alle mie capacità uditive, che a sentirlo vorrebbe salvaguardare, per il mio bene, o per il bene del sistema sanitario. Fuor di metafora racconto il fatto. In queste meravigliose serate settembrine che sembrano permanere in uno stato di grazia meteorologico, alla faccia delle Cassandre televisive, amo la sera ascoltare all’aperto, passeggiando tra le vetrine delle librerie della mia tranquilla città di Macerata, il primo atto della “Traviata”, oppure il secondo del “Trovatore”, o perché no il “Flauto magico” di Mozart una notte per intero, esperienza di totale soddisfazione, corredato di cuffie e di portatile per cd sempre assolutamente originali; le registrazioni Decca, quando ancora erano possibili in studio sono le migliori. Avendo rotto il mio portatile ho acquistato il prodotto più costoso di una delle migliori marche. Lo provo con curiosità e al massimo del volume 9, normalmente arrivava a 30, sento soltanto bisbigliare la sinfonia della “Traviata” che è un pianissimo; sono esterrefatto che la storia continui anche con i martelli di Solti del Sigfrido di Wagner. Chieste spiegazioni al supermercato mi dicono che l’Unione europea per salvaguardare l’udito ha imposto un tale massimo volume. Il sorprendente è che nessuno sinora avesse protestato. La gioia di quegli ascolti notturni mi è preclusa perché il bisbiglio non rende affatto la bellezza dell’opera.
Giovanni Santachiara, grato e ammirato dal Vs. Lavoro
A proposito del sogno della giovinezza. Questa Unione è ormai un ospizio.
«Azerbaigian e Turchia non vogliono fermarsi al Nagorno-Karabakh: il loro obiettivo è invadere tutta l’Armenia e portare a termine l’estinzione del mio popolo». Dichiara così a Tempi Antonia Arslan, la grande scrittrice che con i suoi libri ha fatto conoscere in tutto il mondo la grandezza degli armeni e i drammi che hanno vissuto nella loro lunga storia. Anche lei è sconvolta dall’invasione dell’Artsakh da parte dell’esercito di Baku ma, afferma, «me l’aspettavo, sapevo che sarebbe successo».
Perché?
Tra fine agosto e inizio settembre gli azeri hanno fatto avvicinare alla linea di contatto armamenti pesanti, soldati e droni di ultima generazione. Si tratta delle stesse manovre compiute nell’agosto del 2020, prima di lanciare la guerra di fine settembre.
L’Azerbaigian si fermerà al Nagorno-Karabakh?
Il loro obiettivo è quello di invadere tutta l’Armenia, un pezzo alla volta. Dal 2020 a oggi hanno già rosicchiato molti chilometri quadrati di terra armena e stiamo parlando di un paese piccolo. Ecco perché ora bisogna pensare velocemente a come difendere l’Armenia.
Perché pensa che gli azeri non si fermeranno?
Secondo lei perché è stato costituito un dipartimento all’interno del ministero degli Esteri azero che si chiama “Azerbaigian occidentale”? Perché continuano a parlare di Khanato di Erevan? Sono tutti segnali. Baku agisce inoltre in accordo con la Turchia, che vuole stabilire una connessione territoriale con le Repubblica ex sovietiche islamiche e portare a termine l’estinzione del mio popolo.
Il Nagorno-Karabakh ha resistito ai tentativi di invasione dell’Azerbaigian con coraggio per oltre trent’anni. Perché questo territorio è così importante per gli armeni?
Perché storicamente è uno dei primi territori dove gli armeni si sono insediati. In quella terra ci sono le tracce della nostra storia millenaria con scavi che risalgono all’epoca romana. L’Armenia ha già perso tanto negli anni: il monte Ararat e la regione circostante, gli insediamenti in Anatolia orientale, che tutte le mappe prima del genocidio chiamavano Armenia.
Stalin però decise di dare il Nagorno-Karabakh all’Azerbaigian.
Sì, ma anche durante il periodo sovietico la regione era un oblast autonomo, governata da armeni che emanavano le leggi in lingua armena. E prima che l’Unione Sovietica crollasse, come previsto dalla Costituzione e da una legge, il Nagorno-Karabakh chiese l’autonomia e fece un referendum. Per tutta risposta gli azeri massacrarono gli armeni e scatenarono una guerra. Gli armeni vinsero e forse quella vittoria li accecò, perché pensarono che non avrebbero più dovuto difendersi.
In pochi giorni 13.350 persone sono scappate in Armenia dal Nagorno-Karabakh. Non ci si può fidare delle rassicurazioni offerte dall’Azerbaigian sul fatto che gli armeni potranno vivere in sicurezza e in pace?
No, non ci si può fidare. Il regime di Baku offrirà rassicurazioni, certo, ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Magari garantiranno l’integrità fisica degli armeni, ma come li tratteranno? Come si comporteranno con i giovani coscritti, i ventenni che hanno combattuto contro il loro esercito se già adesso rapiscono le persone accusate di aver combattuto nella guerra degli anni Novanta? Ripristineranno poi elettricità e gas a tutti i villaggi armeni? Ci sono tanti modi per strangolare un popolo e quando l’attenzione mediatica e internazionale scemerà, gli daranno il colpo di grazia.
Pensa che l’esercito azero voglia compiere una strage?
Io non credo, anche perché non gli conviene uccidere tutti. Certo ammazzeranno qualcuno, ma è più semplice rendere la vita impossibile agli armeni affinché se ne vadano. A quel punto, quando li avranno cacciati, potranno dearmenizzare il territorio: abbattere le chiese, distruggere i cimiteri, spaccare le croci di pietra e sostenere, come già fatto in passato, che il Nagorno-Karabakh non è mai stato armeno.
Migliaia di persone sono scese in piazza a protestare a Erevan contro il premier Nikol Pashinyan, accusandolo di aver abbandonato l’Artsakh. Poteva o doveva fare di più?
Forse la guerra era persa in partenza, ma Pashinyan a partire dal conflitto del 2020 si è mosso in modo insoddisfacente e non è riuscito a fare gli interessi né del Nagorno-Karabakh né dell’Armenia.
Gli rimprovera di aver cercato troppo l’aiuto dell’Unione Europea?
Bisogna essere molto realisti: l’Armenia dipende dalla Russia e questo è un fatto. Pashinyan è chiaramente filo-occidentale, ma la domanda che bisogna porsi è: che cosa ci si guadagna a fare dei “dispetti” alla Russia, avvicinandosi a Bruxelles? Che cosa può offrire l’Ue in cambio? Come abbiamo visto, niente o quasi. Pashinyan ha addirittura riconosciuto la sovranità azera sull’Artsakh in cambio del riconoscimento da parte di Baku dell’integrità territoriale dell’Armenia. Ma, mi chiedo, come ci si può fidare di un paese che da tre anni rosicchia i territori sovrani dell’Armenia? I colloqui di mediazione con l’Azerbaigian sono una barzelletta: può l’agnello mediare con il lupo? Diamo alle cose il loro vero nome: siamo davanti a una resa.
Oltre 60 membri del Parlamento europeo hanno chiesto alla Commissione di sanzionare il regime di Ilham Aliyev. È troppo tardi o ancora si può fare qualcosa?
Non è troppo tardi, perché l’Armenia ha ancora bisogno di sostegno. C’è bisogno di aiuto per controllare la fuoriuscita in sicurezza degli armeni dall’Artsakh. Un conto, infatti, è essere cacciati dalla propria terra portandosi dietro i propri averi e ricordi di una vita, un altro è fuggire in Armenia senza niente. È evidente che l’Ue non farà mai per l’Armenia ciò che ha fatto per l’Ucraina, anche se la situazione è analoga e anche se l’Armenia è una democrazia molto superiore a quella ucraina. Se però Bruxelles sanzionasse Baku, sarebbe già qualcosa.
Che cosa cambierebbe?
Innanzitutto i regimi temono la pubblicità negativa. Non è un caso che Aliyev abbia addirittura trovato un accordo con il Vaticano per aiutarlo a restaurare le Catacombe di Comodilla. E faccio notare con sofferenza che la Santa Sede non ha praticamente detto nulla su quanto avvenuto agli armeni. In secondo luogo, sanzionando il governo azero, l’Ue recupererebbe un po’ di dignità. Vi rendete conto di che cosa significa per l’Unione Europea che Ursula von der Leyen abbia firmato un accordo con l’Azerbaigian, ringraziando Aliyev a Baku? Ma dov’è la dignità di un presidente che rappresenta 480 milioni di persone?
Che cosa ne sarà della scuola “Antonia Arslan” di Stepanakert?
Impossibile saperlo, mi viene da piangere solo a pensarci. Già negli ultimi mesi non tutti i 600 studenti hanno potuto frequentare perché dopo nove mesi di blocco del Corridoio di Lachin non c’era più benzina e chi abita nei villaggi non poteva raggiungere la scuola. Ho parlato l’altro giorno con la preside: stava scappando.
Quali speranze nutre per il suo popolo?
Spero che i 120 mila armeni dell’Artsakh trovino una casa in Armenia e che l’Armenia riesca a difendersi: può farlo ma deve trovare una via d’uscita. Se perde ancora territori, senza fare niente, anche l’Armenia farà la fine del Nagorno-Karabakh.
Continua a scendere il gradimento di Joe Biden negli Stati Uniti, mentre aumenta la percentuale di americani che lo ritiene troppo vecchio per guidare il paese per un secondo mandato. Sono i risultati principali dell’ultimo sondaggio condotto da Abc News e Washington Post.
Sono due in particolare gli ambiti che il presidente democratico avrebbe gestito male, secondo gli elettori: economia e immigrazione. Nel primo caso il 64% degli intervistati si dice insoddisfatto dal lavoro di Biden, nel secondo il 62%.
Complessivamente il 56% non gradisce il presidente, contro un 37% che invece lo approva. Rispetto allo stesso sondaggio condotto a maggio, la percentuale di chi ritiene che Biden sia troppo vecchio per guidare ancora gli Stati Uniti è cresciuta del 6% fino al 74%.
La debolezza di Biden fa bene innanzitutto a Donald Trump, che nel gennaio 2021, quando ha lasciato la Casa Bianca, era apprezzato solo dal 38% degli elettori (un punto in più dell’attuale valutazione di Biden). Ma nella situazione attuale, guardando indietro, il 48% degli intervistati dice di approvare il lavoro del tycoon da presidente, mentre solo il 49% lo disapprova (contro il 60% del gennaio 2021).
Tra il 56% degli americani che non gradiscono l’operato di Biden, il 75% valuta retrospettivamente in modo positivo il lavoro di Trump. Inoltre, “solo” il 50% degli intervistati complessivamente ritiene Trump troppo vecchio per guidare ancora gli Usa.
Per quanto riguarda le elezioni del 2024, il 62% degli elettori democratici vorrebbe un candidato diverso da Biden, anche se non sembrano al momento esserci alternative. Né Kamala Harris, né Bernie Sanders, né Robert Kennedy Jr. raccolgono al momento un gradimento superiore all’8%.
Per quanto riguarda gli elettori repubblicani, il 54% approva Trump come candidato, mentre il 43% preferirebbe un altro nome. Ron DeSantis, rispetto a maggio, è sceso nel gradimento dal 25 al 15%.
Se, come appare probabile, tra 14 mesi dovessero sfidarsi Trump e Biden, il 51% degli elettori voterebbe il primo, contro il 42% che preferisce il candidato democratico. Valori simili a quelli registrati a maggio: 49% per Trump e 42% per Biden.
Nel tentativo di strappare a Biden elettori su alcuni dei temi più caldi del dibattito politico negli Usa, come l’aborto, Trump ha di recente ribadito di «essere il presidente più pro-life della storia», accreditandosi il successo di aver ribaltato la sentenza Roe v. Wade. Allo stesso tempo, però, ha attaccato DeSantis per aver limitato alle prime sei settimane in Florida la possibilità di interrompere la gravidanza.
Trump ha giudicato «terribili» le restrizioni, promettendo che «se sarò rieletto presidente, mi siederò al tavolo con entrambe le parti e negozierò qualcosa e così su questo tema ci sarà una riappacificazione per la prima volta in 52 anni».
Foto Ansa