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#news #tempi.it
Nel Sud del Libano e nel Nord della Galilea si vive un Natale di buio e di luce, di grandi alberi illuminati, di presepi. C’è una tregua, non la pace, ma la luce è più forte della tenebra della guerra: qui i raggi delle stelle segnano con intensità il desiderio e la nostalgia di una pace attesa e promessa.
Le luci che brillano nella notte fredda del Nord, sotto il monte Meron, punteggiano il cielo buio sopra la linea che separa Libano e Israele. Le luci che delineano come piccoli presepi i villaggi sparsi sulle colline attraversano la linea di demarcazione segnata dagli uomini. E di qua e di là dal confine, dove ancora si sentono colpi di artiglieria, vivono persone che nella notte guardano con speranza a quel chiarore. Sono ebrei, drusi, arabi musulmani e cristiani, cattolici greci e maroniti, greco e armeni ortodossi, siriani, circassi, beduini, palestinesi o discendenti da famiglie libanesi che non si considerano arabi e parlano ancora la lingua che parlava Gesù, l’aramaico.
Gesù è cresciuto da queste parti, Nazareth è poco lontana. Ha fatto miracoli a Tiro e Sidone, e il primo, la trasformazione dell’acqua in vino (e in vino buono) proprio a Cana. E se la tradizione più diffusa accredita come un paese della Galilea, poco lontano da Nazareth, la Cana dove furono celebrate le nozze e il miracolo suggerito da Maria a suo figlio, molti maroniti identificano invece Cana come un villaggio poco più a Nord, in Libano, dove nella roccia sono scolpiti i volti di Cristo e degli apostoli ed episodi del Vangelo. Un paese a dodici chilometri dal confine, duramente colpito dalle guerre nel ’96 e nel 2006, con bombardamenti che non hanno risparmiato i civili. Un paese che ora chiede solo la pace.
«Cana è una città santa», ci aveva detto il sindaco Mohamad Kresht, musulmano sciita ma rispettoso della fede cristiana e del Vangelo. «Noi crediamo che sia questa la vera Cana, anche dai bassorilievi in pietra tra cui la Madonna con il Bimbo o dalle incisioni che raffigurano il Battesimo di Gesù e l’ultima cena. Io sono musulmano ma Gesù è lo stesso per tutti».
A Cana del Libano il turismo religioso non è mai arrivato e la tradizione è rimasta soprattutto nella preghiera e nella venerazione delle comunità cristiano-maronite, fedeli a Roma quanto fiere della propria identità tra le tante che punteggiano questo lembo di Medio Oriente, di cui si parla solo per via della guerra.
Ma poco più a sud, sul confine, al di là del confine, c’è Sasa, il kibbutz dove quaranta anni fa venne ad abitare Angelica Calò, romana (di quella comunità che accolse Pietro), orgogliosa della propria storia di ebrea e italiana, di israeliana e cittadina del mondo, ben nota ai lettori di Tempi che da 25 anni seguono la sua storia, che inizia con una amicizia ed è cresciuta in tante altre amicizie.
Avevo conosciuto Angelica 25 anni fa, al tempo della seconda Intifada, e con Luigino Amicone avevamo percorso con lei e suo marito Yehuda tutto Israele, incontrato ragazze e ragazze ebrei e palestinesi, cristiani e musulmani. Era la guerra dei kamikaze, degli attentati a Gerusalemme. Eppure nulla aveva impedito il sorgere di tanta amicizia, come avevamo raccontato a monsignor Luigi Giussani e a don Francesco Ventorino, che più volte si era recato a Sasa e con altri amici aveva invitato Angelica in Italia e al Meeting di Rimini a raccontarsi. Lei ha saputo cogliere quel seme e quell’inizio dando vita a una fondazione e compagnia teatrale (e mai il termine “compagnia†è stato più significativo), coinvolgendo giovani di tutti i villaggi, di tutte le identità . La fondazione si chiama Beresheet LaShalom e dice tutto: Beresheet, in principio, la prima parola della Bibbia (e anche del Vangelo di Giovanni), LaShalom, la pace. Il teatro è il teatro dell’Arcobaleno, simbolo biblico della Alleanza.
Angelica ricorda a Tempi come è nata quella incredibile avventura: «Durante la seconda Intifada, Israele è stata vittima di un gran numero di attacchi terroristici. Abbiamo dunque pensato di dover fare qualcosa per costruire un dialogo. Il nostro kibbutz è vicino a un villaggio arabo-musulmano, a un villaggio druso, a un villaggio circasso, a un villaggio di arabi cristiani. Così abbiamo deciso di fare una cosa che a quel tempo sembrava pazzesca: mettere insieme tutti questi ragazzi per fare teatro, perché attraverso il teatro si conoscessero». L’obiettivo è ambizioso: educare i giovani alla pace attraverso le arti, dice «Sappiamo che non solo il Medio Oriente ha bisogno di pace».
Angelica è stata candidata nel 2006 al Nobel per la Pace, ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo per la sua opera di educatrice: «In ogni parte del mondo c’è bisogno di incoraggiare, di consolidare i propri ideali, di combattere il cinismo, di dare legittimità a chi vuole sentirsi positivo, amato, a chi desidera sentirsi libero di danzare, di abbracciare, di sentirsi grande anche se è la più piccola e minuscola parte di un complesso motore. Perché c’è bisogno di tutti. E tutti devono imparare a riconoscere l’altro. Dargli spazio. Dargli pace».

Angelica organizza eventi in Italia, nelle periferie di Roma, Milano, Napoli, in Israele, Palestina, Giordania, insieme a giovani maltesi e marocchini, polacchi ed estoni. Il suo metodo educativo, che scaturisce da anni di dedizione ed esperienza nel creare la gioia e nell’imparare esplorando, non conosce barriere linguistiche, culturali, sociali, religiose. La sua passione e determinazione sono contagiose.
Suo marito Yeuhda è nato a Sasa, fin da bambino ha conosciuto il pericolo di essere vicino al confine, con gli attacchi dal Libano, le sirene, il rifugio. «In tutti questi anni non è cambiato quasi niente ed è una cosa molto triste per noi, che educhiamo alla speranza, lottiamo per avere un dialogo con i nostri vicini e siamo convinti che l’unico modo per vivere tranquilli sia fare la pace con i nemici che ci circondano. Israele non può permettersi di perdere una guerra, perché non esisterebbe più. Non abbiamo niente contro i palestinesi ma contro Hamas, la Jihad e le organizzazioni terroristiche che stanno cercando di farci del male. La solidarietà è possibile: dopo il 7 ottobre, quando Sasa è stato evacuato, sono stati i nostri vicini dei villaggi arabi ad aiutarci a raccogliere le nostre mele, delle cui coltivazioni vive il kibbutz».
Raccontano un mondo diverso, che non ignora la guerra ma si ostina a costruire la pace tra chi conosce solo odio e conflitti. Con quella ostinata serenità di chi ha un coraggio che non ci si può dare perché è un dono. Angelica ci mostra il kibbutz, i segni della guerra. Confida la sua paura di madre e nonna (ha quattro figli, tre riservisti nell’esercito, e sei nipotini). «Voglio che vivano in un mondo di pace», dice. «Pensate a come mi si è stretto il cuore quando mi hanno detto che dovevano andare al fronte dopo il 7 ottobre. Ma ho dovuto essere forte e dargli coraggio, ho insegnato loro a difendere il nostro paese senza odiare. Ho manifestato contro Netanyahu e visto l’odio crescere ovunque. Ecco, non dobbiamo permettere che ci costringano a tirar fuori la parte peggiore di noi».
Lighting of the Christmas Tree in the village of Fassuta
—pic.twitter.com/jsGgcZQeOr
Milad ♱⃓ Pal Catholic ÜÜ Ü•Ü
(@PalCatholic) December 17, 2025
Angelica, Yehuda e pochi altri sono rimasti nel kibbutz quando lo scorso anno la Galilea era stata evacuata. Ma non erano soli. Tra i ragazzi di Angelica c’è Giris Khoury. Abita poco distante, a Fassuta, un villaggio bellissimo, interamente cristiano, anche i cristiani sono rimasti. Qui il Natale è celebrato da un grande albero e mercatini dove arriva gente di tutte le religioni e di tutte le etnie. Khoury è il nome di una delle famiglie più antiche della zona, diffusa proprio a cavallo del confine. Un suo parente, Gerry Khoury, aveva studiato a Roma negli anni Settanta, aveva conosciuto Comunione e Liberazione e aveva portato qui la sensibilità e il cuore del movimento. La storia ha sorprendenti intrecci (e lo Spirito soffia dove vuole, anche sopra le misere barriere umane).
Racconta Giris a Tempi: «Sono cristiano, greco cattolico, ma parlo in aramaico, la lingua parlata in Galilea al tempo di Gesù. La lingua in cui per la prima volta è stato pronunciato il Padre Nostro. Siamo eredi dei primi cristiani della Galilea. Qui con Angelica ho scoperto che siamo amati dall’unico Padre. E la parola pace segna il principio di ogni cosa. Siamo rimasti insieme durante la guerra. Il teatro è il modo per manifestare con tutto il nostro essere questa volontà di amicizia. Perché Gesù ci ha chiamati amici e ci chiama ad essere amici».
A Sasa, come in tutti i kibbutz e le comunità ebraiche, si celebra Hanukkah (la Festa delle luci) accendendo il candelabro a 9 braccia per otto giorni per commemorare il miracolo della redenzione del Tempio di Gerusalemme, giocando con il dreidel (trottola) e mangiando sufganiyot (ciambelle fritte nell’olio). A Fassuta si addobba il grande albero, si allestisce il presepe per il Dio Bambino. Genti diverse, con diverse fedi, fanno festa insieme, ed è gioia per tutti. Quella stessa gioia che era beresheet, in principio, quando il Verbo, il Logos greco, il Davar (“la parola†in ebraico), si è fatto carne. E in tanti modi pur diversi qui si diffonde l’eco di quella stessa compagnia.
Ci sono molte cose per cui anche quest’anno devo ringraziare il Signore, che le ha rese possibili e le ha fatte accadere. Ma c’è un aspetto che quest’anno voglio sottolineare in modo particolare. Noi spesso ringraziamo per ciò che ci corrisponde, perché siamo umani e dunque siamo grati per ciò che ci soddisfa, ci appaga e va bene secondo la nostra misura. Ringraziamo per ciò che contribuisce al nostro successo, al nostro ego alla nostra idea che tutto sia a posto. Quest’anno, invece, voglio ringraziare il Signore soprattutto perché fa accadere cose diverse da quelle che ci aspetteremmo e così facendo ci costringe a fare i conti con una misura che non è la nostra. Questa, in fondo, è una grande legge della vita. Noi non siamo Dio. E non siamo capaci di generare il nostro bene. Prova ne è che, anche quando le cose vanno tutte come vorremmo, possiamo dire di avere davvero costruito la nostra felicità ?
Io non ho la grazia della fede. Non per scelta, non per posa. Questo però non mi impedisce di riconoscere il sacro quando accade. Perché, a volte, non chiede di essere creduto, bensì riconosciuto. L’amicizia, per esempio, quella che mi lega a Raffaele. Ricordo che durante una messa in suffragio per Luigi Amicone un prete disse che per lui l’amicizia non era una virtù, ma un sacramento. Io non posso discernere sui sacramenti. Ma so che esistono legami che non si riducono all’utile, che non nascono per proteggere o garantire, e proprio per questo reggono. Ti tengono in piedi. Ti spostano da te stesso. Da non credente, quindi, ringrazio simbolicamente il cielo anche per ciò che mi è stato tolto. Non perché la perdita sia buona. Ma perché togliere, a volte, è l’unico modo che la realtà ha per impedirci di diventare il centro di tutto.
Quando la realtà non corrisponde, quando un figlio non è come vorresti tu e continua su una strada sbagliata, che non solo non è quella che avevi immaginato, ma prosegue verso un abisso oscuro, generando dolore e sofferenza in lui e in chi gli vuol bene. Quando la politica, cui dedichi la vita, sembra sempre più incapace di stare dentro la realtà con la serietà e la profondità richieste e prende una deriva da avanspettacolo, così superficiale e meschina. Quando gli eventi ti costringono a un ruolo di comprimario e non a quello da protagonista. Quando si avvicina la grande, estrema contraddizione del dolore e della morte. Tutto questo pone davanti a un’alternativa radicale. O maledici le circostanze, oppure sei costretto a riconoscere che proprio attraverso circostanze che non sono quelle che vorresti passa un disegno più grande e più sapiente, un bene più misterioso e più reale, di quello che persegui tu. Mi ha sempre colpito, leggendo la Bibbia, i Vangeli, la storia della Chiesa e dei Santi, che Dio non sceglie quasi mai la strada che i protagonisti delle vicende più significative avrebbero desiderato. A partire da Gesù stesso, da sua madre Maria, che certamente non ha avuto una vita facile né conforme alle proprie aspettative, dalla gravidanza prima del matrimonio, al dover emigrare in Egitto, fino al vedere il proprio figlio morire sulla croce. Questa dinamica vale per tutti, per quelli che sono venuti prima e per quelli che sono venuti dopo. Da Mosè ad Abramo, dagli apostoli ai santi come Francesco, tutti sono stati chiamati a fare i conti con circostanze non desiderabili. Ed è proprio in questo stare dentro il disegno di un Altro che si è compiuta la loro umanità e anche la loro grandezza. È sorprendente quanto per noi sia difficile accettare questa idea. Ma, appunto, siamo umani: desideriamo il bene come lo vorremmo noi, non come lo pensa Dio.
Io, come tutti, porto con me le perdite che mi hanno prodotto sofferenza. Quelle inattese. Quelle che l’uomo non è capace di accettare. Non ne benedico nessuna. Non faccio l’apologia di alcuna mancanza. L’assenza resta assenza, e porta con sé fatica e fragilità . Eppure, l’assenza non consegna solo il vuoto. Nel tempo lascia anche altro. Un bene che non ha termine. Non perché la perdita diventi sopportabile, ma perché ciò che è stato non smette di operare. Come una luce che continua ad arrivare anche quando la fonte non c’è più. Non illumina come prima, ma orienta. Permette di non perdere del tutto la direzione. Così alcune presenze, proprio nel loro non esserci più, continuano a lavorare dentro la vita. Non come ricordo consolatorio, ma come esperienza che resta attiva. Questo non redime la perdita. Ma le impedisce di essere solo distruzione.
Quando accade di comprendere che, sul ramo di ciò che reputiamo male, dolore, perdita, può spuntare per Grazia, inatteso e sorprendente come un fiore di primavera, un segno di speranza, un bene possibile, allora ci rendiamo conto che Dio spariglia le carte e introduce nella vita di ciascuno circostanze, momenti e condizioni respingenti, faticose, che non si desiderano e che non si vorrebbero attraversare, per mostrarci che la nostra felicità e il nostro compimento non dipendono dal fatto che le cose vadano come vogliamo noi. È un segreto difficile da apprendere, ma reale: “Se il chicco di grano non muore non può portare fruttoâ€
Dentro questo percorso si è chiarito anche il mio. Ho scritto molto, ho lavorato molto, ho attraversato molte storie. E non sono diventato un volto che precede i testi, una firma che arriva prima delle parole. Per anni l’ho vissuto come una mancanza. Oggi so che è stato un argine a una tentazione che mi ha sempre accompagnato e che non considero affatto superata, quella di confondere il lavoro con l’immagine, la scrittura con il personaggio, l’opera con il riconoscimento. Restare fuori dal centro della scena mi costringe a tornare ogni volta al lavoro, alle parole, alle relazioni. A ciò che resta quando l’attenzione scema. Non essere al centro non mi rende migliore. Ma mi impedisce, almeno in parte, di diventare qualcuno che avrei faticato a riconoscere. Mi insegna che si può fare strada senza occupare la scena. Che si può incidere senza coincidere con ciò che si produce. Per tutto questo, e per gli affetti interrotti che tornano a farsi presenti secondo trame differenti, per il riconoscimento amicale di uomini che mi trattano come un fratello, io non posso che ringraziare il cielo.
E tuttavia è esperienza comune constatare che è proprio dentro la difficoltà e la fatica che la persona cresce, che l’esperienza si arricchisce, che diventiamo più capaci di comprendere noi stessi e gli altri. Soprattutto si svela un disegno sulla nostra vita, un disegno buono sul nostro destino. Ciò che desideriamo non passa necessariamente dalle modalità che avevamo immaginato, ma c’è ed è reale, perché Dio è fedele alla sua promessa! Per questo, alla fine di un anno in cui molte cose non hanno preso la piega che avrei desiderato, voglio lodare Dio per questo. Perché mi costringe a stare dentro queste circostanze, ma mi dà la possibilità di coglierne un significato più profondo. Non nel senso consolatorio di “benedire†ciò che non mi corrisponde come bene, perché sarebbe disumano; ma nel riconoscere che esiste realmente la possibilità di un bene che passa attraverso il sacrificio, il dolore, la fatica di non comprendere subito dove Egli ci voglia portare. È questo sacrificio – sacrificium, cioè sacrum facere, rendere sacro – che rende le cose più vere e che, persino attraverso il dolore che toglie gusto alle cose, riempie le parole e la capacità di dare un senso alla realtà e una strada più vera al compimento di sé.
Parigi. Nei giorni in cui Elon Musk, patron di Space X e di Tesla, scriveva sul social di cui è proprietario, X, che «l’Unione Europea deve essere abolita», una delle più importanti compagnie d’Europa ha annunciato di aver dotato il 30 per cento della sua flotta del servizio di wi-fi ad alta velocità garantito dalla rete di satelliti Starlink: si tratta di Air France, la compagnia di bandiera francese di proprietà del gruppo Air France-Klm, di cui il governo di Parigi è azionista di maggioranza con il 27,9 per cento delle quote.
«Continuiamo a installare il wi-fi ad altissima velocità a bordo dei nostri aerei, consentendo ai passeggeri di usufruire gratuitamente di un servizio stabile, veloce e sicuro. Alla fine di quest’anno, già il 30 per cento della nostra flotta sarà equipaggiata e l’intera flotta lo sarà entro la fine del 2026», ha scritto Air France sul suo account X, senza specificare il nome del fornitore, ossia Starlink di Elon Musk, il magnate sudafricano naturalizzato americano vicino all’Amministrazione Trump.
È stato lo stesso Musk, su X, a sottolineare la nuova partnership tra la sua Starlink, che offre internet a banda larga ad alta velocità e bassa latenza in tutto il mondo tramite una costellazione di migliaia di satelliti in orbita bassa (Leo), superando i limiti delle connessioni tradizionali in aree rurali o remote, e Air France. «Très bon», ha commentato sul suo social il ceo di Space X, postando il video-annuncio della compagnia aerea francese. Per i passeggeri di Air France significa dire addio a connessioni lente e costose e avere finalmente accesso a un collegamento stabile, ad alte prestazioni e sufficiente per streaming e videoconferenze anche a 35 mila piedi. Basterà avere un account Flying Blue, il programma fedeltà di Air France-Klm, e chi non è ancora iscritto potrà registrarsi gratuitamente durante il volo e, una volta fatto il login, accedere subito alla rete senza costi aggiuntivi.
La scelta dell’americana Starlink, a detrimento della francese e europea Eutelsat, ha suscitato tuttavia un’ondata di indignazione. «Air France sceglie Starlink di Musk per le sue connessioni wi-fi in volo piuttosto che l’azienda francese (Eutelsat, ndt) e il suo collegamento geostazionario più ecologico e altrettanto sicuro», ha denunciato il leader della sinistra radicale transalpina Jean-Luc Mélenchon, fondatore della France insoumise.
«Air France, storica compagnia francese, affida lo scambio dei dati dei propri passeggeri agli Stati Uniti e a Musk», ha deplorato l’editorialista e ricercatore in materia di difesa Cyprien Ronze-Spilliaert, sempre su X. Gilles Babinet, imprenditore e consulente per le questioni digitali Digital Champion presso la Commissione europea, è andato ancora più lontano: «Vedere Air France scegliere Starlink piuttosto che Eutelsat è inaccettabile. Le imprese europee devono comprendere che ormai si tratta di una questione fondamentale di sovranità . Per quanto mi riguarda, d’ora in poi limiterò il mio utilizzo di questa compagnia».
Air France si trova dunque al centro di una tempesta politica, ma la compagnia aerea francese ha semplicemente scelto l’unica opzione praticabile per garantire una connessione all’avanguardia. Confrontare l’attuale offerta di Starlink con quella degli altri “concorrenti†nel settore satellitare è come confrontare la fibra ottica con l’Adsl nelle zone rurali. I satelliti geostazionari di Eutelsat, a 36.000 km di altitudine, soffrono di latenza molto elevata e di prestazioni inadatte a un uso intensivo da parte dei passeggeri. I satelliti in orbita bassa, a poche centinaia di chilometri, riducono drasticamente la latenza e garantiscono velocità e continuità di servizio.
Dopo la fusione con OneWeb nel 2023, Eutelsat dispone anche di satelliti in orbita bassa, ma la costellazione è molto più ridotta rispetto a quella di Starlink e operano a un’altitudine più elevata. In altri termini, la rete Eutelsat/OneWeb non sarebbe in grado di sostenere il traffico generato dai passeggeri di centinaia di voli in contemporanea. Starlink dispone invece di migliaia di satelliti operativi e continua ad espandersi.
La compagnia di bandiera francese, che aveva annunciato la scelta di Starlink già nel settembre 2024 dopo uno studio e una gara d’appalto, ha rivendicato con queste parole la sua decisione: «Air France ha selezionato la soluzione che offre la migliore copertura a livello mondiale e la migliore qualità di connettività . Ad oggi non esistono alternative in grado di offrire lo stesso livello di servizio. Se venisse proposta un’alternativa europea di pari livello, Air France la prenderebbe ovviamente in considerazione».
Il governo francese, in questi ultimi anni, ha moltiplicato gli attacchi contro Musk, accusandolo di condurre campagne di disinformazione e di interferire nella politica europea attraverso la sua piattaforma, in particolare sostenendo partiti di estrema destra, di aver sviluppato un’Ai “antisemitaâ€, Grok e di aver allentato le politiche di moderazione dei contenuti su X.
Senza dimenticare che lo scorso 11 luglio la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta contro X per presunte modifiche all’algoritmo della piattaforma con finalità di ingerenza straniera e per sospetta “estrazione fraudolenta di datiâ€, e che il Consiglio di Stato francese, nel 2022, aveva revocato temporaneamente a Starlink la licenza per operare in Francia, sospendendo l’autorizzazione all’utilizzo delle frequenze che l’Arcep (l’autorità delle telecomunicazioni) aveva dato alla compagnia nel febbraio del 2021. La vicenda aveva avuto origine a seguito dell’azione legale intentata da Priartem e Agir pour l’environnement, due associazioni ambientaliste secondo cui l’autorizzazione all’utilizzo delle frequenze era stata concessa senza una consultazione pubblica, come richiesto dalla legge.
Ora però la stessa Starlink, e dietro di essa Musk, vengono celebrati e adottati da quella stessa Francia di Emmanuel Macron che straparla ogni giorno di “sovranità europeaâ€, salvo poi affidarsi all’eccellenza tecnologica americana.
I miracoli avvengono ancora: la nuova legge finanziaria introduce il “buono scuola†nazionale. Lo Stato italiano, cioè, ha deciso di aiutare le famiglie poco abbienti a scegliere la scuola per i propri figli. Come Tempi ha già scritto, infatti, è previsto che le famiglie con un Isee inferiore ai 30.000 euro che scelgono di iscrivere il figlio ad una scuola paritaria potranno avere un contributo che può arrivare a 1.500 euro.
Perché ho parlato di “miracolo� Perché finora in Italia non era mai stato riconosciuto il diritto dei genitori a scegliere liberamente la scuola ritenuta migliore per i propri figli, malgrado che ciò sia previsto dall’articolo 30 della Costituzione; malgrado, cioè, che tale libertà costituisca un vero e proprio diritto costituzionale, che finora è stato sempre disatteso da tutti i governi italiani, di qualunque colore essi fossero. Finalmente questo diritto è stato riconosciuto. Non tutti pensavano che ciò fosse anche solo possibile, mentre altri, addirittura, si erano mostrati sostanzialmente contrari. Invece, finalmente, questo principio è stato riconosciuto, anche se in misura limitata dal punto di vista quantitativo, visto che la spesa complessiva dello Stato non potrà superare i 20 milioni di euro. Ma il principio è stato affermato ed una piccola breccia è stata portata ad un muro che pareva essere incrollabile.
E ciò è avvenuto anche grazie all’insistenza con cui un gruppo di associazioni familiari, coordinate con saggezza da Roberto Pasolini, ha proposto il principio affermato nella Costituzione; e grazie al lavoro intelligente di politici dell’attuale maggioranza.
Ora che il miracolo è avvenuto non dobbiamo dormire sugli allori, ma dobbiamo rimanere operativamente vigilanti perché il principio venga definitivamente accettato dal punto di vista culturale prima ancora che dal punto di vista economico e sociale e politico. E, ripeto, il principio è che il diritto all’educazione dei figli spetta innanzi tutto ai genitori, i quali devono essere aiutati, in base al principio di sussidiarietà , a svolgere liberamente il proprio compito educativo. Ciò comporterà che si rafforzi una definitiva unità tra tutte le associazioni famigliari e gli organismi che rappresentano le scuole paritarie. Un forte patto tra scuole e famiglie deve essere posto in atto sia a livello delle scuole statali che di quelle paritarie. Trattandosi di un “diritto costituzionaleâ€, il sostegno alle famiglie dovrà essere allargato al massimo, nei tempi opportuni, affinché esso non rimanga solo un riconoscimento di principio. E, d’altra parte, spero che le famiglie italiane si avvalgano il più possibile della possibilità di accedere al buono scuola. Essendo stato affermato il principio, ora l’impegno per la sua definitiva affermazione diventa ancora più cogente e interessante.
Questo lavoro culturale dovrà anche contribuire a cancellare definitivamente alcuni equivoci anche di linguaggio che fanno fatica a scomparire, come ha bene osservato suor Monia Alfieri. Alcuni, infatti, in questi giorni, hanno detto, anche se con voce sostanzialmente flebile, che non devono essere spesi soldi per le scuole “privateâ€. Altrettanto sommessamente desidero ribadire che in una posizione simile esiste un duplice errore. Con il buono scuola, infatti, si aiutano direttamente le famiglie e non le scuole (e su questo punto occorre che tanti rileggano l’articolo 30 della costituzione); Inoltre, le scuole “paritarie†non sono scuole “privateâ€, ma a tutti gli effetti sono scuole “pubblicheâ€, come detta una legge che ha oramai 25 anni e che è stata voluta da un insospettabile ministro di sinistra: il sistema scolastico italiano si regge sulle scuole pubbliche statali e sulle scuole pubbliche paritarie. Lo dice la legge, non una opinione di parte.
Occorre dare atto a questo governo che ha coraggiosamente imboccato la strada di prevedere vari sostegni alle famiglie. Sul versante educativo e scolastico, oltre al “buono scuolaâ€, è previsto un sostegno diretto alle famiglie in difficoltà un aiuto per l’acquisto dei libri. Inoltre, anche l’esonero dal pagamento dell’Imu da parte dei gestori delle scuole paritarie è sottoposto alla condizione che le rette applicate dalle scuole paritarie siano inferiori al costo medio per studente, il che, in una certa misura, si traduce anch’esso in un aiuto alla famiglia, che, quindi, mi pare torni al centro dell’interesse della politica, secondo il dettato dell’articolo 29 della Costituzione.
Vorrei, infine, porre alcune domande ai politici cattolici che militano in partiti che oggi si trovano all’opposizione. Visto che l’emendamento governativo aiuta le famiglie più povere ad esercitare il libero diritto alla scelta educativa, come potranno non votare a favore di una tale misura? La dimenticata ma sempre strepitosa dottrina sociale cattolica, infatti, da sempre chiede di aiutare i poveri e afferma il diritto della famiglia all’educazione. Per coerenza, allora, come potranno non essere d’accordo, almeno su questo punto, con quanto finalmente stabilito dalle forze di governo? Su questi temi cruciali e decisivi per il nostro futuro, non sarebbe opportuno che i politici cattolici trovassero una linea comune, indipendentemente dal partito di appartenenza? Su temi così delicati, non dovrebbe prevalere il voto di coscienza? Oppure dei poveri si parla solo per demagogia e della famiglia solo per prendere qualche voto in più? Mi sembra che la vicenda qui commentata renda interessanti ed attuali queste domande. Perché non aprire almeno un dialogo? Un dialogo non confessionale, ma assolutamente “laicoâ€, basato sul chiaro dettato costituzionale, espresso negli articoli 2, 3, 30, 31, 33, 34, 118 della nostra carta fondamentale.
Il Natale non è un favola per bambini. La nascita di Gesù non è un evento fantasioso che non ha conseguenze per la vita degli uomini. Lo ha ricordato papa Leone XIV parlando ai giornalisti il 23 dicembre: «Vorrei invitare tutte le persone, specialmente durante questi giorni di festa per Natale, a riflettere sulla natura della vita umana, sulla bontà della vita umana».
Il Pontefice non stava facendo il classico discorso natalizio. Ma, rispondendo a una domanda dell’emittente Ewtn fuori da Castel Gandolfo, stava spiegando di avere parlato a inizio mese con il governatore dell’Illinois, JB Pritzker, proprio nelle ore in cui il politico e imprenditore democratico doveva decidere se firmare o no una legge per legalizzare il suicidio assistito.
L’Illinois non è un luogo qualunque, dal momento che Robert Francis Prevost è nato proprio nella città più famosa dello stato americano, Chicago.
La legge in questione, denominata “Deb’s Law†in onore di Deb Robertson, un malato terminale che si è battuto per la legalizzazione dell’eutanasia, permette a tutti i maggiorenni di ottenere il suicidio assistito se affetti da una malattia terminale che lascia soltanto sei mesi di vita. La prognosi, che non può che essere aleatoria, deve essere confermata da due medici.
La Conferenza episcopale dell’Illinois si è opposta con forza alla legge, chiedendo allo Stato di «non normalizzare il suicidio», ma di «investire nelle cure palliative» e nel «sostegno reale a chi è in fin di vita»: «Questa legge ignora che a spingere le persone più vulnerabili alla disperazione sono le carenze nell’accesso a cure di qualità ».
Anche il Papa ha fatto la sua parte, intervenendo e chiedendo «in modo molto esplicito» al governatore dell’Illinois, Pritzker, «di porre il veto alla legge e di non firmarla. Io [e il cardinale Blase Cupich] siamo stati molto chiari sulla necessità di rispettare la sacralità della vita dal principio fino alla fine. Ma sfortunatamente, per diverse ragioni, il governatore ha deciso di firmare la legge. Sono molto contrariato per questa cosa».
Né Leone XIV né il governatore avevano mai parlato prima di questo deciso intervento del Papa a favore della vita e contro le leggi che legalizzano l’eutanasia (negli Stati Uniti come in Italia).
Il Pontefice ha poi aggiunto:
«Dio si è fatto uomo come noi per mostrarci che cosa significa vivere davvero la vita umana. E io spero e prego che il rispetto per la vita cresca di nuovo in tutti i momenti dell’esistenza umana, dal concepimento fino alla morte naturale».
Papa Leone XIV ha fatto del rispetto della vita uno dei cardini del suo pontificato. Non a caso, sempre il 23 dicembre, si è appellato alla Russia e non solo per chiedere in prossimità del Natale almeno 24 ore di pace, senza uccisioni:
«Davvero tra le cose che mi causano più tristezza in questi giorni c’è il fatto che la Russia ha apparentemente rifiutato al tregua di Natale. Forse ci ascolteranno e permetteranno che ci siano 24 ore, un giorno intero di pace in tutto il mondo».
E come ha ricordato Leone XIV nel suo messaggio per la LIX giornata mondiale della pace,
«prima di essere una meta, la pace è una presenza e un cammino. Seppure contrastata sia dentro sia fuori di noi, come una piccola fiamma minacciata dalla tempesta, custodiamola senza dimenticare i nomi e le storie di chi ce l’ha testimoniata. È un principio che guida e determina le nostre scelte. […] La pace di Cristo risorto continua ad attraversare porte e barriere con le voci e i volti dei suoi testimoni».