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#news #tempi.it
A Roma, a ottobre, il passaggio da Eca a Efc non è stato un semplice rebranding ma un atto politico: i club europei, guidati dai grandi brand, hanno trasformato un’associazione di rappresentanza in un soggetto di potere che si propone come il centro stesso della governance del calcio continentale.
La messa in scena – location simbolica, presenza di Fifa e Uefa, branding pervasivo, partecipazione massiccia anche dei club minori – ha sancito una trasmissione ordinata di sovranità : dopo il trauma della Superlega, i grandi club hanno rinunciato allo strappo ma hanno ottenuto tutto il resto, condividendo il governo con la Uefa, controllando il prodotto commerciale e normalizzando un sistema in cui l’inclusione dei piccoli è subordinata e funzionale alla legittimazione dell’élite. Roma è stato lo spartiacque tra un potere esercitato di fatto e uno riconosciuto di diritto: non una rivoluzione, ma la certificazione che nel calcio europeo del 2025 il comando non passa più dalle istituzioni verso i club, bensì dai club verso le istituzioni.
E non è un dettaglio che tutto sia accaduto nell’Urbe. La città del diritto, dell’impero, della stratificazione del potere. L’assemblea che ha sancito il passaggio da Eca a Efc aveva l’aria di un vertice politico più che sportivo. Non si discute, si ratifica. Non si contratta, si prende atto. Il cambio di nome è la chiave di lettura di tutto: da associazione a soggetto. “European Football Clubs†non rappresenta più un pezzo del sistema, ma si propone come il sistema stesso. È una mossa lessicale che racconta molto più di mille documenti: i club non chiedono spazio, lo occupano. E lo fanno con una sicurezza che nasce da anni di accumulo di potere economico, mediatico, simbolico. Quello che a Roma è andato in scena non è stato l’inizio di qualcosa, ma il momento in cui una trasformazione diventa visibile, persino ovvia.
Nel racconto ufficiale, la Superlega è un errore, una parentesi chiusa. Nella realtà è il trauma fondativo del calcio contemporaneo. È il momento in cui i grandi club hanno scoperto due cose: che senza consenso non si governa, ma che senza di loro non governa nessuno. Hanno perso la battaglia della piazza, dei tifosi, della narrazione. Ma hanno vinto quella del tavolo. Dal 2021 in poi, ogni riforma delle competizioni europee ha portato il loro segno: più partite, più ricavi garantiti, meno eliminazioni traumatiche, più controllo sul prodotto. La joint venture commerciale con l’Uefa è il punto di arrivo di questo processo: non una ribellione, ma una cogestione permanente. La Superlega non torna perché non serve più. La sua logica è già stata assorbita dal sistema, normalizzata, resa presentabile.
In questo passaggio di potere c’è un’assenza che pesa più delle presenze: quella dell’Unione europea come soggetto politico. La sentenza della Corte di Giustizia sul caso Superlega ha ribadito principi sacrosanti – concorrenza, mercato, libertà di iniziativa economica –, ma ha lasciato il campo vuoto sul piano della visione. L’Ue ha chiarito cosa non si può fare, ma non ha detto cosa dovrebbe essere il calcio europeo. In quel vuoto si sono inseriti i soggetti più forti, come accade sempre. Il risultato è un sistema che si muove secondo logiche perfettamente coerenti con il mercato unico, ma sempre meno con l’idea di sport come bene collettivo, culturale, territoriale. Il calcio, oggi, è più europeo nei flussi finanziari che nei valori condivisi.
Il nuovo Mondiale per Club è il manifesto del calcio di questo 2025. Premi giganteschi, centralità dei club europei, accesso sempre più filtrato. Le discussioni non riguardano la salute dei giocatori o la saturazione del calendario, ma la composizione del campo: chi deve esserci, chi rischia di restare fuori. È una globalizzazione che non integra, ma seleziona. Il mondo entra nel calcio se rafforza il prodotto. Il resto è contorno. In questo schema, la Fifa non guida, ma segue. Si aggancia ai brand più forti, accetta la logica dell’élite, rinuncia a una funzione regolatrice in cambio di stabilità economica.
Il paradosso è che, mentre l’élite cresce e la base sopravvive, il livello intermedio si assottiglia. I campionati nazionali, soprattutto quelli fuori dall’asse anglo-tedesco, sono il vero anello debole. Perdono centralità narrativa, potere contrattuale, capacità di attrarre risorse. L’ipotesi di ridurre il numero delle squadre è la risposta più frequente, ma anche la più rivelatrice: non una strategia di crescita, ma una difesa. Tagliare per resistere. Ridurre per restare a galla. È il segnale di un sistema che non riesce più a competere sul piano dell’attenzione globale. Così le leghe rischiano di diventare corridoi di accesso alle competizioni che contano, non più luoghi in cui il calcio costruisce senso, identità , rivalità .
Nel 2025 cresce anche la solidarietà . Più risorse per chi resta fuori dall’Europa che conta. È un fatto. Ma è anche una forma di gestione del divario, non di riduzione. Il gap non viene colmato, viene amministrato. La competizione perde imprevedibilità , diventa ripetizione. Gli stessi club vincono, partecipano, incassano. Gli altri applaudono, ricevono una quota, accettano il ruolo. Qualcuno, con brutalità , lo ha definito “applaudire il proprio funeraleâ€. Forse è eccessivo. Ma il disagio è reale.
Non c’entra la nostalgia, nessuno rimpiange un calcio povero o inefficiente. La domanda è più profonda: può esistere uno sport senza contropoteri? Può reggere un sistema in cui chi vince riscrive continuamente le regole del gioco? Il calcio ha sempre funzionato come una metafora sociale. Oggi racconta un mondo in cui la concentrazione di potere è presentata come inevitabile, persino razionale. Ma ogni sistema che rinuncia all’equilibrio prima o poi ne paga il prezzo, anche se non subito.