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Il Canada ha pubblicato (con enorme ritardo) il sesto rapporto annuale sull’eutanasia. Nel 2024 sono decedute attraverso il cosiddetto Aiuto medico a morire (Maid) 16.499 persone, il 6,9% in più del 2023 (15.247). Dalla legalizzazione dell’eutanasia, nel 2016, sono morte più di 76 mila persone e l’aumento percentuale in otto anni è stato del 1.520%, dati mostruosi che dovrebbero servire da monito a tutti coloro che vogliono approvare una legge sulla “buona morte”.
Anche il Canada, come altri paesi, fatica a tenere il conto di quante persone decidono di porre fine alla propria vita con l’eutanasia. Nel rapporto sono presenti infatti incongruenze delle quali, però, il governo sembra non curarsi. Secondo i dati nazionali, ad esempio, in Quebec sono morte 5.998 persone e nella British Columbia 2.997. Ma i numeri rilasciati dalle singole province parlano rispettivamente di 6.058 decessi e 3.000. A che cosa è dovuta questa discrepanza di 63 persone? Mistero.
Non è un mistero, invece, che da quando in Canada è stata approvata nel 2021 la legge C-7 – che garantisce l’accesso all’eutanasia anche alle persone la cui morte non è «ragionevolmente prevedibile» (il cosiddetto “track 2”) – il numero di disabili uccisi con il Maid è aumentato a dismisura.
Se il numero di decessi, come detto, è aumentato del 6,9% nel 2024, quello dei casi rientranti nel Track 2 è cresciuto del 17%. Se nel 2021 sono morti 224 pazienti Track 2, nel 2022 il dato è salito a 469, nel 2023 a 625 e l’anno scorso a 732.
La legge prevede per accedere al Track 2 che il malato sia affetto da una «condizione medica grave e irreparabile», ma che cosa questo significhi nel concreto nessuno lo ha mai stabilito per legge.

Se l’eutanasia è stata approvata in Canada, come nel resto del mondo, per alleviare le sofferenze dei malati, il dolore non è neanche lontanamente tra le cause che spingono i canadesi a richiedere l’eutanasia.
Le prime cinque motivazioni citate dai malati che hanno chiesto l’eutanasia in Canada nel 2024 sono: 1) perdita della capacità di impegnarsi in attività significative, 2) perdita della capacità di svolgere le attività più comuni della vita quotidiana, 3) perdita di indipendenza, 4) perdita di dignità e 5) disagio emotivo, ansia, paura e sofferenza esistenziale. Il dolore viene solo al sesto posto.
Nel 2024, il 31,6% di tutti i casi di eutanasia ha riguardato persone con disabilità nel Track 1 (4.858) e addirittura il 61,5% nel Track 2 (437).
In termini assoluti, dunque, un canadese su tre che riceve l’eutanasia è disabile. Non solo. Una persona su quattro ha citato la solitudine e l’isolamento come causa principale per richiedere la “buona morte”.
Bisogna notare infine che nel Track 2 una persona su tre aveva problemi di salute mentale (oltre a patologie di natura fisica). A partire dal 2027 sarà sufficiente essere affetti da disturbi mentali per chiedere la “buona morte”. È facile prevedere per allora una nuova ondata di casi.
Anche per questo il problema del Canada si è ribaltato in meno di dieci anni: il paese è passato dal cercare di allargare le maglie dell’eutanasia al tentare disperatamente di restringerle.
Per questo a Ottawa si sta discutendo del disegno di legge C-218, il “Right to Recover Actâ€, che renderebbe illegale fornire l’eutanasia soltanto a chi ha problemi mentali.
Ma una volta aperto, non è facile richiudere il vaso di Pandora dell’eutanasia. Il Dipartimento della salute pubblica (Health Canada), ad esempio, ha pubblicato nuove linee guida per richiedere a medici e infermieri «di sollevare la possibilità dell’eutanasia con pazienti che potrebbero essere d’accordo o potrebbero avere i requisiti per accedere al Maid».
Questo punto contraddice clamorosamente una promessa fatta inizialmente dalle istituzioni canadesi: che nessuno sarebbe stato “spinto” a chiedere l’eutanasia e che un’iniziativa in tal senso sarebbe dovuta venire soltanto dal paziente.

Ma da tempo non è più così. Ha fatto scalpore, ad esempio, la notizia diffusa da un veterano canadese su un’email inviata dall’Associazione dei veterani di Nova Scotia. Nella missiva, l’Associazione invitava tutti i membri a partecipare il 20 novembre in una parrocchia anglicana a un incontro sull’eutanasia.
«Sono scioccato», ha dichiarato il veterano. Soprattutto perché il dottore invitato a parlare del Maid era Gordon Gubitz, che ad agosto ha dichiarato all’Atlantic: «L’eutanasia mi dà energia, è il lavoro più significativo della mia carriera. È triste che una persona debba soffrire tanto. È triste che una famiglia sia sconvolta dal dolore. Ma sono così felici che una persona ottenga ciò che desidera».
Narrano le cronache del giornale locale che nel mio paese, non vi dirò quale perché vorrei che assumesse quasi un ruolo e una funzione paradigmatica nella questione cui voglio accennare, la scorsa settimana un consigliere, credo di Forza Italia, è intervenuto in Consiglio comunale sul decremento demografico e sul conseguente calo delle iscrizioni nelle scuole elementari e medie dello Stato.
Tanto per essere più precisi, dirò che questo mio paese, né piccolo né grande, si trova in Brianza, a nord di Milano, lungo la superstrada che porta ai laghi, al confine con la provincia di Lecco.
Dunque, qui la situazione è appunto tale da essere, credo, paradigmatica. Calo sempre più vertiginoso delle iscrizioni, aule che si svuotano, palestre e servizi che rimangono inutilizzati, costi che rimangono invariati e di conseguenza, percentualmente, esorbitanti. Tanto che l’amministrazione comunale sta pensando per intanto di accorpare i plessi. Che farne, poi, di tutto il ben di Dio rimasto vuoto, si vedrà .
Embè, direte voi, che c’è di nuovo? Non è così in tutt’Italia? È vero. C’è però che, in questo paesotto brianzolo, si dà una ricca presenza di scuole libere (un tempo si sarebbero chiamate “privateâ€) di ogni ordine e grado. Dalle materne, elementari, medie, per passare alle professionali e finire al liceo. Ebbene succede che, mentre nelle scuole statali gli alunni calano e calano, nelle scuole paritarie crescono e crescono. Tanto che mentre, diciamo così, nelle scuole dirimpettaie si pensa alle dismissioni degli spazi, nelle paritarie si è costretti a contorcimenti vari e vite d’inferno per trovarne di sempre nuovi.
Nel suo intervento il consigliere di Forza Italia ha puntato il dito sul fatto che troppo spesso chi opera nelle scuole statali è come se ritenesse il proprio ruolo e la propria funzione “dovutaâ€, “scontataâ€. Tanto da non preoccuparsi di rendere attrattiva la propria offerta formativa. O, addirittura, da non preoccuparsi affatto. Tanto, dice, siamo lo Stato, di riffa o di raffa sempre qui devono venire. In più siamo gratis… Diversa la temperie, suggerisce sempre quel consigliere nel suo intervento, dove il soggetto educatore che è la famiglia sceglie la scuola in forza della sua offerta formativa.
E, sempre per proseguire nel confronto, aggiunge due piccole note il consigliere: nella prima è messa a paragone la conduzione di entrambe. Da una parte una “reggenza†vecchia di anni con un posto di dirigente vacante, colmato da una figura esterna. Un’assenza più che una presenza, fatte salve le inevitabili e dovute incombenze burocratiche. Dall’altra consigli di amministrazione che si propongono, vengono eletti e si rinnovano periodicamente in forza del gradimento riscosso nell’utenza. È inutile che io precisi quale sia la conduzione delle une e quella quale dell’altra.
Nella seconda nota è messa a paragone da una parte l’assenza di volontà , più che di capacità , di innovare, progettare e individuare percorsi attrattivi. Dall’altra un’attenzione ai bisogni che ha portato le paritarie a proporre, ad esempio, “la scuola media senza compiti†pensando ai ragazzi più fragili e con bisogni particolari per cui la scuola li segue ogni giorno fino alle 17 del pomeriggio.
La mancanza di alunni, lo svuotamento delle classi con inevitabili progetti di spostamento e accorpamento, aggiunge poi un ulteriore piccolo problema, credo, anche qui ormai generalizzato in tutto il Belpaese: le scuole statali raccolgono la grande maggioranza degli stranieri con una presenza sempre più importante di alunni che necessitano di particolare attenzione e assistenza educativa.
Questa ultima annotazione del consigliere di Fi non è parsa vera al consigliere del Pd che ha preso la palla al balzo per rimarcare che la scelta per le scuole libere è possibile solo a chi se lo può permettere. Quindi ai ricchi. Mentre per i poveri e gli emarginati, le ingiustizie eccetera eccetera.
Ora, forse quel consigliere del Pd avrà creduto di aver fatto gol e di aver chiuso la partita e palla al centro. Non è così. So di dire cose sapute e risapute, trite e ritrite, ma se invece di ostinarsi pervicacemente sull’ostracismo verso le scuole libere, se invece di continuare a sostenere costi più che doppi ad alunno per una scuola statale con un’offerta formativa tendente allo zero, se la sinistra nostrana avesse aperto a un minimo di libertà di educazione, se avesse aperto a un minimo di pluralismo di offerta formativa, con libertà di scelta a parità di condizioni, con anche un po’ di competizione fra scuole statali, obiettivi e incentivi di risultato, oggi forse l’italico sistema scolastico non si troverebbe nella situazione che sappiamo. Libertà di educazione: meno costi per tutti, più libertà per tutti.
Invece, ecco la nemesi storica: la sinistra per essere contro le ingiustizie e contro il razzismo finisce per essere di fatto, ingiusta e razzista. Buone scuole per chi può e scuole recinto per chi non può. Bravi, complimenti.
In quel Consiglio comunale, a dire il vero, non è poi risuonata l’ulteriore obiezione che da sempre attraversa questa interminabile querelle vecchia di decenni: “Ma le scuole libere sono scuole ideologicamente orientate, religiosamente ispirate. E chi non crede? Buttate fuori tutti quelli che non credono?â€. Si opererebbe così – questa è l’obiezione – un’insopportabile esclusione. Il tutto mentre nello Stato regnerebbe, sovrana, l’inclusione.
Lo diciamo da subito: la risposta a quest’obiezione non può essere in punta di principio, ma solo esperienziale, di fatto. Posto che bisognerebbe capire quale inclusione regni in classi in cui ormai la maggioranza degli alunni non parla italiano ma, a volte, anche due, tre lingue diverse, vorrei aggiungere che bisogna imparare a fidarsi un po’ di più di chi per storia e tradizione sente come proprio il compito di una responsabilità educativa.
Sempre in questo paesotto brianzolo una ventina d’anni fa si fondò un liceo “cristianamente ispiratoâ€. Fu intitolato al beato don Carlo Gnocchi, il prete dei mutilatini di guerra. Ebbene, a proposito di pluralismo e chiusura ideologica, ricordo che il primissimo consiglio di amministrazione aveva nel suo seno un eminente rappresentante locale della comunità musulmana. Un musulmano contribuiva a dirigere una scuola cristiana? Ebbene sì. E, ancora e sempre nel suddetto paesotto, è presente una scuola di formazione professionale nata anch’essa dalla passione educativa di una comunità cristiana, voluta soprattutto per ragazzi in difficoltà famigliare e scolastica, e che oggi accoglie in gran parte ragazzi di etnie e religioni differenti.
Bisogna fidarsi un po’ di più di chi, per storia, sente tra i propri compiti, quasi naturalmente direi, la responsabilità educativa.
La proposta cristiana, che è quella che pratico e conosco, non nasce per chiudere qualche malcapitato in una prigione chiamata religione ma per aprire all’umano.
* * *
Ps 1. Mia moglie che ha insegnato per quarant’anni come maestra elementare, anche in quella scuola del paesotto brianzolo, e che ora è in pensione, non ha dubbi: «Tutta colpa dei sindacati». Lo so che mia moglie è monomaniacale e per lei sarebbe colpa dei sindacati anche quando il minestrone viene troppo salato, ma non vuole sentire ragioni: «E non farmi parlare del personale docente che vedo entrare nelle scuole. Dicono: siamo nello Stato e dello Stato, e chi ci tocca a noi?». Difficile darle torto: tutti sappiamo il non edificante scambio su cui sono vissuti i sindacati. Posto di lavoro non esaltante, stipendi non esaltanti, status sociale non esaltante, ma posto di lavoro a vita, stipendio a vita, status sociale a vita.
Ps 2. Tanto per dire cosa è la scuola di Stato. Sempre la stessa moglie, da qualche anno ormai, dopo essere andata in pensione, si reca, qualche giorno la settimana, per affiancare le maestre e seguire personalmente alunni particolarmente in difficoltà . Ebbene, le normative obbligano chiunque entri nella scuola, per qualsiasi attività , a un’assicurazione. Son poche lire, ma quando si dice il principio: a mia moglie hanno fatto sapere che deve fare un’assicurazione e in più che se la deve pagare da sé, di tasca propria. Così ecco che oltre a dare la disponibilità a lavorare gratis, a far risparmiare soldi allo Stato (perché comunque il servizio andrebbe garantito), ci deve aggiungere del suo.
Ps 3. In questi anni abbiamo assistito al tentativo di riempire il vuoto educativo con il proliferare delle competenze e delle ripartizioni di competenze. Dai corsi sulle foglie trilobate all’incidenza della reattività del quarto metacarpo sulla percezione spazio-temporale, alle scienze dell’allevamento, all’igiene del cane e del gatto, ai corsi sugli zombie (tutto vero), all’astrobiologia, ai corsi motosega 1 e motosega 2, a “corpo affetti e relazioniâ€, a “gli alieni sono tra noiâ€, a “progetta il tuo alienoâ€, alla meditazione mindfulness, alla consapevolezza del respiro, a “esplorare e sentire il proprio corpoâ€. Di tutto di più. Ebbene, bisognerà farsene una ragione. Le competenze ormai si vanno a prendere da tutt’altra parte che non a scuola. E sarà sempre più così. Cara scuola, la fonte del sapere non è più in te. Media, social, intelligenza artificiale, podcast, tutor virtuali, compagnie, di tutto di più. Occorrerà tornare a dare spazio, saremo obbligati a dare spazio, a chi vive di passione educativa e ancora va a scuola per educare alla libertà e, quindi, al discernimento critico. Quel che vale e va guadagnato e quel che no. Quel che è buono e va custodito e quel che no. Quel che è fondato e va approfondito e quel che no. Ci sarà una sorta di selezione naturale e rimarrà sul campo chi ancora crede che tirare grandi gli uomini sia il lavoro, forse più difficile, ma più importante al mondo. Avventurieri dell’umanità , altro che statali (a scanso di equivoci, conosco insegnanti dello Stato che sono commoventi nel loro andare oltre la capacità digestiva del grande moloch).
Nel Paese dei Normali vive un uomo che parla col cane. Non per follia, ma per mancanza di alternative. Dice che almeno il cane non interrompe, non fa domande e non gli chiede come si sente. Si chiama Arturo, il cane, ma risponde solo quando gli conviene: praticamente è già un essere umano.
Ogni mattina l’uomo gli racconta le notizie. “Oggi sciopero dei treni.†Il cane sbadiglia. “Caro, tu almeno ce l’hai un lavoro.†Poi prepara il caffè e ne versa un goccio nella ciotola, “per solidarietà nervosaâ€. Parlano di tutto: politica, calcio, senso della vita. Su quest’ultimo tema il cane vince a mani basse.
Al parco, l’uomo osserva gli altri padroni che chiamano i cani con nomi da influencer: Chanel, Tesla, Freud. Lui scuote la testa. “Arturo è un nome da disoccupato, ma con dignità .†Quando qualcuno gli chiede se non si senta solo, risponde: “Mai. Ho un essere vivente che mi ascolta senza contraddirmi. È più di quanto mi abbia dato la mia ex.â€
Una volta ha provato a uscire con una donna conosciuta online. Lei ha detto “Io amo gli animaliâ€, ma poi ha chiesto ad Arturo di non salire sul divano. Fine dell’idillio. “Gli uomini tradiscono, i cani noâ€, ha detto tornando a casa. Arturo ha abbaiato due volte: sembrava ridere.
Ha capito che la fedeltà non è questione di specie. Così ogni sera apre una birra, guarda Arturo e dice: “Tu mi capisci, vero?†Il cane lo fissa, scodinzola e pensa solo “cenaâ€. È il momento più sincero della loro giornata.
Lo storico e critico sociale americano Christopher Lasch lo considerava «uno dei pochi radicali contemporanei in grado di cogliere pienamente le dimensioni culturali della crisi del XX secolo». Stiamo parlando di Jacques Ellul (1912-1994), sociologo e teologo protestante dalle posizioni eterodosse e per il quale è difficile trovare una formula con cui etichettarlo. Come per Lasch, anche per lui vale forse la considerazione seguente: insoddisfatto della sinistra del suo tempo, soprattutto quella “liberazionista†degli anni Sessanta, Ellul giudicava concetti come autorità , stabilità , continuità e ordine elementi cruciali di un buon ordine umano.
Come ha messo in evidenza in un libro di qualche anno fa Jean-Luc Porquet, a Ellul era particolarmente invisa la presa sempre più soffocante che la tecnica ha sulla vita degli uomini (Jacques Ellul. L’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, Jaca Book). Essa, in sostanza, contribuisce per il pensatore francese a creare un’atmosfera anti-umana. Una tale presa d’atto, radicale e per certi aspetti conservatrice o financo reazionaria – elementi apparentemente opposti, ma che in realtà ben si saldano in Ellul come in Lasch – è ben presente in un libro che Silvio Berlusconi Editore ha da poco tradotto, uscito originariamente nel 1954: La società tecnologica.
Il punto di partenza di Ellul è uno: e cioè che la tecnica non è più parte del solo mondo industriale, e non può essere considerata come sinonimo di macchina. È un fenomeno che ha finito con l’abbracciare ogni aspetto dell’esistenza umana, giungendo così a modificarne in profondità l’essenza. Per questo motivo, l’autore non è d’accordo con il suo contemporaneo Lewis Mumford. Da oggetto per l’uomo che era, è diventata soggetto e sostanza, cioè variabile indipendente che si autoperpetua. Essa ha poco a che fare anche con ciò che era in passato, ovvero trasmissione di pratiche tra le generazioni che si susseguivano.
Per Ellul questo non è più vero: tecnica e tradizione si sono irrimediabilmente scisse. La definizione più puntuale dell’oggetto in discussione si trova solo a pagina 59 (di un libro che di pagine ne conta comunque 614! Compreso anche un articolo inserito a mo’ di appendice). Ed è la seguente: si tratta della «traduzione dell’assillo dell’uomo di controllare le cose tramite la ragione: rendere quantificabile ciò che è subconscio, quantitativo ciò che è qualitativo, demarcare con una spessa linea nera i contorni della luce proiettata nel tumulto della natura, prendere il controllo del caos e mettervi ordine».
Razionalizzazione, organizzazione, standardizzazione, dunque. Sostituzione di ciò che è naturale e spontaneo, con qualcosa di artificiale e costruito attraverso un processo che per Ellul si caratterizza per almeno ulteriori 5 aspetti: essere automatico, autoaccrescersi, essere indivisibile, universale e autonomo. Il risultato è un fenomeno dal potenziale monopolistico e totalitario, secondo il pensatore francese, che non conosce né limiti né resistenze.
Potrebbe essere la fede religiosa. Ma anche in questo caso Ellul è pessimista. Il perché è presto spiegato. L’uomo ha bisogno di credere in qualcosa, non può vivere senza il sacro. E tuttavia, in un mondo sempre più artificiale e tecnico, razionalizzato e standardizzato, «trasferisce il suo senso del sacro proprio su ciò che ha distrutto tutto quanto ne era oggetto, sulla tecnica». Dimostrazione di tutto ciò è anche l’idolatria novecentesca per lo Stato, «l’organo ideale del centralismo tecnico». E che non a caso Ellul considera un nemico mortale dell’uomo, allorché la tecnica lo porta «a farsi totalitario, ad assorbire in sé la vita dei cittadini». Tecnica e libertà sono pertanto, nella sua visione, opposti inconciliabili: tecnicizzare significa schiavizzare l’uomo, ovvero depredarlo di ciò che ha di più prezioso, la libertà di scelta, di pensare e agire secondo coscienza.
Tra le interviste di questa settimana da ritagliare e conservare in archivio c’è quella rilasciata da Eva Kaili alla Stampa del 4 dicembre. Eva Kaili è l’ex vicepresidente dell’Europarlamento arrestata e finita in cella il 9 dicembre 2022 per l’inchiesta “Qatargate” che, per qualche settimana, fu presentata sui giornali come una sorta di Mani Pulite europea. Come quella italiana, la Tangentopoli europea aveva il suo Di Pietro (il giudice Michel Claise), i suoi titoli roboanti sui giornali, le accuse al “sistema”, la destra forcaiola, la sinistra più forcaiola della destra (Kaili, bella presenza, era l’astro nascente dei socialisti greci), le sue trame, le sue valigie piene di denaro.
Passati tre anni da quel polverone, cosa è rimasto? Poco o nulla. Michel Claise, che ai tempi dell’indagine auspicava «una Greta Thunberg per il risanamento economico», si è dovuto dimettere per un clamoroso caso di conflitto di interesse riguardante il figlio (socio di un’eurodeputata sfiorata dall’inchiesta), si è candidato in Belgio in un partito di centrosinistra, ha raccolto solo 6.739 preferenze ed è stato trombato. Il Qatargate è finito nel dimenticatoio anche se, formalmente, l’inchiesta è ancora in corso.
Appunto. Questo è uno dei tanti aspetti stravaganti del caso. Alla Stampa, Kaili ha raccontato che «in cella mi lasciarono al freddo senza coperte, mi tolsero un cappotto, un modo per costringermi a collaborare. Ma non avevo niente da dire». Rimase in carcere due giorni, luce sempre accesa, non le diedero nemmeno gli assorbenti di cui aveva bisogno. Non poté vedere la figlia per un mese.
Ad oggi, spiega, «ho ancora un accesso parziale al fascicolo. Questo evidenzia problemi più ampi: opacità , ritardi, squilibrio e un sistema che continua a operare nonostante tutte le figure giudiziarie abbiano abbandonato le indagini o siano state addirittura arrestate e incriminate, come nel caso del capo della polizia giudiziaria, accusato di aver violato il segreto istruttorio e la presunzione d’innocenza».
L’inchiesta che le ha rovinato la vita è stato «un caso-trofeo in cui i titoli sui giornali hanno preceduto i fatti. Anche se la verità li contraddiceva». I suoi colleghi parlamentari di sinistra si sono dimostrati dei pavidi («il gruppo S&D mostra sensibilità solo quando è politicamente conveniente, sia in Grecia che al Parlamento») e l’unica politica che ha avuto il coraggio di andare a trovarla in cella è stata la berlusconiana Deborah Bergamini.

«L’Unione Europea non può più tollerare un sistema che prende di mira, isola e distrugge figure politiche prima ancora che i fatti siano accertati», dice ancora Kaili nell’intervista.
Come non essere d’accordo? È per questo che anche con il recente caso che ha coinvolto, tra gli altri, Federica Mogherini, ex alto rappresentante per la politica estera Ue, ex ministra degli Esteri nel governo Renzi, e l’ex ambasciatore Stefano Sannino, occorre andarci cauti. Sono accusati «di aver utilizzato in modo improprio fondi europei per finanziare le attività del Collegio d’Europa tra il 2021 e il 2022», ma Mogherini, dopo un lungo interrogatorio, è stata rilasciata senza condizioni.
Prima di ipotizzare, come faceva ad esempio venerdì Repubblica, possibili complotti orchestrati da «manine russe», forse basterebbe illustrare, come ha fatto Stefano Zurlo sul Giornale, il funzionamento del sistema giudiziario belga:
«In Italia siamo messi male, ma in Belgio è pure peggio. La figura chiave è quella del giudice istruttore che rimanda al sistema inquisitorio, quello che c’era anche in Italia fino al 1989, ma poi abbiamo virato e abbiamo introdotto il nuovo codice di procedura penale, alla Perry Mason, che mette sullo stesso piano accusa e difesa. Ora contiamo di completare quella rivoluzione con la separazione delle carriere. In Belgio, vetrina sull’Europa e cuore della Ue, siamo all’inquisitorio al quadrato. Si può essere sentiti anche senza difensore, come scelse di fare Panzeri, e l’altra sera Mogherini e Sannino sono stati ascoltati, con l’aiuto dei loro legali, da alcuni poliziotti, non dai magistrati».
Capite dunque anche voi che l’intervista a Kaili è da ritagliare e conservare nel cassetto, soprattutto per la sua ultima dichiarazione:
«L’Europa deve correggere questi metodi, che permettono alla giustizia di essere dettata dai titoli di giornale e da narrative geopolitiche. Se non sarà in grado di farlo, le sue istituzioni dovrebbero trasferirsi in Italia, dove il garantismo esiste ancora».
Con un sorriso rispondiamo: sì, certo. Noi magari aspetteremmo l’esito del referendum prima di preparare gli scatoloni.
A Varese c’è una gioielleria che resiste come certe parole che non cambiano accento. Ci passo davanti in un pomeriggio in cui non cerco niente, forse me stesso, forse un varco per respirare. Fumo davanti ad un grande negozio commerciale, confuso tra gli uomini che aspettano qualcuno, mentre io sono lì a non aspettare nessuno. Eppure, è proprio lì che qualcuno arriva. Un ragazzo. Mi chiede una sigaretta. Gliela porgo. E capisco che mi ha scelto. Perché? Forse perché porto addosso un certo grigio, un’eleganza storta, un’aria da uomo che cammina su un crinale invisibile. Borderline. Lo capiscono subito quelli che vivono di margine. È un riconoscersi senza parlarsi.
Mi racconta la sua vita con una lucidità che ferisce: Sert, carcere, una famiglia persa, e un talento che chiama magia, l’arte del furto. Nessuna vanteria, solo la consapevolezza di chi ha imparato a muoversi nel mondo di traverso. Mi spiega la regola dei tre minuti, l’obbligo di essere pulito, anonimo, invisibile. Io ascolto senza indietreggiare. E in questo c’è già qualcosa di me che lui ha visto. La capacità di stare nel posto sbagliato senza andarmene.
Mi chiede se voglio “stare con lui†quel pomeriggio. Gli dico che non ruberò nulla, che non accetterò nulla di rubato, che un buon cittadino non chiude gli occhi e non partecipa, ma non ha nemmeno paura di ascoltare. Io mantengo fede ad un principio semplice: non si aiuta chi sbaglia a sbagliare, ma non si abbandona chi è già caduto.
Lui annuisce. Entra solo nei grandi negozi, quelli che non soffrono un colpo di vento. Io lo guardo da lontano. Nessuna complicità . Solo presenza. Esce come era entrato, con il passo leggero di chi ha preso troppo poco e perso troppo. Poi mi affida una borsa piena. Gli dico che non la terrò. Che la riporterò ai proprietari. E lui accetta. Non perché non gli importi della refurtiva, ma perché per la prima volta qualcuno gli offre un gesto pulito senza giudizio.
Alla stazione mi guarda come si guarda un varco. «Che cosa faccio adesso?» Non è la domanda di un ladro. È la domanda di un uomo. Gli dico: «Ricomincia. Usa quello che hai. Intelligenza, talento, precisione. Ma cambia direzione. Non devi diventare un altro. Devi diventare te quando sarai stanco di sparire». È un consiglio di uno sconosciuto incontrato a Varese, lo so. Ma a volte la realtà si muove a partire da parole minime, dette nel posto giusto.
Mi abbraccia. Trenta secondi Un’eternità . E sussurra: «Io sono una brava persona. Non ho mai fatto del male a nessuno. Solo a me». La frase resta lì, sospesa, come un’autobiografia intera.
Quando il treno riparte, io torno sui miei passi e restituisco la borsa, una cosa alla volta. Nessuno fa domande. Nessuno immagina la storia che c’è dietro. Guardo la vetrina della gioielleria antica. Resiste. Forse per questo ci ero passato.
Guidando verso casa penso che quel ragazzo finirà ancora in carcere, o forse no. Forse ricorderà la frase di un anonimo incontrato a Varese. Forse avrà capito che anche chi vive ai margini merita un testimone, qualcuno che non scappa. Io non so che ne sarà di lui. Ma so perché mi aveva scelto. Si era accorto che porto addosso le stesse domande che portava lui. Come si fa a stare in bilico tra la luce che cerchiamo e l’ombra che ci segue? Forse semplicemente, per un pomeriggio, abbiamo riconosciuto che nessuno si salva da solo.
Prendete uno sport relativamente giovane (il Comitato olimpico internazionale lo ha riconosciuto ufficialmente nel 1954), quindi trasformatelo anno dopo anno, rendendolo di nicchia e di successo al tempo stesso. È il biathlon, che nel 1924 è presente ai primi Giochi invernali di Chamonix come disciplina dimostrativa e con un nome quantomai esplicativo: pattuglia militare. Perché queste sono le origini, soldati che controllavano i confini sugli sci da fondo e imbracciavano il fucile per difenderlo. Vinse la Svizzera, davanti a Finlandia e Francia.
Oggi il biathlon abbina capacità atletiche, abilità al tiro e scaltrezza tattica. Perché, al di là delle distanze previste per le gare, tutto si decide al poligono, dove occorre centrare con l’arma un bersaglio lontano 50 metri. Parliamo di un dischetto dal diametro di 4 centimetri e mezzo, quando si spara da sdraiati, e di 11 e mezzo, quando si rimane in piedi: per dare un’idea, si trova nella porta di calcio e voi dovete colpirlo da centrocampo… Occorre arrivare nella piazzola, recuperare la respirazione senza pensare ai muscoli delle gambe già affaticati e mettere pressione sugli avversari di fianco, sia che siate preda o cacciatore.
Un mix che, spesso, può essere micidiale quando si va forte sugli sci senza però saper dominare le emozioni al tiro. Tantissime gare sono state decise dall’ultima serie di cinque colpi. È uno dei motivi, ma non l’unico, per cui il biathlon sta sorpassando il fondo nella passione degli sportivi. L’altro è rappresentato dalla continua evoluzione dei format, che rendono le competizioni sempre entusiasmanti. I poligoni sono stracolmi di tifosi colorati e rumorosi, che scandiscono il tempo di chi spara. E, per dare un’idea, le staffette nella prima tappa di Ostersund, in Svezia, sono state viste in Germania sul primo canale della Ard da una media di 3 milioni di persone.

In Italia c’è una capitale privilegiata del biathlon. Un santuario degli sport invernali come la Gran Risa dolomitica nello slalom gigante, la Streif di Kitzbuhel nella discesa libera o il trampolino di Holmenkollen nel salto con gli sci. È Anterselva, località di nemmeno 3.000 abitanti nella omonima valle altoatesina. Qui, a inizio anni Settanta, la passione di Paul Zingerle porta la Nazionale ad allenarsi. Quindi le prime gare e il primo campionato del mondo nel 1975. L’impianto è oggi una tappa immancabile di ogni appuntamento e, ovviamente, dall’8 al 21 febbraio ospiterà le gare di Milano-Cortina 2026.
Dal biathlon l’Italia si attende un buon contributo in termini di medaglie. Nel debutto in Svezia è tornata a vincere – e non le accadeva dal 12 marzo 2023 – Dorothea Wierer, la figlia più illustre di Anterselva. Lo ha fatto nella 15 chilometri individuale sulla pista che ama di più (sei successi, a cominciare dal 2015) e lo ha fatto a oltre 35 anni, quarta atleta più anziana di sempre a cogliere un successo in Coppa del mondo. È stato un primo posto inaspettato, costruito poligono su poligono e grazie anche ai materiali – sempre decisivi nello sci – che le hanno consentito di battere di appena tre decimi la finlandese Sonja Leinamo, di dodici anni più giovane.

Ma non c’è solo Wierer. La tappa di Ostersund ha ritrovato una protagonista come Lisa Vittozzi, assente per tutta la stagione 2025 in cui non ha potuto difendere, causa un serio problema alla schiena, il titolo in classifica generale vinto nel 2024. E con loro, in campo maschile, hanno confermato le proprie qualità Tommaso Giacomel e Lukas Hofer: non sono solo possibili protagonisti nell’individuale, con Wierer e Vittozzi formano una delle staffette miste da battere. È la gara che, l’8 febbraio, aprirà l’atteso calendario dell’Anterselva Biathlon Arena.
A fine novembre, durante l’assemblea nazionale di Noi Moderati intitolata “La forza della responsabilità â€, è stata presentata l’edizione aggiornata al 2025 della ricerca di Noto Sondaggi sul mondo dei moderati in Italia. Non è un dettaglio tecnico. È una fotografia nitida di ciò che si muove sotto la superficie del nostro Paese.
Il primo dato, il più sorprendente, riguarda i numeri. Quasi 20 milioni di cittadini italiani si definiscono moderati. Di questi, solo poco più della metà esercita il voto. La parte restante, oltre 9 milioni di persone, sceglie l’astensione. E questo bacino, già enorme, è perfino cresciuto di 225mila unità rispetto all’anno precedente.
Non è un fenomeno marginale. È il vero snodo della democrazia italiana, perché indica una domanda vasta, diffusa, inespressa.
La stessa indagine rivela che, davanti alla scelta tra più radicalismo e più moderazione, solo il 18% degli elettori vorrebbe più radicalismo, mentre il 60% degli italiani preferisce la seconda opzione. Tra coloro che si definiscono moderati questa percentuale sale all’81%. È come se un’Italia silenziosa continuasse a ripetere che la politica non ha bisogno di esasperazione ma di equilibrio, affidabilità , capacità di tenere insieme concretezza e futuro.
Sono chiari anche i temi considerati decisivi: sanità , lavoro, sicurezza, scuola, famiglia, riforma fiscale. Terreni tipicamente moderati, pragmatici e sociali allo stesso tempo. Eppure, questa domanda così riconoscibile non si traduce in consenso per chi si colloca esplicitamente al centro. Al contrario, molti moderati finiscono per votare partiti che si dichiarano esplicitamente di destra, di sinistra o di protesta.
Perché accade?
Non esiste una risposta semplice. Ma emerge un punto. L’offerta politica attuale non sembra in grado di interpretare la sensibilità e i bisogni di questo enorme corpo elettorale. È come se i moderati scegliessero di stare lontani dalle urne perché disgustati dalla rappresentazione caricaturale della politica, non il suo compito più alto: proporre soluzioni credibili e insieme un’immagine possibile di futuro.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, presente alla kermesse, ha insistito sul significato profondo del titolo, la forza della responsabilità , intesa non come vincolo formale ma come risposta a un mandato ricevuto dai cittadini. Un’idea antica e modernissima, vicina al sentire moderato più di quanto si creda.
Il punto decisivo però sta altrove, nella distanza crescente tra ciò che il mondo moderato chiede e ciò che percepisce. Uno scarto che non si colma con una formula ma con un modo di essere diverso, più fedele alla realtà delle persone. La politica torna a essere attrattiva quando sa tenere insieme ciò che spesso viene separato, quando non rinuncia alla concretezza delle risposte ai problemi e insieme non abbandona la capacità di immaginare, di sognare, di generare speranza per un futuro migliore.
Credibilità e sogno. Sono le due parole che tornano, ma non come un elenco. Stanno insieme, respirano insieme.
La credibilità è il lavoro quotidiano della politica quando smette di recitare e prova a rispondere davvero ai problemi delle famiglie, ai salari bassi, alla fatica di conciliare vita e servizi, al bisogno di un’economia più solida, al sentimento di precarietà che attraversa il Paese. Ogni volta che la scena pubblica si trasforma in spettacolo, l’elettore moderato si ritrae. Cerca serietà , misura, continuità .
Il sogno è il respiro lungo, ciò che permette di vedere un po’ più in là del presente. Le ideologie del Novecento hanno prodotto errori e ferite, ma possedevano una forza, perché facevano intravedere un mondo più desiderabile. Oggi quel movimento si è quasi fermato. Molti vivono ripiegati, come se desiderare fosse diventato inutile o addirittura imprudente.
Eppure, l’uno senza l’altro non regge. La credibilità senza sogno diventa gestione amministrativa. Il sogno senza credibilità e concretezza evapora come fumo. Ai moderati serve una politica capace di stare nei problemi e insieme di offrire un orizzonte. Una politica che non urla, che non irrita, che non esibisce, ma che costruisce.
Perché altrimenti – ed è il vero rischio culturale – si finisce esattamente profeticamente diceva Giorgio Gaber già nel 1992, nella famosa canzone Qualcuno era comunista che si trova facilmente in rete:
«Qualcuno era comunista perché forse era solo una forza, un volo, un sogno… uno slancio, un desiderio di cambiare le cose… Da una parte la personale fatica quotidiana, e dall’altra il senso di appartenere a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo».
Ecco il punto.
Non possiamo permettere che il sogno dei moderati – il sogno di un Paese più giusto, più responsabile, più capace di futuro e di una politica all’altezza della sfida – si rattrappisca allo stesso modo.
La sfida politica dei prossimi anni sta qui. Restituire alla gente credibilità nel presente e un sogno pieno di speranza nel futuro. Solo così quei 9 milioni di moderati silenziosi potranno tornare a credere che la politica non sia solo sopravvivenza quotidiana, ma ancora, finalmente, un volo possibile.