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«Nelle more dell’adozione di una disciplina legislativa con portata generale e in adempimento di quanto statuito dalle citate sentenze della Corte costituzionale, in un’ottica di tutela della dignità della persona e di minimizzazione delle sofferenze della stessa, il Tavolo Tecnico ritiene che sia doveroso per il Servizio Sanitario Regionale offrire al richiedente una risposta non parziale, che si faccia quindi concretamente, tempestivamente e ragionevolmente carico anche del percorso finale di esecuzione della Mma, non limitandosi alla fase della mera valutazione ex ante, eventualmente favorevole, delle condizioni delineate dalla sentenza costituzionale n. 242/19».
Mma è l’acronimo di Morte medicalmente assistita, e il virgolettato è tratto dalla proposta di linee guida procedurali del Sistema sanitario regionale trasmesse nel dicembre 2024 dal Tavolo Tecnico presieduto da Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, «ai competenti Assessore e Direttore Generale Welfare della Regione Lombardia». Un Tavolo istituito con decreto n. 13846 del 19 settembre 2024 che si premura di fornire «indicazioni tecnico-organizzative» per gestire le richieste di suicidio assistito («indicato con il termine più appropriato di Mma») pervenute alla Regione Lombardia e così «ottemperare al dictum» delle sentenze 242/2019 e 135/2024.
Indicazioni che non sono mai state pubblicate né condivise con i consiglieri regionali del centrodestra, gli stessi che il 19 novembre 2024 votavano compatti la pregiudiziale di costituzionalità sul disegno di legge del comitato “Liberi subito” di Marco Cappato. E che confliggono con quanto sostenuto dalla stessa Direzione Generale Welfare, audita il 23 settembre dello stesso anno dalle Commissioni Affari istituzionali e Sanità della Lombardia.
In quell’occasione era stato infatti ribadito che il Servizio sanitario può arrivare solo alla valutazione delle condizioni previste dalla Consulta per evitare procedimenti penali nei confronti di chi aiuta un malato a porre fine alla propria vita. Nient’altro. Perché in nessuna delle sue sentenze la Corte costituzionale riconosce un diritto a morire che implichi l’accesso al suicidio medicalmente assistito con farmaco letale identificato e fornito dal Servizio sanitario.
Al contrario, nella proposta di linee guida delineate e approvate dal Tavolo che Tempi ha potuto leggere, si dettaglia il percorso attuativo fino alla fornitura del farmaco. «Oltre all’individuazione del luogo, l’ASST territorialmente competente fornisce, senza spesa a carico del richiedente, il farmaco e la strumentazione idonei a dare attuazione alla procedura di Mma, come valutati e suggeriti dal Collegio di Valutazione».
Per comprendere la portata del cortocircuito tra politica che decide e tecnici che procedono in direzione opposta, conviene riassumere alcuni passaggi. Circa un anno fa (novembre 2024), dopo settimane di audizioni, il Consiglio regionale della Lombardia respingeva l’ennesimo tentativo dei radicali, già riuscito altrove, di introdurre surrettiziamente il suicidio assistito nell’ordinamento italiano. Con la pregiudiziale di costituzionalità , la maggioranza – all’opposizione si aggiungeva solo il voto di Giulio Gallera, Fi – ribadiva il punto: non è competenza delle Regioni legiferare sulla materia.
Eppure, poche settimane dopo (febbraio 2025), l’assessore al Welfare Guido Bertolaso conferma che il Servizio sanitario ha fornito farmaco letale e strumentazione a una cittadina lombarda, “Serena”, e che «la magistratura era d’accordo». Ad assistere la cinquantenne affetta da sclerosi multipla c’era il dottor Mario Riccio, consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni, già “assistente” di Piergiorgio Welby, e poi di Federico “Mario” Carboni, “Vittoria”, “Gloria”. È sua la relazione con protocollo farmacologico inviata all’azienda sanitaria. La notizia lascia basita la maggioranza e non solo: quello di Serena è il primo caso di suicidio assistito in Lombardia.
«Abbiamo dimostrato che, anche senza una decisione di giunta e una legge regionale, il rispetto del dettame costituzionale può essere eseguito. Ne ho parlato anche con la magistratura ordinaria di Milano che ha pienamente approvato il percorso adottato», spiega Bertolaso. Una interpretazione del «dettame costituzionale» già smentita dai costituzionalisti e, come detto, dalla stessa Dg Welfare. Subito il consigliere FdI Matteo Forte, presidente della Commissione Affari istituzionali, annuncia un’interrogazione scritta.
Come racconta La Verità , è lo stesso Canzio, audito in Commissione il 28 maggio 2025, a confermare il cortocircuito. «La Dg Welfare, unitamente all’assessore alla Sanità , ha costituito questo tavolo tecnico da me presieduto» per «definire dal punto di vista procedurale il percorso attuativo derivante dalle sentenze della Corte costituzionale in materia di morte medicalmente assistita, cioè ci siamo occupati di scrivere linee guida procedurali, best practices, rispetto a domande di cittadini che non possono rimanere inevase, pena denuncia».
Rivela inoltre che tale lavoro è già stato consegnato al committente, ovvero «la Dg Welfare e l’assessore», e che non si è occupato di «casi singoli», ma solo di «linee guida alla luce delle sentenza per indicare procedure corrette per gli operatori, registrando approvazione unanime e apprezzamento dai medici».
Peccato non siano state trasmesse alla politica, le cui posizioni sono state confermate di fatto anche dal Tar, che con sentenza depositata il 30 ottobre scorso ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’Associazione Luca Coscioni contro la pregiudiziale di costituzionalità . La Lombardia non avrà una legge come quelle toscana e sarda. Ma avrà le linee guida.
Passando alle procedure, il Tavolo incardina in capo alle Asst la competenza e la ricezione delle richieste di morte medicalmente assistita, chiarendo che la Regione «è in primis tenuta alla verifica della necessaria informazione e della concreta attuazione della rete di cure palliative» e «di tutti gli strumenti di assistenza disponibili per alleviare le sofferenze del paziente». Ricorda che tali cure e sedazione palliativa «sono radicalmente diverse dalla Mma» per obiettivi, mezzi e risultati, ed è dunque necessario che «per ogni richiesta sia valutata prioritariamente da parte dell’Asst la reale offerta di cure palliative ricevute dal paziente».
Premesso ciò, l’Asst territorialmente competente è tenuta ad attivare «senza indugio» il Collegio di accertamento per la valutazione tecnica dei requisiti e delle condizioni indicate dalla Consulta. Il Collegio, in linea con le direttive del Comitato Nazionale per la Bioetica (comunicato n. 3, 28 marzo 2023), deve essere coordinato dal direttore sanitario aziendale e composto (su base volontaria e sempre revocabile) da: un medico specialista della patologia del richiedente; un medico psichiatra; uno psicologo clinico; un medico legale; un medico palliativista; un anestesista-rianimatore; un infermiere (preferibilmente competente in terapia del dolore e cure palliative). Più eventuali specialisti a seconda del caso.
Compito dell’équipe: esprimere «la valutazione, a maggioranza semplice, nel termine di sessanta giorni» (prorogabili di quindici). La valutazione passa poi al Comitato Etico che «esprime a maggioranza semplice entro trenta giorni il parere, obbligatorio ma non vincolante», da ritrasmettere al direttore sanitario (con eventuale proroga di dieci giorni per chiarimenti).
Per «garantire equità e parità di trattamento dei cittadini», il Tavolo propone inoltre di istituire un Comitato regionale per l’etica clinica (CoRec, i cui membri siano selezionati da una Commissione di nomina del Consiglio Regionale), «organo consultivo indipendente» con composizione multidisciplinare adeguata alla gestione delle richieste di Mma, capace di valutare gli aspetti clinici, familiari, sociali, etici e giuridici, in modo approfondito ma coerente con la condizione del paziente. Limitatamente a queste funzioni, il CoRec sostituisce i Comitati etici territoriali.
Acquisito il parere del Comitato Etico, il Collegio definisce la valutazione conclusiva entro dieci giorni e la trasmette al richiedente. È qui che il Tavolo ritiene «doveroso» per il Servizio sanitario fornire «una risposta non parziale», facendosi dunque carico anche del «percorso finale di esecuzione della Mma, non limitandosi alla fase della mera valutazione». Dove? Il domicilio resta il luogo più richiesto, ma «in alcuni casi è stata formulata una esplicita richiesta di essere accolti in un contesto sanitario».
Se il richiedente è ricoverato, l’Asst deve individuare «il luogo idoneo ad attuare la procedura, non essendo opportuno identificare uno specifico spazio ad hoc per evitare lo stigma della persona». E garantire la presenza di «personale sanitario del Ssr» che, sempre su base volontaria, vigili sull’autosomministrazione del farmaco o sull’utilizzo dello strumento prescelto, fronteggiando eventuali complicanze tecniche. Resta ferma «la responsabilità del medico scelto dal paziente». Ogni medico o infermiere «può partecipare su base volontaria all’agevolazione richiesta, con esclusione di medici e infermieri coinvolti nel processo valutativo».
Oltre al luogo, l’Asst competente deve fornire «senza spesa a carico del richiedente, il farmaco e la strumentazione idonei a dare attuazione alla procedura di Mma, come valutati e suggeriti dal Collegio di Valutazione». Una volta attuata, un medico «accerterà il decesso del paziente con i criteri di morte cardiaca» e lo certificherà con relativa codifica Istat (morte per arresto cardiaco «indotto da Mma» ex sentenza 242/19), necessaria ai fini di legge.
L’ultimo capitolo riguarda l’obiezione di coscienza. Il Tavolo non rileva criticità per la partecipazione dei professionisti nel Collegio di valutazione e nel Comitato Etico, «in assenza di un rapporto diretto con l’evento morte». Viceversa, per la «concreta opera di agevolazione della Mma», come da sentenza 242/19, resta affidato «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Medici e infermieri coinvolti nell’attuazione dovranno quindi essere individuati «su base volontaria dalla struttura sanitaria».
La proposta viene trasmessa all’assessore Bertolaso e alla Dg Welfare il 13 dicembre 2024. Poco dopo il voto politico sulla pregiudiziale di costituzionalità in Consiglio. E poco prima della «Mma» di “Serena”. Ad introdurre il suicidio assistito in Lombardia – dicono i documenti – non sono stati i radicali, ma i tecnici.
La trincea che segna la “Blue Line”, la linea di demarcazione, è a poche centinaia di metri dalla altura di Har Adir, nel Golan. A sinistra il Libano, a destra la Siria. Qui i gruppi di jihadisti che formano la galassia che ruota attorno ad Hezbollah hanno più volte tentato di infiltrarsi, mentre i razzi sparati dalle montagne impegnavano l’esercito dello Stato ebraico.  Ora c’è la tregua, ma dall’alto sentiamo le esplosioni. Colpi rarefatti, non più la pioggia di ordigni lanciati dai missili e dai droni. Ma quanto basta per capire quanto sia fragile la tregua e lontanissima una vera pace. In mezzo ci sono i villaggi: sono tornati gli abitanti che erano sfollati lo scorso anno (a sud oltre centomila israeliani, a nord un milione di libanesi).
Un ufficiale superiore che ha comandato reparti delle truppe speciali dell’esercito israeliano in quei terribili giorni spiega a Tempi: «Quando lanciano i missili non c’è il tempo materiale per mettersi al riparo. Bisogna gettarsi per terra e coprirsi il capo, sperando nella sorte. Siamo in grado di individuare la postazione da cui è partito il colpo, e spesso riusciamo a raggiungerla con i droni. Ma la vera difesa è “preventiva”. Un attacco di massa è sempre possibile. Sappiamo che il nemico può organizzarsi in poche ore, massimo sei, mentre noi abbiamo bisogna di più tempo per mobilitare i riservisti e per organizzare la difesa su un fronte più vasto come quello del nord».
«Per questo manteniamo gli avamposti in territorio libanese», continua, «e colpiamo ogni possibile minaccia prima che si sia concretizzata. Sì, si può sbagliare. Accade. Un esempio? Durante i giorni della guerra aperta, lo scorso anno, mi segnalarono che i droni avevano inquadrato una donna e due uomini a ridosso della trincea con un dispositivo montato su un cavalletto che puntava verso di noi. Poteva essere una telecamera come un lanciarazzi. Non c’è tempo per riflettere troppo in questi casi. Se sparano, in una frazione di secondo diventi una nuvola di polvere. Abbiamo sparato prima noi. Non sapremo mai esattamente chi erano».

L’ufficio propaganda di Hezbollah, prosegue l’ufficiale dell’esercito israeliano, «lo ha definito un attacco a civili. Così come attacchi a civili sono definiti le “eliminazioni” di persone che si muovono tra i villaggi. Ma sappiate, e loro lo sanno, che siamo in grado di inquadrarli con i droni spia e sappiamo bene chi sono. Spesso contrabbandieri di armi o cambiavalute legati a Hezbollah, che pagano i funzionari pubblici dei villaggi alimentando la catena di controllo del territorio che permette alla milizia-partito filoiraniana di sopravvivere, anzi di consolidarsi sul terreno».
Hezbollah, aggiunge, «non è affatto sconfitto, ha una forza militare ancora notevole, una forza politica in Parlamento a Beirut che gli permette di influenzare il governo, una catena di media che fanno risuonare la sua propaganda sui social di tutto il mondo. Come nel 2023, quando Hezbollah ha attaccato il nord di Israele con i missili, per impegnare l’esercito diviso tra qui e Gaza. Sapevamo che erano pronti per una invasione come il 7 ottobre. Avevano creato una forza speciale, l’unità Radwan, avevano piani precisi, erano e sono ben addestrati e ben armati. Per questo manteniamo cinque “punti di osservazione” in Libano, e continueremo a farlo finché davvero Hezbollah sarà solo un partito politico e consegnerà le armi all’esercito. Non credo all’ipotesi che i jihadisti si arruolino nell’esercito regolare per continuare a usare le loro armi. Per il semplice fatto che un miliziano Hezbollah riceve una paga di sessanta dollari al giorno, nell’esercito meno di dieci, quando Beirut ha i soldi per pagare. E nell’esercito sarebbero controllati».
L’alto ufficiale non può dire il suo nome, almeno apertamente, su di lui i fondamentalisti (i «terroristi» precisa) hanno messo una taglia. Ci tiene a precisare che in Libano Israele «nonostante qualche errore» cerca di limitare i danni collaterali, cioè l’uccisione dei civili. Focalizza con precisione gli obiettivi o cerca di sorprendere il nemico con operazioni sofisticate di intelligence, come i cinquemila cercapersone venduti a Hezbollah da una società ungherese che fungeva da prestanome, ma che in realtà apparteneva al Mossad.
Dispositivi fatti esplodere simultaneamente che hanno messo «fuori gioco» 250 miliziani. Dispositivi peraltro regolarmente venduti e pagati. Una operazione, apprendiamo per la prima volta, ideata da una giovane donna israeliana il cui nome non sapremo mai. Danno e beffa.
Tra le operazioni di intelligence studiate da Israele ci sono anche quelle che hanno portato alla decapitazione, lo scorso anno, della leadership di Hezbollah nel cuore di Beirut, non solo nella periferia sud dove è stato seppellito Nasrallah, il segretario generale, sotto sessanta tonnellate di bombe. Gli attacchi sono stati condotti persino nel nord del Libano, nei villaggi cristiani dove alcune famiglie del sud, vicine a Hezbollah, si erano rifugiate.
Abbiamo visto come i droni hanno colpito quando è arrivato un ufficiale Hezbollah con duecentomila dollari, uccidendo una ventina di persone. Al sud, in alcuni villaggi cristiani, i sindaci hanno fatto una sorta di patto con la milizia sciita: nessuna postazione militare tra i civili, avevano chiesto e in parte ottenuto. Ma la distinzione è labile, non sempre rispettata, i miliziani si infiltrano con postazioni mobili di lanciarazzi e ci sono tunnel giganteschi, ben più grandi di quelli di Gaza, in grado di ospitare caserme intere e lanciamissili con tutti i supporti logistici.

Hezbollah non ne fa mistero: sui social posta immagini dei tunnel. L’Idf mostra le uscite dei cunicoli, e molte sono vicine alle case dei civili o alle postazioni dell’Onu. Nella visione israeliana una pace è possibile con lo Stato libanese guidato dal presidente Aoun, ma solo se Hezbollah si disarma davvero e lascia il controllo del territorio a sud del fiume Litani (peraltro con un possibile nuovo mandato, più solido, consegnato alla forza Onu, l’Unifil, che finora ha avuto le mani legate, impossibilitata a intervenire).
Nell’Alma Research and Educational Center, un “centro di ricerca” poco distante (in realtà un centro di elaborazione dati dell’Intelligence), a Tefen, ci mostrano le prove che il traffico clandestino di armi, proveniente dall’Iran non si è fermato. Foto prese da droni e satelliti incredibilmente nitide e precise, fino a mostrare le fondine nascoste nelle cinture di facchini innocui all’apparenza che stanno caricando casse su un van. Un camioncino che viene fatto esplodere con tutto il suo carico.
Il traffico, ci dicono, passa dalla Siria e scende nella valle della Bekaa e da qui prosegue verso sud. Viaggia sulle navi che raggiungono i porti libanesi. Passa attraverso le stive dei voli cargo, le armi nascoste tra merce “innocua”. Una mappa precisa disegnata dai servizi israeliani mostra come Iran e i suoi proxy non abbiano smesso di essere un pericolo.

«Anzi – dice una gentile e non più giovane signora, madre di cinque figli, che tutto sembra fuorché una funzionaria del Mossad – temiamo ancora un attacco delle varie milizie pro Iran (non solo Hezbollah), che sono indebolite ma sempre pericolose. Attaccheranno attraverso il Golan. Sono ancora in allarme».
Mostra le vie del contrabbando di armi e i tipi di missili di cui dispongono Hezbollah, Houthi e quel che resta di Hamas, in grado di raggiungere tutto Israele, non solo il nord. E mostra le foto dei contrabbandieri di armi sul confine. L’Iran fa paura in molti modi, compresa l’atomica. Dopo l’attacco israelo-americano, il programma nucleare è stato rallentato ma non certo annullato.
«L’Iran è ferito ma non sconfitto», dice una ex dirigente dei servizi segreti israeliani. «Un cambio di regime ora non è realistico: le opposizioni potrebbero contare su metà della popolazione iraniana, che non è di origine persiana, ma sono ancora divise».

Neppure il cambio di regime in Siria rassicura Israele, nonostante il presidente americano Donald Trump abbia ammonito Tel Aviv a non «interferire» con la transizione in atto a Damasco, dopo uno scontro tra soldati dell’Idf e miliziani in quella che Israele definisce una operazione antiterrorismo. L’alto ufficiale che ci ha accompagnato sul Golan non a caso continua a chiamare Al-Sharaa, il nuovo uomo forte di Damasco che ha spodestato Assad, con il suo nome di battaglia, Al-Jolani, l’uomo del Golan: così si faceva chiamare quando era il capo dell’Isis in Siria (e prima ancora di Al-Qaeda).
«Ostenta propositi di accordo e spero sia sincero. La valutazione spetta ai politici ma noi militari non abbassiamo la guardia. Per questo abbiamo “punti di osservazione” nel Golan. Cioè unità pronte a intervenire. Guardate cosa hanno fatto i miliziani ex Isis ai drusi pochi mesi fa. Siamo circondati da nemici o possibili nemici o, al contrario, ex nemici che sembrano vogliano avviarsi verso una strada di pace. Noi manteniamo la guardia alta».
E aggiunge abbassando la voce: «Non ripeteremo l’errore del 7 ottobre». Il fronte nord è il più temuto da Israele. Gaza è un problema umanitario e politico, più che militare. I battaglioni di Hamas sono una spina nel fianco ma non minacciano l’esistenza di Israele. Al contrario Iran, formazioni armate nel sud del Libano, milizie filo-Teheran acquartierate in Iraq, gruppi di Hamas sparsi tra Libano e Siria, le formazioni del “fronte della resistenza” palestinese che hanno militanti pronti al terrorismo kamikaze nei campi profughi della Cisgiordania, se attaccassero uniti, potrebbero diventare una concreta minaccia per lo Stato ebraico, esausto dopo due anni di guerra, la più lunga mai combattuta da Israele.
«Dicevamo che l’Iran è la testa del serpente – dice l’ex funzionaria del Mossad – ora dico che ci sono diversi serpenti con diverse teste. Per fortuna divisi e spesso in guerra tra loro». Dal fronte nord militari e funzionari dell’intelligence ci fanno capire quanto poco Israele si fidi degli accordi e delle intese tessute dalle diplomazie. La “difesa preventiva” è ancora, per loro, la migliore opzione. O la meno peggio.
Sono passati appena quattro giorni fra la dichiarazione di condanna degli attacchi dei coloni israeliani contro i civili palestinesi in Cisgiordania da parte dei ministri degli Esteri di Germania, Francia, Italia e Regno Unito e l’aggressione ai volontari italiani e canadesi alloggiati presso il villaggio palestinese di Ein al-Duyuk, nei pressi di Gerico domenica scorsa. Questi ultimi erano sul posto nel contesto di una missione di solidarietà internazionale mirata a ridurre i rischi per la popolazione locale, da qualche tempo oggetto delle violenze di coloni estremisti di un vicino insediamento illegale, creato appena due mesi fa.
Nella loro dichiarazione del 26 novembre i quattro ministri lamentavano il fatto che, secondo le statistiche dell’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari), «Il numero di attacchi ha raggiunto nuovi massimi: (…) nel mese di ottobre sono stati registrati 264 attacchi, il numero più alto di attacchi da parte di coloni in un solo mese da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a registrare tali incidenti nel 2006».
Manifestavano anche la loro preoccupazione per il fatto che gli attacchi minavano il successo del piano in 20 punti per Gaza e le prospettive di pace e sicurezza a lungo termine per lo stesso stato di Israele. Ribadivano l’opposizione dei loro paesi a qualunque forma di annessione – «parziale, totale o de facto» – della West Bank a Israele, e alle «politiche di insediamento che violano il diritto internazionale».
A questo proposito i ministri prendevano di mira uno specifico atto del governo Netanyahu: «Dopo l’approvazione ufficiale dell’insediamento E1 nell’agosto 2025, che frammenterebbe la Cisgiordania (il nuovo insediamento collega quello di Ma’ale Adumin a Gerusalemme Est, aumentando la separazione di quest’ultima dai territori palestinesi – ndt), nelle ultime tre settimane sono stati approvati più di 3 mila progetti di unità abitative, raggiungendo quota 28 mila da gennaio, un massimo storico. Invitiamo il governo israeliano a invertire la sua politica».

Come la dichiarazione dei ministri europei lascia intendere, benché opera di una minoranza dei 700 mila coloni ebrei installati attualmente in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la questione della violenza degli estremisti contro la popolazione civile palestinese non può essere separata dalle politiche governative in materia di insediamenti israeliani nei Territori Occupati. L’aumento degli attacchi negli ultimi due anni è certamente collegato al pogrom del 7 ottobre 2023 e alla guerra di Gaza, ma anche alla politica pro-insediamenti dell’attuale governo Netanyahu, in carica dal 2022, ed è proseguito anche dopo il cessate il fuoco e la firma del piano di pace di Sharm El Sheikh.Â
L’Ocha calcola in 9.600 gli attacchi di coloni a palestinesi fra il 2006 ed oggi, e registra un’escalation recente. Mentre fra il 2006 e il 2020 gli incidenti sono oscillati fra i 118 e i 379 all’anno, nel 2021 erano già 540, 856 nel 2022 e 1.229 nel 2023. Nel 2024 hanno toccato il massimo storico di 1.449, già superato dai 1.485 censiti fra l’inizio del 2025 e la fine di novembre.
I record di attacchi degli ultimi anni corrispondono a un aumento nel ritmo di creazione di insediamenti illegali in base alla legge israeliana, di legalizzazione degli stessi e di istituzione di insediamenti approvati dal governo. Attualmente in Cisgiordania esisterebbero, secondo i dati dell’organizzazione pacifista israeliana Peace Now!, 141 insediamenti riconosciuti (escludendo Gerusalemme Est) e 224 avamposti (outposts) non riconosciuti. Il computo può cambiare rapidamente, perché siamo in una fase di espansione degli avamposti illegali e di legalizzazione degli stessi.
Il fenomeno degli avamposti informali è esploso al tempo degli accordi di Oslo quando, nel contesto dei negoziati per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, lo Stato israeliano arresta la creazione di insediamenti approvati. Dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 i governi israeliani approvano insediamenti di civili in questo territorio (non riconosciuti a livello internazionale) per ragioni militari e di sicurezza in generale. Si calcola che alla fine del 1988 fossero circa 110. Fra la metà degli anni Novanta e il 2005 vengono creati più di 100 avamposti non riconosciuti dalle autorità . Nel 2005 il fenomeno si arresta, per riprendere al tempo del secondo governo Netanyahu, fra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Fra tale anno e il 2019 vengono creati, sempre secondo Peace Now!, 32 nuovi avamposti illegali; di questi 15 vengono legalizzati nello stesso arco di tempo.
Questi dati (100 avamposti nel decennio che va al 2005, 32 nei sette anni fra il 2012 e il 2019) si possono comparare con quel che è successo fra il 2023 ed oggi: ben 130 outposts sono sorti in meno di tre anni. Si tenga presente che l’attuale governo di coalizione guidato da Netanyahu, che si regge su di una maggioranza che oltre al Likud comprende i partiti estremisti favorevoli all’insediamento di nuove colonie e all’annessione a Israele di tutta o quasi la Cisgiordania, cioè Potere ebraico guidato da Itamar Ben-Gvir e il partito del sionismo religioso capeggiato da Bezalel Smotrich, è entrato in carica il 29 dicembre 2022.
L’attuale governo ha anche battuto il record degli avamposti illegali legalizzati: sarebbero 30 fra il suo insediamento ed oggi, ben 22 dei quali nel solo anno 2023. Per altri 31 sarebbero state avviate le procedure di autorizzazione. Storicamente nessun governo israeliano ha mai rimosso outposts in Cisgiordania, con l’eccezione di quelli di Migron (nel 2012, al tempo del secondo governo Netanyahu) e Amona (nel 2017, al tempo del quarto governo Netanyahu), su ordine della Corte Suprema di Israele.

L’escalation di attacchi dei coloni contro i civili palestinesi solleva la questione del comportamento delle autorità militari e civili israeliane rispetto a queste aggressioni. Gli attacchi hanno condotto in alcuni casi all’esodo di popolazioni locali, come nel caso delle comunità seminomadiche sulle colline a nord-est di Ramallah, 38 delle quali si sono viste costrette ad abbandonare l’area in cui pascolavano il loro bestiame, secondo B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani.
Attualmente i villaggi che hanno più problemi sono quelli nei pressi di Ramallah, come Burqa e Beitin. Qui bande di aggressori hanno dato alle fiamme auto ed edifici dei residenti. Altrove ad essere impedita è la raccolta delle olive, una delle principali fonti di reddito dei palestinesi (e una delle principali occasioni di solidarietà internazionale, con gruppi di attivisti stranieri che partecipano alla raccolta nella convinzione, normalmente smentita dai fatti, di dissuadere con la loro presenza gli attacchi dei coloni).Â
L’assalto dell’11 novembre ai villaggi di Beit Lid e Deir Sharaf da parte di coloni mascherati che hanno dato fuoco a proprietà palestinesi e si sono scontrati coi militari israeliani inviati sul posto per fermare le violenze ha provocato condanna da parte dei vertici dello stato e del governo. Il presidente Isaac Herzog ha definito l’attacco un atto «grave e scioccante», che ha «oltrepassato una linea rossa» e di fronte al quale «tutte le autorità dello stato devono agire in modo deciso per sradicare il fenomeno»; Netanyahu ha incolpato dei fatti «una minoranza» che «non rappresenta l’ampio insieme dei coloni, persone rispettose della legge e leali allo stato»; le violenze «saranno represse con tutta la forza possibile, perché siamo uno stato di diritto e lo stato di diritto agisce secondo la legge».
Le autorità militari hanno reagito attraverso il capo di stato maggiore dell’esercito Eyal Zamir, che ha affermato che le forze armate «non tollereranno il fenomeno di una minoranza di criminali che macchiano una popolazione rispettosa della legge». Immediatamente dopo gli attacchi, condotti da una folla fra le 100 e le 200 unità , la polizia israeliana ha arrestato 4 coloni. Tre di essi sono stati successivamente rilasciati.
Le statistiche disponibili su inchieste e condanne di colpevoli degli attacchi ai civili in Cisgiordania indicano una quasi totale impunità degli aggressori. L’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha analizzato 1.701 indagini di polizia su crimini commessi da israeliani contro palestinesi nella West Bank fra il 2005 e il 2024, evidenziando che il 93,8 per cento dei casi si sono conclusi senza che nessun indagato venisse rinviato a giudizio. Per quanto riguarda il 6 per cento dei casi che sono andati a processo, nella metà di essi il verdetto è stato di assoluzione.