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Non succedeva dal 3 novembre 2013, da quel giorno la Roma non era stata più così in alto all’undicesima giornata. In testa da sola, dopo aver raccolto ben 31 punti, frutto delle dieci vittorie consecutive iniziali e del pareggio in casa del Torino. Era allenata da Rudi Garcia, l’uomo che voleva riportare «la chiesa al centro del villaggio» e che dopo due turni si sarebbe ritrovato a inseguire la Juventus, poi campione d’Italia con largo anticipo.
Oggi il francese guida il Belgio, che ha raggiunto un’agile qualificazione mondiale grazie anche a un girone “amico” (Galles unica seria rivale, poi Macedonia del Nord, Kazakistan e Liechtenstein). Al suo posto, alla Roma e in testa, c’è Gian Piero Gasperini, mai partito così bene in una più che ventennale carriera professionistica. Un primato che condivide con l’Inter, parentesi della più cocente delusione dell’uomo che, insieme con Massimiliano Allegri, ricopre a maggior titolo il ruolo di allievo dell’appena scomparso Giovanni Galeone.
Gasperini atterra ad Appiano Gentile nel 2011 dopo aver centrato una promozione in B e una salvezza con il Crotone e dopo aver portato il Genoa in Europa, come ai tempi belli di Osvaldo Bagnoli. A Milano lo chiama Massimo Moratti, ancora alla ricerca del giusto erede di José Mourinho. Un presidente umorale, difficile da gestire. Gasperini pensa di essersi allenato con Enrico Preziosi, ma si sbaglia.
La campagna acquisti non è all’altezza delle aspettative, l’avvio è una sconfitta in Supercoppa nel derby con il Milan e il resto sono le punzecchiature di Moratti, ben felice di cacciarlo dopo il ko di Novara il 20 settembre (quarta giornata che è in realtà la terza, per uno sciopero dei calciatori nel turno di esordio). Una botta da cui il tecnico si riprende tornando al Genoa, non prima di aver vissuto una parentesi a Palermo con un presidente altrettanto impegnativo come Maurizio Zamparini.
Bruciato da una big, Gasperini si costruisce la sua a Bergamo, da dove riparte nel 2016. Avvio da brividi, con quattro sconfitte e una vittoria. Si parla già di esonero, lui si rilancia battendo Crotone in trasferta e, soprattutto, Napoli in casa. È l’inizio di una esperienza che dura nove anni, con l’Atalanta inserita stabilmente tra le grandi, qualificata in Champions, portata alla conquista di una storica Europa League nel 2024 e resa ricca dalle cessioni al mercato: ultimo esempio, i 68 milioni spesi dall’Al-Qadsiah per Mateo Retegui. Un rapporto solido con la piazza e la famiglia Percassi, proprietaria del club, ma con il desiderio di guardarsi intorno. Come avviene a fine campionato 2025.
Lo chiama Claudio Ranieri, che si congeda dalla panchina per diventare manager a tutto tondo. Una proposta talmente allettante da dire no alla Juventus, giunta fuori tempo massimo una volta scottata da Antonio Conte (con una telefonata – raccontano – di Damien Comolli già entrata nella leggenda del calcio: «Mi dica perché dovrei prenderla alla Juventus? Mi convinca». Risposta: «È lei che mi ha chiamato»).
La Roma deve ritrovarsi dopo essere stata portata in Europa dalla rimonta di Ranieri. A Gasperini chiedono di valorizzare il prodotto interno, sul mercato si fa il possibile. E proprio i malumori del tecnico su mancati arrivi mandano in estasi chi aveva puntato su una esperienza simil-Inter, in una piazza mai semplice. Niente di più sbagliato. Gasperini va oltre le trattative non concretizzate, i due centravanti (Dovbyk+Ferguson) che finora hanno garantito appena 2 gol, e i tanti malanni, a cominciare da quelli di Dybala. Recupera chi era stato messo da parte (non solo capitan Pellegrini, ma anche Celik ed Hermoso), rilancia protagonisti che si erano un po’ persi (Mancini e Cristante), dà fiducia a Soulé, oggi miglior marcatore con 3 reti e 2 assist.

La Roma segna poco (12 gol) e subisce altrettanto poco (5 gol, miglior difesa nelle “big five” d’Europa, insieme con l’Arsenal). Non pareggia, con 8 vittorie e 3 sconfitte. Soprattutto è già a immagine e somiglianza del suo tecnico, abituato a disegnare squadre su tempi medio-lunghi. E quindi aggressività , recupero palla («Non voglio aspettare l’errore dell’avversario per farlo»), occupazione degli spazi e soluzioni insolite anche in attacco: vedi l’assist in piena area di Mancini per Celik nel 2-0 all’Udinese.
Serviva un tipo pragmatico come Gasperini per far ritrovare un’anima alla Roma, dove finora sono stati bravi ad ascoltarlo: «La squadra mi segue». La media punti del tecnico è di 2,18, dietro solo al Fabio Capello (2,54) dello scudetto 2001, l’ultimo fuori dall’asse Milano-Torino (fronte Juventus), prima dell’inserimento del Napoli. Qui Luciano Spalletti ha vinto il titolo da allenatore più anziano, può batterlo il tecnico nato a Grugliasco il 26 gennaio 1958 e oggi il più vecchio di tutti in Serie A. E a Bergamo? L’operazione “figlioccio” del Gasp è stata un fallimento totale con Ivan Juric. Ci riprovano con Raffaele Palladino, allievo attento ai tempi del Genoa. Vedremo.
Da cinquant’anni in Italia c’è una parola che ritorna come una domanda inevasa: libertà . Non quella astratta ma la più concreta che esista, la libertà di educare. Era la sfida del Movimento popolare ed era la richiesta di don Luigi Giussani quando diceva «mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare». Quella battaglia non si è mai chiusa davvero ed è stata per decenni una battaglia storica del mondo cattolico, che ha portato sulle spalle il tema quando nessun altro lo considerava centrale per la vita del Paese.
Regione Lombardia raccolse quell’intuizione nel 2000 con il Buono scuola voluto da Roberto Formigoni, oggi diventato Dote scuola. Un altro passaggio decisivo arrivò con la legge 62 del 2000, la legge Berlinguer, che riconobbe come pubblico l’intero sistema scolastico, statale e paritario. Due conquiste importanti, ma non sufficienti. Perché la parità resta incompiuta. Da un lato, lo Stato dichiara che la scuola paritaria è parte del sistema pubblico. Dall’altro, lascia intatto l’ostacolo che impedisce la parità reale, cioè il differenziale economico. E qui bisogna essere chiari: non si tratta di sostenere le scuole dei ricchi. È esattamente il contrario: si tratta di consentire a tutti, a partire dai più poveri, di poter accedere alle scuole migliori. Come ha affermato papa Leone: «L’educazione dei poveri per la fede cristiana non è un favore, ma un dovere»!
Una famiglia che sceglie una scuola statale paga poche decine di euro. La stessa famiglia, se sceglie una paritaria, spende tra 2.500 e 12.000 euro per figlio, con una media tra 6.000 e 8.000. I numeri del Ministero, che rilevano esattamente i costi per lo Stato, danno valori simili: nell’ultimo anno scolastico sono stati 6.737 euro per allievo nella scuola dell’infanzia, 8.520 nella primaria, 6.770 nella secondaria di primo grado, 7.533 nella secondaria di secondo grado. A fronte di 80 miliardi di spesa pubblica annua per l’istruzione, alle paritarie arrivano solo 800 milioni, cioè l’1 per cento. Eppure, gli studenti delle paritarie sono 800 mila su 8 milioni, cioè il 10 per cento. Uno studente su dieci, un contributo pari a un decimo. Una sproporzione evidente.
Le paritarie, oltre a garantire pluralismo educativo, svolgono un ruolo che lo Stato raramente riconosce, perché sollevano la scuola statale da un carico enorme di iscrizioni e costi, offrendo un servizio pubblico reale a fronte di un contributo minimo. Però nelle attuali condizioni circa 200 all’anno sono costrette a chiudere.
Ma ancor prima dei numeri viene il riconoscimento di un diritto, scritto in almeno sei articoli della Costituzione, precisamente gli articoli 3, 30, 31, 33, 34 e 118. L’articolo 3 ordina di rimuovere gli ostacoli economici. L’articolo 30 affida ai genitori il dovere e diritto di educare i figli. L’articolo 31 sostiene economicamente la famiglia. L’articolo 33 riconosce che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato», ma impone un trattamento equipollente agli alunni. L’articolo 34 prevede borse di studio e «altre provvidenze economiche». L’articolo 118 tutela la sussidiarietà . Gli stessi principi compaiono nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, dove ai genitori viene riconosciuta la «priorità nella scelta del genere di istruzione» e il diritto di farlo «secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche».
Perché allora questo diritto non è esigibile? Per una lettura distorta della formula «senza oneri per lo Stato». Nel dibattito alla Costituente l’onorevole Epicarmo Corbino, il liberale che la propose, chiarì che non si voleva escludere il sostegno alle scuole non statali, ma solo evitare un diritto automatico ai fondi pubblici. Giovanni Gronchi temeva giustamente che quella formula potesse diventare un ostacolo alla libertà educativa. Ma gli altri liberali e azionisti, come Tristano Codignola, ricordarono che non vietava affatto interventi futuri e contributi di funzionamento (l’articolo 33 usa il verbo «istituire»).
Il senso autentico non era una chiusura, ma una cornice di responsabilità condivisa. La lettura restrittiva è nata dopo ed è stata spesso funzionale a un’idea di scuola come presidio culturale statale, se non addirittura luogo di indottrinamento ideologico. Non a caso questa posizione è largamente prevalente ancora oggi nella sinistra radicale (forse anche perché il 68% delle scuole paritarie è di matrice cattolica), che la liquida come sottrarre risorse alla scuola statale per darle alle scuole dei ricchi. Noi la pensiamo in modo opposto, vogliamo una scuola pubblica, cioè aperta e fruibile da tutti, ma non di Stato, perché la responsabilità educativa appartiene ai genitori, come dice la Costituzione.
Oggi questa responsabilità pesa ancora di più in un Paese colpito dalla crisi demografica. Meno studenti significa meno futuro, meno capitale umano, meno possibilità di sviluppo.
Per superare la disparità ci sono tre vie. La prima è porre gli stipendi dei docenti paritari a carico dello Stato, soluzione rischiosa perché chi paga orienta anche i contenuti. La seconda è un Buono scuola nazionale, capace di coprire dal venticinque al cinquanta per cento delle rette. L’emendamento presentato in queste ore da Nm e Fi alla Legge di Bilancio, prevede un contributo fino a 1.500 euro annui per chi ha un Isee sotto i 30.000. Molto utile, ma non risolutivo. La terza, la più lineare, è detrarre integralmente le spese scolastiche dal reddito imponibile. Costo massimo stimato 2,7 miliardi. In un Paese che spende 80 miliardi per la scuola e più di 900 miliardi di spesa pubblica complessiva è davvero insostenibile? E se aumentasse la scelta delle paritarie? Se cresce la qualità , migliora tutto il sistema, come accaduto nella sanità lombarda con la legge che ha introdotto competizione virtuosa tra strutture pubbliche e private accreditate.
La questione non è tecnica. È culturale e politica. Riguarda il capitale umano di un Paese che perde studenti, natalità e fiducia. Riguarda un popolo, quello delle paritarie, che si è assopito e ha smesso di rivendicare ciò che gli appartiene. Un diritto non esercitato diventa un diritto sospeso. Non si tratta di chiedere un favore. Si tratta di pretendere ciò che la Costituzione riconosce. Su un tema così decisivo non servono promesse, ma un Governo e un Parlamento disposti a investire un paio di miliardi all’anno sul capitale più prezioso di cui disponiamo. Chi ha investito 160 miliardi nel Super bonus 110 non ci venga a dire che è impossibile.
Le Associazioni firmatarie, in rappresentanza di famiglie, dirigenti, docenti e scuole sono particolarmente soddisfatti nell’apprendere che l’emendamento che propone l’avvio dell’introduzione di un buono scuola nazionale abbia superato il primo filtro del Parlamento e sia entrato tra i 414 considerati prioritari da discutere in aula, una prima gratificazione del grande lavoro svolto nell’ultimo anno teso a far riemergere i dettami della Costituzione che nel combinato disposto degli articoli 3, 30, 31, 33, 34, 118 sancisce che la libertà di scelta educativa è un diritto costituzionale e ad avviare una stagione di aiuti diretti alle famiglie. Ringraziano in particolare i Senatori di FI e di Noi Moderati che hanno creduto, seguito ed ottenuto questo risultato.
Si augurano che anche gli altri partiti di maggioranza, in coerenza con i positivi interventi tenuti sia dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sia dal Ministro Giuseppe Valditara a fine estate si uniscano loro e concretizzino l’approvazione dell’emendamento, a ulteriore potenziamento delle politiche di
sostegno alle famiglie.
Auspicano che i parlamentari della sinistra riformista, quella sinistra che con il compianto Ministro Luigi Berlinguer ha portato all’approvazione della legge di parità 62/2000, superati gli ostacoli ideologici, si uniscano all’approvazione dell’emendamento, memori dell’insegnamento di Luigi Berlinguer che ricordava sempre che la legge di parità è una legge di sinistra perché permette alle famiglie meno abbienti di poter usufruire di servizi che altrimenti sarebbero possibili solo ai ricchi.
L’emendamento è stato presentato in forma ridotta per avere minima incidenza sulla legge di bilancio e chiede una copertura di 20 milioni riferito ai soli dei settori della secondaria di I grado e del primo biennio secondaria di II grado, secondo quanto previsto dall’ articolo 3 della Costituzione.
Ribadiscono a quella parte di opposizione che subito ha reagito nella conosciuta modalità ideologica, che l’intervento richiesto non è un “regalo†alla scuola paritaria, ma uno stanziamento doveroso, nel rispetto degli articoli 3 e 30 della Costituzione, a permettere alle famiglie meno abbienti di esercitare il loro diritto costituzionale.
Seguiremo con attenzione il dibattito in Senato nella speranza che questo raggio di luce sia foriero di una bella giornata in cui finalmente le famiglie meno abbienti, dopo anni di emarginazioni, possano finalmente iniziare ad esercitare i loro diritti.
Le associazioni firmatarie:
Age – Associazione italiana genitori
Non si tocca la famiglia
Aninsei
Ditelo sui tetti
Fiinsei
Nonni 2.0
Comitato politico scolastico non statale
Assonidi
Opera nazionale Montessori
Articolo 26
Confederex
Disal
Faes
Associazione nazionale Famiglie numerose
Sindacato delle famiglie
Associazione italiana maestri cattolici
Generazione famiglia
Moige
«Coniugare esigenze culturali e logiche industriali». Parto dall’ultima riga dell’intervento di Filippo Cavazzoni che ha avviato questo “Substack†(non lo so se si dice così, ma intanto lo ringrazio di non avermi coinvolto in un “podcastâ€). Parto dall’ultima riga di Cavazzoni, dicevo, perché questo qui è o sarebbe l’ABC. L’ABC sin da quando il cinema è nato. E se in Italia torniamo sempre a interrogarci sulle premesse, forse c’è qualcosa di più profondo che non va. Ci sarà un motivo se questa premessa da noi sembra ancora un problema spinoso, una strana alchimia, un matrimonio forzato e infelice: arte e industria costrette a vivere sotto lo stesso tetto, provando per lo più a ignorarsi.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
La vita non ci aspetta,
la vita reclama le sue esigenze,
e ora non si potrà più restare
semi-credenti o semi-ortodossi
come la maggior parte di noi,
ma è necessario raccogliere
tutte le forze dell’anima
in vista di un unico fine:
per servire la Chiesa,
per difendere la Chiesa
e chi lo sa,
forse per il martirio.
Pavel Florenskij 1906
Giunge ancora la voce del detenuto
trecentosessantotto, uno dei
cinquecentonove condannati,
prelevati dal bordo glaciale delle Solovki
una sera brumosa di ottobre,
e destinati alla città di Lenin,
quasi tutti avendo già addosso
la tagliola della morte.
Non si è ancora spenta,
né credo mai si spegnerÃ
la voce che dice,
se qualcuno la raccoglie
per farla circolare ancora,
tra i vivi che sono di qua
e i vivi che hanno passato il confine,
proprio quello dal quale
nullu homo vivente pò skappare.
È una voce che pensa
la voce di Pavel,
classe 1882,
azero di nascita
ma armeno di stirpe,
trapiantato ancora fanciullo
nella terra dell’uomo d’acciaio,
quello dalle dita tozze
come vermi grassi.
Una voce che pensa
e pensando scrive,
poco più che ventenne,
al vescovo Antonij:
Qui non c’è Cristo.
Pensando dentro di sé
questo scrive:
Qui non c’è Cristo.
E parla dei suoi
della sua stessa famiglia,
non conoscerei una famiglia
più perfetta della nostra;
i miei genitori sono caratterizzati
da una grande bontà ,
da una costante disponibilitÃ
ad aiutare gli altri,
assai tolleranti
nei confronti di qualsiasi
convinzione religiosa,
a patto che restasse
pura teoria.
Una famiglia quieta,
tutta dedita a sé stessa,
tutta impegnata
per il bene dei figli:
Decisamente tutte le forze dei genitori
sono sempre state spese per noi,
e tutti i loro pensieri
sono sempre stati rivolti
a come far sì
che noi potessimo avere
la migliore istruzione,
la migliore educazione,
i migliori divertimenti,
e via dicendo.
(…)
Ed ecco,
dopo che tutta la vita
era stata interamente spesa
per fare della famiglia qualcosa di unico,
perché questo era il sogno dei genitori,
dopo che fummo cresciuti,
i genitori videro,
con il più totale sconforto,
che la famiglia si disfava.
Come pare disfarsi il mondo,
le cose del mondo,
e le famiglie del mondo.
La vita stessa del mondo
e delle sue creature.
Non è sufficiente
aver cercato di essere buoni,
o di stare buoni,
in mezzo a quelli che fanno i cattivi,
perché mi interroghi
su ciò che è buono?
Uno solo è buono.
Non basta essere tolleranti
in mezzo a quelli
che tolleranti non sono,
o lo sono fin troppo.
Né aver cercato per i figli
le scuole migliori,
i vestiti più confortevoli,
le case più confortevoli,
abitate da mogli e mariti
entrambi confortevoli,
piene di figli confortevoli,
o cani o gatti o conigli,
tutti quanti confortevoli,
consumando cibi e bevande
confortevoli.
Né è sufficiente non litigare
nel mezzo delle guerre,
per fare di sé un buon esempio
per tutti.
Nella famiglia di Pavel
non c’era guerra:
Non è che ci fossero litigi;
questo proprio non c’era,
semplicemente non c’era unità ,
non c’era nulla che unisse dall’interno;
non c’era una famiglia,
ma un gruppo di persone,
ed era come se ciascuno
facesse per conto suo.
Dentro di me penso:
“Qui non c’è Cristo”.
Come uno che bussa
e non lo si fa entrare;
uno che viene
e nessuno lo accoglie.
Per non avere fastidi,
per non aver grane.
Per non avere altro che sé
e le proprie cose.
Che poi vanno via
e si disfano.
Padre Pavel Florenskij
venne fucilato a dicembre;
l’anno era il 1937,
il giorno era la Festa
dell’Assunta.
Il suo corpo,
dopo la fucilazione,
fu seppellito in una fossa comune,
in qualche posto della Carelia
che nessuno conosce
esattamente.
Ecco il suo testamento,
redatto per tempo
anni prima:
“Vi prego, miei cari,
quando mi seppellirete,
di fare la comunione
in quello stesso giorno,
o se questo proprio
non dovesse essere possibile,
nei giorni immediatamente successivi.
E in genere vi prego
di comunicarvi spesso
dopo la mia morte.
La cosa più importante
che vi chiedo
è di ricordarvi del Signore
e di vivere al suo cospetto.
Con ciò è detto tutto ciò che voglio dirvi,
il resto non sono che dettagli
o cose secondarie,
ma questo non dimenticatelo mai”.
Mentre il vertice sul clima Cop30 si avvia alla conclusione a Belém, nel cuore amazzonico del Brasile, gli attivisti se ne vanno dopo due settimane di foto nella foresta pluviale, proteste e discorsi appassionati sulla necessità di tagliare le emissioni. I partecipanti hanno però evitato la realtà più scomoda: le azioni dei paesi occidentali — Italia compresa — hanno un peso sempre minore sul percorso futuro del riscaldamento globale.
Per decenni i governi occidentali, soprattutto in Europa, hanno dato priorità al taglio della Co2 rispetto alla crescita economica, spendendo trilioni di dollari per convincere i consumatori ad adottare l’auto elettrica e accettare energia eolica e solare più costosa e meno affidabile. Tutti questi sforzi, costosissimi, stanno ottenendo risultati minimi.
Il ritmo globale di decarbonizzazione (misurato come emissioni di Co2 per unità di pil) è rimasto praticamente invariato dagli anni Sessanta, senza alcun cambiamento dopo l’Accordo di Parigi del 2015. Le emissioni mondiali sono aumentate e nel 2024 hanno raggiunto un nuovo record storico. Nonostante ciò, gli attivisti climatici chiedono — in modo del tutto irrealistico — che il mondo quadruplichi il suo tasso di decarbonizzazione.
Perché le emissioni continuano a crescere nonostante Unione Europea e Stati Uniti abbiano speso oltre 700 miliardi di dollari nel 2024 in investimenti “verdiâ€, tra pannelli solari, turbine eoliche, batterie, idrogeno, auto elettriche e reti elettriche? Perché le emissioni del mondo ricco contano sempre meno per il clima del XXI secolo.
Se l’Occidente ha dominato le emissioni nei secoli passati, la quasi totalità delle emissioni future arriverà da Cina, India, Africa, Brasile, Indonesia e molti altri paesi che stanno uscendo dalla povertà . Uno scenario recente mostra che, con le attuali politiche, solo il 13 per cento delle emissioni di Co2 del resto del secolo proverrà dai paesi ricchi dell’Ocse.
La promessa dell’Occidente di arrivare alla neutralità climatica nel 2050 costerà centinaia di trilioni di dollari e servirà a poco. Molto probabilmente, queste politiche sposteranno soltanto la produzione ad alta intensità energetica nel resto del mondo, con un impatto minimo sulle emissioni complessive — esattamente come abbiamo visto nel caso della produzione di batterie per auto elettriche, trasferita in gran parte nell’economia cinese alimentata a carbone.
Se i paesi ricchi cercano di correggere questo effetto introducendo dazi di frontiera sul carbonio, i costi aumenteranno ulteriormente sia per i paesi ricchi sia per quelli poveri, privando questi ultimi della possibilità di crescere grazie alle esportazioni.
Se assumiamo — con un ottimismo quasi irrealistico — che l’Occidente riesca davvero a eliminare tutte le proprie emissioni entro il 2050 senza ulteriori “fughe di carbonioâ€, la riduzione delle emissioni globali per tutto il secolo sarebbe appena dell’8 per cento. L’effetto sulla temperatura globale sarebbe minuscolo, come mostra il modello climatico dell’ONU: entro il 2050 l’Occidente ridurrebbe l’aumento della temperatura globale di appena 0,02 °C. Persino alla fine del secolo, la riduzione sarebbe inferiore a 0,1 °C.

Nonostante questa irrilevanza, i vertici sul clima e gli attivisti continuano a concentrarsi ossessivamente su ciò che dovrebbero fare i paesi ricchi. I manifestanti si incollano alle autostrade in Europa e negli Stati Uniti, ignorando quasi del tutto la Cina e completamente l’India, l’Africa e il resto del mondo.
Non c’è da stupirsi: il loro messaggio di sacrificio non farà molta strada in paesi che vogliono disperatamente uno sviluppo basato sull’energia. Le nazioni più povere non guardano all’Occidente desiderando imitare l’enorme debito climatico della Germania, i blackout “verdi†della Spagna o i prezzi record dell’elettricità nel Regno Unito.
Esiste un approccio molto più economico ed efficace: l’innovazione. Nella storia, l’umanità non ha risolto le grandi sfide imponendo rinunce, ma innovando. Quando negli anni Cinquanta Los Angeles era soffocata dallo smog, non abbiamo vietato le auto: abbiamo inventato il catalizzatore che le ha rese più pulite. Quando negli anni Sessanta una parte del mondo rischiava la fame, non abbiamo imposto di mangiare meno: abbiamo creato colture più produttive.
Ora servono innovazioni simili per l’energia verde — ma il mondo sta quasi ignorando la ricerca. Nel 1980, dopo gli shock petroliferi, i paesi ricchi investivano più di 8 centesimi ogni 100 dollari di PIL nella ricerca energetica. Con il calo dei prezzi del petrolio, gli investimenti sono scesi. Quando le preoccupazioni climatiche sono aumentate, nella corsa a sovvenzionare solare ed eolico inefficaci abbiamo trascurato l’innovazione. Nel 2023 i paesi ricchi investivano ancora meno di 4 centesimi ogni 100 dollari di PIL. In totale, gli investimenti “ricchi†nella ricerca verde ammontano a soli 27 miliardi di dollari — meno del 2 per cento della spesa verde complessiva.
L’Occidente dovrebbe portare questa cifra ad almeno 100 miliardi l’anno. Ciò permetterebbe di puntare su tecnologie potenzialmente rivoluzionarie: reattori nucleari di quarta generazione, piccoli e modulari; produzione di idrogeno verde e processi di purificazione dell’acqua; batterie di nuova generazione; petrolio CO2-free ricavato dalle alghe; cattura della CO2; fusione nucleare; biocarburanti di seconda generazione e migliaia di altre possibilità .
Nessuna di queste tecnologie è oggi efficiente, ma l’innovazione deve solo renderne una — o poche — più conveniente dei combustibili fossili, e il mondo intero adotterà spontaneamente la nuova soluzione. Inoltre, la ricerca costerebbe una frazione minima rispetto alle politiche attuali e agli impegni futuri per lo zero netto: con la R&D verde si può fare molto di più spendendo molto di meno.
Purtroppo, i leader che hanno volato nella foresta pluviale brasiliana per il summit restano fissati con obblighi e sussidi, ignorando la forza della ricerca intelligente. È tempo che l’Occidente riconosca il suo peso ormai limitato e abbandoni le spese inutili per puntare su investimenti tecnologici capaci di produrre risultati reali.