Oggi è Lunedi' 15/09/2025 e sono le ore 20:28:46
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Oggi è Lunedi' 15/09/2025 e sono le ore 20:28:46
Nostro box di vendita su Vinted
Nostro box di vendita su subito.it
Condividi questa pagina
Nostra publicità
Compra su Vinted
Compra su Vinted
Compra su Vinted
#news #tempi.it
Interrogarsi sulla necessità , o possibilità , del conservatorismo nel mondo contemporaneo significa, anzitutto, arrivare a una definizione teorica del termine che sia coerente e completa, ma allo stesso tempo fedele alla sua manifestazione storica. Definire il pensiero conservatore come intimamente legato all’idea di eterno è coerente con ciò che il nome stesso conservatorismo sembra suggerire, ma non corrisponde necessariamente a quella che fu la sua concretizzazione storica. Il riferimento all’azione di conservare fa intuire, in effetti, l’esistenza di un ente stabile, e il fatto stesso che tale ente non sia esplicitato ne lascia intendere la natura universale, a-spaziale e a-temporale, rimarcando dunque la relazione fra questa corrente di pensiero e l’eterno.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Vivo un mondo, quello universitario (soprattutto italiano), nel quale definirsi conservatori equivale a ridurre di molto la densità delle proprie relazioni, sebbene la scelta di operare come semplice economista d’azienda, meglio esperto di organizzazioni, consenta di sfuggire a questa trasparenza rifugiandosi nel tecnico di discipline almeno in parte pratico-normative. Atteso che non sempre è un obiettivo quello di ampliare la densità di chi si frequenta (dipende molto dalle proprie caratteristiche come ricorda argutamente per il conservatorismo Aldo Rustichini), mi sento stimolato dal suo intervento e da quello che commenta Danilo Breschi a esprimere un lato di me che raramente ho lasciato emergere così chiaramente.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Il moshav è una delle strutture simbolo dello Stato di Israele: si tratta di una fattoria agricola individuale, i cui servizi e prodotti sono però gestiti con metodo cooperativo. Ognuno è responsabile della sua terra, ma, contemporaneamente, sa che il suo lavoro servirà al benessere di tutta la comunità . Qui si impara che nessuno può tirarsi indietro e nessuno deve essere lasciato indietro.Â
Sono valori che fanno parte della storia e del sentimento di Dan Eliav, 65 anni, riservista volontario che abita a Sde Nitzan, un moshav nel sud di Israele, nato nel 1973. Si tratta di un piccolo paradiso dove vivono 140 famiglie nel deserto del Negev, a poco più di 7 chilometri dalla Striscia di Gaza. Sde Nitzan è stato attaccato il 7 ottobre dai terroristi. Dan Eliav vive qui con la moglie.Â
Nei primi mesi del 2023, dopo la vittoria alle elezioni di Benjamin Netanyahu e dell’estrema destra, Eliav era stato tra i 40 estensori di un appello ai riservisti – la spina dorsale delle forze di difesa israeliane – in cui li invitava a non prestare più servizio sotto il nuovo governo. Aderirono in 40. Pochi mesi dopo, in seguito alla presentazione della legge che limitava i poteri della magistratura sottomettendola al governo, altri 300 riservisti firmarono la lettera.
Ora quel manifesto sta circolando tra i sessantamila israeliani che vengono richiamati nell’esercito in vista dell’annunciata offensiva contro le brigate di Hamas asserragliate a Gaza City con gli ostaggi. Un’offensiva che i vertici dell’esercito hanno definito inutile e pericolosa per la vita sia dei soldati sia degli ostaggi, che farà migliaia di morti tra i gazawi e rischia di isolare Israele a livello internazionale.
Tutto questo Dan Eliav lo aveva scritto pubblicamente prima del 7 ottobre, eppure, dopo il massacro perpetrato dai terroristi di Hamas, ha chiesto di essere arruolato nell’esercito, pur avendo, nel 2023, già compiuto 63 anni e quindi, teoricamente, risultando esentato dal servizio militare nella riserva. Ora ha ripreso la sua battaglia perché Israele si fermi e i riservisti rifiutino la chiamata alle armi. Un’apparente, ma solo apparente, contraddizione. Il perché lo spiega in questa intervista a Tempi, pur sapendo di rischiare di essere processato e condannato ad un anno di carcere. Bollato come traditore.
«Dopo gli ultimi avvenimenti – ci dice – la situazione sta precipitando. Temo nuove reazioni sui fronti esterni, attentati nel paese, scontri violenti in Cisgiordania e, soprattutto, combattimenti ancora più intensi a Gaza. Siamo in una situazione estrema con un esponenziale incremento del rischio. Ovunque. Esistono pericoli maggiori di quelli cui eravamo quasi abituati. Quello che accade sta distruggendo ogni speranza di pace. Guardate il comportamento dei settlers, i coloni insediati nel West Bank: da anni assistiamo ogni giorno ad atti vandalici. Tutto è esasperato oltre ogni aspettativa. Da una parte come dall’altra vincono gli estremismi, sempre più radicali. Non c’è spazio per il dialogo. I coloni attaccano le case, uccidono il bestiame, a volte sparano. E l’esercito non fa nulla per fermarli. È la nuova “normalità ”. Sappiamo invece molto poco di quello che accade a Gaza. Abbiamo i rapporti ufficiali dell’esercito e i bollettini di Hamas. Qualcosa sappiamo dai soldati che tornano dal fronte: città rase al suolo, spari contro la folla. Una sorta di routine, accade ogni giorno e il rischio è di abituarsi a tutto questo».
Chiediamo a Eliav perché, pur potendo evitarlo, si è arruolato volontariamente dopo il 7 ottobre. Cosa l’ha spinto a farlo? E ora perché è convinto che bisogna fermare la guerra tanto da chiedere ai riservisti di non rispondere alla chiamata dell’esercito? «Ognuno – risponde – ha avuto una personale esperienza e una personale evoluzione: negli ultimi due anni ho visto crescere in me un sentimento che era iniziato molto tempo prima. Io avevo già preso parte a manifestazioni contro Netanyahu: nel 2017 per i casi di corruzione nel governo e nel 2023 per la riforma della giustizia. Eravamo centinaia di migliaia di persone in piazza e molti riservisti hanno iniziato a dire: non vogliamo combattere sotto una dittatura, l’esercito di Israele è un esercito di difesa per preservare l’esistenza dello Stato ebraico e dei valori su cui è stato fondato».
Dice ancora Eliav: «Una dittatura o un dittatore sono contro le leggi del paese e i riservisti non vogliono prestare servizio sotto un dittatore. Io non sono più nella riserva perché ho superato l’età per essere in servizio, ma mi identifico nel messaggio di quanti rifiutano questa guerra perché se cambi le leggi fondamentali del paese non sei più una democrazia e non mi avrai al tuo servizio. Pochi mesi dopo l’inizio della protesta contro la riforma della giustizia ci fu la mattanza del 7 ottobre e la prima urgenza fu battersi per la sopravvivenza di Israele: dovevamo difendere la nostra patria, le nostre famiglie, le nostre case. Per questo ho chiesto di tornare volontariamente in servizio. I segnali che la violenza non si sarebbe fermata erano chiari: altri attacchi minacciavano il paese. Tutti hanno capito che era il momento di difendere l’esistenza del paese».
Ma, prosegue Eliav, sei mesi dopo le cose erano cambiate: «L’Idf aveva il controllo della situazione, l’esistenza di Israele non era più in pericolo. La priorità era diventata la salvezza degli ostaggi. Sebben la Striscia di Gaza non costituisse più una minaccia, l’attività dell’esercito si era trasformata da difensiva in offensiva: un attacco condotto per vendetta e per interesse del primo ministro e dei suoi partner di estrema destra. Vogliono fare a Gaza quello che hanno fatto in Giudea e Samaria. È la loro agenda».
Eliav è fermo nell’esprimere le proprie convinzioni: «Io voglio essere al servizio della difesa di Israele, non servire l’interesse dell’estrema destra alleata di Netanyahu; per questo ho firmato la lettera. L’esercito ha cercato di tacitare la mia e altre voci come la mia. Il comando del Fronte di Gaza mi ha chiesto di ritirare la firma altrimenti sarei stato sospeso dal servizio. Mi sono scusato di aver messo i miei comandanti in questa situazione, obbligandoli ad espellermi, ma non ho voluto ritirare la mia firma perché penso che questa sia la cosa giusta da fare per un soldato: difendere la patria e i suoi valori».
Eliav si definisce un sionista che vuole difendere i valori del sionismo. Ma quali sono questi valori? «Sono quelli contenuti nella dichiarazione di indipendenza che dice che Israele sarà la dimora degli ebrei perché si basa sulla dichiarazione universale dei diritti umani. In Israele tutti devono essere considerati uguali, a prescindere dal loro credo religioso. Certo, gli ebrei hanno in quanto tali diritto di cittadinanza, ma qui ogni cittadino ha gli stessi diritti e gli stessi doveri. Di fronte alla legge siamo tutti uguali. È il valore che sta alla base di ogni democrazia. Unico benefico per ebrei è la legge del ritorno, il diritto ad essere cittadini di Israele».
Dan Eliav non si definisce «un attivista a tempo pieno». È impegnato nel mondo dell’hi-tech e nella sua fattoria, «ma io e mia moglie abbiamo partecipato a diverse iniziative per costruire la possibilità  di vivere insieme con arabi israeliani e palestinesi». Eliav racconta di incontri e tavole rotonde, «un lungo processo che ora rischia di essere distrutto dall’odio, dal rancore, dalla diffidenza, dal sospetto, dalla paura. Ci vorrà ben più di una generazione, almeno tre generazioni ammesso che si fermi la guerra, per poter ricostruire le possibilità di una vera pace. Ma noi dobbiamo ricominciare ora, è un lungo lavoro che forse completeranno i nostri nipoti».
In questo periodo Eliav è impegnato «nella creazione di piccoli gruppi di incontro e di dialogo, di sostegno morale, e non solo, per chi è stato colpito dalla guerra. L’intento è che questi gruppi si allarghino, creando le condizioni perché si possa vivere in pace uno accanto all’altro. Si comincia combattendo per i diritti dei nostri vicini, che hanno gli stessi nostri diritti. C’è molto da fare ed è molto difficile: a volte prevale l’ottimismo, ma a volte sono così scoraggiato… È difficile far capire quanto questo sia importante per l’esistenza stessa di Israele. Conosco la sofferenza di tanti amici arabi. E conosco l’orrore del terrorismo».
Negli ultimi cinquant’anni gli ambientalisti hanno lanciato innumerevoli profezie catastrofiste. Quelle previsioni estreme si sono rivelate tutte sbagliate; le contromisure drastiche proposte si sono dimostrate per lo più fuorvianti, e dobbiamo essere grati di non averle seguite. È bene ricordarsene oggi, mentre veniamo quotidianamente bombardati da racconti sull’“Armageddon climaticoâ€.
Ma le politiche ambientali davvero efficaci, quelle che hanno migliorato la vita, negli ultimi decenni non sono state promosse con la paura. I paesi ricchi hanno ridotto drasticamente l’inquinamento dell’aria e delle acque grazie alla tecnologia prima e a norme intelligenti poi. I paesi più poveri stanno iniziando a fare lo stesso man mano che escono dalla miseria e possono permettersi di preoccuparsi dell’ambiente. Le foreste, nel complesso, sono aumentate: prima nei paesi sviluppati e ora sempre più anche nel resto del mondo. Non è affatto lo scenario apocalittico che ci era stato promesso.
Un recente studio peer-reviewed ha contato quasi cento previsioni di fine del mondo formulate da ambientalisti negli ultimi cinquant’anni: due terzi annunciavano la catastrofe entro l’agosto 2025. Tutte smentite dai fatti.
Il primo allarme mediatico fu il libro The Population Bomb del 1968, secondo cui la crescita demografica fuori controllo avrebbe imposto sterilizzazioni di massa. L’autore sosteneva che, dato l’inevitabile sterminio per fame di centinaia di milioni di persone, non avesse più senso inviare aiuti alimentari a paesi come l’India. Fortunatamente, il mondo ignorò quei consigli misantropi e immorali. Al contrario, la Rivoluzione Verde guidata dagli scienziati aumentò enormemente i raccolti, nutrendo miliardi di persone. Oggi l’India è il primo esportatore mondiale di riso.
Nel 1972 il rapporto Limits to Growth preconizzava scarsità di cibo e inquinamento tali da portare al collasso globale. Time profetizzava che a Los Angeles sarebbero rimasti pochi superstiti smunti a coltivare aiuole spartitraffico. Doveva finire tutto: dall’alluminio al ferro, dal petrolio al cibo.
In quello stesso clima si svolse il primo vertice ambientale dell’ONU, nel 1972, quando il presidente Maurice Strong avvertì che il mondo aveva solo dieci anni per evitare la catastrofe. Diventato direttore del neonato Programma ONU per l’Ambiente, insistette sul fatto che la fine fosse “molto probabile†a meno di fermare la crescita economica. Anche in questo caso, ignorammo i consigli. Grazie alla crescita, oggi più di tre miliardi di persone — il 41% della popolazione mondiale — non vivono più in povertà estrema.
Le previsioni sull’esaurimento delle risorse si sono rivelate clamorosamente false. Non abbiamo razionato le ultime gocce di petrolio: l’innovazione ci ha permesso di aumentare enormemente l’offerta abbassando i costi. Nel 1980, si calcolava che ci sarebbe stato petrolio per trent’anni ai livelli di consumo di allora. Da allora ne abbiamo usato tutto e un 80% in più, eppure grazie alle nuove tecnologie oggi abbiamo riserve per circa cinquant’anni ai livelli attuali, molto più alti.
Gli allarmismi semplicistici degli anni Settanta hanno segnato il dibattito per decenni, e si ripresentano oggi nel catastrofismo climatico, che ripropone gli stessi spauracchi — scarsità di cibo, disastri naturali — per giustificare politiche costose e poco efficienti. Il cambiamento climatico è reale, ma anche qui le paure vengono gonfiate.
Per il cibo, lo dimostra uno degli studi più citati pubblicato su Nature: senza cambiamenti climatici, nel 2050 produrremmo il 51% di calorie in più rispetto al 2010. Con uno scenario climatico persino peggiore del previsto, la crescita sarebbe comunque del 49%. Un problema, non una catastrofe.
Quanto ai disastri naturali, i dati parlano chiaro: i morti per alluvioni, siccità , tempeste e incendi si sono ridotti del 98 per cento in un secolo, da mezzo milione all’anno negli anni Venti a meno di 9 mila l’anno nell’ultimo decennio. E i danni economici legati al clima, misurati in percentuale del Pil come raccomanda l’Onu, diminuiscono dal 1990, non aumentano.
Colpisce notare che le soluzioni proposte dai catastrofisti siano sempre le stesse: pentirsi e rinunciare al progresso. Dagli atenei occidentali arrivano appelli alla “decrescitaâ€, proprio mentre la stragrande maggioranza del mondo ha bisogno di crescita economica per uscire dalla miseria.
Questo allarmismo climatico è ormai entrato nelle politiche ufficiali: quasi tutti i paesi ricchi hanno adottato l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050. Ma le migliori stime accademiche dicono che i costi superano i benefici con un rapporto di 7 a 1, e che per raggiungere quell’obiettivo servirebbero 27mila miliardi di dollari l’anno: semplicemente insostenibile.
La vera lezione dell’economia del clima è che il modo più efficace ed economico per affrontare il problema è investire massicciamente in ricerca e sviluppo sulle energie a basse emissioni. L’innovazione tecnologica potrà rendere le fonti verdi più convenienti dei combustibili fossili. Non più solo i paesi ricchi che pagano per sentirsi virtuosi, ma il mondo intero potrà adottare energia pulita perché più economica.
Come in passato dobbiamo essere grati di non aver seguito i profeti di sventura, così oggi dobbiamo riconoscere che il nuovo catastrofismo climatico non è solo infondato: è anche inutile.
Il tribunale civile di Parma ha deciso che un ginecologo deve pagare 350 mila euro perché un bambino è nato senza gambe. Il medico non ha saputo leggere le ecografie che rivelavano la malformazione: il giudice lo ha condannato per avere impedito alla madre di esercitare il suo diritto a scegliere.
«Con elevata probabilità la donna avrebbe abortito se avesse avuto tempestiva notizia della malformazione del feto», si legge nell’ordinanza. Durante la gravidanza la donna si è sottoposta a diversi esami non solo dal ginecologo privato ma anche presso il consultorio dell’Ausl e in ospedale ed è «pacifico e documentato che nessuno dei medici coinvolti nella vicenda avesse rilevato prima della nascita del bambino l’esistenza della malformazione». Tuttavia il giudice Cristina Ferrari ha individuato come unico responsabile il primo specialista e non i sanitari del pubblico, condannandolo per l’errore diagnostico e per aver «privato la donna del suo diritto di decidere».
I giornali si sono gettati sul caso: prima cronaca giudiziaria, poi manifesto sul “diritto all’abortoâ€. «Il provvedimento del Tribunale di Parma tocca uno dei nodi più delicati del dibattito bioetico contemporaneo: il diritto della donna a decidere consapevolmente del proseguimento della gravidanza» (Adnkronos). «Il danno, spiegano i giudici, non si limita alla nascita di un figlio affetto da una grave disabilità , ma investe anche un piano più profondo, quello della libertà di scelta» (Fanpage). È la gerarchia dei piani: al vertice, l’autodeterminazione; in fondo, quasi invisibile, la realtà ostinata di un bambino che oggi ha dieci anni. E che tecnicamente, nei termini coerenti alle cronache dei giornali che lo vedono soggetto al diritto di aborto, andrebbe definito “nascita indesiderataâ€.
Gli avvocati hanno percorso tutte le voci di danno: biologico, psichico, esistenziale, familiare. E certo, la fatica dei genitori è innegabile. «Lo choc al momento del parto», «non essersi potuti preparare emotivamente», «La mancata diagnosi della malformazione del feto durante la gravidanza e la sua scoperta al momento della nascita del bimbo ha drammaticamente fatto andare in pezzi l’immagine che la donna sia era creata e sognata nei nove mesi precedenti», scrive la giudice. Ma se restiamo solo nel registro del diritto e del risarcimento, occultiamo l’essenziale: che la libertà mancata non ha cancellato la vita. Ed è con questa che noialtri fuori dalle aule dei tribunali, che scriviamo, commentiamo, giudichiamo la vicenda da giorni, dovremmo confrontarci. Quando la “normalità †viene meno è facile rintanarsi nei termini del “diritto negatoâ€. Ma non può bastare il risarcimento per colmare lo scarto tra ciò che ci promette la certezza dei diritti, delle scelte, delle tutele e ciò che rimane, un bambino senza gambe.
Lo disse anni fa a Tempi il ginecologo Michele Vignali quando già il caso di Parma era diventato mediatico: «Non esistono medico, medicina o diritto che ci tutelino dalla vita. Un intervento può non riuscire, un esame può fallire, un bambino può nascere senza gambe. Negarlo è opporre un modello astratto, come astratto è immaginare il bambino perfetto». La realtà eccede i codici, e spesso li ridicolizza.
Lo testimoniano ogni giorno le famiglie della Mongolfiera: il racconto del “corpo a corpo” quotidiano con i loro realissimi figli disabili che fanno a pezzi quelli immaginati durante la gravidanza (documentando che ogni vita, anche quella più fragile, è un imprevisto e un miracolo in atto), resta il migliore editoriale sulla vicenda. Tuttavia qualcosa bisogna aggiungere.
Non è la prima volta che quel medico finisce in tribunale. Già nel 2013 era stato condannato per omissioni in un caso analogo: una bambina nata nel 2003 con una gravissima patologia e morta a quattro anni. Oggi la nuova sentenza riconosce il danno e ribadisce la responsabilità esclusiva del medico, sottolineando lo stravolgimento dell’esistenza di un’altra famiglia, con una primogenita di sei anni che chiedeva già attenzioni e cure.
Ma il punto resta: il “dannoâ€, secondo il tribunale ma soprattutto per i giornali, non è il difetto di un arto, non è l’errore diagnostico in sé, ma la perdita della possibilità di decidere. Così la vita si trasforma in voce di bilancio, in clausola risarcitoria. È qui che la giustizia si inceppa: non sul piano tecnico, ma sul piano simbolico. Perché il bambino non è una condizione contrattuale, o causa di indennizzo, è un soggetto che ci sfida col suo esserci e la sua disabilità .
La Cassazione, più volte investita del tema, ha chiarito che il cosiddetto “danno da nascita indesiderata†non può mai riguardare la persona del figlio: non esiste un “diritto a non nascereâ€. Eventuali risarcimenti spettano solo ai genitori, per le conseguenze sulla loro vita e per la perdita della possibilità di scelta, non certo al bambino, non essendo, il fatto di essere venuto alla luce, giuridicamente qualificabile come danno. È un limite di civiltà , un argine: dire che la vita, anche fragile, non è mai di per sé un torto.
Ed è qui che il caso di Parma interroga tutti. I diritti servono, eccome. Ma quando diventano l’unico linguaggio possibile, se si dimentica la carne e la fragilità , allora si rovesciano nel loro contrario: anestesia, finzione, gabbia. L’unico vero scandalo, quello insopportabile per una società che ha fatto del diritto l’orizzonte assoluto, è che non esistono ecografie che ci proteggano dalla fragilità dell’essere o dall’errore medico. Non esistono codici civili che possano trasformare in danno ciò che è vita. Non esistono parole di tribunale capaci di restituire a un figlio disabile la sua dignità , se lo trattiamo alla stregua di un “oggetto di scelta mancataâ€.