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#news #tempi.it
Tra le interviste di questa settimana da ritagliare e conservare in archivio c’è quella rilasciata da Eva Kaili alla Stampa del 4 dicembre. Eva Kaili è l’ex vicepresidente dell’Europarlamento arrestata e finita in cella il 9 dicembre 2022 per l’inchiesta “Qatargate” che, per qualche settimana, fu presentata sui giornali come una sorta di Mani Pulite europea. Come quella italiana, la Tangentopoli europea aveva il suo Di Pietro (il giudice Michel Claise), i suoi titoli roboanti sui giornali, le accuse al “sistema”, la destra forcaiola, la sinistra più forcaiola della destra (Kaili, bella presenza, era l’astro nascente dei socialisti greci), le sue trame, le sue valigie piene di denaro.
Passati tre anni da quel polverone, cosa è rimasto? Poco o nulla. Michel Claise, che ai tempi dell’indagine auspicava «una Greta Thunberg per il risanamento economico», si è dovuto dimettere per un clamoroso caso di conflitto di interesse riguardante il figlio (socio di un’eurodeputata sfiorata dall’inchiesta), si è candidato in Belgio in un partito di centrosinistra, ha raccolto solo 6.739 preferenze ed è stato trombato. Il Qatargate è finito nel dimenticatoio anche se, formalmente, l’inchiesta è ancora in corso.
Appunto. Questo è uno dei tanti aspetti stravaganti del caso. Alla Stampa, Kaili ha raccontato che «in cella mi lasciarono al freddo senza coperte, mi tolsero un cappotto, un modo per costringermi a collaborare. Ma non avevo niente da dire». Rimase in carcere due giorni, luce sempre accesa, non le diedero nemmeno gli assorbenti di cui aveva bisogno. Non poté vedere la figlia per un mese.
Ad oggi, spiega, «ho ancora un accesso parziale al fascicolo. Questo evidenzia problemi più ampi: opacità , ritardi, squilibrio e un sistema che continua a operare nonostante tutte le figure giudiziarie abbiano abbandonato le indagini o siano state addirittura arrestate e incriminate, come nel caso del capo della polizia giudiziaria, accusato di aver violato il segreto istruttorio e la presunzione d’innocenza».
L’inchiesta che le ha rovinato la vita è stato «un caso-trofeo in cui i titoli sui giornali hanno preceduto i fatti. Anche se la verità li contraddiceva». I suoi colleghi parlamentari di sinistra si sono dimostrati dei pavidi («il gruppo S&D mostra sensibilità solo quando è politicamente conveniente, sia in Grecia che al Parlamento») e l’unica politica che ha avuto il coraggio di andare a trovarla in cella è stata la berlusconiana Deborah Bergamini.

«L’Unione Europea non può più tollerare un sistema che prende di mira, isola e distrugge figure politiche prima ancora che i fatti siano accertati», dice ancora Kaili nell’intervista.
Come non essere d’accordo? È per questo che anche con il recente caso che ha coinvolto, tra gli altri, Federica Mogherini, ex alto rappresentante per la politica estera Ue, ex ministra degli Esteri nel governo Renzi, e l’ex ambasciatore Stefano Sannino, occorre andarci cauti. Sono accusati «di aver utilizzato in modo improprio fondi europei per finanziare le attività del Collegio d’Europa tra il 2021 e il 2022», ma Mogherini, dopo un lungo interrogatorio, è stata rilasciata senza condizioni.
Prima di ipotizzare, come faceva ad esempio venerdì Repubblica, possibili complotti orchestrati da «manine russe», forse basterebbe illustrare, come ha fatto Stefano Zurlo sul Giornale, il funzionamento del sistema giudiziario belga:
«In Italia siamo messi male, ma in Belgio è pure peggio. La figura chiave è quella del giudice istruttore che rimanda al sistema inquisitorio, quello che c’era anche in Italia fino al 1989, ma poi abbiamo virato e abbiamo introdotto il nuovo codice di procedura penale, alla Perry Mason, che mette sullo stesso piano accusa e difesa. Ora contiamo di completare quella rivoluzione con la separazione delle carriere. In Belgio, vetrina sull’Europa e cuore della Ue, siamo all’inquisitorio al quadrato. Si può essere sentiti anche senza difensore, come scelse di fare Panzeri, e l’altra sera Mogherini e Sannino sono stati ascoltati, con l’aiuto dei loro legali, da alcuni poliziotti, non dai magistrati».
Capite dunque anche voi che l’intervista a Kaili è da ritagliare e conservare nel cassetto, soprattutto per la sua ultima dichiarazione:
«L’Europa deve correggere questi metodi, che permettono alla giustizia di essere dettata dai titoli di giornale e da narrative geopolitiche. Se non sarà in grado di farlo, le sue istituzioni dovrebbero trasferirsi in Italia, dove il garantismo esiste ancora».
Con un sorriso rispondiamo: sì, certo. Noi magari aspetteremmo l’esito del referendum prima di preparare gli scatoloni.
A Varese c’è una gioielleria che resiste come certe parole che non cambiano accento. Ci passo davanti in un pomeriggio in cui non cerco niente, forse me stesso, forse un varco per respirare. Fumo davanti ad un grande negozio commerciale, confuso tra gli uomini che aspettano qualcuno, mentre io sono lì a non aspettare nessuno. Eppure, è proprio lì che qualcuno arriva. Un ragazzo. Mi chiede una sigaretta. Gliela porgo. E capisco che mi ha scelto. Perché? Forse perché porto addosso un certo grigio, un’eleganza storta, un’aria da uomo che cammina su un crinale invisibile. Borderline. Lo capiscono subito quelli che vivono di margine. È un riconoscersi senza parlarsi.
Mi racconta la sua vita con una lucidità che ferisce: Sert, carcere, una famiglia persa, e un talento che chiama magia, l’arte del furto. Nessuna vanteria, solo la consapevolezza di chi ha imparato a muoversi nel mondo di traverso. Mi spiega la regola dei tre minuti, l’obbligo di essere pulito, anonimo, invisibile. Io ascolto senza indietreggiare. E in questo c’è già qualcosa di me che lui ha visto. La capacità di stare nel posto sbagliato senza andarmene.
Mi chiede se voglio “stare con lui†quel pomeriggio. Gli dico che non ruberò nulla, che non accetterò nulla di rubato, che un buon cittadino non chiude gli occhi e non partecipa, ma non ha nemmeno paura di ascoltare. Io mantengo fede ad un principio semplice: non si aiuta chi sbaglia a sbagliare, ma non si abbandona chi è già caduto.
Lui annuisce. Entra solo nei grandi negozi, quelli che non soffrono un colpo di vento. Io lo guardo da lontano. Nessuna complicità . Solo presenza. Esce come era entrato, con il passo leggero di chi ha preso troppo poco e perso troppo. Poi mi affida una borsa piena. Gli dico che non la terrò. Che la riporterò ai proprietari. E lui accetta. Non perché non gli importi della refurtiva, ma perché per la prima volta qualcuno gli offre un gesto pulito senza giudizio.
Alla stazione mi guarda come si guarda un varco. «Che cosa faccio adesso?» Non è la domanda di un ladro. È la domanda di un uomo. Gli dico: «Ricomincia. Usa quello che hai. Intelligenza, talento, precisione. Ma cambia direzione. Non devi diventare un altro. Devi diventare te quando sarai stanco di sparire». È un consiglio di uno sconosciuto incontrato a Varese, lo so. Ma a volte la realtà si muove a partire da parole minime, dette nel posto giusto.
Mi abbraccia. Trenta secondi Un’eternità . E sussurra: «Io sono una brava persona. Non ho mai fatto del male a nessuno. Solo a me». La frase resta lì, sospesa, come un’autobiografia intera.
Quando il treno riparte, io torno sui miei passi e restituisco la borsa, una cosa alla volta. Nessuno fa domande. Nessuno immagina la storia che c’è dietro. Guardo la vetrina della gioielleria antica. Resiste. Forse per questo ci ero passato.
Guidando verso casa penso che quel ragazzo finirà ancora in carcere, o forse no. Forse ricorderà la frase di un anonimo incontrato a Varese. Forse avrà capito che anche chi vive ai margini merita un testimone, qualcuno che non scappa. Io non so che ne sarà di lui. Ma so perché mi aveva scelto. Si era accorto che porto addosso le stesse domande che portava lui. Come si fa a stare in bilico tra la luce che cerchiamo e l’ombra che ci segue? Forse semplicemente, per un pomeriggio, abbiamo riconosciuto che nessuno si salva da solo.
Prendete uno sport relativamente giovane (il Comitato olimpico internazionale lo ha riconosciuto ufficialmente nel 1954), quindi trasformatelo anno dopo anno, rendendolo di nicchia e di successo al tempo stesso. È il biathlon, che nel 1924 è presente ai primi Giochi invernali di Chamonix come disciplina dimostrativa e con un nome quantomai esplicativo: pattuglia militare. Perché queste sono le origini, soldati che controllavano i confini sugli sci da fondo e imbracciavano il fucile per difenderlo. Vinse la Svizzera, davanti a Finlandia e Francia.
Oggi il biathlon abbina capacità atletiche, abilità al tiro e scaltrezza tattica. Perché, al di là delle distanze previste per le gare, tutto si decide al poligono, dove occorre centrare con l’arma un bersaglio lontano 50 metri. Parliamo di un dischetto dal diametro di 4 centimetri e mezzo, quando si spara da sdraiati, e di 11 e mezzo, quando si rimane in piedi: per dare un’idea, si trova nella porta di calcio e voi dovete colpirlo da centrocampo… Occorre arrivare nella piazzola, recuperare la respirazione senza pensare ai muscoli delle gambe già affaticati e mettere pressione sugli avversari di fianco, sia che siate preda o cacciatore.
Un mix che, spesso, può essere micidiale quando si va forte sugli sci senza però saper dominare le emozioni al tiro. Tantissime gare sono state decise dall’ultima serie di cinque colpi. È uno dei motivi, ma non l’unico, per cui il biathlon sta sorpassando il fondo nella passione degli sportivi. L’altro è rappresentato dalla continua evoluzione dei format, che rendono le competizioni sempre entusiasmanti. I poligoni sono stracolmi di tifosi colorati e rumorosi, che scandiscono il tempo di chi spara. E, per dare un’idea, le staffette nella prima tappa di Ostersund, in Svezia, sono state viste in Germania sul primo canale della Ard da una media di 3 milioni di persone.

In Italia c’è una capitale privilegiata del biathlon. Un santuario degli sport invernali come la Gran Risa dolomitica nello slalom gigante, la Streif di Kitzbuhel nella discesa libera o il trampolino di Holmenkollen nel salto con gli sci. È Anterselva, località di nemmeno 3.000 abitanti nella omonima valle altoatesina. Qui, a inizio anni Settanta, la passione di Paul Zingerle porta la Nazionale ad allenarsi. Quindi le prime gare e il primo campionato del mondo nel 1975. L’impianto è oggi una tappa immancabile di ogni appuntamento e, ovviamente, dall’8 al 21 febbraio ospiterà le gare di Milano-Cortina 2026.
Dal biathlon l’Italia si attende un buon contributo in termini di medaglie. Nel debutto in Svezia è tornata a vincere – e non le accadeva dal 12 marzo 2023 – Dorothea Wierer, la figlia più illustre di Anterselva. Lo ha fatto nella 15 chilometri individuale sulla pista che ama di più (sei successi, a cominciare dal 2015) e lo ha fatto a oltre 35 anni, quarta atleta più anziana di sempre a cogliere un successo in Coppa del mondo. È stato un primo posto inaspettato, costruito poligono su poligono e grazie anche ai materiali – sempre decisivi nello sci – che le hanno consentito di battere di appena tre decimi la finlandese Sonja Leinamo, di dodici anni più giovane.

Ma non c’è solo Wierer. La tappa di Ostersund ha ritrovato una protagonista come Lisa Vittozzi, assente per tutta la stagione 2025 in cui non ha potuto difendere, causa un serio problema alla schiena, il titolo in classifica generale vinto nel 2024. E con loro, in campo maschile, hanno confermato le proprie qualità Tommaso Giacomel e Lukas Hofer: non sono solo possibili protagonisti nell’individuale, con Wierer e Vittozzi formano una delle staffette miste da battere. È la gara che, l’8 febbraio, aprirà l’atteso calendario dell’Anterselva Biathlon Arena.
A fine novembre, durante l’assemblea nazionale di Noi Moderati intitolata “La forza della responsabilità â€, è stata presentata l’edizione aggiornata al 2025 della ricerca di Noto Sondaggi sul mondo dei moderati in Italia. Non è un dettaglio tecnico. È una fotografia nitida di ciò che si muove sotto la superficie del nostro Paese.
Il primo dato, il più sorprendente, riguarda i numeri. Quasi 20 milioni di cittadini italiani si definiscono moderati. Di questi, solo poco più della metà esercita il voto. La parte restante, oltre 9 milioni di persone, sceglie l’astensione. E questo bacino, già enorme, è perfino cresciuto di 225mila unità rispetto all’anno precedente.
Non è un fenomeno marginale. È il vero snodo della democrazia italiana, perché indica una domanda vasta, diffusa, inespressa.
La stessa indagine rivela che, davanti alla scelta tra più radicalismo e più moderazione, solo il 18% degli elettori vorrebbe più radicalismo, mentre il 60% degli italiani preferisce la seconda opzione. Tra coloro che si definiscono moderati questa percentuale sale all’81%. È come se un’Italia silenziosa continuasse a ripetere che la politica non ha bisogno di esasperazione ma di equilibrio, affidabilità , capacità di tenere insieme concretezza e futuro.
Sono chiari anche i temi considerati decisivi: sanità , lavoro, sicurezza, scuola, famiglia, riforma fiscale. Terreni tipicamente moderati, pragmatici e sociali allo stesso tempo. Eppure, questa domanda così riconoscibile non si traduce in consenso per chi si colloca esplicitamente al centro. Al contrario, molti moderati finiscono per votare partiti che si dichiarano esplicitamente di destra, di sinistra o di protesta.
Perché accade?
Non esiste una risposta semplice. Ma emerge un punto. L’offerta politica attuale non sembra in grado di interpretare la sensibilità e i bisogni di questo enorme corpo elettorale. È come se i moderati scegliessero di stare lontani dalle urne perché disgustati dalla rappresentazione caricaturale della politica, non il suo compito più alto: proporre soluzioni credibili e insieme un’immagine possibile di futuro.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, presente alla kermesse, ha insistito sul significato profondo del titolo, la forza della responsabilità , intesa non come vincolo formale ma come risposta a un mandato ricevuto dai cittadini. Un’idea antica e modernissima, vicina al sentire moderato più di quanto si creda.
Il punto decisivo però sta altrove, nella distanza crescente tra ciò che il mondo moderato chiede e ciò che percepisce. Uno scarto che non si colma con una formula ma con un modo di essere diverso, più fedele alla realtà delle persone. La politica torna a essere attrattiva quando sa tenere insieme ciò che spesso viene separato, quando non rinuncia alla concretezza delle risposte ai problemi e insieme non abbandona la capacità di immaginare, di sognare, di generare speranza per un futuro migliore.
Credibilità e sogno. Sono le due parole che tornano, ma non come un elenco. Stanno insieme, respirano insieme.
La credibilità è il lavoro quotidiano della politica quando smette di recitare e prova a rispondere davvero ai problemi delle famiglie, ai salari bassi, alla fatica di conciliare vita e servizi, al bisogno di un’economia più solida, al sentimento di precarietà che attraversa il Paese. Ogni volta che la scena pubblica si trasforma in spettacolo, l’elettore moderato si ritrae. Cerca serietà , misura, continuità .
Il sogno è il respiro lungo, ciò che permette di vedere un po’ più in là del presente. Le ideologie del Novecento hanno prodotto errori e ferite, ma possedevano una forza, perché facevano intravedere un mondo più desiderabile. Oggi quel movimento si è quasi fermato. Molti vivono ripiegati, come se desiderare fosse diventato inutile o addirittura imprudente.
Eppure, l’uno senza l’altro non regge. La credibilità senza sogno diventa gestione amministrativa. Il sogno senza credibilità e concretezza evapora come fumo. Ai moderati serve una politica capace di stare nei problemi e insieme di offrire un orizzonte. Una politica che non urla, che non irrita, che non esibisce, ma che costruisce.
Perché altrimenti – ed è il vero rischio culturale – si finisce esattamente profeticamente diceva Giorgio Gaber già nel 1992, nella famosa canzone Qualcuno era comunista che si trova facilmente in rete:
«Qualcuno era comunista perché forse era solo una forza, un volo, un sogno… uno slancio, un desiderio di cambiare le cose… Da una parte la personale fatica quotidiana, e dall’altra il senso di appartenere a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo».
Ecco il punto.
Non possiamo permettere che il sogno dei moderati – il sogno di un Paese più giusto, più responsabile, più capace di futuro e di una politica all’altezza della sfida – si rattrappisca allo stesso modo.
La sfida politica dei prossimi anni sta qui. Restituire alla gente credibilità nel presente e un sogno pieno di speranza nel futuro. Solo così quei 9 milioni di moderati silenziosi potranno tornare a credere che la politica non sia solo sopravvivenza quotidiana, ma ancora, finalmente, un volo possibile.
“Ogni ulteriore rinvio di iniziative concrete da parte della Commissione Europea in campo industriale avvicina sempre di più il rischio di deindustrializzazioneâ€. Interviene nuovamente e con fermezza l’assessore allo Sviluppo Economico di Regione Lombardia Guido Guidesi in merito all’ipotesi di nuovo rinvio della presentazione del pacchetto automotive della Commissione Europea.
“Sull’Automotive – ha sottolineato – non solo ci aspettiamo risposte dalla presidente Von der Leyen il prossimo 10 dicembre ma che queste possano incidere realmente sulla salvaguardia del settore; interventi che noi, come Regione Lombardia e Automotive Regions Allance, sollecitiamo da tempo, come l’apertura reale a tutte le tecnologie e quindi anche ai biocarburanti e la revisione dei limiti di CO2 da prevedere anche per i camion e bus”.
“Ricordo che soli pochi giorni fa il più importante costruttore europeo ha annunciato la prima auto prodotta interamente in Cina con il proprio marchio; dalla Commissione arrivano addirittura ipotesi di detariffazione sull’import cinese come se lo spostamento produttivo fosse una strategia di politica industrialeâ€.
“Per quanto concerne invece il settore siderurgico apprendiamo con grande preoccupazione il rinvio di interventi in materia di ETS, fortemente richiamati da tempo dal ‘sistema lombardo’; allo stesso modo non vengono ancora inseriti limiti all’esportazione del ‘rottame ferroso’ che per la nostra siderurgia rappresenta la materia prima”.
“Altro settore sul quale da tempo stiamo sollecitando intreventi da parte della Commiasione é quello della chimica; in questo caso ci attendiamo un’accelerazione del pacchetto a tutela del settore partendo da un intervento strutturale sui costi energetici oltre al cambiamento di un’impostazione regolatoria che ha sostanzialmente limitato il settore quasi da renderlo incompatibile con l’Europaâ€.
“Sono solo alcuni esempi di un’aspettativa che non può essere disattesa perché senza concreti cambiamenti regolatori la desertificazione industriale inizierà a concretizzarsi.
Posticipo e temporeggiamenti ulteriori sono inaccettabili perché tempo non ne abbiamo più, sono a rischio milioni di posti di lavoro e interi comparti”.
Guidesi ha voluto quindi annunciare che “senza interventi da parte della Commissione la Lombardia si farà capo di una protesta in rappresentanza della manifattura: lo faremo a tutela della nostra economia, del lavoro e del futuro dei più giovani”.
«Se Zerocalacare non era già ricco e famoso, a “Più libri più liberi” c’annava pure se c’era Goebbels». Non fa una grinza la battuta di Federico Palmaroli, autore di satira famoso per “Le più belle frasi di Oshoâ€, a commento dell’ennesima e stucchevole polemica di scrittori e sedicenti intellettuali di sinistra contrari alla presenza di una casa editrice accusata di pubblicare autori neofascisti alla fiera della piccola e media editoria in corso a Roma.
Il fumettista romano talmente antagonista da essere diventato mainstream ha cancellato la sua partecipazione alla kermesse – ormai è un vizio – che osa ospitare l’editore Passaggio nel bosco. «Meglio così», dice Palmaroli a Tempi, spiegando che «è un peccato, ma non si possono fare passi indietro», altrimenti si normalizza il fatto che un gruppo di persone decida arbitrariamente chi può partecipare o meno a un evento culturale. «È paradossale che in una manifestazione che si chiama “più liberi†qualcuno voglia impedire a una casa editrice di pagarsi uno stand per vendere libri».
Non è una novità , se qualcuno esprime idee di destra la sinistra reagisce pavlovianamente urlando al pericolo fascismo, «perché questi col fascismo ce magnano, dato che pensano di essere gli unici a poterne parlare. Io credo che a questo clima contribuisca molto il fatto che la destra è al governo: prima un certo pensiero era “tollerato”, ora meno». Con una differenza, fa notare Palmaroli: «L’estrema sinistra, anche quella violenta, è vicina alle posizioni di parte del Campo largo, le organizzazioni di estrema destra non sono amiche del governo, e comunque se scendono in piazza fanno molto meno casino. Onestamente non vedo pericoli fascisti alla fiera romana, soprattutto se si tratta idee espresse nei libri».

Libri di vignette ne ha pubblicati diversi anche lui, e non fa eccezione quest’anno: «Salvo il problema del regalo di Natale con un’idea che fa fine e non impegna», scherza in questi giorni quando parla di “Awanagana” – Cronaca surreale di un mondo reale, da poco uscito per Rai Libri. È la raccolta delle più belle vignette dell’ultimo anno, da settembre 2024 a ottobre 2025, con cui l’autore di satira del Tempo (e ospite fisso alla festa di Tempi a Caorle) fa dire ai protagonisti della politica italiani e mondiali quello che “pensano davveroâ€.

In copertina c’è Donald Trump, e il titolo è un omaggio all’Alberto Sordi di Un americano a Roma. «Trump è senza dubbio il personaggio dell’anno, nel bene e nel male, e dato che io faccio parlare i personaggi in romanesco era inevitabile l’associazione con Albertone. Trump ha fagocitato il dibattito e offre un sacco di spunti di satira, anche se io mi sento orfano di Joe Biden: lui era un personaggio da copertina, uno dei miei preferiti, il suo era un filone comico interessante».
Non si può più contare su Sleepy Joe, ma «per fortuna ha vinto Trump, Kamala Harris non avrebbe dato gli stessi spunti». Dopo i premier italiani, Elly Schlein e il Papa, un leader politico straniero in copertina. «Sì, e sono contento di essere uscito dalla politica nazionale: il governo ormai regala pochi contrasti, il centrosinistra è noioso perché fanno finta di andare d’accordo». Non c’è ciccia, o quasi. «Io poi vivo di quello che i media riportano», sottolinea Palmaroli, «e per mesi hanno parlato solo di Gaza, o dei dazi». Nel libro ci sono molte vignette sui dazi, praticamente nessuna su Gaza. «È complicato fare satira sulle notizie che arrivano da là , si può scherzare magari sulla Flotilla – e l’ho fatto – sul resto no». Più facile farlo sull’Ucraina, dice, «Netanyahu è poco “spendibile†a livello di vignetta», Zelensky e Putin hanno più contesti in cui vengono fotografati.
Sfogliando “Awanagana†tornano in mente episodi e personaggi che sembrano lontanissimi nel tempo – uno di questi è proprio Biden – e altri che Palmaroli vorrebbe tornassero a far parlare di sé: «Una vignetta su Di Maio ci vuole sempre: nessuna sa cosa sta facendo, la stampa lo ignora, il Medio Oriente non se la passa proprio benissimo… Spero torni in Italia a darmi di nuovo soddisfazioni». Ci sono un po’ di vignette su Papa Francesco, protagonista della copertina di un anno fa, solo una su Leone XIV: «Prevost non riesco ancora a inquadrarlo comicamente», dice, «Papa Francesco da subito è stato un papa innovativo, che faceva discutere, per questo satirizzabile. Leone non ha aperto né ai gay né ai trans, non dà ancora spunti. L’unica cosa che si sa è che romanista… potrei prenderlo in giro per questo forse», scherza il laziale Palmaroli.

Dichiaratamente di destra da tempi in cui non era ancora così “di modaâ€, l’autore delle più belle frasi di Osho è apprezzato in modo bipartisan per la sua capacità di sdrammatizzare e far “dire†ai protagonisti della politica cose che non hanno mai detto ma che sembrano più che credibili.
«Vedrai che se la so’ presa perché lo abbiamo rimpatriato in un Paese non sicuro», dice Meloni a Nordio parlando degli attacchi al governo sul caso Al-Masri. «Sì, ma sa che è pe’ quello», risponde il ministro. «Donald scusa, poi me li giri gli accordi di pace? Giusto pe’ curiosità », dice Zelensky al telefono quando Usa e Russia lavorano a un trattato senza coinvolgere Kiev. «Finalmente… non ne potevo più de metteme quaa robaccia de bigiotteria», dice un anonimo monsignore con croce d’oro al collo dopo la morte di papa Francesco.

«Donald, scusa, er pecorino a quanto lo mettemo?», chiede un impiegato del supermercato che fa i prezzi nei giorni in cui Trump annuncia i dazi. «A bello, allora? Come stai? Che se dice?», chiede il presidente Usa incontrando Putin in Alaska. «Se combatte, dai», risponde lo zar. «Venerdì prossimo contro che scioperamo?», chiedono a Landini durante un corteo. «Boh… quarcosa se ‘nventeremo», replica il leader della Cgil, a cui in un’altra vignetta qualcuno chiede un selfie perché «mi moje nun ce crede che ogni venerdì ce sta sciopero». «Oh cazzo, s’è cancellato pure Piero Pelù», dice un preoccupato Elon Musk quando un po’ di “vip†italiani hanno annunciato la loro cancellazione di Twitter in polemica con lui.

Non c’è in “Awanagana†ma merita una citazione la prima delle vignette natalizie di quest’anno, con Giuseppe che, nel presepe, dice a Maria: «Poi damo ‘na pulita a sta grotta che se arivano i servizi sociali ce levano er ragazzino». Predilige la satira politica, Palmaroli, ma quando fa incursioni nella cronaca come nel caso della “famiglia nel bosco†le azzecca sempre: «Alcune vicende sono come una liberazione, come la storia della kiss cam dei Colplay che ha beccato i due amanti: in quei casi mi scateno, e mi piace fare i “crossover†tra storie diverse».

E il 2026 darà soddisfazioni? «Penso di sì: andiamo verso il referendum sulla giustizia, le politiche non sono lontane e la campagna elettorale inizia presto, c’è il tema della leadership del centrosinistra… e ovviamente Trump che impazza». Ma la satira come sta? Bene, dice “Oshoâ€, «il politicamente corretto non è più un limite ma uno spunto per riderne», e soprattutto oggi chi fa satira è difficile da censurare: «Una volta dovevi avere un giornale che ti pubblicasse se volevi farla, oggi hai i social con cui uno sbocco si trova sempre». Parola di chi proprio dai social è partito prima di arrivare in prima pagina. E in libreria.
