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#news #tempi.it
Al grido «compassione, non punizione» i parlamentari del Regno Unito hanno votato per depenalizzare l’aborto dopo le 24 settimane. Aborto a domicilio (leggi: pillole abortive), per qualsiasi motivo e in qualsiasi fase della gravidanza. Anche per ragioni non mediche, anche fino al momento del parto. Grazie a un emendamento al disegno di legge su criminalità e polizia, sostenuto da diversi ministri laburisti, gli operatori sanitari continueranno a essere sanzionati se violano le norme vigenti, ma le donne che praticano l’aborto autonomamente no.
Questo il 16 giugno scorso. Il 20 giugno, sempre al grido «compassione», i parlamentari hanno votato per depenalizzare il suicidio assistito per i malati terminali (morte diagnosticata in sei mesi): potranno chiedere e ottenere il farmaco letale per qualunque motivo, senza che nessuno domandi le ragioni di tale scelta. Nessun tempo di attesa o riflessione: troppo impegnativo domandarsi se quelle persone potrebbero essere aiutate con cure palliative, sostegno sociale o la semplice presenza di un volto amico.
Sulla notizia, celebrata da media e politica come passo di civiltà , ha scritto tutto la filosofa femminista Kathleen Stock in un notevole articolo su UnHerd, ribadendo su X alcuni passaggi che andrebbero mandati a mente. Di che cosa parliamo, quando parliamo di aborti tardivi? Parliamo dell’eliminazione di esseri umani:
«I bambini nel terzo trimestre hanno interessi propri, inequivocabili. Non sono semplici estensioni narcisistiche della madre. Non sono parassiti o invasori. Sono esseri umani. Sono esseri umani dipendenti, e trovo inquietante vedere femministe che parlano del valore della cura e della dipendenza diventare psichicamente disconnesse quando si tratta di riconoscere il valore della vita di un bambino dipendente e vitale solo perché la madre non lo vuole. È di una freddezza spaventosa negare gli interessi di questi bambini semplicemente definendoli fuori dall’esistenza o fingendo che non esistano affatto. Se qualcuno mi dicesse: “Sì, con queste pillole abortive usate a casa per motivi non medici verranno uccisi dei bambini, ma è meno grave del fatto che le madri possano subire un processoâ€, almeno ne apprezzerei l’onestà ».
Per Stock la norma che vieta l’aborto tardivo serve da deterrente, impedisce che le madri uccidano i propri figli ma conviene «dimenticare» che sia così.
«Se la si elimina, i decessi aumenteranno. Mi si dice: “saranno solo pochi casiâ€. E questa sarebbe un’argomentazione? Se non dovrei preoccuparmi di “pochi†bambini morti, perché dovrei invece preoccuparmi di “poche†madri perseguite? […] Inoltre: come potete sapere che saranno solo pochi i bambini che moriranno in futuro?».
Come ha ricordato il parlamentare Jim Shannon, dopo la depenalizzazione in Nuova Zelanda gli aborti oltre le 24 settimane sono cresciuti del 43 per cento nel primo anno. E la crescente accettazione della maternità surrogata dimostra quanto l’asticella si sposti rapidamente: più diventa accettabile, più madri surrogate ci sono in circolazione.
Terzo: se per giustificare la morte di un bambino
«dovete dipingere in modo iperbolico l’unico tipo di donna che ricorrerebbe a un aborto tardivo non medico come “disperata†e totalmente senza colpa, allora state ragionando per motivazione ideologica. Esistono molti tipi di donne al mondo, e agiscono per moltissimi motivi diversi. […] L’idea che questa legge debba essere abrogata per via della possibilità di perseguire ingiustamente delle donne è assurda. E ancora una volta: l’uso di immagini teatrali – tipo “donne che hanno avuto aborti spontanei portate via in furgoni della polizia nel cuore della notte sotto gli occhi dei figli piccoli†– è rivelatore: avete bisogno del melodramma per sostenere l’argomento».
Ma soprattutto per nascondere «il morto»:
«Non ci si può affidare, quando si tratta di aborti tardivi, all’ambiguità metafisica della persona; non quando l’argomento è qualcuno che riconosce la voce di sua madre, si succhia il pollice e ha sogni […] Quindi la strategia preferita è il depistaggio emotivo».
«Compassione» e «libertà » sono le stesse parole-chiave impiegate per sdoganare il suicidio assistito e sopprimere chi avrebbe potuto essere aiutato in altri modi. «Quand’è che i nostri parlamentari hanno fondato un culto della morte? – chiede Stock, unendo i puntini – Un libertarismo insensato sta uccidendo la compassione».
Sull’ossessione di Westminster per la morte merita di essere riletto anche l’editoriale di Brendan O’Neill uscito su Spiked il giorno dell’approvazione del suicidio assistito:
«Tutto il chiacchiericcio tecnico sulle “tutele” ci distrae dalle profonde questioni morali sollevate dal disegno di legge. Sia chiaro: questa legge rappresenterebbe una delle revisioni più drammatiche e distruttive del rapporto tra Stato e individuo che abbiamo mai visto. Da un giorno all’altro ci trasformeremmo da una società che cerca di prevenire il suicidio in una che lo facilita. Il servizio sanitario, un tempo orgogliosamente dedito a salvare vite, sarebbe ora incaricato di porre fine a una vita in determinate circostanze. Il grido ippocratico “Prima di tutto, non nuocere” andrebbe in frantumi, sostituito da un nuovo credo funesto: “Non nuocere, a meno che non siano molto malati, nel qual caso forse ucciderli?”. Questa legge autorizzerebbe i funzionari a sanzionare la morte in determinate circostanze. Sarebbe mortalmente ingenuo ignorare la rivoluzione mortale che ciò rappresenterebbe. Lo Stato passerebbe dall’essere una macchina incaricata di difendere la vita dei suoi cittadini a una che a volte gli fa balenare davanti la prospettiva della morte. La legge trasformerebbe alcuni funzionari in piccoli imperatori della morte, con il potere di dare un pollice in su o in giù alla vita dell’individuo in stile Nerone. Stai bene e sei sano? Non devi morire. Sei molto malato o gravemente disabile? Forse dovresti morire. E forse dovremmo aiutarti».
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Permettere allo Stato di esprimere giudizi così radicali sul valore di una vita significa entrare «in un inferno tecnocratico in cui la vita umana viene privata della sua intrinseca virtù e ridotta a una lista di caratteristiche da spuntare che qualche apparatchik potrebbe poi esaminare attentamente prima di decidere: vale la pena vivere o non vale la pena vivere. Questa legge riorienterebbe le istituzioni della società verso il dare la morte piuttosto che verso il dare la vita».
Perché sulla nascita e la malattia incombe ormai la visione dell’essere umano come “peso†e della vita come potenzialmente “insopportabile†se non addirittura “dannosaâ€, dunque da estinguere. Dandoci «un taglio» a inizio e fine vita, grazie ai «macabri contabili dell’élite tecnocratica».
Entrambe le notizie hanno qualcosa in comune: che si parli di depenalizzazione dell’aborto o del suicidio assistito, a stabilire se una vita meriti di essere vissuta è un elenco di «determinate circostanze» o «caratteristiche». A decidere quando si diventa – o si smette di essere – «qualcuno» è un prontuario col timbro dello Stato: non c’è in questo alcuna compassione, né tantomeno libertà . Durante i lavori della Commissione,
i parlamentari inglesi sono stati redarguiti dai medici australiani sul criterio dei sei mesi di vita per ottenere il suicidio assistito: portatelo a dodici, hanno insistito, molti pazienti superano previsioni fallibili.
Ha ragione, O’Neill. Il chiacchiericcio tecnico su tempi, tutele, scadenze ci distrae dal nocciolo della questione: se questo è un uomo, un bambino, un malato o non è che un peso. Non esiste una via di mezzo. Come sanno benissimo gli “addetti ai lavori” come Ann Furedi, già orgogliosissima ceo del più grande fornitore di servizi abortivi del Regno Unito, il British Pregnancy Advisory:
«Un aborto legale a mezzanotte meno cinque dovrebbe essere considerato un reato alle cinque e mezza? […] Se sei contrario all’aborto, allora sii coerente. Opponiti a ogni tipo di aborto. Un embrione di tre settimane non è meno umano di un feto di 30 settimane. Un aborto legale non è certamente moralmente diverso da uno illegale, se credi che un feto in utero non sia diverso da un bambino».
Quanti di noi, oggi adulti (e possibilmente non insegnanti), sanno risolvere una divisione in colonna senza tentennamenti? Quanti ricordano la fatica di trovarsele di fronte, alle elementari, cercare di capirle, provare a risolverle e poi esultare dopo esserci riusciti da soli, solo con l’aiuto della propria intelligenza?
Se fossimo bambini oggi probabilmente apriremmo Google Lens, inquadreremmo l’operazione e riceveremmo la risposta pronta sullo schermo del nostro smartphone. La tecnologia ha reso tutto immediato. E nella misura in cui ci solleva dallo sforzo, ci svuota anche della necessità di pensare. È quello che denuncia Sean Thomas sullo Spectator, raccontando con sarcasmo e una punta di disperazione come abbiamo cominciato a delegare interi quartieri della nostra mente alle macchine: la calcolatrice ha rubato la matematica, il GPS l’orientamento, i suggerimenti musicali il gusto personale, i correttori ortografici la lingua. Ora, con ChatGPT e i suoi fratelli, rischiamo di consegnare all’intelligenza artificiale anche la scrittura, l’argomentazione e — soprattutto — la memoria.
Uno studio recente del MIT Media Lab — intitolato Your Brain on ChatGPT — ha acceso un faro proprio su questo fenomeno. I ricercatori hanno preso 54 studenti e li hanno divisi in tre gruppi: uno doveva scrivere dei saggi con il solo uso del proprio cervello; un secondo poteva consultare Google; un terzo aveva a disposizione ChatGpt. Tutti indossavano un casco EEG per monitorare l’attività cerebrale su 32 regioni. I risultati sono stati eloquenti: chi scriveva senza alcun aiuto mostrava un’intensa attività cerebrale nelle bande alpha, theta e delta — quelle associate a creatività , memoria e pensiero semantico. Il gruppo che usava Google mostrava anch’esso un buon livello di attivazione mentale, mentre chi usava ChatGpt si spegneva: le onde cerebrali erano deboli, scarse, e peggioravano con ogni nuovo compito.
Ma non è tutto. I saggi prodotti con l’ausilio dell’IA erano quasi indistinguibili tra loro: frasi simili, idee prevedibili, tono piatto. Due docenti incaricati di valutarli li hanno definiti “senza animaâ€. E ancora più inquietante: quando è stato chiesto agli studenti di riscrivere, senza ChatGpt, uno dei testi precedentemente composti con l’IA, la maggioranza — tra il 78% e l’83% — non ricordava neanche di cosa avesse parlato. Avevano prodotto un saggio senza assorbirne nulla. Nessuna integrazione nella memoria a lungo termine. Nessun apprendimento.
Il nome scientifico per questa condizione è cognitive offloading, che suona come qualcosa di efficiente: delegare alla macchina i compiti pesanti, come quando si affida il bucato a una lavatrice. Ma se la lavatrice lava i vestiti, l’intelligenza artificiale non fa solo il lavoro: lo fa al posto nostro. E a forza di non usare il cervello, smettiamo di saperlo usare.
Time Magazine, che ha approfondito i dati con una lunga intervista alla ricercatrice Nataliya Kosmyna, parla senza giri di parole di un danno alla formazione delle nuove generazioni. Non solo mentale, ma anche emotivo e psicologico. Più si usa l’Ai, più si diventa passivi, meno motivati, meno capaci di ricordare e risolvere problemi. Secondo Kosmyna, il rischio è che si prenda una decisione affrettata: introdurre ChatGPT fin dall’infanzia, nelle scuole elementari. «Sarebbe disastroso», dice.
Questa realtà è già evidente — anche senza EEG — nei corridoi delle nostre università . Secondo uno studio del portale Planeta Formación, l’89% degli studenti italiani usa regolarmente l’intelligenza artificiale per preparare esami e compiti. Ma solo il 32% dichiara di sentirsi in grado di elaborare in autonomia soluzioni a problemi complessi. Il 65% degli studenti tra i 16 e i 18 anni ammette di usare ChatGPT per fare i compiti, e uno su quattro afferma di utilizzarlo quotidianamente. Non si tratta di una rivoluzione silenziosa, ma di un collasso consapevole.
Solo una minoranza dei docenti ha ricevuto una formazione adeguata sull’uso critico degli strumenti di Ai. E ancora meno sono le scuole che hanno attivato percorsi strutturati per aiutare gli studenti a usarla in modo virtuoso. In Italia, l’uso dell’Ai nell’istruzione è stato adottato in modo entusiasta e disordinato: c’è chi la proibisce del tutto e chi la consente senza filtro.
Intelligencer del New York Magazine ha recentemente parlato con studenti di Columbia, Stanford e altri college che ora scaricano regolarmente i loro saggi e compiti su ChatGPT, scrive ancora Thomas sullo Spectator. «Lo fanno perché i professori non riescono più a rilevare in modo affidabile il lavoro generato dall’intelligenza artificiale; gli strumenti di rilevamento non riescono a individuare i falsi il più delle volte. Secondo un professore citato nell’articolo “un numero enorme di studenti uscirà dall’università con una laurea e entrerà nel mondo del lavoro essendo essenzialmente analfabeti”».
Una recente inchiesta del Guardian ha rivelato quasi 7.000 casi confermati di imbrogli tramite intelligenza artificiale nelle università britanniche lo scorso anno: più del doppio rispetto all’anno precedente, e si tratta solo di quelli scoperti. Uno studente ha ammesso di aver presentato un’intera tesi di filosofia scritta da ChatGPT, per poi discuterla in un esame orale senza averla letta.
Thomas osserva che il risultato è che «le lauree stanno perdendo significato e gli studenti stessi – brillanti, ambiziosi, intrinsecamente capaci – stanno lasciando gli studi forse meno capaci di quando vi sono entrati. L’inevitabile conclusione di tutto questo, per le università , non è positiva. Anzi, è definitiva. Chi si accollerà un debito di 80.000 sterline per passare tre anni a chiedere all’Ai di scrivere saggi che poi vengono corretti da tutor oberati di lavoro che usano a loro volta l’Ai – in modo che nessun essere umano possa fare, o imparare, qualcosa?». Secondo l’editorialista dello Spectator «l’80-90% delle università chiuderà entro i prossimi dieci anni», addirittura.
Il paradosso è che l’IA potrebbe, se usata correttamente, diventare un acceleratore del pensiero. Lo stesso studio del MIT mostra che quando gli studenti scrivono prima con la propria testa e poi rifiniscono con l’Ai, le connessioni cerebrali aumentano. O usiamo l’IA come una stampella temporanea per andare più lontano, o ci sediamo sopra e smettiamo di camminare. La prima strada è difficile e richiede educazione e fatica.
Sean Thomas conclude il suo articolo in tono amaramente ironico, dicendo che non riesce nemmeno a trovare una nota positiva su cui chiudere, tanto si sente ormai “dim†— spento. Ma non tutto è perduto.
Su Tempi di giugno Pier Paolo Bellini ha scritto che ci sono «due procedure a rischio sulle quali si combatte una battaglia decisiva e un po’ nascosta: “pensare†e “ricordareâ€. Delegare il pensiero alla macchina sarà sempre più facile, sempre più efficace, sempre più pericoloso, sempre più deprimente. Per il semplice fatto che la macchina “non può†pensare. La machine learning lavora su miliardi di informazioni, è una passata gustosissima di scienza e di senso comune. È una miniera ricchissima di pensiero. Altrui. La definizione del senso e del valore delle cose, la loro “conservazioneâ€, invece, sono e rimarranno responsabilità e prerogative umane. Oppure no».
Giovedì mattina, mentre i giornali di mezzo continente titolavano su «Pedro Sánchez leader della sinistra europea anti-riarmo», l’Unità operativa centrale (Uco) della Guardia Civil perquisiva a Madrid e in una località del nord della Spagna le abitazioni dell’ex sottosegretaria ai Trasporti socialista ed ex presidente di Adif (l’equivalente spagnolo di Trenitalia) Isabel Pardo de Rivera e di Javier Herrero, ex presidente di Carreteras (l’equivalente spagnolo dell’Anas), anch’egli di area socialista. I due sono inquisiti come complici di un sistema che avrebbe permesso di incassare tangenti ai suoi protagonisti e a favore del partito socialista imperniato su tre personaggi: l’ex ministro dei Trasporti (2018-2021) José Luis Ãbalos, il suo consigliere tuttofare Koldo Garcia e l’ex segretario organizzativo e numero tre del Psoe Santos Cerdan.
Quest’ultimo si è dimesso dalla sua carica e da quella di deputato il 12 giugno scorso, quando è stato ufficialmente coinvolto nell’inchiesta. Secondo la ricostruzione dei magistrati i cinque soggetti in questione, insieme ad altre figure minori, incassavano tangenti pari all’1,5 per cento del valore del contratto da aziende private favorite nell’assegnazione di appalti nei settori viabilistico e ferroviario.
Cerdan si sarebbe trovato a gestire come segretario amministrativo del Psoe 620 mila euro, frutto delle mazzette pagate dalle imprese vincitrici degli appalti. Ãbalos e Koldo sono inquisiti sia in Spagna che dalla Procura europea anche per tangenti su forniture di mascherine anti-Covid pagate con fondi Ue, Isabel Pardo de Rivera è indagata anche per aver fatto assumere irregolarmente l’amante di Ãbalos in società pubbliche presso le quali non ha in realtà lavorato.
In precedenza la deputata socialista si era dovuta dimettere da sottosegretario ai Trasporti dopo le polemiche sui treni regionali destinati alle Asturie e alla Cantabria, più larghi dei tunnel che avrebbero dovuto attraversare.
Negli ultimi mesi i guai giudiziari a carico di personalità del Psoe sono andati lievitando, e hanno coinvolto anche la moglie e il fratello di Pedro Sánchez, come abbiamo già raccontato. Nel corso dell’ultimo anno il procuratore José Luis Peinado ha accumulato quattro capi di accusa contro la signora Begoña Gómez, moglie del primo ministro, e ora punta direttamente contro il governo.
Mercoledì scorso ha chiesto al Tribunal Supremo, l’istanza che in Spagna giudica ministri e politici, l’autorizzazione a imputare per malversazione e falsa testimonianza il ministro della Presidenza, della Giustizia e dei rapporti col parlamento Félix Bolaños, che secondo lui avrebbe favorito l’indebita assunzione come consigliere del governo di Cristina Ãlvarez, assistente personale di Begoña Gómez, che in realtà avrebbe continuato a dedicarsi alle faccende private della signora Sánchez anziché alla funzione per cui era pagata.
Infine ha sollevato commenti fra il divertito e lo scandalizzato un aneddoto relativo alla perquisizione condotta dalla Uco presso la residenza privata dell’ex ministro Ãbalos il 10 giugno scorso: nella casa era presente la signora Anais D.G., nota nel mondo dei film porno col nome d’arte di Letizia Hilton. Fra i 33 supporti informatici che la polizia ha sequestrato ce n’è anche uno che la donna, su istigazione di Ãbalos, stava cercando di trafugare.
L’ex ministro ha chiesto ai poliziotti di autorizzare la signora a portare fuori il cane per una passeggiata, e allo stesso tempo l’ha chiamata in disparte per consegnarle una “merenda” da consumare durante l’uscita. Un agente si è accorto che in realtà si trattava di una memoria esterna informatica del tipo WD My Passport, che la pornoattrice aveva nascosto nei pantaloni, e lo stratagemma è fallito.
Mentre in Europa esponenti di primo piano dei partiti di sinistra esaltano Pedro Sánchez come il leader da seguire in materia di opposizione all’aumento delle spese militari e di riconoscimento dello Stato palestinese, in Spagna un numero crescente di dirigenti e militanti socialisti chiede le sue dimissioni da segretario del Psoe per il bene del partito.
Trentotto esponenti storici del Psoe (fra loro ex ministri come César Antonio Molina, José Barrionuevo e Javier Sà enz Cosculluela) hanno indirizzato una lettera aperta a Sánchez per invitarlo a dimettersi dalla carica di segretario del partito «immediatamente» al fine di «restituire l’onore al partito socialista» in risposta alla «grave degradazione che stanno causando i continui scandali che colpiscono l’attuale dirigenza del partito».
Le critiche dei 38 si estendono ad alcune delle principali politiche del governo Sánchez: «I casi di corruzione legati a persone di tua massima fiducia, come sono stati i due ultimi segretari amministrativi del partito, si sommano a una pratica di governo caratterizzata da decisioni politiche spurie che suppongono una mutazione della Costituzione spagnola approvata dal popolo con un referendum».
Fra le «decisioni spurie» criticate ci sono i rinvii ingiustificati dell’approvazione delle leggi di bilancio, l’emarginazione del potere legislativo, il deterioramento dello stato di diritto, l’occupazione di organi di controllo dello Stato, la gestione opaca della legge di amnistia per i fatti di Catalogna.
Di fronte alla necessità di una «rigenerazione democratica», scrivono i socialisti, «siamo convinti che un tale compito non possa vedere come leader chi è stato responsabile diretto dell’attuale processo di degrado istituzionale».
Alfonso Guerra, vicepresidente dei governi a guida socialista fra il 1982 e il 1991, è stato ancora più duro. In un’intervista televisiva ha dichiarato: «Abbiamo consegnato il partito nelle mani di alcuni banditi e teppisti, una banda che assomiglia ai Soprano e che ha occupato la direzione del partito. I militanti devono scegliere se proteggere Pedro Sánchez oppure il Psoe: le due cose sono incompatibili».
Infine l’83enne Felipe Gonzales, ancora oggi il socialista spagnolo che vanta la più lunga permanenza a capo di un governo (dicembre 1982 – maggio 1996), dopo l’approvazione dell’amnistia per Carles Puigdemont e gli altri politici catalani condannati per il referendum illegale sull’indipendenza della Catalogna, ha dichiarato che non voterà più per il Psoe.
Chi di voi andasse a farsi un giro in California, dalle parti di Monterey, s’imbatterebbe in Cannery Row: una waterfront road, come tante – anche più suggestive – se ne trovano in quel paese benedetto, diventata però una rinomata meta turistica. Infatti, proprio qui, a inizio XX secolo, una bizzarra trinità come solo il Nuovo Mondo sa mettere insieme diede vita alla prolifica industria delle sardine in scatola: Frank Booth, imprenditore; l’inscatolatore norvegese Knut Hovden; e il pescatore siciliano Pietro Ferrante. Chi va in America a cercare località d’interesse storico, si sa, un po’ si deve accontentare, scordarsi il Colosseo e le basiliche paleocristiane, e stare al gioco: e allora ben venga l’industria delle sardine…
Ma forse è proprio per l’assenza sostanziale della Storia che gli scrittori degli Stati Uniti hanno potuto dedicarsi con più scioltezza e immediatezza alle storie (con la minuscola): quelle della gente qualsiasi, alle prese con la piccola epica quotidiana, con la picaresca lotta per un sorso di whisky come novelli personaggi di Plauto e Terenzio, e con tutta la grettezza e il bisogno di redenzione che sintetizzano la lotta al fondo del cuore dell’uomo di ogni tempo.
E proprio in Cannery Row, che all’epoca si chiamava (prosaicamente) Ocean View Avenue, John Steinbeck ambienta un romanzo (Vicolo Cannery, titolo originale Cannery Row, 1945) poco noto al grande pubblico in Italia, ma che in patria all’uscita fu accolto da un successo editoriale strepitoso, secondo soltanto al capolavoro Furore (The Grapes of Wrath, 1939). Una bomba tale da far ribattezzare Ocean View Avenue; e tuttora, a chi passasse da quelle parti, capiterebbe di imbattersi in Steinbeck Plaza, nella ditta di statuaria John Steinbeck, negli Steinbeck Jewelers… Ciascuno si costruisce i propri santuari turistici come può!
Vicolo Cannery è uno straordinario inno alla vita e alla sua positività irriducibile: un peana al Bene, tanto più eclatante se si considera che l’autore lo concepisce mentre è reporter in Europa all’alba dell’offensiva delle Ardenne, nella sentina della Storia che già gli aveva ispirato il piccolo capolavoro La luna è tramontata (The Moon is Down, 1942), esaltazione della libertà contro ogni tirannia.
Dico “peanaâ€, ma i personaggi di Vicolo Cannery non hanno niente di altisonante: ci sono Lee Chong, il silenzioso commerciante cinese; l’irrecuperabile perditempo Mack e i suoi amici sconclusionati; Sam Malloy, che assieme alla moglie vive dentro una caldaia senza finestre, pure se la signora Malloy vorrebbe comprare a tutti i costi delle tende che le piacciono; Dora Flood, nobile amministratrice del bordello del quartiere; Frankie, ragazzino che ruba perché non trova miglior modo per dire «ti voglio bene»… E soprattutto c’è il Dottore, personaggio ispirato al biologo marino Ed Ricketts cui il romanzo è dedicato, che fu intimo amico di Steinbeck. “Doc†è un uomo sempre pronto ad aiutare il prossimo, con uno sguardo di compassione virgiliana negli occhi, un’aura candida alla principe MyÅ¡kin, ma pure pronto a scaricare l’autostoppista che lo moralizza perché al volante si sta scolando una bottiglia di birra («Vi darò un pugno sul naso, se non sarete sceso prima che io abbia contato fino a dieci. Uno, due, tre…»).
In effetti, come notato dal critico Warren French, «perbenismo e presunzione» sono «i due mali gemelli» contro cui Steinbeck combatte la propria crociata, alla latitudine di ogni suo romanzo. Non è infatti mediante lenti ideologiche, bensì attraverso uno sguardo appassionato alla schiettezza dell’umano e nostalgico di un’epoca in cui la solidarietà era più carnale, che lo scrittore premio Nobel nel 1962 contempla la sua povera gente. Per questo nasce in noi il tifo commosso per i protagonisti di Furore, o l’indignazione e la pietà per la sorte dei due protagonisti di Uomini e topi. E sempre per questo è così godibile leggere le comiche disavventure dei derelitti di Vicolo Cannery, il loro brontolare volendosi bene, il tentativo ironico di costruire con le loro mani qualcosa che sia un po’ meglio delle misere creature che tutti quanti siamo.
È emblematico, da questo punto di vista, che il motore dell’azione di tutto il romanzo sia il tentativo rocambolesco da parte di Mack e sodali di organizzare non una, ma ben due volte una festa per ringraziare il Dottore del bene da lui compiuto nel quartiere («Il Dottore è il più brav’uomo che io abbia conosciuto. […] Sapete, una volta l’ho imbrogliato perché mi desse un dollaro. Gli inventai tutta una maledetta storia. E mentre gliela stavo raccontando, vidi che sapeva fin troppo bene che era tutta una frottola. E così, proprio mentre gliela stavo raccontando, gli dissi: “Dottore, questa è una balla!â€. E lui si mise una mano in tasca e tirò fuori un dollaro. […] Glielo restituii il giorno dopo. Non lo spesi per niente. Lo tenni tutta la notte e poi glielo restituii»).
La festa è l’evento cristiano per eccellenza, assieme alla crocifissione: bizzarro e grandioso ossimoro, che si può rinvenire scavando nel Dna di ogni grande pagina di letteratura moderna. E in Steinbeck ce ne sono diverse: per esempio – e concludo – il folgorante incipit del romanzo, dal sapore di certe canzoni di De André:
«Il Vicolo Cannery a Monterey in California è un poema, un fetore, un rumore irritante, una qualità della luce, un tono, un’abitudine, una nostalgia, un sogno. Raccolti e sparpagliati nel Vicolo Cannery stanno scatole di latta e ferro e legno scheggiato, marciapiedi in disordine e terreni invasi dalle erbacce e mucchi di rifiuti, stabilimenti dove inscatolano le sardine coperti di lamiera ondulata, balli pubblici, ristoranti e bordelli, e piccole drogherie zeppe, e laboratori e asili notturni. I suoi abitanti sono, come disse uno una volta, “Bagasce, ruffiani, giocatori, e figli di mala femminaâ€, e intendeva dire: tutti quanti. Se costui avesse guardato attraverso un altro spiraglio avrebbe potuto dire: “Santi e angeli e martiri e uomini di Dioâ€, e il significato sarebbe stato lo stesso».
John Steinbeck, Vicolo Cannery, 1945, edito in Italia da Bompiani nel 2007, 256 pagine, 13 euro.
Disclaimer: grazie al programma di affiliazione Amazon, Tempi ottiene una piccola percentuale dei ricavi da acquisti idonei effettuati su amazon.it attraverso i link pubblicati in questa pagina, senza alcun sovrapprezzo per i lettori.
Da inizio luglio Tempi sarà in Paraguay per raccontare l’opera di padre Aldo Trento ad Asunción.
Chi vuole, può aiutarci nel sostenere le spese per il reportage con una donazione al Fondo Più Tempi, lo strumento finanziario attraverso cui si può contribuire a queste e ad altre iniziative di utilità sociale portate avanti dal giornale (cliccando sul link si trovano tutte le informazioni).
Aldo Trento (Faller di Sovramonte 1947 – Asunción 2024), sacerdote della Fraternità San Carlo, partì per il Paraguay nel 1989 dove, su indicazione di don Luigi Giussani, si prodigò per rinnovare «l’impresa delle Reducciones».
Qui diede vita a una scuola elementare, una clinica per malati terminali, una casa per ragazze madri, un’azienda agricola in cui trovano impiego malati di Aids non terminali, due piccole case per bambini orfani e una casa per anziani.
Per tanti anni padre Trento ha firmato sul nostro giornale una rubrica intitolata “Post Apocalypto – Lettere dalla fine del mondo†in cui raccontava dei suoi malati e rispondeva alle lettere dei lettori.
Con Tempi e in collaborazione con l’editore Lindau ha scritto due libri: I dieci comandamenti (2010) e Cristo e il lavandino (2011).