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«La gente non può pensare nello stesso modo: sennò cessa del tutto di pensare»: così ebbe a sintetizzare uno dei più noti dissidenti antisovietici quale è stato Roy Medvedev che ha personalmente vissuto il contesto storico e sociale in cui viene a mancare qualsiasi tutela generale e qualunque riconoscimento della esigenza di garantire la libertà di pensiero.
Nei sistemi totalitari, infatti, alla diversità di vedute si sostituisce l’uniformità dell’ideologia ufficiale che tutti devono confessare e professare, sempre e in ogni istante, privatamente e pubblicamente, senza titubanze o eccezioni.
La logica dell’ideologia totalitaria, proprio perché tale, non accetta il pensiero diverso, non consente la formulazione di altre idee che siano distinte da quelle ufficialmente professate dalla stessa ideologia totalitaria.
La rigidità dell’ideologia totalitaria, infatti, da un lato pretende di incarnare l’unica e incontestabile verità sul mondo, sull’uomo e ovviamente su se stessa, dall’altro lato esige il sacrificio di ogni eventuale prospettiva differente che si discosti in modo più o meno profondo dall’ortodossia ideologica sancita dalla medesima ideologia totalitaria.
Così è accaduto storicamente nel XX secolo, con ampiezza di esempi, sia sotto il regime nazionalsocialista sia sotto il regime sovietico, rivelando uno dei tratti caratteristici dell’ideologia totalitaria: silenziare il pensiero, come pensiero diverso, come pensiero alternativo, come pensiero in sé e per sé considerato.
Di tali inconvenienti sono all’oscuro, ahinoi, quei gruppi Lgbt che a Catania, venerdì 19 aprile, subito dopo la breve e conciliante prolusione di saluto dell’arcivescovo etneo, monsignor Luigi Renna, hanno impedito lo svolgimento di un convegno universitario di alto profilo scientifico in tema di disforia di genere e carriera alias organizzato dalla locale sezione di Scienza&Vita presso la concessa aula magna del rettorato dell’Università .
Medici, docenti di diritto costituzionale, di diritto civile, avvocati, filosofi morali e teologi morali avrebbero – secondo il programma – dovuto dibattere e riflettere intorno ai profili problematici – specialmente di ordine medico-legale – legati ai suddetti temi. Il titolo del convegno era: “La disforia di genere nei minori e la carriera alias negli istituti scolastici: questioni mediche, antropologiche e giuridiche”.
Il gruppo Lgbt, con una organizzatissima e disciplinatissima coordinazione quasi oplitica, tuttavia, ha impedito che il convegno potesse anche soltanto cominciare, irrompendo in massa e impedendo che l’ordine dei lavori potesse svolgersi come da programma, chiarendo, peraltro, come non fosse interessato al confronto, ma soltanto a silenziare le relazioni a loro dire omofobiche e transfobiche.
Tra striscioni, rivendicazioni e cori, in un vociare rauco e sguaiato dai contorni grotteschi come quelli che contraddistinguono le anime dannate di un girone dantesco, sono stati rivolti al tavolo dei muti e ammutoliti relatori soltanto insulti e slogan preconfezionati come “Dio è mortoâ€, oppure “Ma quale scienza, ma quale Dio! Sul mio corpo decido io!†ecc. ecc.
Alcune brevi considerazioni. In primo luogo: è quanto mai urgente – ad ogni livello educativo, famigliare, scolastico e universitario – riprendere in mano lo studio reale della Costituzione italiana che garantisce la libertà di pensiero a prescindere da ciò che alcuni, tutti, pochi o molti ritengono sia o debba essere la verità .
La libertà di pensiero non si può garantire, infatti, soltanto in merito a ciò che alcuni ritengono aderente alla propria visione del mondo, anzi, se proprio autenticamente essa deve essere intesa (e perché intenderla in modo distorto?) si può ritenere l’esatto opposto, cioè che tanto più non è aderente a ciò che ciascuno di noi può pensare quanto più un’idea merita di essere espressa.
In secondo luogo: diversamente da ciò che ritengono sia gli esponenti dei gruppi Lgbt che hanno impedito lo svolgimento del suddetto convegno, sia i docenti di scuola e di università che quotidianamente li formano e li fomentano in tale direzione, l’università è tale – rispondendo al proprio senso e alla propria vocazione – soltanto se e nella misura in cui consente un dibattito franco e aperto sempre su tutto, cioè universale appunto, senza apriorismi ideologici di alcun tipo e senza l’imposizione di ortodossie opposte come tali al pensiero effettivo.
Che oggi si debbano ribadire simili lapalissiane ovvietà è indice di un doppio problema: la mancanza di consapevolezza del ruolo dell’istituzione universitaria e, ancor peggio, la mancanza di educazione al pensiero critico come pensiero autentico e strutturalmente diverso dal pensiero ideologico.
Mentre il pensiero ideologico, infatti, pretende che sia la realtà ad adeguarsi ai propri dettami, il pensiero critico, invece, è disposto a sacrificare parte del proprio sé per adeguarsi alla verità della realtà .
Infine, gli esponenti delle associazioni Lgbt che orgogliosamente rivendicano la propria azione silenziatrice nei confronti di chi la pensa diversamente dalla loro piattaforma ideologica, per essere presi davvero sul serio, cioè per non essere declassati al ruolo di meri ideologi, dovrebbero assumere una decisione definitiva: o proporsi come reali difensori dell’umano, quindi senza poter silenziare il pensiero altrui che – per quanto erroneo o non condivisibile – è e rimane espressione compiuta e adesiva della realtà umana, oppure silenziare il pensiero altrui, ma perdendo ogni legittimità e credibilità sulla causa umana che dichiarano di difendere con le loro mirabili gesta.
Oltre a tutto ciò, probabilmente, le rumorose e totalitarie milizie Lgbt farebbero bene, fuoriuscendo dalla propria microscopica visione ego-centrata, a rivendicare e strepitare un po’ meno per leggere e studiare un po’ di più, perché così facendo, magari, potrebbero imbattersi negli scritti di un omosessuale come Pier Paolo Pasolini che aveva già denunciato, più di un trentennio or sono, il cosiddetto “fascismo degli anti-fascisti†che impedisce a chiunque di poter esprimere il proprio pensiero ritenuto non allineato rispetto all’ortodossia del pensiero unico.
Tutto questo andrebbe spiegato fin dalla scuola ad una generazione – quale è quella attuale di cui è composta la massima parte del mondo Lgbt – che oltre ad aver perduto il senso di sé e il senso del limite pare abbia smarrito, circostanza ancor più grave, anche e perfino il limite del senso.
«Da oggi a Milano l’erba sarà più alta»: l’assessora comunale all’Ambiente e al Verde Elena Grandi lo ha annunciato così, accosciata nell’erba in giacchetta verde e fiorellini d’ordinanza. «In 54 aree della città , 1 milione e 300 mila metri quadrati, l’erba sarà mantenuta alta e gli sfalci ridotti», ha declamato nella sua ecloga agreste alla città diffusa via social, «perché crediamo che sia fondamentale tutelare la biodiversità , tutelare tutto quel mondo che nel prato vive e sopravvive grazie ai fiori e all’erba alta» e «per tutelare l’umidità dei prati che sempre più dovranno affrontare stati siccitosi grazie all’effetto drammatico dei cambiamenti climatici».
Milano come la campagna d’Arcadia! Mandare a mente, amministratori qualora cercaste un modo bucolico per dire che il Comune è al verde e potare costa: forza erba alta, forza mondo del prato, forza biodiversità , eccetera. Pensare che già un anno fa l’assessora di Milano stava all’ispirazione come il Virgilio della Padania a Teocrito: «L’erba del vicino è sempre più verde. Anzi la più alta – scriveva ancora su Instagram -. Francoforte ha fatto una scelta precisa per tutelare ecosistemi e biodiversità . In molti parchi e giardini e aiuole della città l’erba è lasciata alta eppure i bambini giocano lo stesso e le persone si sdraiano nei prati. Stiamo provando a fare lo stesso a Milano, riducendo la frequenza degli sfalci».
Dopo di che, tra frate sfalcio e sorella erba alta, si erano messi di traverso quei milanesi che invece della Tesla – e di sognare il fremito di aprire lo sportello in coda, prendere un filo d’erba e metterselo in bocca, o usare il monopattino sentendosi so green -, avevano l’amico a quattrozampe. E gridavano: “Forasacchi! Forasacchiâ€, come la spighetta a punta di freccia e foglie di lama celebre tra i padroni di cani e gatti perché una volta entrata in qualche “sito anatomico†non esce più – ma proprio più più più. Una spighetta prodotta dalle graminacee selvatiche che infestano le aree verdi di Milano costringendo ogni santa primavera i veterinari a broncospie, chirurgie, lobectomie sugli animali e sottoscrivere petizioni sui social o change.org per dire, in sintesi: “Falciatela!â€.
Ma l’assessora della via Gluck, incurante del refrain “a Milano più cani e gatti che bambiniâ€, già vedeva sfilare le stagioni, le farfalle e gli impollinatori con l’entusiasmo di quando aveva inserito nell’odg del Municipio 1 l’idea di piazzare le arnie su Palazzo Marino: «Produrremo il miele del sindaco come già avviene a Parigi, New York e in tantissime altre città del mondo».
E mentre le zecche plaudivano sgranocchiando caviglie e qualcuno ribattezzava l’happy hour delle 18 “aperitopoâ€, in onore dei roditori che molto biodiversamente parlando andavano stabilendosi in area C e B dopo l’intifada degli scoiattoli grigi, l’erba cresceva.
Si sa, da erba a erbaccia è un attimo, ma alzi la mano chi non subisce a Milano l’irresistibile fascino del degrado emanato dall’erba alta che si riprende le carreggiate, lo spartitraffico, le panchine, porzioni di parco, donando a tutti la possibilità di tuffarvisi dentro pensano “ciumbia, anche a Francoforte fanno cosìâ€.
E correre come Heidi del Cantone dei Grigioni o Clara di Francoforte verso l’immancabile Capanna dello Zio Rom (copy Andrea Pinketts) che dai tempi di Kerouac sorge sempre in prossimità di aree incolte riconvertite a bagni biologici e di erba alta in cui nascondere roba, monnezza, e soprattutto, come ha ben scritto tante volte il nostro Rodolfo Casadei, sotterrare la consapevolezza che la biodiversità è una cosa serissima, non cresce mica sugli alberi, figuriamoci tra i grattacieli e il Lorenteggio, e a farla facile si rischia quasi sempre il disastro.
Ma queste son son preoccupazioni da orsi trentini e lupi della Sila, a tutti i milanesi piace trasformare i balconi in “oasi ecologicheâ€, i tetti in “roof gardenâ€, farsi i selfie con le mega graminacee perenni “by Piet Oudolf” sotto il Bosco Verticale, spararsi le pose con gli allergici dipendenti dall’inalatore sentenziando che asma, rinite e compagnia soffocante sono «colpa dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento e della poca biodiversità », mica dei pollini appunto da cupressaceae, graminaceae, corilacee, betulacee che inondano il marciapiede.
Insomma, ma quanto è bella Milano che si atteggia ad orto botanico, coi suoi “1,3 milioni di metri quadrati a sfalcio ridotto” nuovi di zecca, coi suoi quasi 500 mila alberi (è la città con più alberi d’Italia), con 1 cane ogni 11 abitanti, 1 gatto ogni 30 (è la città record degli animali) e 0,7 neonati ogni 100 abitanti (tutelare la biodiversità è un concetto opinabile)? Ma quanto è bella l’erba, fumarsi l’erba, condividere l’erba, fotografare l’erba e chiedersi se l’assessora al Verde ha mica letto Stephen King?
La settimana appena trascorsa Milano è stata invasa da migliaia di visitatori provenienti da 180 Paesi per prendere parte alla kermesse del “Salone del mobile†e a tutti gli eventi “fuori salone†della Design week. Inoltre, Il 15 aprile, giorno della nascita di Leonardo da Vinci, è stata celebrata per la prima volta la giornata del “Made in Italyâ€.
Ho avuto modo di partecipare ad alcuni eventi in veste istituzionale per conto della Regione Lombardia. Queste occasioni, organizzate da Governo, associazioni e dai consolati dei vari Paesi, mi hanno permesso di riflettere su cosa c’è davvero alla base di un fenomeno straordinario come quello celebrato, a volte anche retoricamente, dai media. I numeri del design, della moda e dello stile sono impressionanti.
Le tre “Aâ€: abbigliamento, arredamento, alimentazione, sono i settori che permettono alla bilancia commerciale italiana di essere in equilibrio, a fronte del segno meno proveniente da tanti altri settori, a cominciare dall’importazione di materie prime ed energia. E al “Made in Italy†si affianca la meccanica, che nel nostro Paese, in molti casi, è proprio al servizio dei settori citati.
In un mio intervento ho fatto riferimento ad una piccola impresa in provincia di Pavia che produce le migliori gelatiere al mondo, per uso domestico o professionale. Il New York Times ed il Los Angeles Daily le citano come le “Cadillac†del settore. Un esempio di come molto del nostro “Made in Italyâ€, anche nel settore meccanico e del machinery – pensiamo alle macchine per l’industria tessile o per l’agricoltura e l’alimentazione – compartecipa alla costruzione dello stile italiano.
Colpisce innanzitutto, quanto queste tre “A†siano legate strettamente alla persona. L’alimentazione, ossia come ci nutriamo, l’abbigliamento, come di presentiamo agli altri, e l’arredamento, ossia come decidiamo di rendere utili e confortevoli le nostre abitazioni. In queste tre “A†il prodotto è molto simile all’idea di servizio. Esso deve rispondere ad un bisogno della persona, e deve essere quindi intrinsecamente fatto bene. E questo va ben al di là dell’idea prettamente consumistica che può assumere un manufatto.
Ebbene, questa caratteristica è molto viva e presente nel nostro Paese, e rende i nostri imprenditori più capaci di affrontare e vincere la sfida del bisogno altrui e la nostra impresa più creativa e flessibile rispetto a quelle di altri territori, anche economicamente più strutturati. Non a caso lo stile di vita italiano è desiderato nel mondo e gli italiani sono ritenuti più capaci di trovare soluzioni geniali.
Alla base di questa originalità , c’è indubbiamente il portato di una cultura millenaria, dove il gusto per la bellezza rappresenta un elemento imprescindibile, ma sussiste un motivo ancor più profondo. Esso è figlio della cultura cristiana, figlio dell’idea che il rapporto con l’altro è sostenuto da una dignità che presuppone una responsabilità nel bello e nel buono da cui non si può prescindere. Questa visione del lavoro, questo gusto del bello e del buono è a mio parere il patrimonio più prezioso che il nostro Paese può portare in dote al mondo.
Del resto, in un contesto globale di 8 miliardi di abitanti, cosa può rappresentare l’Italia, che vale meno dell’1 per cento della popolazione mondiale, se non questa sua originalità culturale, sociale ed economica insieme? Potremmo essere solo marginali, ma questa modalità di concepire il lavoro ed il rapporto con l’altro, ha una sua forza insopprimibile e al contempo attraente.
Tutto questo vale per la moda, per l’arredamento, per l’agrifood, ma in fondo non è la stessa cifra culturale che rende uniche ad esempio la Ferrari, la Ducati, o Eni nel modo non predatorio con cui da sempre si rapporta con i Paesi africani, ma persino i nostri Carabinieri quando fanno peacekeeping nel mondo?
Dovremmo essere un po’ più orgogliosi di questa radice e soprattutto più consapevoli della sua genesi. Se si tagliano le radici si perdono anche frutti e fiori. Il vero rischio che possiamo correre non è tanto quello di perdere la ricchezza che il “Made Italy†genera, ma di perdere quell’originalità culturale e sociale, fattasi modello economico, che sta alla sua base e che l’ha generata.
Parla da un letto di ospedale, con la voce provata, Mar Mari Emmanuel, il vescovo di una setta cristiana assira accoltellato lunedì a Wakeley, sobborgo di Sydney, nella chiesa del Buon Pastore da un giovane estremista islamico. L’attentato è avvenuto mentre il prelato stava trasmettendo per i fedeli presenti in chiesa e online una lezione sulla Bibbia: il filmato ha fatto il giro del mondo. Quello che le autorità australiane hanno definito un «attacco terroristico» ha fatto infuriare i cristiani della comunità assira, molti dei quali emigrati nel paese dall’Iraq e dalla Siria per sfuggire alla persecuzione dei jihadisti. Ma dall’ospedale, in un breve messaggio, il religioso ha invitato tutti «ad agire come Gesù Cristo»: «Sto bene, mi sto riprendendo velocemente con l’aiuto del Signore», si sente nel messaggio audio. «Non c’è alcuna ragione per preoccuparsi per me. Il nostro Signore Gesù non ci ha mai detto di combattere, non ci ha mai detto di cercare vendetta, non ci ha mai detto: “Occhio per occhio, dente per dente”. Il nostro Signore non ci ha mai detto: fate del male a chi vi ha fatto del male. Ma fate del bene a chi vi ha fatto del male. Perdono chiunque abbia commesso questo atto e gli dico: “Sei mio figlio, ti amo e pregherò sempre per te”. E chiunque lo abbia mandato a compiere questo atto, perdono anche lui nel nome di Gesù».
L’intervento del religioso di 53 anni ha stupito tutti in patria e suscitato l’apprezzamento del governatore dello stato di Nuovo Galles del sud, Chris Minns, che ha dichiarato: «Il suo messaggio magnanimo è ciò di cui abbiamo bisogno. Il perdono è esattamente ciò che serve adesso a Sydney».
Il messaggio non era scontato, non solo per l’enorme tensione che si vive all’interno della comunità cristiana e musulmana dopo l’attentato, ma anche perché Mar Mari Emmanuel è vivo per miracolo, come dichiarato dalla polizia locale.
Mar Mari Emmanuel è stato ordinato nel 2011 vescovo dell’Antica Chiesa d’Oriente, nata da una scissione in seno alla Chiesa assira d’Oriente, di orientamento nestoriano, a sua volta originata da una precedente scissione. Il vescovo nel 2015 era stato sospeso dall’Antica Chiesa d’Oriente, fondando una sua propria denominazione indipendente.
Il religioso ha un seguito enorme sui social per il suo stile diretto e le sue posizioni controcorrente, e a volte irragionevoli, sui temi più sensibili e disparati: dall’omosessualità ai vaccini Covid, dall’islam alla politica americana.
L’attentatore di Sydney, di cui non è stato rivelato il nome per ragioni di privacy, è un ragazzo musulmano di 16 anni già noto alle forze dell’ordine. In un video registrato all’interno della chiesa subito dopo l’accoltellamento, si vedono i fedeli neutralizzare il ragazzo e chiedergli le ragioni del suo gesto. Lui risponde: «Se il vescovo non si fosse immischiato nella mia religione, se non avesse parlato del mio profeta, non sarei venuto qui. Se si fosse limitato a parlare della sua religione, non sarei qui». Secondo testimoni, «continuava a gridare “Allahu akbar, Allahu akbar”».
Le parole suggeriscono che il ragazzo, online o seguendo cattivi maestri, si sia radicalizzato al punto da ritenere i discorsi del vescovo Emmanuel “blasfemi” e dunque meritevoli di morte. La comunità musulmana di Wakeley certamente non amava il religioso, che ha dedicato molti sermoni a spiegare gli errori dell’islam nella comprensione del cristianesimo e che di recente aveva dichiarato: «Posso garantirvi che in paradiso Maometto non vi saluterà , Buddha non vi saluterà , Krishna non vi saluterà . Ci sarà solo colui che è la via, la verità e la luce. Vi saluterà Gesù Cristo di Nazareth, che è morto per te e per me».
Nonostante l’avversione, molti imam dopo l’accoltellamento hanno condannato l’attentato ed espresso solidarietà alla comunità cristiana.
Secondo Jamal Rifi, medico musulmano molto conosciuto a Sydney, che ha assunto il ruolo di portavoce della famiglia del ragazzo, il giovane era diventato da tempo «molto aggressivo». I genitori sostengono però che non fosse un «fanatico».
A gennaio il giovane era stato fermato e poi rilasciato su cauzione per due reati e per aver portato un’arma a scuola. Di sicuro, c’è stata premeditazione nel tentato omicidio visto che il ragazzo abita molto lontano dalla chiesa dove è entrato per uccidere il vescovo Emmanuel.
L’attentato ha sconvolto la città , essendo avvenuto a due soli giorni di distanza dalla strage compiuta da un 40enne di nome Joel Cauchi, gigolo omosessuale con problemi psichiatrici, che ha ammazzato sei persone nel centro commerciale Westfield Bondi Junction di Sydney, prima di essere ucciso dalla polizia.
Nell’attentato in chiesa sono rimaste ferite quattro persone, ma nessuno è in pericolo di vita. Bloccando il ragazzo davanti all’altare in attesa dell’arrivo della polizia, probabilmente i fedeli hanno salvato la vita al giovane, visto che fuori si era radunata una folla inferocita pronta a linciarlo.
Secondo quanto dichiarato dal vicesindaco di Fairfield City, un sobborgo di Sydney, subito dopo essere stato accoltellato il vescovo Emmanuel ha messo la mano sulla testa del ragazzo e gli ha detto: «Che il Signore Gesù Cristo possa salvarti».
L’atteggiamento del religioso è stato molto apprezzato anche dalla famiglia dell’estremista islamico: «I genitori sono davvero dispiaciuti per ciò che il figlio ha fatto», ha detto Rifi, il loro portavoce. «Il messaggio di perdono del vescovo è la notizia più bella che abbia sentito negli ultimi giorni. Sappiamo tutti che gli assiri vengono dall’Iraq e che sono una comunità perseguitata, l’ultima cosa che noi musulmani vogliamo è aggiungere altri traumi alle loro passate esperienze».
L’interesse per la dimensione del lavoro e dell’impegno sociale da parte mia e di tanti amici nelle Marche è nato molto prima della nascita ufficiale del Movimento Popolare, stimolato dalla presenza di Gioventù studentesca (Gs), che a Pesaro comincia nel 1969, e negli anni immediatamente seguenti da quella di Comunione e Liberazione. Si trattava infatti di una proposta che coinvolgeva tutti gli aspetti della vita e per questo affascinava.
Ad iniziare la presenza di Gs a Pesaro è stata Daniela Tagliatesta, che aveva incontrato da liceale a Piacenza già nel 1958 don Luigi Giussani. Nel 1969, avendo vinto un posto di ruolo anche nel liceo classico di Pesaro, città dove vivevano i suoi genitori, venne invitata da Giussani a tornare a Pesaro e ricongiungersi con la famiglia. Non essendo Gs ancora presente nelle altre città delle Marche tranne che a Fermo, le indicò di collegarsi con Marina Valmaggi di Rimini. A Fermo poi Daniela incontrò il prof. Marco Traini, con cui nacque un’amicizia importante.
A Pesaro decine di giovani e di adulti aderirono a Gs: Daniela ci aveva comunicato la possibilità di una vita nuova facendoci incontrare don Giussani. Nel modo in cui affrontava la vita Daniela ci trasmetteva una passione per l’ambiente in cui ci trovavamo, a cominciare da quello della scuola. Giussani incontrò molti giovani pesaresi e sfidava tutti a vivere fino in fondo l’ipotesi culturale e di vita cristiana, tanto era convinto del valore della libertà e della forza della verità . Sottolineo questo aspetto, perché la “vision†iniziale era un’apertura a 360 gradi rispetto alla realtà e alle circostanze, non una preoccupazione politica o settoriale. E una promessa per la persona.
La maggior parte dei giovani che si coinvolsero con questo nuovo modo di vivere il cristianesimo era immersa nelle preoccupazioni del Sessantotto: per alcuni si trattava di un impegno vero e proprio, ma comunque a tutti era richiesta una presa di posizione. La natura della proposta che ci veniva fatta e l’esperienza dei primi anni ci confermarono – almeno per me fu così – che l’utopia di un mondo giusto da realizzare e la parzialità di un cambiamento che tagliava via tante parti della persona non avevano ragioni sufficienti. Invece l’esperienza di un “cambiamento in atto†era un’ipotesi che meritava di essere percorsa.
La proposta dell’Mp si inserì in humus fecondo e in un terreno dissodato: già nel 1973, insieme a Gennaro Mascini e Giancarlo Edera, facevamo la Redazione culturale, che si riuniva giornalmente per fare una rassegna stampa da 6-7 quotidiani. Leggevamo gli articoli, ritagliavamo le pagine interessanti e le catalogavamo per argomento. Non c’era ancora Internet, né c’erano social media, computer, telefoni cellulari, ma eravamo già educati a coinvolgerci in tutte le questioni.
A Pesaro era di casa don Francesco Ricci, che con la sua apertura e il lavoro di Cseo (il centro studi e casa editrice sui temi dell’Europa orientale a cui aveva dato vita) ci aveva sintonizzato con una lunghezza d’onda di grande respiro. Avevamo familiarità soprattutto con don Ciccio Ventorino di Catania e con don Pino Ruggeri di Chiavari (col quale si condivideva un incontro periodico a Bologna). Mp non è nato come un fungo nel nulla, ma ha rappresentato la continuità di un’esperienza già in atto. La mia esperienza era quella di uno che non sente divisioni nell’impegno.
A Milano e a Torino, dove mi trasferii per lavoro a partire dal 1973 per alcuni anni, cominciai subito l’esperienza di Cll (Comunione e Liberazione Lavoratori). Lì c’era la grande audacia di essere presenti nelle grandi fabbriche: ho trascorso molti mesi in viale Sarca dove lavoravo alla Breda e c’erano 30 mila operai, e a Fiat Mirafiori dove ce n’erano certamente di più; inoltre con alcuni amici operai eravamo presenti in Pirelli sempre a Torino. Tornato a Pesaro come altri, abbiamo ripreso con vigore una presenza pubblica. Facevamo incontri e volantini di giudizio che venivano distribuiti negli ambienti (fabbriche, ospedali, scuole); invitavamo a feste popolari alle quali partecipavano migliaia di persone. Contemporaneamente si sviluppava la nostra presenza nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro: banche, ospedale, eccetera. Cll era diventato un luogo di confronto e di incontro per una presenza nell’ambiente.
Credevamo di poter cambiare e migliorare l’ambiente di lavoro e la società civile e sulla base di questa intenzione riscuotevamo una grande fiducia. L’Mp non era ancora ufficialmente nato, ma era già un’esperienza e aveva molti amici, tanto che alle prime elezioni amministrative nel giugno 1975 un nostro rappresentante per il Consiglio comunale, Antonio Bonali, ricevette più di duemila voti, un record storico per le elezioni nella città di Pesaro. Pochi anni dopo questo clima di favore si è trasformato in delusione, quando non in esplicita condanna.
La proposta del Movimento popolare attecchì subito e si diffuse anche in ambiti laici e di sinistra. Avevamo alcune certezze che trovavano corrispondenza in molti. Sembrava potessimo rispondere alle attese di un popolo ancora vivo (sopravvissuto…) e ancora disposto a mettersi al lavoro. Nelle nostre assemblee o manifestazioni tre erano gli aspetti “convincentiâ€:
Si trattava quindi di una posizione non ideologica nella motivazione, forte dell’amicizia tra di noi. In quel decennio – 1970-1980 – avvennero fatti di grande importanza. I due referendum, il primo già nel 1974 sul divorzio ed il secondo sulla legge che aveva legalizzato l’aborto (la 194 approvata nel 1978) nel 1981 dimostrarono che l’appello ai valori cristiani non trovava nella gente corrispondenza maggioritaria. Pensare che i valori cristiani di persona, libertà , verità e giustizia fossero patrimonio comune aveva illuso non solo la Chiesa. La mobilitazione che mettemmo in campo con impeto e dedizione non trovava collaborazione neppure negli ambienti cattolici. Rimanemmo soli, ma obbedienti senza nessuna ambiguità alla Chiesa. Nel 1978 ci fu l’assassinio di Aldo Moro, da allora niente fu più sacro, neanche la vita di un uomo riconosciuto come simbolo di impegno e moralità . Per uno scopo, un’idea, si poteva compiere e giustificare qualsiasi delitto.
All’inizio del decennio seguente fummo tutti impegnati nella battaglia per Solidarnosc, il libero sindacato polacco. La simpatia di molti di noi per loro e per alcuni l’amicizia personale con loro dirigenti fecero dell’Mp un movimento internazionale nel nome di una battaglia comune di libertà . Per motivi di lavoro ho avuto occasione di recarmi a Danzica ed ho potuto incontrare anche negli ultimi anni i rappresentanti di Solidarnosc, insieme ai quali ho deposto un mazzo di fiori davanti ai cancelli del Cantiere navale, tanto era forte la memoria di quelle vicende.
Parallelamente proseguiva il lavoro di Cll. Con gli amici a livello nazionale (Carlo Buora, Giuseppe Albetti, Sante Padovese, Maurizio Fasani, eccetera) il rapporto era stretto e caloroso. Un esempio di quel clima è che l’inizio dell’esperienza di Gino Girolomoni – il creatore del marchio di agricoltura biologica Alce Nero, antesignano della coltivazione biologica e naturale – nacque proprio grazie agli incontri con Buora e altri amici, che vollero venire a incontrare personalmente Gino e la sua nascente impresa. In quel periodo molti furono spinti ad intraprendere attività professionali e imprenditoriali nuove, a creare in nuce una rete di imprese. Tutto ciò era sostenuto da amicizie e rapporti personali, non semplicemente dalla condivisione di un’idea.
C’erano tra noi anche alcuni operai per i quali fare presenza nelle fabbriche non era facile, ma sostenevano le loro ragioni anche all’interno del movimento sindacale. Spesso erano impegnati direttamente nel sindacato, come molti nostri impiegati. Scegliemmo di aderire alla Cisl, che da noi non era infestata da extraparlamentari violenti come a Milano. Un nostro carissimo amico, Edgardo Terenzi, lasciò spontaneamente la Cgil, dove aveva fatto un’importante carriera, per passare alla Cisl, che a Pesaro almeno idealmente era più accogliente rispetto alle nostre posizioni.
Anche l’amicizia con i responsabili regionali di Mp è stata importante. Nelle Marche condividevo la responsabilità con Andrea Calzolaio e un gruppo di amici di San Benedetto del Tronto, e aggregavamo amici a Urbino, a Macerata e in tutta la regione, anche nei paesi più piccoli come Acqualagna, Carpegna e Ostra. Li ricordo bene perché associo ai paesi nomi e volti di persone. A fine decennio tenemmo addirittura l’assemblea nazionale di Mp a Vico Equense, in Campania. Fu un segnale di grande novità .
(1. continua)