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Cultura
La testa e la coda. Sulla produzione di film per la sala in Italia
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 10:41:16 +0000 di Redazione

L’aspetto su cui vorrei soffermarmi in questo mio intervento riguarda direttamente la produzione e i risultati dei film di origine italiana destinati alla Sala Cinematografica. Analizziamo rapidamente i dati relativi alle quote di mercato dei film di origine nazionale nei principali paesi europei, tutti esposti come l’Italia alla pressione del prodotto USA. Sul mercato domestico, misurando gli ingressi in Sala, i film italiani si attestano come quota di mercato sotto il 30%. Considerando il periodo 2010 – 2024 (ed escludendo i due anni della pandemia) siamo mediamente attorno al 26%. Si noti che non è un dato malvagio e risulta largamente superiore a quello registrato dai film nazionali in paesi come la Germania, la Spagna e il Regno Unito. Non è così, invece, in Francia dove i film di origine nazionale si attestano nello stesso periodo qui considerato su una media del 40%.

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Blog
La violenza degli antisemiti e l’imbarazzo della sinistra
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 07:27:23 +0000 di Lodovico Festa

Su Huffington post it Simone Santucci scrive:

Dire che uno Stato è democratico non significa sostenere chi lo governa, così come dire che l’Iran è una teocrazia non implica prendere posizione sull’opposizione iraniana. È semplice realtà. Eppure la realtà, oggi, sembra diventata pericolosa. Lo si vede anche nella discussione sul Ddl Delrio. Testo moderato, sobrio, che si limita a riprendere la definizione IHRA dell’antisemitismo – adottata dallo stesso centrosinistra quando era al governo, come ha più volte ricordato Emanuele Fiano – e che punta a rafforzare gli strumenti contro un fenomeno esploso del 400% nell’ultimo anno. Una proposta che non menziona Israele, non confonde critica politica e discriminazione, non introduce nuove fattispecie penali: eppure, secondo alcuni, sarebbe il tentativo di “mettere il bavaglio†a chi non condivide la linea del governo israeliano. Anche qui: un’aberrazione logica. La verità, per chi voglia vederla, è che una parte della sinistra vive una sorta ...

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Esteri
L’Ue è davvero pronta a sostenere l’Ucraina «whatever it takes»?
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 03:55:00 +0000 di Leone Grotti

Se l'Unione europea è davvero pronta a sostenere l'Ucraina e a permetterle di reggere l'urto dell'invasione russa costi quel costi, «whatever it takes», è arrivato il momento di dimostrarlo. Non soltanto a parole, vertici, reprimende e pacche sulle spalle ma con i fatti.
E ora che tutti i nodi vengono al pettine, e si avvicina il momento topico della guerra, per fatti si intende munizioni, sistemi di difesa aerea, soldati e decine di miliardi di euro.
L'ultimatum di Trump all'Ucraina
Donald Trump ha dichiarato in un'intervista a Politico che Volodymyr Zelensky non ha ancora letto l'ultima versione dell'accordo con la Russia mediato dagli Stati Uniti e gli ha lanciato un ultimatum: «Accetta l'accordo entro Natale».
Il presidente ucraino, forte del sostegno dell'Ue, ha ribadito che non cederà alla Russia territori che Mosca non ha ancora conquistato (circa cinquemila chilometri quadrati nel Donetsk), facendo così saltare virtualmente ogni tipo di intesa.
Poi, per rilanciare la palla nel ...

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Esteri
La Cechia va a destra e rianima il gruppo di Visegrád
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 03:45:00 +0000 di Rodolfo Casadei

Martedì è entrato in carica il governo più a destra fra tutti i 27 dell’Unione Europea. Si tratta del nuovo esecutivo della Repubblica Ceca, presieduto dal miliardario Andrej Babiš e retto da una coalizione di tre partiti: Ano 2011 (Azione dei cittadini insoddisfatti), che è quello del premier, Spd (Libertà e democrazia diretta) e Motoristé sobÄ›, che in italiano si traduce “Gli automobilisti per se stessiâ€.
Di questi tre il primo e il terzo nel parlamento europeo siedono nel gruppo Patrioti per l’Europa, quello di cui fanno parte il Rassemblement National francese, la Lega italiana, Fidesz ungherese e Vox spagnola; il secondo siede con Europa delle Nazioni sovrane, cioè il gruppo al quale afferiscono l’Afd tedesca e Reconquête! francese. Si tenga presente che l’Ungheria di Viktor Orbán è retta da una coalizione fra la sua Fidesz e i cristiano-democratici del Kndp, entrambi iscritti ai Patrioti per l’Europa.
Governo nazionalista ed euroscettico
In linea di principio il programma del nuo...

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Società
Indicare il Pantone bianco e vederci il Ku Klux Klan
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 03:30:00 +0000 di Caterina Giojelli

Dopo anni di parole radioattive e di politicamente, follemente, aggressivamente corretto, Pantone, quel sommo oracolo delle tinte, papa laico del cromatismo per antonomasia, ha osato l’impensabile: eleggere il bianco, con il nome poetico di “Cloud Dancer” (Pantone 11-4201, per i cultori del dettaglio), come Colore dell’Anno 2026. Mai accaduto da 26 anni. Mai visto un bianco da quando nel 1999 il brand americano decise di istituire la ricorrenza “Color of the yearâ€, decretando la tinta che avrebbe catturato lo spirito del momento (il primo, il Cerulean Blue, debuttò nel 2000 quale colore del millennio).

Non un bianco qualunque: un bianco “ballando tra le nuvole”, etereo, un bianco tregua. «È un invito a percorrere nuove strade e nuovi modi di pensare, nuovi capitoli», gongola Leatrice Eiseman, direttrice esecutiva del Pantone Color Institute, sperticandosi in lodi alla serenità come nemmeno una brochure zen per manager in burnout. E Laurie Pressman, presidente dell’istituto, lo dipinge come «un bianco non sbiancato, un bianco naturale», un lenzuolo pulito per l’anima afflitta da un mondo «saturo e rumoroso». Ma guai a loro e ai loro antidoti minimalisti al “sovraccarico sensoriale della vita modernaâ€! Perché in questa giungla di tweet e thread infuocati, ha da venire il bianco come non-colore aristotelico, pronto a scatenare l’inferno.

Bianco fa rima con «suprematismo bianco»

La domanda è infatti: dove hanno vissuto quelli di Pantone negli ultimi dieci anni? Se lo chiede la fashion editor del New York Times Vanessa Friedman, convocata dal quotidiano in “commissione” con altri colleghi: «Dato il recente dibattito politico, quando sento “bianco”, mi vengono in mente anche associazioni meno salutari, che dubito Pantone abbia preso in considerazione». «È certamente una scelta importante dopo un anno in cui i programmi DEI sono stati smantellati e il partito al potere ha discusso su quanto essere amichevoli con il nazionalismo bianco», ha chiosato la collega Callie Holtermann. «Forse non è questo che Pantone intende con “pace, unità e coesione”, ma immagino che verrà in mente ad alcuni spettatori».

Specie dopo un anno all’insegna del colore Mocha Mousse, una via di mezzo tra il cioccolato e il cappuccino, che Pantone giurava non avesse nulla a che fare con le carnagioni, ma che i woke avevano già eletto a “riparazione razziale tardivaâ€. «Le tonalità della pelle non hanno influenzato affatto», ha tagliato corto Pressman parlando al Washington Post e ricordando che appunto anche per Mocha Mousse nel 2025 e prima con Peach Fuzz nel 2024 «ci è stato chiesto se la scelta avesse qualcosa a che fare con la razza o l’etnia».

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La risposta era no allora e resta no oggi, e quindi, dice Pressman, largo al bianco. «Non un bianco puro, non un bianco tecnico», insiste. «Questo è volutamente un bianco non sbiancato, un bianco dall’aspetto molto naturale». Il che rende ancora più comico, sempre in fatto di metafore, quella evocata da Pantone e corteggio di giornalisti quando spiegano che l’elezione a New York del giovanissimo sindaco Zohran Mamdani (con le sue radici indiane e ugandesi, ndr) potrebbe essere un esempio della nuova filosofia.

«Pantonedeaf!», il bianco Pantone «è razzista e tone-deaf»

Ciò detto, nulla grida cortocircuito come le white women woke dotate di social network che, come nota il New York Post con gusto sadico, al minimo accenno di bianchezza lanciano l’allarme rosso. «Pantonedeaf!», tuona una su X. «È razzista e tone-deaf», incalza un’altra, come se scegliere il bianco fosse equivalente a dipingere svastiche su un arcobaleno. «È un promemoria di chi controlla ancora la narrazione. Ci stanno prendendo in giro apertamente, scegliendo il bianco puro come colore culturale dell’anno, mentre il resto di noi grida per l’umanità». E non è finita: «Sta facendo molto Sydney Sweeney vibes… Quindi scegli il bianco e lo vendi come un “reset rilassanteâ€? Per chi, tesoro? A chi dovrebbe risultare rilassante?», sibila qualcun altro su Instagram, evocando l’attrice bionda come epitome del male bianco-borghese.

«Dato l’attuale clima politico e culturale, dichiarare una tonalità di bianco colore dell’anno è una dichiarazione audace», dice Vogue, mentre il New Yorker la bolla come «equivoco simbolico», evocando purezza, controllo e canoni colonialisti. Mandy Lee, analista di moda su Marie Claire, inchioda la scelta: «Tone-deaf e inaccurata», ignorando il contesto politico-economico di un’America trumpiana dove l’anti-immigrazione fiuta odore di bianco nazionalista.

I geni di Sydney Sweeney e quelli di L.T., venetta, alla Columbia

Va detto che l’ossessione per il bianco fuori luogo non è un unicum pantoniano, ma un sintomo di un’epidemia woke che vede razzismo ovunque, persino nel codice binario dell’esistenza. Torniamo a Sydney Sweeney, la santa patrona di questa demenza cromatica. Nell’estate 2025, American Eagle lancia una campagna jeans con slogan “Sydney Sweeney has great jeans” – un gioco di parole su “genes”, geni, che scatena l’inferno: eugenetica! Razzismo! Standard di bellezza bianchi! “Nazi vibes”, perché la bionda Sweeney, con quel suo look “ariano”, oserebbe promuovere “buoni geni” in un mondo Black Lives Matters. E mica è l’unica.

Lo scorso anno ha tenuto banco per giorni anche qui in Italia il caso di L.T., veneta che frequentava un master alla Columbia, e che ha spiegato a Federico Rampini cosa significa «scusarmi (letteralmente, lo richiede il master stesso, ndr) in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche», «scusarci con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori», «ogni due settimane una bianca come me deve partecipare a una riunione di White Accountability (“responsabilità biancaâ€): due ore con una persona che ci interroga per farci riconoscere le nostre micro-aggressioni verso i neri e chiederci un pentimento».

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Contro il bianco e la bianchezza

Un docente di inglese, Zack De Piero, ha fatto causa alla Penn State University, sostenendo di essere stato sottoposto a “formazione antirazzista†in cui gli è stato detto che la lingua inglese è razzista e che “insegnare inglese = perpetuare white supremacyâ€. Secondo la denuncia, in un workshop o training era presente un video intitolato “White Teachers are a Problem†– cioè “Gli insegnanti bianchi sono un problema†– e a lui veniva richiesto di frequentare ripetuti “antiracist trainings†finché non “capiva†(cioè non si auto-criticava). Capire cosa? Che «come individuo bianco, sono in qualche modo responsabile di tutte le ingiustizie del mondo».

Nel 2025 il Goldwater Institute ha depositato una denuncia contro l’Arizona State University perché un training obbligatorio per docenti e staff, intitolato “Inclusive Communitiesâ€, richiedeva di accettare come verità che la “supremazia bianca è normalizzata nella societàâ€, che “whiteness†va criticata, e che persino domande innocenti (“Da dove vieni?â€, “Che capelli hai?â€) potevano essere interpretate come razziste.

La matematica antirazzista e la decolonizzazione delle scuole

Tre esempi di innumerevoli tentativi di riduzione del bianco e lotta al privilegio bianco. Si va dal caso del bianchissimo professor Paul Rossi, insegnante di matematica dell’esclusiva Grace Church School di New York accusato di «creare uno squilibrio neurologico negli studenti», a quello della Dalton School, dove fra le proposte del preside, sostenute da 100 insegnanti e membri dello staff, c’era quella di abolire i corsi avanzati nei quali gli studenti afroamericani avevano ottenuto risultati peggiori degli studenti non afroamericani. Fino al caso della Brearley School che si è proclamata “scuola antirazzista†e ha reso obbligatori corsi di antirazzismo per genitori, personale docente e non docente e membri del Consiglio di amministrazione (bianchi, of course).

Dalle nuove linee guida della California per insegnare la matematica antirazzista alla scuola di Evanston, Illinois, dove alla fine del lockdown il sovrintendente aveva deciso che solo gli studenti neri, marroni e Lgbtq avrebbero potuto accedere in autunno all’istruzione in presenza, alle 44 scuole di San Francisco che dovevano cambiare nome perché intitolate a “mostri” come George Washington o Abraham Lincoln.

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Le doppiatrici e il poeta che si è finto di colore

Dal licenziamento dalla Reuters di Zac Kriegman, colpevole di avere scoperto che i numeri smentivano la tesi dei neri uccisi più dei bianchi dalla polizia, alle due immaginarie ragazzine nere dei cartoni animati che perdono le loro voci perché le doppiatrici bianche non vogliono più essere «complici». Dai brand accusati di sfruttare l’antirazzismo per fare business all’inevitabile difesa del “white lives don’t matter”.

Potremmo citare migliaia di esempi fino a quel caso magistrale del poeta bianco canadese eterosessuale che non riuscendo a trovare un editore per i suoi versi si è reinventato di colore e gender-fluid e ha pubblicato decine di poesie bruttissime.

Pantone indica il bianco e i guardiani del woke ci vedono il Ku Klux Klan

In questo circo di ipersensibilità cromatica, Pantone indica il bianco e i guardiani del woke ci vedono subito il cappuccio del Ku Klux Klan o il cappello Maga, come se ogni nuvola nascondesse un raduno di suprematisti sotto steroidi o un gin tonic con i miliardari della Silicon Valley (il bianco nuvoletta estiva “ispirato ai toni grigio-bianchi naturali di una piumaâ€, «può avere molto più senso se vivi in una parte del mondo ricca e tranquilla e scorri abitualmente prodotti e trend di moda, arredamento, cosmetica e in qualche caso tecnologia», è ancora una pagina di Marie Claire per cui meglio sarebbe che il colore dell’anno fosse «votato dalla gente, con un sistema democratico»).

Forse, tra allarmi woke, tone-deaf e moralismi estetici, se si vuole catturare lo spirito del tempo, non c’è davvero migliore allegoria del bianco scelto da Pantone. Prossimo colore dell’anno, il “Transparent Voidâ€, l’unico colore che non esiste: perfetto per chi ha perso ogni sfumatura di buonsenso.

Economia
Umani dentro il mondo digitale
Data articolo:Thu, 11 Dec 2025 03:00:00 +0000 di Matteo Brogi

Quando si parla di tecnologia, di cloud, cyber security o intelligenza artificiale, si pensa spesso a un mondo distante, popolato da linguaggi tecnici e processi automatizzati. Nel racconto di Stefano Davitti, però, tutto questo prende una direzione diversa: quella della persona. Presidente e amministratore delegato di Ergon, azienda fiorentina da cui è nato il Gruppo E, Davitti guida una realtà che conta cinque società, tre business unit e oltre cento collaboratori. Un ecosistema di competenze che opera come un’unica impresa e che aderisce alla Compagnia delle Opere (Cdo), con cui condivide un’idea molto chiara di impresa: il lavoro come luogo di crescita, responsabilità e bene comune.

Stefano Davitti, Ceo e fondatore del Gruppo E
Stefano Davitti, alla guida del Gruppo E

Il percorso personale di Davitti non nasce nei laboratori di informatica, ma dalla responsabilità. A 23 anni si ritrova a guidare l’azienda di famiglia e quell’esperienza diretta gli permette, giovanissimo, di intuire che il futuro passa dalla capacità di organizzare l’informazione. Così trasforma l’impresa familiare in una banca dati nazionale sulle proprietà immobiliari e sulla affidabilità creditizia: a metà anni Ottanta, quando internet non esisteva ancora, Davitti pensa già alla consultazione online dei dati. È il primo seme dell’avventura. Qualche anno più tardi, grazie all’incontro con un amico system integrator, matura l’idea – allora ardita – di fondare in Toscana un’azienda It strutturata. Nel 2005, da un piccolo gruppo di tecnici incontrati quasi per caso, nasce Ergon. Da allora, la crescita è continua: nel 2010 l’acquisizione del ramo software Estrobit; nel 2015 la riorganizzazione societaria e l’inizio della partnership con Mediasecure, che spalanca la porta alla cyber security e porta alla partecipazione in MgaLabs; nel 2018 la nascita formale del Gruppo E; nel 2023 l’ingresso nell’intelligenza artificiale con Memori; nel 2024 la fusione di Ergon e Mediasecure.

Tre unità, un’unica visione

Oggi il Gruppo E opera con una struttura che integra in un’unica proposta competenze diverse raggruppate in tre business unit: Next Generation Infrastructures, per infrastrutture It di nuova generazione, datacenter, applicazioni e networking; Information security, con servizi avanzati di sicurezza, governance e Ot security; Innovability, l’area dedicata allo sviluppo sostenibile, all’intelligenza artificiale, alla business intelligence e ai progetti Esg – che si allineano ai criteri environmental, social and governance (ambientale, sociale e di governance) di valutazione delle performance di un’impresa anche sul piano della sostenibilità e della responsabilità sociale. «Siamo più aziende», spiega Davitti, «ma ci muoviamo come un’unica realtà sotto il brand Gruppo E. La nostra forza è la complementarità».

In tutto questo, il concetto di transizione digitale sostenibile svolge un ruolo chiave. «La sostenibilità non è solo quella energetica o ambientale», chiarisce. «Produciamo report da sei anni e bilanci di sostenibilità da tre: sono strumenti che ti obbligano a guardarti dentro, a valutare l’impatto reale del tuo lavoro. Per noi sostenibilità significa anche reinvestire sul territorio: dal 2021, per esempio, finanziamo gli scavi archeologici di San Casciano dei Bagni, un patrimonio unico del paese». Accanto alla responsabilità verso l’esterno, per Davitti c’è quella verso chi lavora: «Abbiamo sedi distaccate a Siena, Pistoia, Milano, Perugia. Vogliamo che le persone stiano bene, che abbiano un luogo di lavoro vicino, che faciliti la vita. Siamo nati in smart working: per noi è naturale mettere la persona nella condizione migliore per lavorare».

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Il Manifesto della Cdo

È forse questo il punto più evidente del metodo Ergon: «Per ottenere il meglio dalle persone, devi farle partecipare al gioco», racconta. «Crescita professionale, possibilità di incidere, contributo alle decisioni: tutto è perfezionabile. Chi arriva deve sentirsi libero di proporre. E il benessere creato viene condiviso, tutti i settori hanno piani di incentivi». Il risultato è un ambiente che cresce e attrae: solo nell’ultimo anno sono entrate quasi trenta persone. Una struttura con molti soci nei ruoli chiave, che consente «una capillarità umana che ci permette di non perdere il contatto diretto con i collaboratori».

Per Davitti l’azienda è un “microcosmo socialeâ€: «Il benessere personale ed emotivo di chi lavora è un dovere quotidiano. Porte aperte, poche gerarchie, ascolto costante: l’atteggiamento deve essere quello del rispetto e dell’accoglienza. È lo stesso spirito che ritroviamo nella Cdo». Il legame con la Cdo nasce da conoscenze comuni, ma presto diventa molto più di una rete: «La Cdo ci ha accompagnato durante una fase di crescita. Oggi vogliamo restituire, mettendoci a disposizione per raccontare la nostra esperienza e collaborando su progetti specifici. I princìpi del Manifesto del Buon Lavoro – la persona al centro, il valore sociale dell’impresa, la crescita condivisa – sono esattamente ciò che ci guida» e rappresenta una fotografia fedele del Dna aziendale.

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Un tratto semplice e profondo

Guardando avanti, Davitti non ha dubbi: «La tecnologia corre, e questo per noi è un bene: più è complesso un sistema informativo, più è stimolante. Cyber security e cloud sono ormai maturi; il nuovo fronte è l’intelligenza artificiale». Non è una minaccia all’uomo: «La paura nasce dalla non conoscenza. Le rivoluzioni tecnologiche hanno sempre creato lavoro, non distrutto. L’Ai cambierà il modo di lavorare, ma offrirà anche nuove opportunità a chi avrà voglia di intraprendere».

C’è un’unica incognita reale: la distanza tra innovazione e istituzioni. «La società corre più veloce delle norme. Questo sì, può generare problemi. Ma è una sfida comune, e va affrontata insieme». Nella storia personale e imprenditoriale di Stefano Davitti emerge un tratto semplice e profondo: la tecnologia è uno strumento, non un fine. Il fine resta l’uomo. È la stessa intuizione che guida il Manifesto del Buon Lavoro e che permette di raccontare, attraverso il Gruppo E, un’Italia che cresce senza dimenticare che ogni impresa nasce sempre da un incontro tra persone.

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Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di dicembre 2025 di Tempi. Abbonati per sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Blog
Il realismo che serve per fermare il mondo prima del baratro
Data articolo:Wed, 10 Dec 2025 08:12:09 +0000 di Lodovico Festa

Su Open Alessandro D’Amato scrive:

«Secondo Cohn-Bendit, che parla oggi in un’intervista a Repubblica, Trump e Putin hanno siglato il “nuovo patto Molotov-Ribbentrop†per distruggere l’Europa. Il Vecchio Continente rischia di cadere in un sistema “illiberale†senza democrazia. Perché Usa e Russia “hanno lo stesso obiettivo. L’Europa deve capire. L’Italia deve capire che le regole del gioco sono totalmente cambiate. La sinistra italiana in passato è stata contro l’imperialismo americano, ma l’imperialismo americano era legato all’Europa, all’Alleanza transatlantica. Oggi invece è contro l’Europa. Vede solo le grandi potenze: Russia e Cina. Vuole allearsi con la Russia contro l’Europa. Perché per gli Usa non è solo un nemico economico ma rappresenta il confronto tra la democrazia e la democrazia illiberaleâ€Â».

Chiunque sia in buona fede non può non condannare l’aggressione russa all’Ucraina, ma paragonare la Mosca del Duemila alla Germania hitleriana è sensato? Certo anche nel mondo di...

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Esteri
Quella dell’Europa è una tragedia ridicola
Data articolo:Wed, 10 Dec 2025 03:55:00 +0000 di Rodolfo Casadei

Domenica sera Rai Storia ha trasmesso un film di Bernardo Bertolucci con Ugo Tognazzi e una giovanissima Laura Morante: La tragedia di un uomo ridicolo. Si potrebbe parafrasarlo per descrivere la condizione dell’Europa dopo la pubblicazione della prima National Security Strategy del secondo mandato di Donald Trump: la tragedia di un continente ridicolo. Ridicolo esattamente come il personaggio interpretato da Tognazzi, e cioè non per stupidità o demeriti intrinseci, ma perché vittima della storia, della lotta politica e delle complicità fra gli altri personaggi del racconto.

L’Europa è uscita con le ossa rotte dalla Seconda Guerra mondiale, spartita fra le due potenze che erano entrate nel conflitto due anni dopo il suo inizio: Unione Sovietica e Stati Uniti. La parte occidentale del continente ha avuto la fortuna di vivere una condizione di subalternità agli interessi atlantici che le ha permesso di sviluppare istituzioni più libere e un’economia più efficiente di quelle della parte orientale. Ha potuto pure dare vita a un esperimento di progressiva integrazione fra stati sovrani senza precedenti storici sia per gli aspetti positivi che per quelli problematici, in quanto tale esperimento era nell’interesse della potenza tutelare americana: si trattava di evitare una rinascita della rivalità franco-tedesca e di prevenire attraverso la crescita economica rivoluzioni di stampo comunista (e perciò filo-sovietico).

Ma era nell’interesse americano anche che l’Europa non diventasse un soggetto strategico autonomo, e gli europei si sono lasciati convincere che la soluzione migliore per la loro difesa era la Nato, un’alleanza politico-militare egemonizzata dagli Stati Uniti (che da soli spendevano per armamenti più di tutti gli altri paesi del mondo sommati insieme e giunsero ad avere 260 basi militari nei paesi europei, contro zero dei paesi europei negli Stati Uniti) che doveva proteggerli dalla minaccia sovietica.

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Prima la Nato poi la Ue

Finita la Guerra fredda col tracollo del sistema comunista nell’Est europeo, il buon Mikhail Gorbaciov, l’uomo della glasnost e della perestrojka, premio Nobel per la pace, propose lo scioglimento delle rispettive alleanze militari in Europa (Nato e Patto di Varsavia) e la delega di tutte le questioni della sicurezza del continente all’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, prodotto degli accordi di Helsinki del 1975 (passando per la Csce). La Nato rispose picche, e l’Europa partecipò con entusiasmo all’allargamento a Est dell’alleanza, trasformando di fatto l’ingresso nel patto atlantico in un prerequisito per l’adesione all’Unione Europea: tutti i paesi che sono diventati membri della Ue a partire dal 2004 (e sono dieci) prima sono entrati a far parte della Nato.

L’entusiasmo cominciò a venire meno quando la Nato deliberò (aprile 2008) che anche Ucraina e Georgia sarebbero divenute membri dell’organizzazione. Francia e Germania obiettarono, memori del minaccioso discorso di Putin a Monaco un anno prima, timorose della prevedibile reazione russa. E rimasero scettiche circa la promessa di adesione fatta a Ucraina e Georgia per tutto il quindicennio successivo, fino all’attacco russo a Kiev del febbraio 2022. Mentre durante tutto quel periodo i presidenti ucraini incontravano i presidenti americani che rinnovavano loro la promessa (l’ultima volta avvenne nel novembre 2021, incontro Biden-Zelensky a Washington). Dopo l’invasione dell’Ucraina gli europei hanno accolto con sollievo l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, e hanno cominciato a guardare alla potenziale adesione di Ucraina e Georgia in una luce diversa.

Donald Trump e Vladimir Putin si stringono la mano all'arrivo ad Anchorage, in Alaska, per il vertice sull'Ucraina
Donald Trump e Vladimir Putin si stringono la mano all’arrivo ad Anchorage, in Alaska, per il vertice sull’Ucraina (foto Ansa)

Il partner russo

E dopo tutta questa storia, cosa leggiamo a pagina 27 della National Security Strategy, novembre 2025, nel capitolo dedicato alla strategia Usa nei riguardi dell’Europa?

«La nostra politica generale per l’Europa dovrebbe dare priorità (…) al porre fine alla percezione, e impedire la realtà, della Nato come un’alleanza in continua espansione».

Che potremmo tradurre così: per più di trent’anni vi abbiamo convinto ad agire contro i vostri interessi, dando la priorità all’allargamento a Est della Nato anziché alla creazione di istituzioni multilaterali che sviluppassero il partenariato fra Ue e Federazione Russa, perché la nascita di un’entità euroasiatica da Lisbona a Vladivostok avrebbe messo in discussione l’egemonia globale degli Usa; siamo riusciti talmente nei nostri intenti che la Russia è transitata dal benevolo Gorbaciov al crudele Putin. Adesso che abbiamo reso impossibile qualunque convergenza fra Russia e Ue per almeno cento anni, per favore fatevi da parte: quello che oggi ci interessa è la «stabilità strategica con la Russia» (citata tre volte nel capitolo sull’Europa).

Cioè gli Usa hanno impedito all’Europa di sviluppare un partenariato strategico con la Russia dopo la fine della Guerra fredda, e adesso quel partenariato strategico con Mosca se lo accaparrano loro in esclusiva, e a noi lasciano l’Ucraina in rovina da ricostruire e da custodire!

Gli Usa e il Medio Oriente

Non è questa l’unica beffa riservata agli europei dal documento. Con loro ci si prende la libertà del doppio standard. I paesi del Medio Oriente vengono esentati dagli standard etico-politici occidentali; al loro riguardo si dichiara che bisogna

«abbandonare l’esperimento maldestro dell’America di costringere queste nazioni – in particolare le monarchie del Golfo – a rinunciare alle loro tradizioni e alle loro forme storiche di governo.(…) La chiave per relazioni di successo con il Medio Oriente è accettare la regione, i suoi leader e le sue nazioni così come sono, lavorando insieme su aree di interesse comune».

Invece per l’Europa vale esattamente il contrario:

«(…) questo declino economico (dell’Europa – ndt) è eclissato dalla prospettiva reale e più cruda della cancellazione della sua civiltà. I problemi più ampi che l’Europa si trova ad affrontare includono le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in se stessi. (…) Vogliamo che l’Europa rimanga europea, che riacquisti l’autostima della propria civiltà e che abbandoni la sua fallimentare dedizione al soffocamento normativo».

A quest’ultimo fine Washington si schiera apertamente dalla parte delle forze politiche sovraniste:

«La crescente influenza dei partiti europei patriottici è motivo di grande ottimismo. (…) La nostra politica generale per l’Europa dovrebbe dare priorità (…) al coltivare la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee».

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Una guerra per gli Stati Uniti d’Europa

Attribuire motivazioni principalmente ideologiche all’opzione trumpiana favorevole a un’Europa di nazioni sovrane e ostile all’Unione Europea sarebbe però miope. Gli interessi strategici dei soggetti internazionali vengono sempre presentati avvolti in luccicanti involucri ideologici, ma in realtà consistono ultimamente nella nuda volontà di potenza. Molto semplicemente, per gli Stati Uniti è meglio trattare con 27 paesi separati che con una monolitica Unione Europea: il presidente dell’â€art of the deal†lo sa meglio di tutti.

Su questo punto russi, cinesi e mezzo mondo sono d’accordo con lui: ben pochi sentono il bisogno di un’altra superpotenza con cui fare i conti sulla scena internazionale. Che il fantasticato superstato europeo venga presentato dai suoi fautori come una potenza benigna, un attore pacifico e fautore del diritto internazionale cambia poco. Non c’è bisogno di avere letto Mearsheimer o Morgenthau o qualsiasi altro teorico del realismo delle relazioni internazionali: a questo mondo tutti sanno, per esperienza, che le superpotenze agiscono da superpotenze, cioè con aggressività e innata vocazione all’ampliamento della propria sfera di influenza.

Unione Europea o Stati Uniti d’Europa

La retorica varia: difesa dei valori tradizionali, progressismo liberale, rivincita del Sud del mondo, primato del diritto e dei diritti (sarebbe questa la new entry europea). Ma la realtà è la stessa per tutti: competono per l’egemonia. Per il superstato europeo non sarebbe diverso. Con l’aggravante che per diventare realtà dovrebbe imboccare la strada bismarckiana o cavouriana di una guerra costituente: mandare le truppe dei 27 sui campi di battaglia del Donbass mentre gli esausti ucraini tirano il fiato e gli americani si defilano. Ma allora il culmine del processo di integrazione europea coinciderebbe con la negazione di fatto delle ragioni che lo hanno ispirato ottant’anni fa: nata per prevenire future guerre fra stati europei, l’Unione Europea si trasformerebbe in Stati Uniti d’Europa attraverso quello che prevedibilmente sarebbe il conflitto più sanguinoso di tutti i tempi, con probabile utilizzo di armi di distruzione di massa.

Pluralità di Stati sovrani

Da cui una paradossale conclusione: mentre nel secolo scorso a precipitare le due grandi guerre sono stati gli squilibri fra i grandi stati europei del tempo, che non sarebbero esistiti se il continente si fosse trovato sotto un potere imperiale, nel nostro secolo gli interessi della pace in Europa sarebbero meglio serviti dal pluralismo degli stati che dalla loro unificazione nel superstato europeo, perché questa passa necessariamente attraverso una guerra costituente.

L’interessato auspicio di Trump, Vance e Musk, che incoraggiano gli europei a restare divisi e a non rinunciare alle sovranità nazionali dietro la speciosa giustificazione che questo rianimerebbe la “grandezza europea†di contro ai rischi di un collasso di civiltà, finisce per essere un buon consiglio al di là delle nascoste intenzioni: la pace e quindi la conservazione in vita dell’Europa è molto più probabile se resta l’attuale pluralità di stati sovrani, che procedono coi necessari compromessi di chi non è troppo potente, che non se la Ue si lancia nel conflitto russo-ucraino vedendo in esso il catalizzatore della propria unificazione. Un altro paradosso, che conferma l’ossimoro iniziale: quella dell’Europa è una tragedia ridicola.

Società
La bolla dell’Ai sta per scoppiare? Calma
Data articolo:Wed, 10 Dec 2025 03:45:00 +0000 di Piero Vietti

Da due anni l’intelligenza artificiale è diventata la protagonista indiscussa dell’economia globale. Ha ridisegnato i mercati finanziari, riscritto le strategie delle grandi aziende, alimentato entusiasmi, paure, profezie e contro-profezie. E, come accade sempre quando una tecnologia promette di cambiare tutto, la domanda che improvvisamente tutti si pongono è se l’Ai sia davvero la prossima rivoluzione o, al contrario, la prossima grande bolla destinata a sgonfiarsi con la stessa rapidità con cui si è gonfiata.

Qualcosa non va nel magico mondo dell’Ai

Anche gli analisti più ottimisti non nascondono che qualcosa non va. Le valutazioni di mercato delle aziende che sviluppano programmi di intelligenza artificiale sono cresciute a velocità vertiginosa, spesso molto più del loro effettivo fatturato. Gli investimenti in infrastrutture — data center, chip, modelli sempre più grandi — hanno raggiunto cifre gigantesche, mentre i ritorni economici, pur in crescita, non sempre giustificano l’ondata di capitali che continua a riversarsi sul settore.

Perfino alcuni sviluppatori e dirigenti di aziende leader, come Sam Altman di OpenAi, la società che ha inventato ChatGPT, ammettono che lo scenario di una bolla non è più un tabù. Parlano, con sorprendente franchezza, di un mercato gonfiato dalle aspettative, in cui il valore promesso supera di gran lunga il valore effettivamente realizzato.

Non è come la bolla delle dot-com

E tuttavia sarebbe troppo facile — e forse troppo affrettato — decretare che l’Ai sia solo l’ennesima illusione speculativa. Molti osservatori avvertono che siamo ancora in una fase embrionale, in cui i benefici reali devono emergere nel tempo e non possono essere misurati con i parametri trimestrali della Borsa. Le grandi imprese che utilizzano l’intelligenza artificiale per automatizzare processi, incrementare produttività o sviluppare nuovi servizi mostrano risultati solidi. Anche la concentrazione degli investimenti in pochi colossi, che per alcuni è un segnale di fragilità, per altri rappresenta la capacità di sostenere costi enormi che un tempo avrebbero impedito qualsiasi innovazione di scala.

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Il parallelo con la bolla delle dot-com, evocato da molti commentatori, è solo parzialmente calzante. All’inizio degli anni Duemila il mondo investiva miliardi in aziende che non avevano né clienti né prodotti funzionanti. Oggi, invece, parte dell’Ai è già utilizzata da milioni di persone e sta trasformando concretamente settori come sanità, manifattura, finanza e pubblica amministrazione. Se una bolla esiste — osservano i più prudenti — non riguarda il fatto che l’intelligenza artificiale sia inutile, ma il ritmo con cui il mercato scommette sui suoi potenziali scenari futuri. L’euforia potrebbe ridimensionarsi, alcune aziende potrebbero sparire, altre consolidarsi. Ma il movimento di fondo potrebbe continuare per anni.

intelligenza artificiale
Immagine generata con l’intelligenza artificiale da ChatGPT (DALL·E)

Chi governerà l’intelligenza artificiale?

Leggendo le analisi più serie, l’impressione è che entrambe le posizioni contengono un pezzo di verità. Da una parte, una bolla dell’Ai è possibile (per Martin Vanden Meyer sullo Spectator la domanda non è se scoppierà, ma quando). Non si tratta di negare l’evidenza: quando il divario tra promessa e realtà si allarga troppo, il rischio di una correzione violenta aumenta. Ma è altrettanto ragionevole riconoscere che l’intelligenza artificiale rappresenta un cambio di paradigma, una trasformazione tecnologica reale il cui impatto si dispiegherà nel tempo, con intensità e velocità difficili da prevedere.

Di fronte a questo quadro, la domanda più importante non è se la bolla ci sia già, o se scoppierà domani. La domanda vera è un’altra: chi governerà l’intelligenza artificiale? Perché ciò che accadrà nei mercati dipende molto meno dalla tecnologia in sé e molto più da come imprese, Stati e società civile sapranno orientarla. Un’Ai dominata dalla logica dell’hype — investimenti freneticamente alla ricerca del prossimo miracolo — è fragile per definizione. Un’Ai integrata in settori produttivi reali, accompagnata da norme chiare, sostenuta da infrastrutture solide e guidata da obiettivi razionali, ha invece la possibilità di essere una forza positiva e duratura.

La bolla dell’intelligenza artificiale non è un destino, ma un rischio

In altri termini: la bolla non è un destino, ma un rischio. E i rischi, a differenza dei destini, possono essere gestiti. Quello che serve oggi è un equilibrio nuovo, culturale prima ancora che economico: riconoscere che l’Ai non è un giocattolo né una minaccia cosmica, ma uno strumento potentissimo, capace di generare valore solo se collocato dentro una visione umana e politica.

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Forse la bolla dell’Ai esiste già. Forse no. Forse scoppierà tra qualche mese, o forse non scoppierà affatto (o forse, come scrive Tyler Cowen su The Free Press, ci conviene credere che sia una bolla). Ma il punto decisivo resta lo stesso: non è l’Ai a determinare il nostro futuro, siamo noi a determinarlo con il modo in cui la guidiamo. In questo senso, più che temere la bolla, dovremmo temere la mancanza di governo. Perché una tecnologia senza guida non è mai soltanto un rischio finanziario: è un rischio per la civiltà.

Cultura
Seguendo la stella che porta alla Luce
Data articolo:Wed, 10 Dec 2025 03:25:00 +0000 di Annalisa Teggi

I re Magi sono le statuette del presepe che stanno in disparte, e arrivano dopo. Se ce lo chiedessero a bruciapelo, è probabile che ci ricorderemmo meglio i loro doni – oro, incenso e mirra – dei loro nomi, Melchiorre, Gaspare, Baldassarre.
Il rischio di ridurli a figurine stilizzate (profili scuri a dorso di cammello sotto una grande stella) è pari al fraintendimento a cui, sempre più spesso, è soggetta la parola “desiderioâ€.
Bellissima, da spendere in ogni contesto di umano entusiasmo, col rischio però di mettere al centro quell’individualismo che, desiderando, si chiude con presa rapace su quel che vuole e pretende.
Il vero viaggio del desiderio orienta la vista su un’unità di misura astronomica, in cui l’uomo è piccolo in un mondo di cose grandi che lo surclassano, nel vasto e nel profondo, nella meraviglia e nello sconcerto. E solo così è possibile che il vagito di un io cresca e si faccia voce.
Drammatica inquietudine
Nel romanzo La profezia della luce di Emmanuel Exitu si dilat...

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