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Società
Fratello embrione, sorella verità
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 12:56:18 +0000 di Redazione

Il 14 maggio 2005 al Palalido di Milano davanti a circa cinquemila persone si svolse l’incontro “Fratello embrione, sorella verità, il nostro no alla dittatura del relativismo” organizzato da Tempi e Il Foglio con gli interventi di Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, Giancarlo Cesana, dell’ufficio di presidenza di Comunione e Liberazione, Luigi Amicone, direttore di Tempi,

Luigi Amicone

Fratello embrione, sorella verità. Ci piace la sintesi del professor Angelo Vescovi: è colpa mia se non sono soltanto una scimmia? È colpa mia se sono un uomo dotato di ragione e non mi basta dire soltanto quello che vedo – un ricciolo di materia grande come una capocchia di spillo -, ma devo dire anche quello che so? E cioè che l’embrione non è un pasticcio, non è solo “roba umana” come lo può essere il sangue o una delle mie ciglia – come dice Emma Bonino alle signore che vanno dal parrucchiere -, no, sei proprio tu, sono proprio io, all’inizio di tutta l’avventura?

Fratello embrione, sorella verità. È colpa mia se non posso aderire al gioco che prevede tutti i diritti, tranne quello di quella cosa là, ricciolo di materia muta e paziente? Mi dispiace, mi spiace per i sofisti, i gorgia, i voltafrittata, per la chiesa di destra e di sinistra, che vorrebbe portare la Terra sulle nuvole. Mi dispiace, alle espressioni linguistiche ricche di suggestioni emotive – “Vatican Taliban”, “oscurantisti”, “oppressori del corpo delle donne” – io rispondo stando ben piantato sulla terra con fratello embrione e sorella verità.

Noi non abbiamo fatto e non stiamo facendo nessuna crociata. È colpa nostra se a domanda di manipolazione, selezione e uccisione, rispondiamo: guarda che l’embrione appartiene alla realtà non alla fantasia, alla fiction, ai sogni o ai desideri? Se non parti dai fatti, che laico, che galileiano, che illuminista sei come chiede Barbara Spinelli?

Voi dite che i fatti sono cretini e che ci vuole il microscopio per vederli. Perciò, dite, è l’intelligenza scientifica e quella delle donne che devono decidere. Però la scienza che non ciurla nel manico ti ha già ricordato che non solo è un’operazione furbetta, ma pure un po’ goebbelsiana quella della vita umana come processo. Una logica per cui, sofisticheggiando sull’atto e la potenza, si fa presto a dimostrare che un embrione vale meno di un feto, un feto meno di un bambino, un bambino meno di un adulto e un adulto ebreo meno di un adulto ariano.

Quanto alle donne, non lo diciamo noi, ma lo dice, per esempio, l’Alto Consiglio della Popolazione e della Famiglia dello Stato francese, che la liberalizzazione alla fecondazione per via medicalmente assistita si è rivelato un disastro che «pone un problema di sanità pubblica» e «minaccia la salute dei bambini e delle madri». Sono problemi seri, no? Chi dite che vuole opprimere? Quelli che adottano nei riguardi dell’embrione e del corpo delle donne almeno la stessa precauzione che si usa per le melanzane e le bistecche ogm, o quelli che il corpo delle donne lo vogliono trasformare nel più straordinario laboratorio sperimentale del XXI secolo?

Ci sentiamo come quello che va al bar, è un po’ abbacchiato, ha di fianco la Prestigiacomo, Fini o Capezzone, e dice tra sé e sé sconsolato: «Sono un cretino». E quello: «È sicuro o vuole che facciamo un referendum?». Se l’Espresso fosse come il suo barzellettiere Altan la prossima copertina con la Ferilli, Veronesi o Jovanotti, potrebbe farla con uno spot molto intelligente, tipo: «L’ho scritto e firmato: se muoio, voglio essere reincarnato. Magari nel fidanzato di Kim Basinger».

Sapete cosa c’è di nuovo? I relativisti sono nervosi con questi cittadini che approvano la legge 40 – e perciò si asterranno da un referendum che non condividono e reputano sbagliato. Loro vogliono farci credere che, poiché non esiste una verità e tutte le opinioni sono legittime, ci sono verità (le loro) che sono più vere di quelle degli altri; e opinioni (le loro) che sono più legittime delle altre. Il relativismo naturalmente è una barzelletta che finisce in intolleranza, un po’ come direbbe un volterriano (un po’ come è stato scritto dello storico Vivarelli su un giornale volterriano): «Io razzista? Ma quando mai, sei tu che sei negro».

No, non c’è nessuna miserabilità, non c’è nessuna frode della Costituzione, nessun dovere violato nell’astensione da un referendum. Non fu miserabile Pannella che nel 1985 chiese l’astensione sulla scala mobile. Né Bertinotti nel ’99 sull’abolizione del proporzionale. Né Fassino nel 2003 sull’articolo 18. Semmai c’è chi ha paura del dialogo a partire dai dati di fatto. Semmai c’è chi ha paura – una paura matta – della realtà. E così, mosso da questa paura e da un inspiegabile risentimento rispetto al dato effettuale, non avendo sufficienti ragioni, strepita, divaga, parla d’altro. Perciò salutiamo con un brivido lungo la schiena ma rendendo onore a chi abbiamo contribuito a stanare, a uscire dagli eufemismi, chiacchiericcio sentimentale, e finalmente vuotare il sacco: Carlo Flamigni, il pioniere dell’eugenetica in Italia, che a Repubblica ha dichiarato: «La vita inizia quando la donna decide che è iniziata».

Adesso ci manca solo Benigni, la vita è bella. Ma la vita inizierà nello zigote o dopo che ha smesso di farsi la pipì addosso, di non essere autocosciente, di non rompere le balle piangendo di notte? E se va male in biologia cosa facciamo? Revochiamo la decisione, il visto di soggiorno, prendiamo i medici, gli scienziati e i giornalisti e gli facciamo dimostrare che, per carità, siamo esseri umani e così ogni tanto anche la donna può sbagliare, non è iniziato un bel niente (sai tra la potenza e l’atto c’è di mezzo tanto mare come dice Sartorius) e perciò, fuori dai piedi, riduciamola in cenere, no anzi – come invitava a perifrasare il ministero della propaganda di Goebbels – «concediamogli una morte per grazia»?

Sono almeno due anni, non da oggi, che cerchiamo di studiare e di parlare seriamente (dico noi di Tempi e soprattutto il Foglio) degli annessi e connessi di una delle poche leggi serie di questa Repubblica. La numero 40, tra le poche che hanno visto un dibattito approfondito e hanno coinvolto studiosi e scienziati della materia. Continuiamo a parlarne per le ragioni fisiche, politiche e referendarie di cui credo ci racconteranno i nostri amici Giuliano e Giancarlo.

Giuliano Ferrara

Buonasera e grazie. Grazie ad Amicone e a Cesana, grazie a voi. Darei una bella parte dei miei lettori per avere, oltre ai lettori, anche così tanti militanti come avete voi. Perché la parola scritta è regina, la scrittura ci permette di mettere a fuoco, di capire e interpretare, ma lo scritto è vivo solo metaforicamente e così abbiamo deciso di non limitarci a questa manifestazione ma di girare l’Italia di qui al 12 e 13 giugno. La presenza fisica, il senso di realtà che ti dà la vita – parlare della vita in presenza della vita guardandosi negli occhi – è una dimensione superiore. Voi la chiamate carità, io dico di alta e bella politica. E di questo non finirò mai di ringraziarvi.

Io, lo sapete, non sono un predicatore, sono socialmente una figura spregevole, sono il direttore di un giornale, e non sono nemmeno cattolico, se non per cultura e per battesimo. Che ci faccio qui, a fare una predica in mezzo a tanti cattolici? Deve essere successo qualcosa. Anche perché, questo qualcosa, ormai si ripete. Eravamo qui qualche mese fa, a Milano, e dicevano che volevo fare un movimento con Buttiglione, invitare Bush in Italia, fare chissà che cosa, ma figuriamoci – i giornali appunto, l’ho detto, la figura socialmente spregevole del direttore di un quotidiano, a partire da me -. Quindi si replica e non è un cabaret, ma una conversazione, un modo in fondo laico di convertirsi, di conversare, di dialogare in modo diretto. Deve essere successo qualcosa, non mi ci raccapezzo più nemmeno io se finisce con questa specie di esercizi spirituali laici ripetuti. E lo sapete che cosa è successo? Che molti dei miei amici, dei miei sodali, molti direttori di giornali, molti giornalisti, molti intellettuali, molte soubrette, molte attrici, molta gente di mondo che qui non ci verrebbe mai, hanno intrapreso – perché il secolarismo quando diventa ideologia, quando diventa pensiero unico diventa allora prepotenza – una formidabile crociata contro i diritti umani. E quando uno bandisce una crociata contro i diritti umani e contro l’uso retto della ragione, contro una verità non dogmatica ma autoevidente che ti è offerta dalla struttura della natura, dai verdetti della scienza e dai verdetti anche del tuo animo, la verità cioè che l’embrione non è un grumo di cellule inermi e non è un ricciolo di materia, quando tu decreti una crociata contro il diritto a nascere e a svilupparsi nel proprio essere e a crescere secondo natura e ragione di un essere umano, bé, ci dovrà pur essere qualcuno tra i sodali laici e intellettuali, ci dovrà pur essere qualcuno che dice «io vado in parrocchia, io vado con Comunione e Liberazione, io vado a incontrare cattolici, buddhisti, musulmani, tutti coloro che vogliono opporsi a questa crociata».

Giocano con le parole. Siccome gli uomini sono tutti degni del nostro amore, degni di essere considerati interlocutori adulti, noi rispettiamo le loro idee e, per questo, li critichiamo aspramente, rispettiamo ancor più loro e cerchiamo di evitare gli attacchi personali. Sappiamo che gli uomini sentono sempre un richiamo alla realtà anche quando se ne distaccano per mille miglia, e i nostri avversari parlano di altro perché si sentono un po’ deboli e fragili. Il divorzio nel 1974, a prescindere da ogni altra considerazione, riguardava chi, in partenza, non aveva scelto il matrimonio come sacramento, si era sposato in municipio, come ho fatto io. Il divorzio riguardava persone sposate in municipio che volevano entrare in una fase in cui la modernità ha introdotto grandi dosi di individualismo, di comportamenti e costumi liberali. Volevano entrare in un’epoca in cui si potesse ricostruire una famiglia, due famiglie, tre famiglie.

L’aborto del 1978 con il referendum nel 1981 era già una china molto più pericolosa. Lo sappiamo tutti perché. Se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, se vogliamo dire le cose come stanno, se non vogliamo edulcorare – che non mi sembra un criterio per cercare la verità -, e anche navigare tra diverse verità – perché un pizzico di relativismo è necessario alla vita contemporanea -, se vogliamo nominare le cose col proprio nome perché è fondamentale se non si vuole rinunciare a qualsiasi funzione intellettuale e razionale, dobbiamo riconoscere che l’aborto è una china pericolosa.

Perché l’aborto, come fatto ancestrale, riguarda da sempre l’umanità; sia quello clandestino sia quello oggetto di riprovazione sociale sia quello legalizzato e in qualche modo accolto dal diritto, l’aborto resta pur sempre un omicidio. La china era quindi molto più scivolosa, vischiosa, complessa per questo diritto del più forte (io, per esempio, l’ho votato con la morte nel cuore, sapendo cosa facevo, nominando la cosa che stavo facendo, nella mia interiorità, con il suo nome). Si tratta qui di un semplice diritto civile, ma di un disperato diritto del più forte che riguarda un binomio cioè un corpo solo che ne ospita e ne accoglie un altro. In questo c’è una scelta, c’è una forma psicologica spirituale, la donna, a cui si attribuisce un diritto di scelta sul proprio corpo sia pure nella forma di una depenalizzazione-legalizzazione. Questa scelta era opportuna soprattutto se – questa era la promessa laica, devo dire una promessa tradita – portava a una riduzione dell’aborto, a una riduzione morale del problema che l’aborto rappresenta nella società contemporanea. Giovanni Paolo II ha parlato di una «shoah», ha parlato dell’aborto come di una «strage sistematica». E, in effetti, se si guardano i dati francesi in trent’anni, si scopre che ci sono stati 200 mila aborti l’anno. Mai una curva in diminuzione, mai, in un paese non povero e ignorante ma in un paese supercolto e civilizzato, dove le tecniche anticoncezionali sono sviluppatissime, c’è la pillola del giorno dopo, c’è la RU486 ormai da quindici anni, c’è l’aborto chimico, l’aborto chirurgico. Duecentomila in trent’anni sono 6 milioni.

Loro, gli abrogazionisti, i nuovi secolaristi, dicono: «C’è l’aborto, perché non si può scegliere prima, con l’embrione». Trattano l’aborto con una certa leggerezza che io non userei mai. Sull’aborto si trattava di una battaglia dura in cui, per lo meno, c’era uno scontro tra diritti e c’era la carnale evidente e pressante esigenza di rispettare davvero e sul serio una libertà su di sé, per quanto illusoria e da ridurre nel tempo, per quanto da limitare. Qui, invece, per la prima volta, non c’è niente di tutto questo. Qui c’è un’azione resa possibile dallo sviluppo della tecnica; quest’azione tecnica è la fecondazione in vitro. La fecondazione in vitro porta alla creazione di un essere umano. Luigi Amicone ha citato i sofisti, ma gli ha fatto un complimento perché i sofisti erano grandi filosofi. Se io creo – e sbaglio la parola apposta – una “cosaâ€, delle cellule, con una tecnica per avvalermi della quale ho bisogno di un uovo di donna e di un seme di maschio, se la creo per impiantarla, perché si sviluppi, perché si annidi in un utero femminile, perché si nutra, perché crei intorno a sé una placenta, perché diventi feto, perché arrivi ad avere non solo la struttura cromosomica che l’embrione ha dall’inizio, ma anche il sistema nervoso e tutto il resto; se faccio tutto questo perché prenda forma, perché cresca per nove mesi nel seno di una donna, e perché alla fine nasca, poiché l’uomo è anche e soprattutto storia, proviamo a tornare indietro a nove mesi prima, usciamo – perché la tecnica ce lo permette – dal corpo della donna a prima dell’impianto, guardiamo in un microscopio questa “cosa invisibileâ€, debole, esposta al primo vento, e siamo costretti a riconoscere che è il principio, il crisma, il senso e il significato di tutto l’essere umano successivo. È un uomo; è una donna; è ciò che diventerà un feto e un bambino; lo è perché la nostra ragione ci dice che lo è. Perfino con la nostra sola intuizione, una ragione che non deve neanche dedurre o costruire dal fatto, una ragione volontaria, dobbiamo riconoscere che l’abbiamo creata apposta quella “cosa†– e sbaglio di nuovo volutamene il nome – quella “cosa†l’abbiamo costruita perché sia non solo vita, astrazione, ma una vita individuale, unica, irripetibile e singola, cioè un essere umano.

Sono in difficoltà gli abrogazionisti, i neosecolaristi, coloro che si credono e si dicono liberali, coloro che si credono e si dicono laici, coloro che si credono e si dicono eredi di una tradizione di lotta contro l’oscurantismo e il clericalismo, sono in grande difficoltà. Perché, per la prima volta, si vede ad occhio nudo la verità, e basta che agli italiani sia fatta vedere in uno spirito di dialogo senza esagerazione con la piena considerazione della necessità di parlarsi e di parlare anche ai propri avversari. Eccola la verità. Non ce ne sono due, tre, quattro o cinque, ce n’è una sola: “quello lì†è un essere umano perché tu l’hai voluto per essere un umano. Puoi essere relativista quanto vuoi in filosofia, e dammi, offrimi a prezzi scontati i manuali del neorelativismo, io ti darò il volume della Critica della Ragion Pura, o magari degli altri scritti morali di Immanuel Kant, che non ha mai fatto parte del Sacro collegio ma era un filosofo laico, e ti farò vedere che c’è scritto che quell’essere umano non puoi usarlo come una struttura di servizio per scopi altri che non siano la sua crescita, il suo sviluppo, la sua realizzazione.

Per la prima volta, i Radicali, che girano lodevolmente il mondo dal Laos alla Cecenia alla Cambogia, i Veltroni, i buoni, i predicatori laici della sinistra che dicono di volere andare in Africa per salvare i deboli, per la prima volta, dicevo, tanta di questa bella gente stimabile, va contro le proprie stesse premesse, o quelle che dovrebbero essere tali. Certo, per un fedele appartenente alla Chiesa cattolica, nutrito della stessa dottrina, esposto sempre alla catechesi, è forse più facile. La Chiesa cattolica ha fatto questa scelta (ne ha fatte tante, ha fatto anche i mea culpa per scelte che ha considerato sbagliate) che le assomiglia e che le è consustanziale di difendere la vita sempre e comunque. Perché i fedeli conoscevano il volto della Madonna prima che Enrico Deaglio la stampasse sulla copertina di Diario, e hanno il senso di ciò che è la maternità e la bellezza. I praticanti hanno questa trascendente e immanente capacità di riconoscere che non si può scherzare su un argomento come questo. Non è una battaglia sui costumi dell’uomo contemporaneo e non è una battaglia in difesa di diritti inconculcabili di libertà; è una battaglia contro la negazione dei diritti umani, è una battaglia di rigore razionale.

In Italia una legge complicata, che è stata discussa per molti anni e sulla quale si è arrivati a un faticoso compromesso – perché questa legge è un faticoso compromesso da ogni punto di vista, ed è una legge che funziona e che permette di avere figli attraverso la fecondazione medicalmente assistita, e non è una legge feroce, medioevale (per loro medioevale è un insulto), non è oscurantista, non è imposta dalla Conferenza dei vescovi italiani – è stata votata da una maggioranza trasversale e approvata da molti osservatori. È stata approvata all’interno del mondo della scienza da molte persone che non appartengono a questa finta dialettica di rissa e di lite ideologica confessionale che certi laicisti e neosecolaristi si inventano. La discussione su questa legge è importante e lo è soprattutto quello che c’è sotto, che non è costume e moda.

L’altro punto per cui i neosecolaristi sono in difficoltà è che non pronunciano mai la parola embrione. Non la pronunciano mai, mai. Cercano di nasconderla sotto il tappeto, cercano, anche nel linguaggio, di selezionarli, di scartarli e buttarli nel lavandino. Parlano solo di libertà di ricerca scientifica, parlano solo di alleviare le sofferenze delle donne, parlano di tutto ma non del contenuto, della sostanza. Spesso dicendo cose deformate, forzando in modo propagandistico la loro battaglia. Parlano molto dell’astensione: sembra che si debba votare se gli italiani hanno diritto o no di astenersi al referendum (ma, scusate, c’è un contenuto! E non è l’astensione).

Una volta non c’era il premio Nobel, ma c’era la scienza anche prima che frotte di premi si vendessero a un uso socialmente ridicolo dell’ideologia scientista. Il dovere primo della scienza è individuare il proprio limite, altrimenti la scienza si trasforma in letteratura, in sogno, in incubo, l’incubo del dottor Faust. Ho avuto occasione di parlarne per tre ore con il professor Veronesi in televisione e proprio non capiva. Veronesi è un uomo molto intelligente, molto elegante, ha un portamento straordinario, è un vanto della Milano moderna come Armani. Però non capiva – è più educato dire «non sono riuscito a spiegarmi con lui». Eppure il mio concetto era molto semplice: lo scienziato il primo limite che deve porsi è autoevidente, è una verità. Non ce ne devono essere altre, derivate da ampie riflessioni della Congregazione della dottrina della fede, bastiamo noi in questo caso (anche se la Congregazione ne ha tanto di lavoro e lo ha fatto bene negli ultimi vent’anni e mi pare che la Chiesa se ne sia accorta!), però qui non serve neanche il nuovo prefetto, bastiamo noi. Cosa deve fare un medico, professor Veronesi? Deve curare la vita. E curare una vita è una cosa inversa ed opposta allo sviluppo di una vita. Sono due prospettive inconciliabili: o curi la vita o togli la vita, la scarti, la selezioni. Gli dicevo: professore, non il parroco della mia parrocchia del Testaccio di Roma, ma Edoardo Boncinelli, al quale lei porterà rispetto, ha scritto che la vita nasce con la fecondazione. L’ha scritto su un giornale che non è proprio anti abrogazionista, si chiama Corriere della Sera, «la vita comincia con l’atto della fecondazione» (pensate un po’ che stranezza: oggigiorno si deve leggere una cosa così e dire “accipicchia c’è uno scienziato che l’ha scoperto, la legge del Boncinelli, la vita comincia con la fecondazione!â€). Allora il dovere della scienza è curare la gente, non deve dire che per curare alcuni se ne devono ammazzare altri. Non serve la filosofia morale, basta l’intuizione laica, ovvia.

Ecco perché sono così in difficoltà. Certo, ci sono le trappole: il designer baby, l’enfant medicament, il bambino farmaco è, per esempio, una trappola angosciante. Se un fratello cede un rene ad un fratello, si tratta di due adulti, che hanno avuto il beneficio, siccome la vita comincia con la fecondazione secondo Boncinelli, di diventare grandi. Noi tutti siamo presi da un impeto di ammirazione e di amore, di tristezza e solidarietà nell’universo della malattia, e siamo felici di questo. È una donazione, di un pezzo di sé. La tecnica, che noi ammiriamo molto più di quanto alcuni dei nostri avversari non dicano, lo rende ormai possibile: è una donazione, ha senso ed è bellissimo per questo.

Ma se io creo in vitro un bambino che abbia tessuti sani e compatibili con un altro bambino; se lo creo con la cura che gli destino, con il destino di bambino farmaco che gli attribuisco, lo devo selezionare tra dieci singoli embrioni; devo andare a cercare quello giusto, il bambino giusto, e quelli sbagliati via! Se io faccio questo elimino molte vite, molte possibilità di vita, molti progetti di vita. Creo una vita con una modalità disumana, nonostante l’amore che ci metto e la bellezza delle mie intenzioni. Nonostante tutto, io mi sostituisco a un altro, anzi mi arrogo il diritto di crearlo in laboratorio, e poi di farlo crescere perché serva a qualcosa di diverso che non è la sua vita. Insomma, compio un gesto – perché è questa la questione di fondo, nonostante i mascheramenti, i bellissimi mascheramenti e le illusioni dell’amore – un gesto da signore dell’universo, che non riconosce la creaturalità dell’uomo, la oggettività, la datità dell’esistenza, il fatto che non siamo creati da noi stessi e che non ci possiamo arrogare questo potere.

Esistono molti modi di curare le persone. Si può andare fino al limite – la Chiesa è andata fino al limite per esempio, molti osservatori e pensatori laici l’hanno aiutata in questo, hanno dialogato e interloquito con la donazione degli organi con una diversa definizione del modo di accertamento della morte umana -, ma solidarietà, aiuto e cura devono essere volontarie e sempre subordinate all’idea di dono. L’uomo è un fine, non un mezzo. Tra un bambino e una pillola, tra un bambino e una macchina per trasfusioni, deve esserci e restare, direi per l’eternità, una profonda e radicale qualitativa differenza. è la verità, mi dispiace, che è sorella dell’embrione.

Siccome sono in difficoltà ci dicono che noi siamo i bigotti, i bacchettoni, quelli che ripetono la solita solfa che va avanti da duemila anni. Noi siamo quelli che dicono le cose vecchie. Non è così. Qui è la novità, qui è lo scandalo, qui è l’elemento che trasforma. Loro operano sul già dato, sul già visto, sul già vissuto. Lo sappiamo che c’è stato uno scambio, come mi è stato detto dalla professoressa Luisella Battaglia in trasmissione, c’è stato uno scambio tra l’etica della vita e l’etica della qualità della vita. Barbara Pollastrini, membro del comitato per il sì, ha aggiunto: etica della qualità della vita ed etica per il benessere. Per molti aspetti è inevitabile che fosse così, non è detto che l’uomo mentre aumenta il potere di stare meglio sia capace anche di aumentare il potere di comprendere il senso di questa operazione e di orientarla verso il meglio. Farsi scudo della donna in una campagna contro l’embrione vuol dire trasformare una campagna contro i diritti umani, ecco la malizia, in campagna a favore dei diritti civili.

«Ah i preti, i clericali – dicono – attaccano le donne, c’è un’antica inimicizia. Le donne non possono esercitare il sacerdozio nella Chiesa cattolica». Così, questi vecchi saggi giganteschi, in molte altre occasioni ammirati prìncipi della Chiesa, ecco che si ergono contro questa cosa vitale, moderna, importante da difendere che è il diritto della donna. Loro non parlano dell’embrione che è l’oggetto della loro battaglia contro i diritti umani, ma esaltano il diritto della donna che non c’è, perché la donna ha tutti i diritti e, soprattutto, come ogni essere umano il diritto alla salute. Ma chi attacca il diritto alla salute della donna? Forse, come denuncia un pamphlet appena uscito in Francia, forse quella parte del mondo medico e scientifico – come diceva Amicone in modo chiaro – che considera la donna come, non dirò cavia perché è un’espressione brutale, ma come un oggetto di sperimentazione.

Ci sono molti equivoci. Agnoli ne parla tutte le settimane sul Foglio in maniera molto eloquente e documentata. Ci sono molti equivoci sulla fecondazione medicalmente assistita. C’è il centro della dottoressa Porcu a Bologna (la Porcu è astensionista, perché si può fare fecondazione assistita ed essere astensionisti), e tanti altri centri che lavorano con molto scrupolo e intelligenza, che hanno persino scoperto che la fecondazione in vitro viene meglio quando ci sono dei limiti. Allora non ci parlino del dolore della donna, della sofferenza della donna, dei diritti della donna, perché questo è soltanto una dimostrazione della loro fragilità, della loro debolezza, del loro voler parlare d’altro.

Quanto all’eterologa: il ministro liberale Antonio Martino ha pensato di potersela cavare dicendo: ma se io dovessi votare contro la fecondazione eterologa allora dovrei essere anche contro l’adulterio. Io sono rigorosamente monogamo, ma, col permesso di mia moglie, di qui al referendum cercherò di commettere adulterio, poi andrò da Martino e gli spiegherò la differenza, la differenza fra le due cose. L’adulterio può essere un grande atto di amore, di ribellione o scomposizione della vita, un peccato, può avere mille nomi l’adulterio perché fa parte dalle attività umane naturali che possono essere o no disciplinate dalle scelte, dalla libertà dell’uomo, dalla sua volontà, dalla sua fede, dal suo credo, ma è un atto umano. La fecondazione eterologa è l’adulterio come tecnica. Il liberale Martino dovrebbe fare uno sforzo per capirlo (anche per evitarmi l’impiccio): il fondamento dell’eterologa non è la libertà, è la scelta della prassi. Oggi l’eterologa è il catalogo, è l’industrializzazione della fecondazione artificiale in vista del catalogo. È uno degli strumenti più maliziosi attraverso i quali si introduce nelle tecniche di fecondazione il catalogo, cioè la scelta e la selezione eugenetica. Tant’è vero che l’eterologa oggi ha come crisma e come timbro il “datemi il seme di un vichingoâ€. Ma siamo diventati pazzi? Adulterio?

Lo dico un po’ vergognosamente: voi sapete che io sono uno di quelli del no, sarei di quelli del no, ma voglio lasciare molto spazio a Cesana per argomentare sull’astensione. Dicono che la natura elimina gli embrioni nel corpo della donna. Se lo fa la natura perché non possiamo farlo anche noi? È quello che ha detto il professor Veronesi in trasmissione e io non ho avuto la prontezza di spirito, anche perché mi sembrava così incredibile dover discutere a quel livello, di trovare un argomento facile. L’ha trovato un lettore del mio giornale: Ferrara, doveva dire una cosa coì evidente, anche lo tsunami elimina un sacco di gente e noi che facciamo? Ammaliamo la gente perché c’è stato il terremoto? Perché ci sono le epidemie? Perché c’è stata la peste nera?

L’altra questione: “ma usiamoli questi embrioniâ€. Ho avuto su questo una polemica con il mio intimo amico Adriano Sofri che dice: sono lì, sono trentamila, sono crioconservati (cioè in frigorifero), è inumano pensare di non utilizzarli. A Sofri – che argomentava in buona fede, con lucidità, anche se con un eccesso di sentimentalismo, senza sufficiente rigore razionale – ho risposto che la prima cosa che mi impressiona è che tu mi stai parlando di uno dei più vasti cimiteri del paese costruito con le nostre mani. Un bioetico, non cattolico oscurantista, ma ebreo, Cohen, dice: e i condannati a morte? Perché non usiamo anche loro? In Cina, ogni anno, nell’indifferenza generale, ce ne sono diecimila di condannati a morte. In America, nei bracci della morte ce ne sono a decine, a centinaia: usiamoli per la scienza.

Lo so: un uomo ha una dignità emotiva superiore all’embrione. Nessuno fa funerali per l’embrione, Chopin non ha composto la marcia funebre per l’embrione. Siamo d’accordo. L’embrione è un fatto totalmente nuovo. L’embrione è una presenza fabbricata artificialmente in laboratorio, è una presenza alla quale non ci siamo abituati. Alla tristezza della sua condizione, «l’ergastolo del freddo» l’ha chiamata Vittorio Possenti, non ci siamo abituati. Non sappiamo valutarla, non entra nelle nostre emozioni alla stregua di una persona adulta. Ma questo vuol dire che se non rientra nelle nostre emozioni noi possiamo espellerlo dalle categorie razionali con cui cerchiamo di comprendere il mondo? Costruiamoci una razionalità e una emotività che siano davvero umane e che, senza esagerazioni, senza cialtronate, senza ostentazioni, senza elementi idolatrici, però porti a focalizzare il punto decisivo che vogliono portare via dalla nostra attenzione: l’embrione non è un ricciolo di materia, non è un grumo di materia inerte.

Non siamo ancora capaci di provare emozione per la vita nascente perché abbiamo proceduto a ratificare la disperante realtà dell’aborto. Ci siamo abituati. Erwin Chargaff, uno straordinario biologo e scrittore dice: «Prendi un male, dallo in dosi omeopatiche, vedrai che tanto poi la gente si abituerà». Chargaff è tra gli scopritori del dna ed è un uomo che si è ritratto dalle conseguenze della sua scoperta, non nel senso che abbia rinnegato la medicina biologica, o la biologia e la scienza biologica moderna, ma si è posto il problema del limite.
Può essere che sia difficile diventare emotivamente adulti ed essere all’altezza di questo problema. Sì, ce ne si può sbarazzare (io ho una amica che mi dice: «Giuliano, ma è un embrione, un embrione!»). E quando il solo fatto di dare un nome con un tono diminutivo ti permette di prendere le distanze, io la capisco, poi può sbagliare, tutti possono sbagliare, magari sbaglieremo anche noi.

Però attenzione, c’è la controprova. Io penso che la nostra campagna, il nostro giro di orizzonti, il nostro dialogo, possano poi essere dedicati ad un’altra vittima dello scientismo, della tecnoscienza, di questa fantascienza horror, a una disabile, una malata che è stata eliminata. Eppure aveva un corpo, una vita precedente, una lunga vita sonnacchiosa nel fondo di un letto, una storia di assistenza e di solidarietà da parte dei genitori, dei fratelli, delle sorelle. E invece aveva un marito, moderno. Questa persona si chiamava Terry Schiavo e l’hanno eliminata con la fame e con la sete. Con la fame e con la sete! Quindi dico agli abrogazionisti e ai neosecolaristi e a tutti coloro che fanno finta di non capire qual è l’essenza del problema: non ci sfidate con le emozioni, non vogliamo scendere sul terreno delle emozioni contro le emozioni. Accettate la verità almeno metodologica di questa sfida importante per il futuro di tutti noi. Discutiamo di ciò di cui si deve discutere: c’è una legge, che cerca di fare in modo, con molte autorizzazioni e con alcuni sacrosanti divieti, che la fecondazione medicalmente assistita sia la fecondazione medicalmente assistita. Questa legge è in discussione, questo principio è in discussione, fateci la cortesia, anche se per voi è difficile, di non divagare, di non deformare, di non costruire mentalmente una realtà che nega la realtà dei fatti. La realtà viva, quella che è davanti a noi.

E se posso permettermi, esprimo un auspicio, una speranza, anche questa laica (badate, io riconosco l’autorevolezza della Chiesa e della sua gerarchia, capisco l’obbedienza ma non sono personalmente soggetto all’autorità della Chiesa). Noi uomini moderni possiamo fare molte cose, ma non abbiamo la cultura, il senso etico e neanche la gioia e l’allegria per controllare fino in fondo i poteri che abbiamo costruito con le nostre mani. C’è un uomo di straordinaria sapienza, di grande intelligenza, di fede ferrigna, di grande fedeltà, dal Concilio al dopo Concilio, dalla sua giovinezza alla sua maturità alla sua vecchiaia, che questi temi e questo problema lo ha pensato. Con una forza intellettuale che non rintraccerete nelle grandi università del mondo, da Harvard a Oxford. Quest’uomo è diventato Papa: Benedetto XVI, aiutaci tu.

Giancarlo Cesana

La ragione per cui ho accettato volentieri di partecipare a questo incontro è perché desidero ringraziare Ferrara. E lo ringrazio in particolare per la sua posizione sul referendum. Perché in tutte la battaglie che noi abbiamo fatto in passato su questi temi, su questi “valori” come si dice, siamo sempre stati accusati di fideismo, siamo sempre stati accusati di credere a cose in cui credevamo solo noi. La presenza di Ferrara indica che non è così. Non solo perché lui non è credente (e se va avanti così c’è da augurarsi che la fede non gli venga mai), ma perché – come sapete tutti – è anche abbastanza difficile dargli torto. E la ragione è una adeguatezza rispetto alla realtà, cioè un modo di rapportarsi alla realtà. Per cui che uno come lui sia con noi deve riempirci veramente di gratitudine perché, appunto, è la prima volta.

La nostra idea di ragione è un’idea per cui c’è ancora bisogno di essere buoni e di riconoscere il mistero e – diciamola la parola – c’è bisogno di rendersi conto che la ragione ha bisogno della fede. C’è un grandissimo esempio di don Giussani, che quelli di Comunione e liberazione conoscono. Ebbe una furibonda discussione sulla ragione col professore di filosofia del liceo Berchet che sosteneva la ragione illuministica, scientifica, fa dire: «Credo solo a quello che vedo, a quello che provo». Alla fine della discussione don Giussani, attorniato dai ragazzi, chiese al professore: «Senta, io non sono mai stato in America, eppure sono sicurissimo che l’America esista. Lei crede che c’è l’America?». Don Giussani commenta: «E lui, poveretto, fu coerente e disse: “No”». Andando via don Giussani disse ai ragazzi: «Giudicate voi chi ha l’idea migliore di ragione».

Questa è la ragione che sentiamo noi, che sento io di fronte a questo mistero che è la vita, di fronte a questo fatto che è l’embrione. Al fatto che tutto non è buio. C’è bisogno di essere buoni perché chi cerca nella scienza la risposta cerca di sfuggire al buio. Non è il problema della ricerca sulle cellule staminali. Trent’anni fa, quando studiavo medicina, mi davano per assodato che le cellule cardiache erano perenni, per cui una volta morte non si sarebbero più rigenerate, di qui la pericolosità dell’infarto. Adesso hanno trovato cellule staminali nel cuore e la ricerca sulle cellule staminali può andare avanti eccome, non si fermerà certo perché non sono a disposizione gli embrioni.

Il problema è questo sogno di perfezione, è questa politica che è sempre alla ricerca della perfezione. Questo buttare giù tutto, questo non stare davanti a ciò che si vede ma non si possiede. Questo è sicuramente un momento e un tempo terribile. Io a don Giussani, oltre alle molte cose di cui gli sono debitore, gli sono debitore di citazioni che mi hanno segnato come questa: Churchill era relatore al Massachussetts Institute of Technology nel 1949, quando disse: «Il dottor Burchard ha parlato con terrore di un’abilità scientifica che mira a controllare i pensieri dell’uomo con precisione. Spero per allora di esser già morto». E spero per allora di essere già morto anch’io (però con molta filosofia perché ci vorrà molto tempo).

Così il problema di fronte a questo referendum e ai quesiti posti – di cui Ferrara ha già detto tutto e io non ho molto da aggiungere – si pone al riguardo del che cosa fare e di quale prospettiva ha la nostra azione. Come si fa, come possiamo fare di fronte a questo referendum e come possiamo fare di fronte non solo a questo referendum, ma anche per il futuro (perché i tempi sono terribili e probabilmente diventeranno anche peggiori)? Questa incertezza, questo buio che c’è dentro sta diventando dominante. Sta diventando superbo come diceva Leopardi ne “Il pensiero dominante”: «Questa età superba che di vote speranze si nutrica, vaga di ciance, e di virtù nemica; stolta che l’util chiede, e inutile la vita quindi più sempre divenir non vede». Don Giussani commentando questi versi diceva: è la descrizione molto più dei nostri tempi che non dei suoi.
Il problema è che cosa fare tenendo conto che una battaglia intellettuale per quanto intensa non è sufficiente. L’uomo è caduto in questo buio perché è stato lasciato solo, è stato reso solo. La persecuzione dell’uomo moderno è la solitudine. Il crollo della ragione non è dovuto alla mancanza delle idee, ma alla mancanza dell’affetto. È dovuto alla mancanza del legame, del legame che porta l’idea, della carne.

Il referendum riguarda certamente l’embrione, ma riguarda soprattutto la ragione, o il modo di utilizzare la ragione. Noi dobbiamo fare una battaglia su questo. Perché un valore sconfitto è comunque sconfitto, lo abbiamo visto col divorzio e con l’aborto (avevamo detto che da lì sarebbe venuto tutto il resto… ed è venuto). Se passa anche questo, andrà avanti ancora peggio. Quindi non è solo il problema dell’embrione, è un problema di ragioni che noi ci diamo. Per questo io volevo parlare – però adesso mi sembra di sfondare una porta aperta – dell’astensione. L’astensione, che è un non voto, ha tre caratteristiche.

Astenersi non vuol dire non esserci. Questa manifestazione è la dimostrazione del contrario. Se noi contassimo tutte le manifestazioni che abbiamo fatto, senza dubbio sono molte di più di quelle che hanno fatto gli altri. Se noi raccontassimo tutto il tentativo educativo che abbiamo fatto, senza dubbio abbiamo fatto molto di più degli altri. Perché sappiamo da tempo che per porsi bisogna opporsi. Certo, non abbiamo le attrici o i politici noti che fanno l’outing; certo, non abbiamo neanche i grandi giornali (io veramente non capisco perché il Corriere della Sera, tutto il Corriere della Sera, è per il sì. Sono veramente misteri). La prima caratteristica di questa posizione non è una furbata, non è un tirarsi indietro, ma è un atto di presenza.

In secondo luogo: quella che viene chiamata “indifferenza” dobbiamo cercare di rispettarla di più. Molta gente non sa che pesci prendere di fronte a questo referendum, non si rende nemmeno conto dei quesiti e decide di stare fuori, si astiene. Non capisco che male ci sia a stare fuori. Non capisco che problema ci sia a riconoscere il valore positivo di questa confusione. È molto meglio che chi non capisce si astenga piuttosto che andare a scrivere sì, perché così fa anche un danno. Questo va valorizzato ed è un terreno su cui entrare. D’altra parte, in una battaglia politica, in un quesito elettorale, la partecipazione è il segno di quanto la cosa interessa.

Terza ragione di carattere politico: come è stato detto, questa è una legge passata dal parlamento a maggioranza trasversale. Dobbiamo finirla con la leggerezza con cui vengono utilizzati gli strumenti degli scioperi generali e dei referendum. Chi li usa deve dimostrare di aver avuto ragione nell’usarli. Deve dimostrare che è capace di convincere una maggioranza degli italiani ad andare a votare ed eventualmente anche in suo favore. Il referendum non l’ho voluto io. E io a votare non ci vado e incoraggio tutti a non andarci. Tra l’altro mi hanno detto che i promotori del referendum, se riesce, prendono anche i soldi. A me il pensiero mi fa venire l’orticaria.

Andare a votare no – mi perdoni Ferrara – è un eccesso di zelo. E, a parte le notazioni della Bibbia sugli zeloti, c’è un osservazione ironica che mi permetto di citare, di Talleyrand, il più grande politico mai esistito. Ai suoi funzionari diceva sempre: «Mi raccomando, niente zelo». Noi dobbiamo costruire.

Giuliano Ferrara

Non so come si comporterebbe Talleyrand, ti ho dato una mano, ma ti sei preso tutto il braccio.

Luigi Amicone

Solo un’osservazione sulla perfezione e l’imperfezione. Mi è venuto in mente un romanzo di Hawthorne citato da Flannery O’Connor che racconta di un marito e una moglie sposati da tanti anni. La moglie ha una voglia in faccia e lui un giorno le dice: «Ma questa voglia, pensa una donna bella come te…, se non avesse questa voglia…». E la moglie sorpresa: «Stai scherzando? Siamo sposati da tanti anni…». «No, saresti più perfetta senza questa voglia» ribadisce il marito. Allora questa donna capisce che lui non la ama più. La ragione strumentale e tecnica che si sveglia una mattina e dice: «Voglio la perfezione», ha smesso di amare l’umanità reale.

Magazine
Quello che non siamo. Quello che vogliamo
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 12:55:28 +0000 di Luigi Amicone

Ripubblichiamo di seguito l’editoriale della prima edizione di Tempi in assoluto, il numero 0 del 28 agosto 1995.

* * *

Nomina sunt consequentia rerum, ammoniva Dante. I nomi sono conseguenza delle cose, di una certa realtà. Qual è la realtà di questo paese che, visto dai giornali, sembrerebbe stretto tra cronaca nera e pettegolezzo rosa? Nelle parole che in una sera di mezza estate un ex ministro dell’Istruzione ha pronunciate pensoso davanti a una platea di giovani c’è, in nuce, il dramma dei tempi: «Non ci sarà integrazione europea se davanti al sesso un italiano continuerà a essere diverso da uno svedese e un inglese».

La chiacchiera, l’assenza di ragioni, la slealtà delle illazioni, la lingua burocratica e giudiziaria sembrano dominare la scena pubblica italiana. Il potere vorrebbe che le ragioni, le aspirazioni alla libertà, in una parola, la vita di un popolo, si riducessero sempre più a uno spensierato nulla, al gaio nichilismo di quelle frotte di turisti che accorrono ogni anno in una cittadina senza particolari attrattive del Galles del Nord per un unico motivo, il suo nome:
Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch.

Quello che non siamo, quello che non vogliamo è questo: che le parole a vanvera di un ex ministro, lo stordimento che resta dopo un ciclone giudiziario che si traduce in alisei che continuano a circolare in vitro, la noia e la lieve incazzatura che procura la lettura giornaliera dei quotidiani, segnino il destino del paese dei Francesco, dei Dante, dei Leopardi. E di tutti noi, che vorremmo portare il nostro modesto contributo a rifare un popolo di santi, poeti e navigatori.

Blog
Due cosette da ricordare di Bill Clinton su magistratura e politica
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 08:00:11 +0000 di Lodovico Festa

Su Huffington Post Usa Ben Blanchet scrive: «He said that Biden is “almost certainly right†that his son received “completely different treatments†than he would have otherwise. But the issue over the pardon, he said, isn’t “way high†on his “hierarchy of things†he’s supposed to be upset about. Sorkin later asked Clinton if Biden should pardon President-elect Donald Trump in what could be seen as a “balanced†move prior to the change in administrations. “Well, I do think we should stop trying to criminalize politicsâ€, Clinton said».

Su Huffington Post Usa si riportano alcune risposte a Andrew Ross Sorkin (del New York Times) di Bill Clinton sul “perdono†che Joe Biden ha dato a suo figlio. A parte alcune critiche sui tempi scelti dal presidente uscente per l’atto di clemenza verso Hunter, Clinton fa due affermazioni interessanti. La prima: quasi certamente il figlio di Biden è stato trattato «in modo speciale» (in senso negativo) dalla giustizia. La seconda: rispondendo se sia opp...

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Esteri
Il frate nel quartiere sciita di Tiro: «La guerra ci ha resi amici per i musulmani»
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 03:55:00 +0000 di Leone Grotti

Prosegue il viaggio di Tempi in Libano per raccontare come il paese sta cercando di rialzarsi dopo la devastante guerra tra Hezbollah e Israele scoppiata in mezzo a una drammatica crisi economica. Puoi aiutarci a sostenere le spese per il reportage attraverso una donazione al Fondo Più Tempi. Per leggere tutti gli articoli della serie clicca qui.

* * *

Tiro, Libano. Durante la guerra tra Israele e Hezbollah, nel convento di Sant’Antonio da Padova di Tiro, è accaduto un piccolo grande miracolo. E non è la prima volta. Nel 1982, quando lo Stato ebraico invase il Sud del Libano per porre fine agli attacchi dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), la Marina bombardava dal mare la città affacciata sul Mediterraneo. Il convento affidato ai francescani della Custodia di Terra Santa si trova proprio di fronte alla spiaggia ed era sempre nel mirino dell’esercito israeliano.

Nonostante i bombardamenti e le tante case distrutte, nessuno a Tiro rimaneva ferito e tant...

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Esteri
Una tregua per Gaza? Intanto si spara
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 03:45:00 +0000 di Giancarlo Giojelli

Da Nirim e Nir Oz, i kibbutz più vicini a Gaza, si vedono le nubi di fumo alzarsi dalla Striscia. I raid israeliani non si fermano, non ancora. Il conto dei morti si aggiorna di giorno in giorno da 15 mesi. Israele sta colpendo tutte le infrastrutture e gli "obiettivi militari", depositi di armi, batterie lanciarazzi, postazioni missilistiche: la potenza militare di Hamas è stata colpita, devastata. Ma non ancora distrutta, dicono le fonti militari israeliane.

Nessuno può dire con precisione quante sono le vittime palestinesi, quanti civili e quanti combattenti, quante donne e bambini, quanti malati sono morti perché gli ospedali sono stati messi fuori uso dai bombardamenti, come molte scuole e moschee. Sotto le strutture, non è un mistero, Hamas da anni aveva costruito le sue basi. Israele afferma di aver sempre avvertito la popolazione prima dei raid: messaggi via sms e volantini paracadutati per indicare dove e quando stava per colpire. Ma i morti ci sono, e sono migliaia. La c...

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Società
Anche Oliviero Toscani, una volta, ha detto la verità
Data articolo:Tue, 14 Jan 2025 03:40:00 +0000 di Emanuele Boffi

Non abbiamo mai stimato Oliviero Toscani, il celebre fotografo scomparso ieri in seguito a una dura malattia, di cui aveva parlato di recente in un’intervista al Corriere della Sera. Toscani non aveva nulla per piacerci: era un vanesio, uno cui piaceva far parlare di sé, astuto quanto basta dall’aver capito come “funziona” il mondo di oggi, così pieno di chiacchiere futili che basta dire qualcosa di “apparentemente” controcorrente per diventare famosi.

Perché diciamo “apparentemente” tra virgolette? Perché Toscani era proprio l’emblema del conformismo contrabbandato per anticonformismo: durante la sua vita ha sposato tutte le cause più di moda che ci potessero essere, spacciandole per provocatorie, quando di provocatorio avevano ben poco. Toscani è stato l’aedo del mainstream, del pensiero unico cosiddetto, quella visione del mondo che i grandi media propagandano dalla mattina alla sera, e vogliono pure farci credere che quella è la battaglia alternativa, originale, coraggiosa di chi “combatte il potere”. E lo combatte così tanto che per tutta la vita s’è fatto pagare da un ricco signore miliardario, ha fatto i quattrini con la pubblicità, ha pubblicato le sue foto su riviste patinate e fru fru, s’è messo sempre a disposizione di tv e partiti che solo una cosa avevano a cuore: veicolare un senso cinico e disperato dell’esistenza.

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Le mie ceneri sparse nel concime

Nelle sue ultime interviste Toscani ha continuato a mostrare l’immagine del personaggio anarcoide e beffardo che gli ha consentito di far fortuna. Ha persistito nel fare quel che sapeva fare meglio: pubblicità. Cioè trovare uno slogan per vendere un prodotto: se stesso e la propria immagine avvilita del mondo.

Ieri, alcuni siti hanno rimesso in circolo il video della sua ultima intervista, in cui proclamava di non aver paura della morte perché tanto, un attimo dopo la scomparsa, «nessuno si ricorda più di te. È tutto ridicolo. Mio figlio Rocco dice che butterà le mie ceneri sulla pila del concime dei cavalli».

Eppure c’è nel nostro archivio personale una cosa che Toscani ha scritto nella sua autobiografia Non sono obiettivo che ci ha sempre colpito molto. Ci ha colpito perché è vera e perché l’ha detta lui. La riproduciamo qui di seguito, rivolgendo a chi legge la stessa domanda che facciamo a noi stessi. Può una parola di verità riscattare una vita intera? Lo speriamo per lui, e per noi.

La mostra "Oliviero Toscani. Professione fotografo" esposta a Palazzo Reale, Milano, 23 giugno 2022 (foto Ansa)
La mostra “Oliviero Toscani. Professione fotografo” esposta a Palazzo Reale, Milano, 23 giugno 2022 (foto Ansa)

La verginità di mia madre

«Ieri mia madre mi ha detto: “Ho avuto un solo uomo, tuo padreâ€. All’improvviso si sono sgretolati anni e anni di liberazione sessuale, di convincimenti libertari, di mentalità radicale. Tutto quel che avevo creduto una conquista civile si è ridimensionato di fronte a quella semplice affermazione: “Ho avuto un solo uomo, tuo padreâ€. Sono stato messo di fronte alla debolezza di ciò che credevo essere la modernità, con la forza di chi afferma un principio antico, senza la consapevolezza di essere, lei sì, la vera rivoluzionaria. Mi sono domandato: sono più avanti io che ho vissuto e teorizzato il rifiuto del matrimonio, l’amore libero e i rapporti aperti o lei che per una vita intera è rimasta fedele ad un solo uomo? Senza essere Gesù Cristo mi sono sentito il figlio di Dio e mia madre mi è apparsa come la Madonna: in modo naturale, come se fosse la più ovvia delle cose, lei ha impostato tutta la sua vita su concetti che oggi ci appaiono sorpassati, ridicoli: la felicità, l’onestà, il rispetto, l’amore. Mentre penso che non c’è mai stata in lei ombra di rivendicazioni nei confronti del potere maschile mi rendo conto che non esiste nessuno più autonomo di lei. Nessun senso di inferiorità l’ha mai sfiorata, perché le fondamenta della sua indipendenza erano state scavate nei terreni profondi della dirittura morale, della lealtà, della giustizia, dell’onore e non sulla superficie di ciò che si è abituati a considerare politicamente corretto. Il rispetto e la timidezza con cui guardava mio padre e l’educazione che mi ha dato a rispettarlo non avevano niente a che vedere con le rivendicazioni dei piatti da lavare.

Mia madre non si è mai sentita inferiore perché ci serviva in tavola un piatto cucinato per il piacere di accontentarci e di farci piacere; o perché lavava e stirava per farci uscire “sempre in ordineâ€. Sono consapevole che sto esaltando il silenzio e quella che le femministe hanno drasticamente definito sottomissione. Ma non posso fare a meno di interrogarmi sui veri e falsi traguardi dell’emancipazione, su ciò che appartiene ai convincimenti profondi e su ciò che non è altro che sterile battibecco. Nella ricerca dei valori che dovrebbero educarci a un’etica meno degradata di quella improntata al principio del così fan tutti, mia madre è un esempio di anticonformismo e di liberazione: lei è davvero affrancata dagli stereotipi e dai bisogni indotti della società massificata. Per conquistare obiettivi importanti e sicuramente oggi irrinunciabili siamo stati costretti ad abdicare alla nostra integrità.

Noi abbiamo perso la “verginità” non lei».

Non sono obiettivo, Oliviero Toscani, Universale Economica Feltrinelli 2001, pagina 81

Blog
Quelli che non si accorgono di come gli islamici trattano le donne
Data articolo:Mon, 13 Jan 2025 08:04:53 +0000 di Lodovico Festa

Sul Sussidiario Edoardo Canetta scrive: «Sono passato davanti a Palazzo Marino, dove è ancora esposto lo striscione “Verità per Giulio Regeniâ€. Speriamo che quando il sindaco Sala e il consiglio comunale torneranno dalle vacanze si possa vedere sulla facciata di Palazzo Marino anche un altro striscione: “Libertà per Cecilia Salaâ€Â».

Il sequestro di Cecilia Sala (alla fine magistralmente liberata), le molestie alle ragazze in piazza Duomo a Capodanno, gli stupri pakistani in Gran Bretagna: non stupisce come in tanti ambienti islamici la donna sia strutturalmente trattata come un oggetto e non stupisce neanche che se-c’ero-dormivo Beppe Sala non se ne accorga, sorprende invece un certo silenzio di tante militanti del mondo femminista e sconcerta pure che alcune delle massime autorità morali del mondo preferiscano esponenti del femminicida regime iraniano alla libera Israele.

***

Su Rainews si scrive: «Una studentessa di Liegi, Laura Barbier, ha raccontato al quotidiano belga onl...

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Magazine
«Un giornale con il nostro fuoco». Trent’anni di Tempi
Data articolo:Mon, 13 Jan 2025 03:50:00 +0000 di Renato Farina

Con questo racconto di Renato Farina apriamo i festeggiamenti per i primi trent’anni di vita e di battaglia del nostro giornale. Ogni mese su Tempi un contributo dalle nostre firme per ripercorrere la nostra “guerra dei trent’anniâ€. E continuare a lottare.

* * *

Sono il superstite. L’ultimo della vecchia guardia di Napoleone. I sopravvenuti mi hanno scelto per questo. Devo raccontare la sua Austerlitz, il sole della sua vittoria. Napoleone non c’è più, se l’è portato via il suo unico vero padrone, Gesù Cristo. A differenza di Bonaparte non ha conosciuto Waterloo insieme al suo magnifico esercito di straccioni. Mi riferisco a Luigino Amicone, non a caso in rima con Napoleone.

I suoi tenentini, cresciuti mentre il mondo indifferente li voleva inghiottire nel turbine dell’oblio, si sono fatti le ossa. Tempi, la creatura fondata da Amicone nel 1995, compie trent’anni ad agosto, e questo primo numero del 2025 inserisce il Giubileo di questa rivista nel Giubileo grande della Santa ...

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Società
Di troppa inclusività si scoppia. Ora tocca alla Royal Society of Literature
Data articolo:Mon, 13 Jan 2025 03:40:00 +0000 di Caterina Giojelli

Va bene, forse non è proprio la fine del woke ma senza dubbio è quella della Royal Society of Literature. O per lo meno del corso inaugurato alla fine del 2021 con l’elezione della presidente Bernardine Evaristo. Scrittrice pluripremiata, la prima donna di colore a guidare la veneranda associazione da subito promette «un impegno attivo e urgente per includere la più ampia gamma di scrittori eccellenti provenienti da ogni area demografica e geografica della Gran Bretagna».

E così è: mentre fuori si discute se le donne possono avere un pene, Dumbo è razzista, essere bianchi una colpa e infilarsi un sombrero è appropriazione culturale, il gotha della letteratura britannica inizia a infornare, guidato dalle stesse ossessioni identitarie, un nutrito gruppo di scrittori. Molti esordienti e di colore, col compito di cambiare l’immagine “elitaria†dell’organizzazione bicentenaria tutta «autori tradizionalmente bianchi e borghesi».

Supportare Rushdie potrebbe «risultare offensivo». Ma per chi?

Cinque anni dopo, parallelamente alla “recessione woke†registrata tra università e multinazionali inglesi e oltreoceano, il presidente esecutivo della Rsl Daljit Nagra e la direttrice Molly Rosenberg si dimettono. Lo fanno alla vigilia di un’assemblea annuale in cui sanno che molti membri chiederanno la loro testa. Le accuse? Sottomissione agli Dei contemporanei: diversità, equità, inclusione, politicamente corretto. Per essere più precisi – come lo sono stati i primi ad alzare la voce, come Margaret Atwood, Kazuo Ishiguro, Ian McEwan – svendita della libertà di parola.

Il caso Salman Rushdie, simbolo dell’assurdità di questa deriva, è emblematico. Quando l’ex presidente Dame Marina Warner si è posta il problema di mostrare solidarietà allo scrittore, accoltellato da un fanatico islamico nel 2022, la dirigenza della società le ha riferito che sostenere Rushdie, che in quel momento lottava tra la vita e la morte in ospedale, avrebbe potuto «risultare offensivo». Offensivo per chi? Evaristo spiegò in seguito che l’organizzazione aveva «il compito di essere una voce per la letteratura, non di presentarsi come “la voce†dei suoi 700 membri, un concetto sicuramente pericoloso e insostenibile. Non può schierarsi nelle controversie e nelle questioni degli scrittori, ma deve rimanere imparziale». «Imparziale rispetto al tentato omicidio?», le mandò a dire Rushdie.

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Il caso Clanchy e Fergusson

Un anno prima la scrittrice e membro della Rsl Kate Clanchy era stata letteralmente “cancellata†e “scaricata†dal suo editore e dall’organizzazione dopo che un’orda di “recensori†online avevano attaccato il suo libro Some Kids I Taught and What They Taught Me, colpevole di diffondere “stereotipi razziali†come descrivere la pelle di un bambino nero come “color cioccolato”.
C’è poi il caso del ritiro (corretto dalla RSL in “rinvioâ€) della pubblicazione della rivista della società, la RSL Review, e il licenziamento immediato della sua direttrice Maggie Fergusson a causa di un articolo che criticava la “macchina da guerra israeliana”.

Al quale segue la pubblicazione sul supplemento letterario del Times di una lettera firmata da 14 illustri scrittori (tra cui appunto Atwood, Ishiguro, McEwan) che invitavano la dirigenza della RSL a rivolgersi alla Charity Commission perché indagasse, tra le altre, «il tentativo di censura, che siamo abbastanza certi si sia verificato e che ha palesemente violato i valori letterari fondamentali». «Vale a dire, per quanto riguarda le fondazioni benefiche – commentò lo Spectator -, qualcosa di simile a una richiesta di consegnarsi alla polizia».

Il peccato di una Royal Society: rappresentare l’élite

Non è andata meglio “in casaâ€, dove dal 1820 vengono ammessi solo autori di almeno due opere di “eccezionale merito letterario”, i loro nomi candidati da altri membri e accettati dal Consiglio. La missione di fare della RSL un’istituzione «per tutti gli autori» (ma a che serve allora la già esistente Society of Authors?) è sfuggita di mano in fretta a Evaristo e successori.

Un tempo baluardo dell’eccellenza letteraria, dopo Black Lives Matter e lo sforzo «per rendere la Società meno “pallida, stantia e maschile†(così la scrittrice Amanda Craig, ndr), ossia per aprirla ad autori di minoranze etniche e categorie sottorappresentate, dagli Lgbtq+ ai disabili» (copy il Corriere, che ben ricorda come tuttavia la Rsl annoverasse già autori del calibro di Anita Desai, Amitav Gosh, Ben Okri, Zadie Smith, Wole Soyinka, V.S. Naipaul), la società è finita per ammettere “esordienti†suggeriti “dal pubblico†più titolati a soddisfare la richiesta di diversità che in campo letterario (tra loro l’autore di «un solo pamphlet letterario»).

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Cortocircuito tra scrittori woke e sensitivity readers

Che il Regno Unito cominciasse ad avere problemi con le sue “Menti Inclusive†animate dalle migliori intenzioni è cosa nota. Un po’ meno come dovrebbe sposarsi il proposito di pubblicare romanzi che riflettano la composizione demografica del paese con la crociata dei “sensitivity readers” che da anni vietano ogni tipo di caratterizzazione etnografica perché “discriminatoriaâ€. Un paese che si picca di dar voce a tutti ma dove si è resa necessaria, nel 2023, una legge per garantire la libertà di parola perfino nelle accademie.

Non si contano a questo proposito i libri purificati dai censori e le vittime delle campagne di deplatforming (disinvito di conferenzieri già invitati). Non parliamo solo dell’ormai nota purga dei romanzi dei Roald Dahl, Ian Fleming e Agatha Christie ad opera di selezionatissimi lettori “specializzati†nel passare al setaccio manoscritti e libri a caccia di stereotipi, pregiudizi, osservazioni e rappresentazioni tacciabili di lesa sensibilità (la mannaia calata su centinaia di parole quali “grassoâ€, “bruttoâ€, “mattoâ€, “pazzoâ€, “neroâ€, “doppio mentoâ€, e su intere frasi rimaneggiate fino al parossismo).

Censurati anche i mostri: non sono «inclusivi»

E nemmeno della censura invocata dai loro prodotti collaterali: i “lettori della porta accantoâ€. Sensitivity readers in erba che da una contea all’altra vanno imponendo alle biblioteche inglesi la rimozione di libri “offensivi†come Cinque settimane in pallone di Jules Verne, X-Men e Fungus the Bogeyman (per capirci: i Tre Mostri di McKee sono stati accusati di non essere mostri «inclusivi» e di utilizzare un linguaggio «controverso» che non trasmette ai bambini il «messaggio giusto». «Levati dai piedi», dicono il mostro rosso e quello blu appena conoscono quello giallo, «non vogliamo nessun buffo straniero da queste parti»).

Non parliamo solo del dilemma degli atenei (condannare o condonare?) arrivati a sconsigliare ai giovani universitari la lettura di alcuni libri di Shakespeare, Dickens, addirittura il padre della letteratura inglese Geoffrey Chaucer.

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Da Royal Society a collettivo delle minoranze

Stiamo parlando di una lunga e strampalata battaglia per la censura condotta da caricature del mondo dell’editoria che fa il paio con quella contro la libertà di parola di scrittrici come J.K. Rowling. E certamente con quella combattuta, a ben altre latitudini, tra gli eccellenti autori inglesi in nome dell’inclusività, la diversità e il politicamente corretto.

Nulla di sorprendente: rinata come ennesimo dipartimento di Dei – Diversity, Equity & Inclusion -, o collettivo universale delle minoranze, anche la fine della Royal Society of Literature sarebbe arrivata con la recessione woke d’importazione americana.

Cultura
Fallimento di una nazione, vittoria dello statalismo: il Superbonus
Data articolo:Mon, 13 Jan 2025 03:15:00 +0000 di Carlo Marsonet

Siamo un Paese meraviglioso, ma per le ragioni sbagliate. È appena trascorso il 150esimo anniversario della nascita di Luigi Einaudi – il 2024 è stato anche l’anno in cui ricorrevano i 70 anni dalla morte di Alcide De Gasperi – ma dei suoi insegnamenti e del suo tipico buon senso liberale non v’è traccia. D’altronde, come afferma lo scienziato sociale americano Thomas Sowell, se l’economia insegna che l’uomo avrà sempre a che fare con la condizione di scarsità, la politica punta proprio in direzione opposta: l’economia è creatività, la politica serve alla sua implementazione.

Il Movimento 5 Stelle, o quel che ne è rimasto, ne è la realizzazione pratica. Tutto può essere fatto, a patto che lo si voglia. E che non si guardi alle conseguenze, talvolta davvero facili da immaginare, delle scelte scellerate compiute. L’esempio del Superbonus calza a pennello. Lo Stato, quest’entità fittizia meravigliosa che vive dei soldi dei contribuenti in carne e ossa, rimborsa e anzi dà più soldi di quanti un individuo ne spenda per una ristrutturazione edilizia. Se non siamo in Alice nel Paese delle Meraviglie poco ci manca…

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160 miliardi di euro

Di questa politica industriale allucinogena hanno scritto Luciano Capone e Carlo Stagnaro, rispettivamente giornalista del Foglio e direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, in un libro importante: Superbonus. Come fallisce una nazione (Rubbettino). Non molto tempo fa, un esponente di Rifondazione comunista ha avuto l’ardire di sostenere in una nota trasmissione televisiva che in Italia bisogna tornare all’intervento dello Stato e a fare politica industriale, come se vivessimo in regime di anarco-capitalismo e non di quasi 3 mila miliardi di debito pubblico.

Se ci fosse bisogno di ulteriormente sfatare questo mito, il Superbonus è stato, scrivono gli autori del libro, «il più colossale esempio di politica industriale dell’intera storia repubblicana». Tra il 2021 e il 2023, periodo della sua applicazione, è costato circa 160 miliardi di euro. Certamente, scrivono Capone e Stagnaro, il Paese si trovava in piena pandemia. Dunque, il Superbonus doveva servire da volano per l’economia. Quello che va osservato è che il provvedimento ottenne l’appoggio trasversale di tutte le forze politiche. E, nonostante qualcuno farfugli di moltiplicatore keynesiano e altre amenità, l’effetto sulla crescita è stato davvero minimo. Cosa che invece non si può dire dell’effetto devastante sui già disastrosi conti pubblici.

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Una repubblica delle banane

Il provvedimento, che comunque s’inserisce in una lunga scia di bonus di cui gli autori danno contezza, è opera dei 5 Stelle, e non poteva essere altrimenti. In particolare di Riccardo Fraccaro, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Militante ambientalista e seguace di una pseudo-teoria economica, Fraccaro pensa al Superbonus come a una macchina perfetta e dal moto perpetuo: da un lato produce risparmio energetico mediante le ristrutturazioni edilizie, e dall’altro distrugge il debito pubblico. L’unico effetto concreto è stato invece l’inflazione.

Dei 5 Stelle si è già detto: un partito più adatto alla Repubblica di Bananas che a un paese civile. Il problema è che il provvedimento ha avuto un consenso unanime, sia a sinistra che a destra, a dimostrazione che se manca qualcosa in questo Paese è un po’ di sano liberalismo (anche a destra, come ha scritto di recente Angelo Panebianco sul Corsera). E non solo dai partiti. Capone e Stagnaro parlano appunto di fallimento della nazione perché l’idea magica che la ricchezza si crei dal nulla e che lo Stato possa crearla magari stampando moneta, ha irretito un po’ tutti. Il fallimento, inoltre, è stato anche di chi doveva controllare sulla fattibilità del Superbonus, a dimostrazione che al momento non siamo vaccinato contro il virus dello statalismo.

Nel 1944 Friedrich von Hayek dedicava uno dei suoi libri più belli, La via della schiavitù, ai socialisti di tutti i partiti. Ecco, il volume di Capone e Stagnaro ci ricorda che siamo ancora lì: del liberismo, paleo, neo o turbo neanche l’ombra, ma di socialismo ne abbiamo quanto volete. E i risultati sono di triste evidenza.


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