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#news #tempi.it
Non è un semplice atto interlocutorio: accogliendo l’istanza di sospensiva della consigliera regionale Valentina Castaldini (Forza Italia), il Tar dell’Emilia-Romagna ha congelato le delibere regionali che regolamentano il suicidio assistito, restituendo al dibattito il tempo che Stefano Bonaccini aveva negato. Un passaggio decisivo, dopo lo scandaloso “colpo di mano†del governatore dem, che nel febbraio 2024 – annusando il rischio di una bocciatura politica della proposta di legge popolare radicale – aveva pensato bene di silenziare il Consiglio e varare la nuova regolamentazione con un semplice atto di giunta.
La trattazione collegiale è fissata per il 15 maggio. «Ci sono allora due possibilità », spiega oggi a Tempi Castaldini: «Che il Tar entri subito nel merito e stabilisca se il provvedimento sia legittimo, o da correggere, oppure che decida di prendersi più tempo, mantenendo congelata la delibera per valutare il tutto con l’attenzione che il tema richiede». Anche perché, avverte la consigliera di opposizione, «quel giorno scade il termine entro cui il governo può impugnare la legge toscana approvata a febbraio». E se ciò accadesse, ogni iniziativa regionale verrebbe a decadere.
È passato poco più di un anno dal primo ricorso presentato da Castaldini, cui hanno fatto seguito, il 12 aprile 2024, quello della presidenza del Consiglio e quello del ministero della Salute. «Due le motivazioni condivise. Primo: una delibera non è lo strumento adatto per normare il suicidio assistito. Serve una legge. Una delibera serve semmai a declinare norme già esistenti, e oggi né in Emilia-Romagna né a livello nazionale c’è una legge che disciplini il suicidio medicalmente assistito».
Come già raccontato da Tempi, quella di Bonaccini fu una scorciatoia pre-elettorale: vista l’aria che tirava – e vista la bocciatura della stessa proposta di legge in Veneto – meglio evitare il voto del Consiglio, meglio saltare la conta. Il risultato: un vulnus democratico, con le Asl chiamate ad applicare procedure delicate su indicazione diretta della giunta, senza che il parlamento regionale si fosse mai pronunciato.
«Secondo: con una delibera pasticciata e scritta in fretta», aggiunge Castaldini, «la Regione ha creato una commissione etica ad hoc, il Corec, di nomina politica, senza bando né trasparenza». Una forzatura istituzionale, coperta da una giustificazione ai limiti del surreale: il riferimento a una decisione del Comitato nazionale per la Bioetica che, in realtà , diceva esattamente il contrario di quanto sostenuto nella delibera emiliana.
Al ricorso di Castaldini si è unito subito anche un pool di nove avvocati e quindici associazioni, dal Centro studi Rosario Livatino al network “Ditelo sui tettiâ€. Nel frattempo, in attesa del pronunciamento del Tar, si sono conclusi in Emilia-Romagna due iter di suicidio assistito, e in questi giorni è emersa la notizia dell’avvio di una terza richiesta di accesso alla procedura. Da qui la nuova istanza da parte della consigliera Castaldini per ottenere la sospensione immediata dell’efficacia delle delibere regionali, accolta il 27 aprile dal Tar.
«Un passo importante», insiste Castaldini, «perché non può essere un atto amministrativo regionale a sostituire una legge nazionale su una materia tanto delicata. In Emilia-Romagna si è saltata ogni discussione democratica, si è imposto un provvedimento facendo fuori tutti i temi centrali: in primis quello delle cure palliative e della responsabilità nel seguire i pazienti caso per caso».
La situazione resta intricata. La Consulta ha ribadito che in Italia non esiste un diritto al suicidio assistito, ma i ricorsi, le “disobbedienze civili†dei radicali e i tentativi di normarlo si moltiplicano. «È evidente l’urgenza che sia il governo a riportare ordine», conclude Castaldini. «Ogni Regione si sta muovendo per conto suo. Ora lo sguardo è fisso sul 15 maggio e su quello che farà il governo nei confronti della legge toscana».
A dettare la linea è stato, su X, Brent Toderian, già responsabile della pianificazione urbana a Vancouver e ora “Global cities advisorâ€. In un post che ha avuto un milione di visualizzazioni sono riportate quattro mappe di Parigi che descrivono graficamente l’evoluzione dell’inquinamento e, più precisamente, della concentrazione di biossido di azoto – sostanza emessa prevalentemente dai veicoli – dal 2007 al 2023. Il commento è entusiasta: «L’inquinamento atmosferico è significativamente diminuito negli ultimi 15 anni. La leadership della sindaca Anne Hidalgo ha sottratto spazio alle auto a favore del verde, delle biciclette e dei bambini. Un ottimo affare».
Qualche giorno fa, su Instagram, il copia-incolla di Will Media che titola: “A Parigi si respira un’aria nuovaâ€. E nel testo spiega: «Come ha fatto l’amministrazione parigina a migliorare la qualità dell’aria? Più trasporto pubblico, più zone a basse emissioni e ZTL nel cuore della città , più aree pedonali, più chilometri di piste ciclabili, più zone con limiti di velocità a 30 km/h e tariffe di parcheggio più care per chi si sposta in SUV. L’insieme di queste misure ha fatto sì che il traffico automobilistico all’interno di Parigi sia diminuito del 50%, mentre il traffico ciclistico sulle piste ciclabili è aumentato di oltre il 71%. Il risultato è che, dal 2007 a oggi, la concentrazione di NO2 nell’aria è diminuita del 50%».
Entusiasta anche l’analisi su Areale di Fernando Cotugno che aggiunge un ulteriore elemento al racconto: «La durata dei viaggi in auto è crollata del 45%».
Sarebbe un risultato davvero molto positivo ma non corrisponde a quanto accaduto nella realtà . A Parigi negli ultimi venti anni la velocità media di spostamento in auto è diminuita del 25 per cento: da 16,6 a 12,4 km/h.
Tale evoluzione non è la conseguenza di uno spontaneo aumento del traffico ma l’esito voluto di una politica teorizzata già nel 1999 da Chantal Duchène, allora responsabile per la pianificazione dei trasporti nell’ ÃŽle-de-France, che sosteneva: «Sarà necessario ridurre lo spazio disponibile per le automobili. Con le corsie per autobus, le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi, i tempi di percorrenza in macchina si allungheranno e gli altri mezzi di trasporto diventeranno più allettanti».
Il peggioramento delle condizioni di circolazione ha raggiunto il suo scopo: gli spostamenti in auto sono stati più che dimezzati e in molti hanno optato per alternative di spostamento peggiori. Era questo un prezzo da pagare per ridurre l’inquinamento? La narrazione monocorde sopra ricordata, lo afferma con certezza ma si tratta, a non voler pensare male, della fallacia post hoc, ergo propter hoc.
A Parigi, come in ogni altra città europea, l’inquinamento dell’aria è in diminuzione da svariati decenni indipendentemente dalle politiche della mobilità adottate. Nella capitale francese, in particolare, la concentrazione di polveri sottili – l’inquinante più dannoso – è diminuita di venti volte a partire dalla fine degli anni ’50.
Il biossido di azoto era in calo già prima che si attuassero le restrizioni alla circolazione delle auto e tale tendenza sarebbe proseguita in assenza delle stesse come avvenuto ovunque altrove. A Milano, ad esempio, la concentrazione di questo inquinante si è ridotta di due terzi dal 1991 a oggi.
Il caso più significativo è quello degli Stati Uniti dove, a partire dal 1970, pur in presenza di un aumento del traffico di poco inferiore al 200%, le emissioni dei sei principali inquinanti sono diminuite del 78% grazie alla innovazione tecnologica dei veicoli.
Più traffico e aria più pulita non sono dunque mutuamente esclusivi, anzi.
Si potrebbe sostenere che, comunque, con meno automobili per le strade la qualità della vita a Parigi sia migliorata. Per alcuni è senza dubbio così ma non per coloro che hanno scelto un diverso mezzo di trasporto o un altro luogo in cui vivere dopo il peggioramento delle condizioni del traffico.
Ovviamente, la mobilità non è l’unico fattore che influenza la scelta della residenza, ma non è neppure irrilevante. In un articolo del 2005, l’economista francese Rémy Prud’Homme parlava della “tentazione di Venezia†per Parigi. Venezia come modello di città senza automobili, dove gli spostamenti sono molto difficili. Una città bellissima dove la popolazione e l’occupazione erano – e sono ancora – in rapido declino a favore della terraferma.
Se guardiamo i dati demografici, scopriamo che dal 2011 Parigi ha perso 150 mila abitanti, mentre il resto dell’Île-de-France ha guadagnato 500 mila residenti. In altre parole, la conseguenza non intenzionale di una città quasi senza automobili potrebbe essere stata, paradossalmente, un aumento del numero di persone che vivono e di automobili che circolano appena fuori dai suoi confini.
La città di Görlitz, nella Germania orientale, è conosciuta da oltre un secolo per la sua fabbrica di treni. In particolare, per le carrozze a due piani prodotte fin dal 1935. Quest’anno verrà costruito l’ultimo elettrotreno, destinato alle Ferrovie israeliane, e dall’anno prossimo la produzione cambierà completamente. La fabbrica di proprietà della francese Alstom passerà alla Knds, holding europea dell’industria della difesa con sede ad Amsterdam, che in questo angolo di Germania costruirà pezzi per il carro armato Leopard II e per il veicolo corazzato per fanteria Puma.
La riconversione dell’industria manifatturiera a Görlitz, da scopi civili a militari, non è casuale e risponde al tentativo del futuro cancelliere Friedrich Merz di reindustrializzare attraverso le fabbriche di armi un paese dove il settore trainante dell’automotive è sempre più in difficoltà ed è costretto a chiudere stabilimenti e a licenziare dipendenti.
Da quando Berlino ha perso l’accesso al gas russo come fonte energetica a basso costo, in seguito all’invasione dell’Ucraina, i settori energivori tedeschi hanno perso il 20 per cento della produzione e 250 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero si sono volatilizzati.
La speranza è che gli investimenti pubblici e privati nel settore della difesa possano invertire la rotta. Dal 2020, la spesa militare tedesca è cresciuta dell’80 per cento fino ai 90 miliardi di euro del 2024 (quella italiana quest’anno dovrebbe toccare la cifra record di 32 miliardi). E ancora Berlino non aveva approvato il “bazooka”, che permetterà investimenti aggiuntivi pari a circa 50 miliardi all’anno.
Il settore industriale tedesco della difesa impiega circa 60 mila persone, 150 mila compreso l’indotto, secondo l’esperto dell’Istituto economico tedesco di Colonia Klaus-Heiner Röhl. Ma i numeri sono in continuo aumento. Rheinmetall aveva 26 mila dipendenti nel 2023, oggi ne ha 32 mila e l’obiettivo è di arrivare a 40 mila nel 2027.
Diehl Defence è passata dai 3.800 lavoratori del 2023 agli attuali 4.500. Hensoldt ha aumentato la forza lavoro da 6.600 unità a 8.400, ma punta ad arrivare a 9.500 entro la fine dell’anno. Renk invece ha 4.000 dipendenti contro i 3.300 di fine 2022.
Rheinmetall, Diehl Defence, Thyssenkrupp Marine Systems e Mbda pianificano in tutto di assumere 12 mila nuovi dipendenti entro il 2026, scrive il Financial Times.
Se Knds a partire dall’anno prossimo rileverà la fabbrica di treni di Alstom, assumendo 350 dei 700 dipendenti che resteranno senza lavoro, Rheinmetall ha annunciato l’intenzione di rilevare subito la fabbrica di Osnabrück della Volkswagen e in futuro quelle di Neuss e Berlino. Secondo l’amministratore delegato Armin Papperger, l’obiettivo è «raddoppiare la dimensione delle nostre dieci fabbriche o costruirne di nuove».
Oliver Dörre, ad di Hensoldt, ha dichiarato a Reuters che il gruppo potrebbe «trarre vantaggio dalle difficoltà del settore automotive», assumendo gli esuberi di grandi marchi come Volkswagen o i suoi principali fornitori, Continental e Bosch.
Se l’industria ha sempre più bisogno di manodopera, trovarla non è semplice sia perché la fabbricazione di armi non è ancora ben vista in Germania, per quanto il clima stia cambiando, sia perché la legge vieta l’assunzione nel settore di lavoratori provenienti da Russia, Cina, Iran, Siria e Afghanistan.
Investimenti e lavoro stanno lentamente modificando l’orientamento dell’opinione pubblica e così gli stati federali fanno a gara per accaparrarsi una fetta della torta. Nell’ultimo trimestre del 2024, secondo l’Ifo Institute, soltanto 5 stati federali su 16 sono cresciuti. Tre di questi (Bassa Sassonia, Meclemburgo-Pomerania e Schleswig-Holstein) lo hanno fatto grazie agli investimenti nel settore della difesa. Il presidente della Bassa Sassonia, Stephan Weil, ha detto che «continueremo su questa strada».
Chi è rimasto indietro, come lo stato di Baden-Württemberg, ha dichiarato il presidente Winfried Kretschmann, vuole «essere incluso» nell’espansione dell’industria della difesa. Il Parlamento del Saarland, ad esempio, ha approvato una mozione affinché i regolamenti necessari a diventare più attraenti per le fabbriche di armi vengano messi in atto, arrivando ad organizzare un «summit degli armamenti».
I grandi gruppi della difesa, del resto, hanno sempre più denaro da investire. Grazie alle commesse del governo e agli annunci futuri, Rheinmetall ha aumentato i suoi dividendi del 42% quest’anno, Hensoldt del 25%, Renk del 40%. La Germania vuole entro il 2031 aumentare gli effettivi del proprio esercito a 203.000 unità e poi a 270 mila, mentre i riservisti dovrebbero passare dagli attuali 60 mila a 260 mila. Per armarli in modo adeguato serviranno allocazioni ingenti di fondi.
Se l’entourage del prossimo cancelliere tedesco, Merz, assicura che gli investimenti sono necessari «in tempo di guerra», non tutti in Germania sono contenti del nuovo corso che sta prendendo il paese.
La famiglia di Carsten Liebig costruisce treni a Görlitz da tre generazioni. I suoi figli produrranno carri armati. «È davvero triste per me che ci sia ancora bisogno di produrre armi», dichiara al Ft.
Sebastian Wippel, che per poco non è diventato sindaco della città con l’Afd alle ultime elezioni, aggiunge: «Il nostro esercito ha bisogno di carri armati. Ma l’industria della difesa non deve diventare un mezzo per prepararsi alla guerra o per mettere i politici in una posizione per cui alla fine si convincono a scatenare un conflitto».