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Il 6 dicembre scorso, alla presenza di personalità politiche e di molti protagonisti del cinema italiano, la Camera ha omaggiato Ugo Tognazzi e i 50 anni di Amici miei, commedia cult uscita nel 1975.
L’idea del film fu di Piero Germi, a scriverlo furono invece tre penne rodate e corrosive: Tullio Pinelli, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. Chi girò i primi due episodi, infine, fu Mario Monicelli, erede di Germi, che con grande rispetto volle che nei titoli di testa comparisse la scritta «un film di Pietro Germi».
All’uscita della pellicola la critica si mostrò particolarmente tiepida, ma ben presto la potenza del passaparola trasformò Amici miei nel film più visto della stagione ’75-’76: più di sette miliardi di incassi al botteghino, lasciando indietro sia Lo squalo di Spielberg sia il Jack Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Amici miei ebbe anche un altro “primatoâ€: sdoganò il dialetto toscano, allora quasi mai impiegato sul grande schermo. Roberto Benigni, il “malincomico†Francesco Nuti, il suo epigono Pieraccioni: da allora diventerà prassi far ridere “in toscanoâ€.
Se Amici miei può dirsi forse un’opera moderna, senz’altro non può dirsi contemporanea. Lo ha spiegato bene sul Foglio Andrea Munez, scrittore e docente di Storia del cinema alla Sapienza:
«Poco tempo fa mostrai Amici miei in classe a degli studenti universitari (quasi nessuno l’aveva visto): “È tristeâ€, “non fa ridereâ€, “maschi bianchi che sessualizzano la donnaâ€, oppure “giustifica la violenza†(per via degli schiaffoni in stazione). Insomma, il solito repertorio della Generazione Z. […] Tecnicamente ineccepibile, umanamente insopportabile»
In effetti non è scontato che ragazzi “sequestrati†dai loro algoritmi possano tifare per le zingarate di cinque bischeri di mezza età , irrimediabilmente boomer, sebbene ispirate da racconti reali di personaggi del sottosuolo fiorentino. Trattasi, ça va sans dire, dell’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), del giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), del barista Guido Necchi (Duilio Del Prete), del professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) e infine dell’imprescindibile conte Lello Mascetti, un Ugo Tognazzi in forma strepitosa.
Eppure dopo 50 anni il film continua a raccontare ancora molto dell’Italia e degli italiani, avendo influenzato il modo di parlare, oltre che di parlamentari in vena di stroncature, anche di chi all’epoca neppure era nato. Ma nulla è come sembra in Amici miei, e perfino la vexata quaestio della “supercazzola†non è così banalmente archiviabile. Andrea Ballarini, giornalista scomparso troppo presto (qui un bel ricordo di Piero Vietti per Radio Radicale), ricordava sceneggiatura originale alla mano che l’uso mediatico cinquantennale dei neologismi metasemantici del film non solo era un abuso, ma era anche filologicamente infondato. Ovviamente l’autore di “Manuale d’istruzioneâ€, la gustosa rubrica che il giornalista teneva sul Foglio, lo raccontava a modo suo:
«Aprire un accanito dibattito sull’ortografia. Valutare se schierarsi con il partito filologico, che preferisce la “supercazzora†alla vulgata “supercazzolaâ€. Dopo avere scaldato l’uditorio, infiammarlo per decidere se si debba dire “brematurata†o “prematurataâ€. Quindi sfoderare l’arma fine di mondo, citando il libro di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, tratto dalla sceneggiatura originale, che attesta inequivocabilmente le lezioni “supercazzora†e “brematurataâ€. Quindi, tirarsela moltissimo».
Dicevamo che nulla è come sembra in questa commedia così altamente impattante, così capace di frantumare d’emblée un clima culturale tristemente cristallizzato. Nel 1975, mentre moriva Pier Paolo Pasolini e il terrorismo insanguinava lo Stivale, il film di Monicelli suonò come un allettante invito a troncare con ideologie, lotte di classe con annesse sovrastrutture, e puntare sul genio, sul puro, poetico e liberante cazzeggio. Una rivoluzione.
Lo sguardo umanissimo del quintetto goliardico fiorentino – perfettamente inquadrata in quella che molti hanno ribattezzato la “filosofia del Perozzi†(«Che sia per questo, per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prendere nulla sul serio») – sembra essere quello dell’autore anonimo del Qoelet, misterioso libro della Bibbia in cui si leggono passaggi che paiono essere la legittimazione teologica delle beffe di Tognazzi & C.: «Il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un’unica sorte è riservata a tutt’e due. Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d’esser saggio? Dov’è il vantaggio?â€. E ho concluso: “Anche questo è vanità â€Â».
Nella sala della Camera in cui si è celebrato il mezzo secolo di Amici miei, il critico cinematografico e autore televisivo Enrico Magrelli, al cospetto del presidente della commissione Cultura Federico Mollicone, a Michele Placido, a Dino Risi, ai fratelli Ricky e Gianfranco Tognazzi, ha ricordato che dietro la «maschera giocosa della brigata di Amici miei, si nasconde una malinconia di fondo che rende il film profondamente esistenzialista». Un’indicazione preziosa, ma che sembra aprire ad altro.
Se è vero infatti che la risata è l’altra faccia della dolore, a guardar bene il tema vero che s’impone nell’umorismo crudele di Amici miei è tutto compendiato in “sorella morteâ€. Ogni cosa porta lì. Il titolo della pellicola, innanzitutto; un omaggio alle ultime parole di Pietro Germi, che poco prima di morire avrebbe confidato: «Amici miei, ci vedremo, io me ne vado». Poi l’“uscita di scena†di Monicelli, altro tassello – il più disperato ma anche il meno fedele – di una pista interpretativa che però sono soprattutto gli stessi protagonisti del film a sostenere. In modo chiarissimo. Uomini arguti, spigliati, colti, ma diretti inesorabilmente verso una vecchiaia che sa di finale di partita; perennemente in bilico tra sconfitte, miserie umane e malattie, coscienti che il tempo si è fatto breve, e che la morte si avvicina a passi veloci, come un ladro nella notte.
Di tutto ciò il conte Mascetti e i suoi amici sono intimamente consapevoli (e palesemente angosciati). Le celeberrime zingarate – termine che non a caso Monicelli non amava affatto, ritenendolo, parole sue, «troppo romantico» – altro non sono che segni evidenti della consapevolezza che i cinque hanno della vertiginosa drammaticità della vita.
«Lo scopo è superare il senso di solitudine e di disperazione», così scrive Gian Piero Brunetta, ordinario di Storia e critica del cinema all’Università di Padova, che nel saggio Laterza Il cinema italiano contemporaneo aggiunge:
«Questi amici di una vita, senza meta e senza un domani, cercano un diversivo, una distrazione, un tentativo di occultare la propria rovina. […] A ben vedere, il film non parla di libertà , ma di una fuga in avanti verso il nulla; un gruppo di amici che oscilla tra le bischerate e la constatazione del proprio niente».
E allora lo scherzo beffardo e ostinato dei protagonisti – che sia rintontire un malcapitato vigile per evitare multe; imbucarsi ad una festa per ingozzarsi a ufo (ma non solo); terrorizzare un borgo fingendosi ingegneri iconoclastici; raddrizzare la Torre di Pisa – è forse quello che non sembra: il tentativo, esilarante ma insieme drammatico e serissimo, di dare un senso all’intera esistenza.
Nel Sud del Libano e nel Nord della Galilea si vive un Natale di buio e di luce, di grandi alberi illuminati, di presepi. C’è una tregua, non la pace, ma la luce è più forte della tenebra della guerra: qui i raggi delle stelle segnano con intensità il desiderio e la nostalgia di una pace attesa e promessa.
Le luci che brillano nella notte fredda del Nord, sotto il monte Meron, punteggiano il cielo buio sopra la linea che separa Libano e Israele. Le luci che delineano come piccoli presepi i villaggi sparsi sulle colline attraversano la linea di demarcazione segnata dagli uomini. E di qua e di là dal confine, dove ancora si sentono colpi di artiglieria, vivono persone che nella notte guardano con speranza a quel chiarore. Sono ebrei, drusi, arabi musulmani e cristiani, cattolici greci e maroniti, greco e armeni ortodossi, siriani, circassi, beduini, palestinesi o discendenti da famiglie libanesi che non si considerano arabi e parlano ancora la lingua che parlava Gesù, l’aramaico.
Gesù è cresciuto da queste parti, Nazareth è poco lontana. Ha fatto miracoli a Tiro e Sidone, e il primo, la trasformazione dell’acqua in vino (e in vino buono) proprio a Cana. E se la tradizione più diffusa accredita come un paese della Galilea, poco lontano da Nazareth, la Cana dove furono celebrate le nozze e il miracolo suggerito da Maria a suo figlio, molti maroniti identificano invece Cana come un villaggio poco più a Nord, in Libano, dove nella roccia sono scolpiti i volti di Cristo e degli apostoli ed episodi del Vangelo. Un paese a dodici chilometri dal confine, duramente colpito dalle guerre nel ’96 e nel 2006, con bombardamenti che non hanno risparmiato i civili. Un paese che ora chiede solo la pace.
«Cana è una città santa», ci aveva detto il sindaco Mohamad Kresht, musulmano sciita ma rispettoso della fede cristiana e del Vangelo. «Noi crediamo che sia questa la vera Cana, anche dai bassorilievi in pietra tra cui la Madonna con il Bimbo o dalle incisioni che raffigurano il Battesimo di Gesù e l’ultima cena. Io sono musulmano ma Gesù è lo stesso per tutti».
A Cana del Libano il turismo religioso non è mai arrivato e la tradizione è rimasta soprattutto nella preghiera e nella venerazione delle comunità cristiano-maronite, fedeli a Roma quanto fiere della propria identità tra le tante che punteggiano questo lembo di Medio Oriente, di cui si parla solo per via della guerra.
Ma poco più a sud, sul confine, al di là del confine, c’è Sasa, il kibbutz dove quaranta anni fa venne ad abitare Angelica Calò, romana (di quella comunità che accolse Pietro), orgogliosa della propria storia di ebrea e italiana, di israeliana e cittadina del mondo, ben nota ai lettori di Tempi che da 25 anni seguono la sua storia, che inizia con una amicizia ed è cresciuta in tante altre amicizie.
Avevo conosciuto Angelica 25 anni fa, al tempo della seconda Intifada, e con Luigino Amicone avevamo percorso con lei e suo marito Yehuda tutto Israele, incontrato ragazze e ragazze ebrei e palestinesi, cristiani e musulmani. Era la guerra dei kamikaze, degli attentati a Gerusalemme. Eppure nulla aveva impedito il sorgere di tanta amicizia, come avevamo raccontato a monsignor Luigi Giussani e a don Francesco Ventorino, che più volte si era recato a Sasa e con altri amici aveva invitato Angelica in Italia e al Meeting di Rimini a raccontarsi. Lei ha saputo cogliere quel seme e quell’inizio dando vita a una fondazione e compagnia teatrale (e mai il termine “compagnia†è stato più significativo), coinvolgendo giovani di tutti i villaggi, di tutte le identità . La fondazione si chiama Beresheet LaShalom e dice tutto: Beresheet, in principio, la prima parola della Bibbia (e anche del Vangelo di Giovanni), LaShalom, la pace. Il teatro è il teatro dell’Arcobaleno, simbolo biblico della Alleanza.
Angelica ricorda a Tempi come è nata quella incredibile avventura: «Durante la seconda Intifada, Israele è stata vittima di un gran numero di attacchi terroristici. Abbiamo dunque pensato di dover fare qualcosa per costruire un dialogo. Il nostro kibbutz è vicino a un villaggio arabo-musulmano, a un villaggio druso, a un villaggio circasso, a un villaggio di arabi cristiani. Così abbiamo deciso di fare una cosa che a quel tempo sembrava pazzesca: mettere insieme tutti questi ragazzi per fare teatro, perché attraverso il teatro si conoscessero». L’obiettivo è ambizioso: educare i giovani alla pace attraverso le arti, dice «Sappiamo che non solo il Medio Oriente ha bisogno di pace».
Angelica è stata candidata nel 2006 al Nobel per la Pace, ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo per la sua opera di educatrice: «In ogni parte del mondo c’è bisogno di incoraggiare, di consolidare i propri ideali, di combattere il cinismo, di dare legittimità a chi vuole sentirsi positivo, amato, a chi desidera sentirsi libero di danzare, di abbracciare, di sentirsi grande anche se è la più piccola e minuscola parte di un complesso motore. Perché c’è bisogno di tutti. E tutti devono imparare a riconoscere l’altro. Dargli spazio. Dargli pace».

Angelica organizza eventi in Italia, nelle periferie di Roma, Milano, Napoli, in Israele, Palestina, Giordania, insieme a giovani maltesi e marocchini, polacchi ed estoni. Il suo metodo educativo, che scaturisce da anni di dedizione ed esperienza nel creare la gioia e nell’imparare esplorando, non conosce barriere linguistiche, culturali, sociali, religiose. La sua passione e determinazione sono contagiose.
Suo marito Yeuhda è nato a Sasa, fin da bambino ha conosciuto il pericolo di essere vicino al confine, con gli attacchi dal Libano, le sirene, il rifugio. «In tutti questi anni non è cambiato quasi niente ed è una cosa molto triste per noi, che educhiamo alla speranza, lottiamo per avere un dialogo con i nostri vicini e siamo convinti che l’unico modo per vivere tranquilli sia fare la pace con i nemici che ci circondano. Israele non può permettersi di perdere una guerra, perché non esisterebbe più. Non abbiamo niente contro i palestinesi ma contro Hamas, la Jihad e le organizzazioni terroristiche che stanno cercando di farci del male. La solidarietà è possibile: dopo il 7 ottobre, quando Sasa è stato evacuato, sono stati i nostri vicini dei villaggi arabi ad aiutarci a raccogliere le nostre mele, delle cui coltivazioni vive il kibbutz».
Raccontano un mondo diverso, che non ignora la guerra ma si ostina a costruire la pace tra chi conosce solo odio e conflitti. Con quella ostinata serenità di chi ha un coraggio che non ci si può dare perché è un dono. Angelica ci mostra il kibbutz, i segni della guerra. Confida la sua paura di madre e nonna (ha quattro figli, tre riservisti nell’esercito, e sei nipotini). «Voglio che vivano in un mondo di pace», dice. «Pensate a come mi si è stretto il cuore quando mi hanno detto che dovevano andare al fronte dopo il 7 ottobre. Ma ho dovuto essere forte e dargli coraggio, ho insegnato loro a difendere il nostro paese senza odiare. Ho manifestato contro Netanyahu e visto l’odio crescere ovunque. Ecco, non dobbiamo permettere che ci costringano a tirar fuori la parte peggiore di noi».
Lighting of the Christmas Tree in the village of Fassuta
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Milad ♱⃓ Pal Catholic ÜÜ Ü•Ü
(@PalCatholic) December 17, 2025
Angelica, Yehuda e pochi altri sono rimasti nel kibbutz quando lo scorso anno la Galilea era stata evacuata. Ma non erano soli. Tra i ragazzi di Angelica c’è Giris Khoury. Abita poco distante, a Fassuta, un villaggio bellissimo, interamente cristiano, anche i cristiani sono rimasti. Qui il Natale è celebrato da un grande albero e mercatini dove arriva gente di tutte le religioni e di tutte le etnie. Khoury è il nome di una delle famiglie più antiche della zona, diffusa proprio a cavallo del confine. Un suo parente, Gerry Khoury, aveva studiato a Roma negli anni Settanta, aveva conosciuto Comunione e Liberazione e aveva portato qui la sensibilità e il cuore del movimento. La storia ha sorprendenti intrecci (e lo Spirito soffia dove vuole, anche sopra le misere barriere umane).
Racconta Giris a Tempi: «Sono cristiano, greco cattolico, ma parlo in aramaico, la lingua parlata in Galilea al tempo di Gesù. La lingua in cui per la prima volta è stato pronunciato il Padre Nostro. Siamo eredi dei primi cristiani della Galilea. Qui con Angelica ho scoperto che siamo amati dall’unico Padre. E la parola pace segna il principio di ogni cosa. Siamo rimasti insieme durante la guerra. Il teatro è il modo per manifestare con tutto il nostro essere questa volontà di amicizia. Perché Gesù ci ha chiamati amici e ci chiama ad essere amici».
A Sasa, come in tutti i kibbutz e le comunità ebraiche, si celebra Hanukkah (la Festa delle luci) accendendo il candelabro a 9 braccia per otto giorni per commemorare il miracolo della redenzione del Tempio di Gerusalemme, giocando con il dreidel (trottola) e mangiando sufganiyot (ciambelle fritte nell’olio). A Fassuta si addobba il grande albero, si allestisce il presepe per il Dio Bambino. Genti diverse, con diverse fedi, fanno festa insieme, ed è gioia per tutti. Quella stessa gioia che era beresheet, in principio, quando il Verbo, il Logos greco, il Davar (“la parola†in ebraico), si è fatto carne. E in tanti modi pur diversi qui si diffonde l’eco di quella stessa compagnia.
Ci sono molte cose per cui anche quest’anno devo ringraziare il Signore, che le ha rese possibili e le ha fatte accadere. Ma c’è un aspetto che quest’anno voglio sottolineare in modo particolare. Noi spesso ringraziamo per ciò che ci corrisponde, perché siamo umani e dunque siamo grati per ciò che ci soddisfa, ci appaga e va bene secondo la nostra misura. Ringraziamo per ciò che contribuisce al nostro successo, al nostro ego alla nostra idea che tutto sia a posto. Quest’anno, invece, voglio ringraziare il Signore soprattutto perché fa accadere cose diverse da quelle che ci aspetteremmo e così facendo ci costringe a fare i conti con una misura che non è la nostra. Questa, in fondo, è una grande legge della vita. Noi non siamo Dio. E non siamo capaci di generare il nostro bene. Prova ne è che, anche quando le cose vanno tutte come vorremmo, possiamo dire di avere davvero costruito la nostra felicità ?
Io non ho la grazia della fede. Non per scelta, non per posa. Questo però non mi impedisce di riconoscere il sacro quando accade. Perché, a volte, non chiede di essere creduto, bensì riconosciuto. L’amicizia, per esempio, quella che mi lega a Raffaele. Ricordo che durante una messa in suffragio per Luigi Amicone un prete disse che per lui l’amicizia non era una virtù, ma un sacramento. Io non posso discernere sui sacramenti. Ma so che esistono legami che non si riducono all’utile, che non nascono per proteggere o garantire, e proprio per questo reggono. Ti tengono in piedi. Ti spostano da te stesso. Da non credente, quindi, ringrazio simbolicamente il cielo anche per ciò che mi è stato tolto. Non perché la perdita sia buona. Ma perché togliere, a volte, è l’unico modo che la realtà ha per impedirci di diventare il centro di tutto.
Quando la realtà non corrisponde, quando un figlio non è come vorresti tu e continua su una strada sbagliata, che non solo non è quella che avevi immaginato, ma prosegue verso un abisso oscuro, generando dolore e sofferenza in lui e in chi gli vuol bene. Quando la politica, cui dedichi la vita, sembra sempre più incapace di stare dentro la realtà con la serietà e la profondità richieste e prende una deriva da avanspettacolo, così superficiale e meschina. Quando gli eventi ti costringono a un ruolo di comprimario e non a quello da protagonista. Quando si avvicina la grande, estrema contraddizione del dolore e della morte. Tutto questo pone davanti a un’alternativa radicale. O maledici le circostanze, oppure sei costretto a riconoscere che proprio attraverso circostanze che non sono quelle che vorresti passa un disegno più grande e più sapiente, un bene più misterioso e più reale, di quello che persegui tu. Mi ha sempre colpito, leggendo la Bibbia, i Vangeli, la storia della Chiesa e dei Santi, che Dio non sceglie quasi mai la strada che i protagonisti delle vicende più significative avrebbero desiderato. A partire da Gesù stesso, da sua madre Maria, che certamente non ha avuto una vita facile né conforme alle proprie aspettative, dalla gravidanza prima del matrimonio, al dover emigrare in Egitto, fino al vedere il proprio figlio morire sulla croce. Questa dinamica vale per tutti, per quelli che sono venuti prima e per quelli che sono venuti dopo. Da Mosè ad Abramo, dagli apostoli ai santi come Francesco, tutti sono stati chiamati a fare i conti con circostanze non desiderabili. Ed è proprio in questo stare dentro il disegno di un Altro che si è compiuta la loro umanità e anche la loro grandezza. È sorprendente quanto per noi sia difficile accettare questa idea. Ma, appunto, siamo umani: desideriamo il bene come lo vorremmo noi, non come lo pensa Dio.
Io, come tutti, porto con me le perdite che mi hanno prodotto sofferenza. Quelle inattese. Quelle che l’uomo non è capace di accettare. Non ne benedico nessuna. Non faccio l’apologia di alcuna mancanza. L’assenza resta assenza, e porta con sé fatica e fragilità . Eppure, l’assenza non consegna solo il vuoto. Nel tempo lascia anche altro. Un bene che non ha termine. Non perché la perdita diventi sopportabile, ma perché ciò che è stato non smette di operare. Come una luce che continua ad arrivare anche quando la fonte non c’è più. Non illumina come prima, ma orienta. Permette di non perdere del tutto la direzione. Così alcune presenze, proprio nel loro non esserci più, continuano a lavorare dentro la vita. Non come ricordo consolatorio, ma come esperienza che resta attiva. Questo non redime la perdita. Ma le impedisce di essere solo distruzione.
Quando accade di comprendere che, sul ramo di ciò che reputiamo male, dolore, perdita, può spuntare per Grazia, inatteso e sorprendente come un fiore di primavera, un segno di speranza, un bene possibile, allora ci rendiamo conto che Dio spariglia le carte e introduce nella vita di ciascuno circostanze, momenti e condizioni respingenti, faticose, che non si desiderano e che non si vorrebbero attraversare, per mostrarci che la nostra felicità e il nostro compimento non dipendono dal fatto che le cose vadano come vogliamo noi. È un segreto difficile da apprendere, ma reale: “Se il chicco di grano non muore non può portare fruttoâ€
Dentro questo percorso si è chiarito anche il mio. Ho scritto molto, ho lavorato molto, ho attraversato molte storie. E non sono diventato un volto che precede i testi, una firma che arriva prima delle parole. Per anni l’ho vissuto come una mancanza. Oggi so che è stato un argine a una tentazione che mi ha sempre accompagnato e che non considero affatto superata, quella di confondere il lavoro con l’immagine, la scrittura con il personaggio, l’opera con il riconoscimento. Restare fuori dal centro della scena mi costringe a tornare ogni volta al lavoro, alle parole, alle relazioni. A ciò che resta quando l’attenzione scema. Non essere al centro non mi rende migliore. Ma mi impedisce, almeno in parte, di diventare qualcuno che avrei faticato a riconoscere. Mi insegna che si può fare strada senza occupare la scena. Che si può incidere senza coincidere con ciò che si produce. Per tutto questo, e per gli affetti interrotti che tornano a farsi presenti secondo trame differenti, per il riconoscimento amicale di uomini che mi trattano come un fratello, io non posso che ringraziare il cielo.
E tuttavia è esperienza comune constatare che è proprio dentro la difficoltà e la fatica che la persona cresce, che l’esperienza si arricchisce, che diventiamo più capaci di comprendere noi stessi e gli altri. Soprattutto si svela un disegno sulla nostra vita, un disegno buono sul nostro destino. Ciò che desideriamo non passa necessariamente dalle modalità che avevamo immaginato, ma c’è ed è reale, perché Dio è fedele alla sua promessa! Per questo, alla fine di un anno in cui molte cose non hanno preso la piega che avrei desiderato, voglio lodare Dio per questo. Perché mi costringe a stare dentro queste circostanze, ma mi dà la possibilità di coglierne un significato più profondo. Non nel senso consolatorio di “benedire†ciò che non mi corrisponde come bene, perché sarebbe disumano; ma nel riconoscere che esiste realmente la possibilità di un bene che passa attraverso il sacrificio, il dolore, la fatica di non comprendere subito dove Egli ci voglia portare. È questo sacrificio – sacrificium, cioè sacrum facere, rendere sacro – che rende le cose più vere e che, persino attraverso il dolore che toglie gusto alle cose, riempie le parole e la capacità di dare un senso alla realtà e una strada più vera al compimento di sé.