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#news #tempi.it
Cessate il fuoco, ritiro dell’esercito israeliano dal 50 per cento della Striscia, ritorno a casa dei 20 ostaggi vivi (per le salme di quelli deceduti ci vorrà più tempo perché in alcuni casi Hamas non sa dove si trovino, in altri non sa come raggiungerle), ingresso nel territorio palestinese di ingenti aiuti umanitari per la popolazione stremata da due anni di guerra. La prima fase dell’accordo tra Hamas e Israele è quasi completata e non era per niente scontato. Anzi, dopo due anni di stragi ed eccidi sembra un miracolo. Donald Trump ha riscosso gli applausi che meritava, si è parlato e straparlato di pace in Medio Oriente (dopo tanto dolore, in fondo ci sta anche la retorica), chi doveva e voleva ha avuto la sua passerella.
Ora però inizia la fase più delicata e difficile per Gaza. Perché la pace è ancora un miraggio, Hamas resta armata fino ai denti ed è tornata alla sua specialità – terrorizzare i palestinesi con esecuzioni sommarie (ai pro Pal va bene così?) –, Israele minaccia di riaprire il fuoco e Gaza non è affatto cambiata: è ancora un tappeto di macerie dove nessuno può allo stesso tempo abitare e conservare la propria dignità . Il piano in 20 punti di Donald Trump prevede diversi passaggi per ovviare a ciascuno di questi problemi, ma sono uno più complesso dell’altro da realizzare e su ciascuno di essi non esiste un accordo tra lo Stato ebraico e i terroristi né è stata stilata una tabella di marcia con tappe definite e tempistiche precise.
A Sharm el-Sheikh, infatti, i negoziatori americani e arabi hanno cercato e raggiunto un’intesa solo sulla prima fase della tregua, sapendo che mancavano condizioni e volontà per ottenere risultati anche sulla seconda.
La priorità è la ricostruzione di Gaza per dare ai palestinesi nuove case dove vivere. Secondo stime dell’Onu, serviranno almeno 70 miliardi di dollari e da questo punto di vista le prospettive sono incoraggianti: tutti, dai paesi arabi a quelli europei, dagli Stati Uniti al Canada, hanno promesso di investire nella ricostruzione.
Prima, però, è necessario ripulire le città dalle macerie. In questi giorni, nella Striscia decine di ruspe hanno portato via fino a 80 mila tonnellate di macerie, ma secondo la Bbc ce ne sono almeno 60 milioni di tonnellate da raccogliere. Serviranno anni per completare il lavoro.
La ricostruzione, inoltre, non può partire senza qualcuno che la governi e senza una forza internazionale che garantisca la sicurezza.
Per quanto riguarda il primo punto, il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty ha rivelato che i 15 tecnocrati palestinesi incaricati di amministrare Gaza sono già stati scelti e approvati sia da Israele che da Hamas.
Nel nuovo Consiglio per la pace «Hamas non avrà alcun ruolo, siamo d’accordo su questo». A capo del governo provvisorio della Striscia difficilmente ci sarà l’ex premier britannico Tony Blair, rifiutato dai terroristi, mentre potrebbe essere nominato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, come proposto da Trump.
Ma il Consiglio per la pace risulterà inutile se a Gaza non regnerà davvero la pace e questo è improbabile fino a quando Hamas non sarà disarmata. Ma chi può davvero credere che i terroristi consegneranno le armi volontariamente? Qualcuno deve obbligarli a farlo.
A Gaza dovrà dunque essere dispiegata una forza internazionale. E come scrive il professor Jacob Stoil, analista militare, «dovrà avere a disposizione armamenti moderni e droni e dovrà essere in grado di individuare e neutralizzare le strutture sotterranee di Hamas e i suoi ordigni esplosivi».
L’esercito in questione, perché non basta una generica forza di pace in stile Unifil, dovrà anche disporre di unità bene addestrate e un mandato chiaro e ampio per essere in grado di intervenire davvero.
Chi metterà a rischio i suoi soldati, inviandoli in un teatro di guerra dove oltre ad Hamas e a Israele operano decine di milizie e clan in competizione per il controllo del territorio?
Tra i paesi che si sono offerti di mettere a disposizione truppe ci sono al momento Pakistan, Azerbaigian e Indonesia, oltre a Egitto, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
L’Indonesia, in particolare, avrebbe proposto di inviare 20 mila soldati, a patto che operino sotto mandato dell’Onu, una possibilità non contemplata dal piano di Trump.
Per quanto riguarda Qatar, Emirati, Egitto e Stati Uniti, i loro soldati non verrebbero stanziati a Gaza ma in una base in Israele per aiutare a monitorare il cessate il fuoco.
In attesa di risolvere il nodo della sicurezza e di capire che cosa ne sarà di Hamas, Israele ha annunciato che presto verrà riaperto il valico di Rafah.
Si tratta di una notizia molto importante per i palestinesi di Gaza. Infatti, per la prima volta, lo Stato ebraico permetterà secondo uno schema ancora da concordare ai cittadini palestinesi che decideranno di trasferirsi in Egitto di fare ritorno in un secondo momento nella Striscia di Gaza.
Il cammino che conduce alla pace, quella vera, è ancora lungo e incerto. Ma alcuni piccoli segnali di speranza a Gaza ci sono. Non vanno sprecati.
Martha Patricia Molina, avvocata nicaraguense in esilio, è oggi la voce più autorevole della Chiesa perseguitata del Nicaragua. Il suo dossier, intitolato Nicaragua: una Chiesa perseguitata, è stato consegnato in ottobre nelle mani di papa Leone XIV dalla sua amica Muriel Sáenz. Nel documento, la giurista ricostruisce in modo dettagliato la repressione sistematica contro sacerdoti, vescovi e laici cattolici da parte del regime sandinista di Daniel Ortega e sua moglie, Rosario Murillo.
Da quando, nel 2018, le proteste popolari contro il governo si sono trasformate in una brutale campagna di terrore, con oltre 500 morti, soprattutto giovani, uccisi dalla dittatura, la Chiesa che aveva difeso gli studenti universitari perseguitati è diventata agli occhi del potere un nemico politico da eliminare. Secondo i dati raccolti da Molina, oltre 300 religiosi sono stati costretti all’esilio, più di mille enti ecclesiali chiusi, 36 chiese confiscate e decine di media cattolici messi a tacere: un soffocamento della vita religiosa che, nel 2025, ha assunto contorni ancora più brutali.
A confermare la gravità della situazione è arrivata la denuncia della Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh), che ha condannato la morte di Carlos Cárdenas, consulente legale della Conferenza episcopale nicaraguense, arrestato a luglio e deceduto in cella in agosto. «La morte di Cárdenas ha lasciato troppi dubbi», racconta Molina a Tempi. «Era sotto sequestro del regime sandinista. Alla famiglia non è stato permesso nemmeno di vegliarlo o di celebrare un funerale. Tutto è avvenuto in fretta, senza indagine medica indipendente: l’istituto legale è totalmente asservito alla dittatura sandinista. Lui è la settima persona assassinata dalla dittatura sotto il regime di sorveglianza penitenziaria ed è molto triste quello che sta succedendo alla gente della Chiesa».
Nel suo lavoro di documentazione, ci racconta Molina, «mi arrivano quotidianamente denunce sulla repressione che stanno subendo i sacerdoti, i vescovi, i diaconi, le religiose, i chierici e i laici. Ma purtroppo la gente non denuncia pubblicamente perché ha paura, la repressione sta aumentando sempre di più in Nicaragua e le persone potrebbero essere imprigionate, esiliate o anche uccise». Per questo il numero delle denunce pubbliche «è diminuito considerevolmente, e le accuse sono sempre più spesso anonime. Di queste, comunque, non ho tenuto conto nel dossier», aggiunge la giurista. Lo stesso dossier, consegnato al Papa, è già arrivato all’Onu, all’Osa (l’Organizzazione degli Stati americani) e al dipartimento di Stato americano, che nel 2024 ha conferito a Molina l’International Religious Freedom Award.
La persecuzione non risparmia neppure i simboli più sacri. Domenica scorsa, 12 ottobre, è morto il sacerdote Mario Guevara Calero, vittima nel 2018 di un attacco con acido solforico nella cattedrale di Managua. L’aggressione fu compiuta da una cittadina russa, Elis Leonidovna Gonn, che gettò il liquido corrosivo sul volto e sul corpo del prete, provocandogli gravi ustioni.
La stessa Gonn, liberata dalla dittatura per motivi mai chiariti, è tornata a colpire due anni dopo in Italia: il 23 giugno 2020 ha infatti accoltellato – dopo avergli spruzzato addosso del gas urticante – il gestore di un bar di Torino dove si era presentata per un colloquio di lavoro.
Il 63enne padre Guevara è morto dopo anni di sofferenze e numerosi interventi chirurgici. Questa settimana sarà sepolto a Masaya. La sua figura è una delle tante divenute simbolo del martirio della Chiesa nicaraguense.
«Di fronte ai regimi criminali che soggiogano i popoli», ha ricordato martedì monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua costretto in esilio a Miami, «dobbiamo coltivare la ribellione spirituale, intellettuale e morale per denunciare l’ingiustizia». Le parole di Báez riecheggiano nel nuovo rapporto di Molina: tra il 2018 e luglio 2025 si contano 1.010 attacchi o aggressioni contro la Chiesa cattolica e oltre 16.500 processioni o atti di pietà popolare proibiti. «Il regime vuole annientare la fede cattolica», spiega l’avvocata a Tempi, «imponendo omelie di massimo cinque minuti, vietando di pregare per i vescovi in esilio e punendo i fedeli che chiedono libertà durante la Messa».
Il controllo, denuncia Molina, è capillare: «Solo i paramilitari incaricati della sorveglianza ecclesiale sono più di 80 mila. In un paese di 7 milioni di abitanti, più dell’1 per cento della popolazione è coinvolto nella persecuzione religiosa». Nonostante ciò, la Chiesa nicaraguense continua a resistere. «Le famiglie cattoliche mantengono viva la fiamma della fede», racconta, «anche nelle case sorvegliate. I sacerdoti in esilio celebrano in silenzio, in case private o cappelle di fortuna, ma non smettono di servire il popolo di Dio».
Con la consegna del dossier in Vaticano, Molina spera che «la voce della Chiesa perseguitata del Nicaragua risuoni nel cuore della cristianità ». Papa Leone XIV, afferma l’attivista, «rappresenta un faro di speranza per chi vive nella paura. La mia missione non è politica ma morale: mostrare al mondo che in Nicaragua si muore per la fede, e che il silenzio complice è anch’esso una forma di persecuzione».
L’articolo di Filippo Cavazzoni pone in modo molto efficace alcuni problemi veri e delinea alcune soluzioni che senz’altro vanno nella strada giusta. Però il cinema è un mondo insieme artistico e industriale – un film decente costa almeno 2-3 milioni se siamo in Italia, mediamente circa 100 milioni se siamo a Hollywood – e quindi le dimensioni artistica e industriale del fenomeno sono assolutamente sempre presenti, inscindibili. Tenerle insieme, pertanto, non è mai cosa facile, né scontata. Avendo presente questo punto di partenza, aggiungerei tre brevi considerazioni all’articolo citato.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Il capitano della riserva dell’Idf, l’Israeli defence force, Ron Biran, 34 anni, è stato richiamato al fronte per la quarta volta dopo i tre anni di servizio militare, e per quattro volte ha dovuto combattere, tra Gaza e il Libano, abbandonando il suo lavoro di creatore di start up a Tel Aviv che gli fa guadagnare ventimila dollari al mese: «Dobbiamo difenderci – ci dice – ora c’è la tregua, ma la guerra non è finita. Potrei vivere in pace e guadagnare bene, ho due figli, due bambini di dieci e sette anni, anche mia moglie lavora nell’informatica. Non ci spaventano i prezzi alti di Tel Aviv, sapete che è tra le tre città più care del mondo?».
Lo dice mentre è seduto su una panchina dello Yarkon Park di Tel Aviv da dove ci parla, tra un laghetto circondato da un grande prato dove giocano i bambini e un orto botanico, visitato ogni anno da quindici milioni di persone. «Qui sembra un paradiso, ora sono in licenza ma devo tornare alla mia unità e anche qui ogni istante possono suonare le sirene, o un kamikaze si può fare esplodere: la guerra è una minaccia costante, che ci accompagna da quando siamo nati. Una guerra che non vogliamo. Altri riservisti hanno rifiutato di tornare a combattere, uno solo finora è stato condannato a venti giorni di carcere. Altri evitano il servizio con certificati medici, altri più giovani sono ultraortodossi e riescono a restare a casa, o meglio nelle loro scuole, perché, dicono, il loro compito è studiare i testi religiosi. Io no, alterno periodi di lavoro e periodi con la divisa».
«Io – prosegue Biran nel suo racconto – rischio la vita, e quando sono barricato nelle trincee vedo poco distanti le luci della città e penso quando sto perdendo, quanta vita e quanto lavoro. Conto di mettermi in proprio, l’azienda per cui lavoro è cresciuta enormemente ma ci sono ancora molte possibilità . E sulle start up di alta tecnologia non ci sono embarghi e per fortuna il lavoro non si perde. Più difficile per chi lavora nell’agricoltura, nell’allevamento, nei kibbutz e nei moshav, le fattorie collettive: anche lì ci sono applicazioni straordinarie che permettono raccolti magnifici, il deserto fiorisce ma bisogna essere presenti, aver cura dei campi e degli animali. Il servizio militare, per chi non riesce ad evitarlo, è un danno per tutto, per la tua vita e per la tua famiglia – gli orrori che vedi non ti abbandonano mai – e per i tuoi risparmi, potresti essere benestante e goderti i figli e avere tante occasioni, e lo pensi mentre rischi di morire. Con noi ci sono soldati arabi, drusi e beduini, e credo che per loro sia ancora più dura. Non hanno nemmeno il pensiero di combattere per il paese dei loro antenati; io non sono religioso ma questo senso di appartenenza al mio popolo, il popolo di Israele, me lo sento dentro. E ci sono i palestinesi che abbiamo di fronte, tra loro si nascondono i terroristi, lo so bene, ma vedo famiglie intere che hanno perso tutto, e ci sono professionisti, medici, ingegneri: le loro case distrutte. Forse nella nuova Gaza avranno di nuovo un lavoro e una vita. Non più terroristi, lo spero per loro e per noi, ma ci vorranno generazioni prima che il solco di odio sia spianato».
Se il costo umano finora pagato in questi due anni di guerra da israeliani e palestinesi di Gaza e Cisgiordania è terribile (in termini di vite umane, famiglie distrutte, effetti devastanti sulla salute anche mentale di milioni di persone) le previsioni economiche, se non verrà raggiunto e attuato al più presto un piano di pace su scala globale, sono catastrofiche. Si stima che le sole operazioni militari siano costate ad Israele 725 milioni di dollari al giorno. L’elevata spesa militare sta avendo un impatto enorme e ha ridotto gli investimenti in settori vitali come sanità e istruzione. Il bilancio della Difesa è raddoppiato, finanziato dall’aumento della pressione fiscale. Le spese militari hanno raggiunto i 46,5 miliardi di dollari nel 2024. Un importo che rappresenta circa l’8,8 per cento del Pil, supportato da ingenti aiuti esteri, principalmente dagli Stati Uniti.
«La guerra di Gaza – dice uno dei massimi economisti mondiale, l’israeliano Shlomo Maital, in uno studio pubblicato dal Jerusalem Post – potrebbe costare a Israele fino a 400 miliardi di dollari di mancata produzione nel prossimo decennio. Questa cifra riflette non solo il costo dei richiami delle riserve, ma anche gli effetti agghiaccianti dei boicottaggi internazionali, dell’esitazione degli investitori e del danno reputazionale».
Shlomo Maital dirige lo Zvi Griliches Research Data Center presso lo S. Neaman Institute, Technion. Il suo blog è tra più seguiti da chi vuole approfondire la situazione economica e i riflessi sulla vita quotidiana. Le sue ricerche sono studiate nelle università americane e britanniche. Le sue valutazioni non si limitano ad Israele e alla ricostruzione di Gaza: guardano avanti. «Il costo economico – precisa – si sta già riverberando in tutta la regione. L’economia palestinese in Cisgiordania è in crisi. L’economia di Gaza è praticamente scomparsa. Persino la fragile economia egiziana ha risentito della pressione. Il Fondo monetario internazionale prevede ora una crescita inferiore in Medio Oriente e Nord Africa».
Si calcola che solo la ricostruzione di Gaza e Cisgiordania costerà almeno 56 miliardi di dollari. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità solo per il settore sanitario servono più di 7 miliardi di dollari. Trenta miliardi per riparare le infrastrutture fisiche e 19 miliardi per far fronte alle perdite economiche e sociali. Un terzo della cifra totale andrebbe al settore più colpito, quello residenziale. Il 90 per cento delle scuole della Striscia sono state danneggiate o distrutte, dice Save The Children. Percentuali simili per abitazioni private e negozi. Di 36 ospedali solo 14 funzionano in parte. E poi ci sono moschee e antichi mercati. O meglio, c’erano: la maggior parte è ormai nel conteggio dei 55 milioni di metri cubi di rovine. Di cui una parte a rischio contaminazione amianto.Â
Insomma, la guerra di Gaza riguarda il mondo intero perché l’effetto domino tra sanzioni, boicottaggi, innalzamento dei livelli di allerta nei paesi occidentali incide sui costi di produzione come sulle spese militari anche solo per le misure di sicurezza, danneggiando commercio e turismo. Maital sottolinea la mancata valutazione del “fronte economico” che ha riflessi enormi sulla popolazione, li ha avuti subito, li sta avendo ora e li avrà in futuro. Anche se verrà un accordo che porti ad una vera forma di pace.Â
Israele non può permettersi di ignorare il fronte economico. La situazione è diversa dal 1973 quando, in una guerra durata dal 6 al 25 ottobre, il paese dovette affrontare una crisi economica e tassi di inflazione stratosferici, con enormi sacrifici che coinvolsero tutti i settori produttivi, nonostante il sostegno dell’alleato statunitense.
«L’attuale processo di bilancio – è il giudizio di Maital – è viziato da contrattazioni politiche, spese eccessive e visioni a breve termine. Il caos della gestione economica del governo si fa ogni giorno più netto. Gli israeliani devono sapere cosa è necessario per mantenere sia la sicurezza nazionale sia la salute economica. Meritano un piano che protegga l’economia dall’inflazione e dal collasso, distribuendone equamente l’onere nella società . Meritano una leadership che dica loro la dura verità e agisca di conseguenza».
Occorrono sacrifici a fronte dei quali molti in Israele storcono il naso. Il servizio di riserva militare impegna nella guerra una buona parte della popolazione attiva, ma gli studenti delle Yeshiva, le scuole religiose, sono esentati nonostante i tentativi dell’esercito di imporre al premier Bibi Netanyahu il reclutamento degli haredim, gli ultraortodossi che rifiutano di combattere, studiano le Scritture e non lavorano grazie ai sussidi statali. Le norme più restrittive sulla esenzione per motivi religiosi sono state boicottate dai partiti estremisti religiosi che finora hanno sostenuto il governo e molti haredim che sono stati chiamati alla leva hanno semplicemente rifiutato di presentarsi, senza conseguenze. Un’amara battuta circola sempre più frequentemente: «In Israele un terzo della popolazione lavora, un terzo paga le tasse, un terzo fa il servizio militare: peccato che è sempre lo stesso terzo». Paradossale, forse, ma dà l’idea del sentimento della gente, di quanti sono sul fronte di guerra lasciando case e lavoro e famiglie. E qui la guerra non è mai finita.
Israele ha sempre dimostrato di aver eccezionali capacità di resilienza, quattro anni fa si era risollevato in fretta dalla crisi innescata dalla pandemia, dando fiato all’edilizia e agevolando le licenze di costruzione: grattacieli di trenta piani sono sorti in tre anni a Gerusalemme Ovest, lungo la Jaffa Street, appartamenti venduti a prezzi stratosferici soprattutto ad ebrei americani, francesi e belgi. Le start up sono esplose tra gli avveniristici palazzi di Tel Aviv, in quattro anni gli “unicorni” (società hi-tech quotate almeno un miliardo alla borsa di New York) sono cresciuti ad un ritmo sbalorditivo: da cinque a centodue, dando lavoro molto ben remunerato ai giovani geni dell’informatica.
Un’esplosione che però ha avuto effetti negativi sul costo della vita, aumentando l’inflazione (e i più poveri hanno pagato il prezzo più alto). Poi la nuova guerra, ed ora i costi del conflitto: dati a cui il governo punta a rimediare attirando capitali esteri grazie alle possibilità delineate dalla “nuova Gaza” e dal fiume di denaro che potrebbe affluire in investimenti e aiuti internazionali, ma molto è ancora incerto. La pace vera è ancora lontana e tutti da valutare gli effetti che potrà avere la ricostruzione (se è quando ci sarà ). Israele non è una bolla isolata e Iron Dome, se para i missili, non protegge da speculazioni e attacchi economici. La crisi globale dell’intera regione dovuta alle guerre, al terrorismo, ai traballanti governi e ai cambi di regime (dal Libano alla Siria, dall’Iran allo Yemen) ha riflessi diretti sullo Stato ebraico.Â
Certamente chi parteciperà  all’enorme opera di rinascita delineata nel piano Trump potrà trarne grandi profitti. Ma tutto si basa sull’ipotesi che una pace, garantita e duratura, sia raggiunta e sigillata da un patto che coinvolga tutti gli attori in gioco, e che sia vigilata da una forza militare internazionale stabile. Ma Hamas ha già detto che la liberazione degli ostaggi e l’ingresso degli aiuti sono solo un accordo umanitario e che la lotta per la “liberazione” non finirà , aggiungendo che ci vorranno mesi per recuperare i corpi degli ostaggi morti sotto le macerie. Il che fa intendere che non deporrà le armi. Il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha detto a sua volta che dopo il rilascio dei rapiti l’esercito israeliano distruggerà i tunnel della Gaza sotterranea. A qualsiasi prezzo. Sono solo parole, propaganda? Forse, ma bastano queste premesse per capire che il “piano di pace” è ancora lontano dall’essere una certezza.
I governi dei paesi coinvolti a vario titolo si confrontano, studiano le strategie per il “dopo”, puntando sul fatto che ci sia un dopo. L’Italia è direttamente interessata. C’è un asse strategico che lega l’industria manifatturiera italiana all’eccellenza tecnologica israeliana. Nonostante la tensione geopolitica, il rapporto bilaterale nel 2024 ha segnato un valore complessivo di 4,3 miliardi di dollari. L’Italia è il terzo partner commerciale europeo di Israele, dopo Germania e Olanda. L’Unione Europea è il più importante investitore in Israele con 73 miliardi di euro, gli Usa ne investono 39. Da notare che si tratta di cifre che non sono diminuite, ma anzi aumentate di un miliardo dopo l’inizio della guerra di Gaza.Â
L’Unione Europea ora non fa mistero di aspirare a un ruolo nella ricostruzione. Resta da capire quale sarà il piano di ricostruzione e quali soprattutto le garanzie.
Vecchia cinica storia. La guerra che fa vendere armi e la pace che poi ricostruisce sono due facce del medesimo affare economico: dove le vite umane, come quelle dei commercianti del suk o dei cristiani di Betlemme, che vivono di turismo religioso ora quasi scomparso, dei gazawi in fuga dalle bombe, dei pendolari palestinesi che dai territori andavano a lavorare nell’edilizia e nei campi israeliani, dei civili ebrei riservisti che devono tornare al fronte, come il capitano Biran, diventano merce preziosa per la propaganda.
Non bastano ai progressisti un milione di aborti in dieci anni. «Ne volete di più? Pensate che non siano abbastanza? Io penso che sia una cifra atroce e un fallimento come società ».
Isabel DÃaz Ayuso, presidente della Comunidad de Madrid, parla chiaro e rispedisce al mittente l’ordine di presentare il registro dei medici obiettori di coscienza imposto dal governo Sánchez, dal Psoe e da Más Madrid.
«Non ho intenzione di costringere un medico ad agire contro la sua coscienza o la sua libertà , e non ho intenzione di creare una black list», taglia corto la leader del Partito Popolare. E aggiunge, con quella calma che precede le tempeste: nella sua regione nessuno verrà schedato, né per avere abortito né per non averlo fatto, tanto meno i medici. «E se vi sembra poco, beh, andatevene in un’altra comunità ».
Poi la stoccata al premier: «Spiegherò che sono una donna. Una donna libera, e che lo sono stata per tutta la vita; che ho sofferto la perdita di due bambini. Purtroppo ho subito la tragedia dell’aborto due volte. So cosa significa. Ho bisogno di essere ammonita dal Primo Ministro? Chi si crede di essere il Primo Ministro per parlare a nome di tutte le donne? E poi, si crede Dio per parlare a nome della vita con tanta facilità e frivolezza?».
Da settimane il governo spagnolo ha riportato l’aborto al centro del dibattito politico. Dopo le polemiche che hanno travolto la maggioranza madrilena del PP e il sindaco José Luis MartÃnez Almeida – reo di avere approvato la proposta di Vox di informare le donne sulla “sindrome post-abortoâ€, poi costretto a una rocambolesca marcia indietro – Sánchez punta tutto su un’operazione simbolica: inserire l’aborto nella Costituzione.
Dicono i socialisti che la riforma serva a “blindare†il diritto all’interruzione di gravidanza contro eventuali regressioni, ma non è Ayuso il vero bersaglio. Né si può dire che Sánchez si sia improvvisamente innamorato della causa abortista: l’obiettivo è un altro, mettere alle strette Alberto Núñez Feijóo.
Il Partido Popular è un partito a geometria variabile, dove convivono liberali, cattolici e moderati di ogni tipo. Sull’aborto non ha mai assunto una linea netta per non spaccare l’elettorato, ma la riforma costituzionale dell’articolo 43 lo costringe a scegliere. Servono i tre quinti dei voti tra Congresso e Senato, e senza il PP la riforma non passa.
E qui scatta la trappola. Qualunque mossa faccia Feijóo, perde: se appoggia la riforma, perde la base pro-vita; se vota contro o si astiene, viene bollato come nemico dei “diritti delle donne†e consegna a Sánchez la narrazione perfetta – PP e Vox come la stessa destra reazionaria, utile al socialismo di governo.
È l’ennesimo colpo da maestro del premier: l’aborto come trappola politica e arma di distrazione di massa. Mentre si allontanano le ombre della corruzione, Feijóo resta col cerino in mano e Ayuso, cane sciolto e libera, gli ruba la scena.
Una volta riaperta la discussione in Parlamento, il PP dovrà quindi esigere da Ayuso – la più popolare e indocile del partito – il rispetto della legge del 2023: «La legge prevede che debba istituire un registro degli oppositori all’interruzione volontaria di gravidanza». Il riferimento del premier è all’”allarme” lanciato dalla ministra della Salute, Mónica GarcÃa: a Madrid si abortisce troppo poco. Su 106.000 aborti annui, solo uno su cinque avviene in un ospedale pubblico.
La risposta di Ayuso è però, ancora una volta, un manifesto politico: «Ne volete di più? L’aborto in Spagna è legale, ma deve essere sicuro e, soprattutto, deve essere raro». Raro, parola impronunciabile nei salotti del progressismo spagnolo. Madrid, aggiunge, continuerà ad applicare la legge «nel rispetto e nell’anonimato dei professionisti, tutelati dalla Costituzione spagnola. Libertà di coscienza, e nessuno può essere costretto a dichiarare le proprie convinzioni».
Ma Ayuso non si limita a difendersi. Contrattacca. Ai giochetti politici e alle derive mortifere del Psoe, la Comunidad de Madrid oppone una legge che riconosce il nascituro come membro dell’unità familiare già nel grembo materno: gesto concreto e simbolico insieme, che afferma che la vita dell’embrione non è un diritto da bilanciare, ma un dono da proteggere.
La proposta – ora in consultazione pubblica – prevede che una madre possa accedere a benefici sociali e fiscali già dal momento in cui l’esistenza dell’embrione viene certificata dal medico. Deduzioni per spese scolastiche, status di “famiglia numerosa†per chi attende il terzo figlio, esenzioni e borse di studio, trasporti pubblici, accesso all’alloggio e agli impianti sportivi. Una riforma che entrerà in vigore nella primavera 2026 e si inserisce nella “Strategia 2022-2026 per la tutela della maternità e della paternità â€, con oltre ottanta iniziative già attive: incentivi economici, sostegni alla conciliazione, benefici fiscali, politiche familiari potenziate (Tempi ve ne aveva parlato qui).
Madrid sarebbe la prima regione spagnola a introdurre questa misura in modo generale. In Galizia e altrove esistono norme parziali, ma mai un riconoscimento così esplicito. Non attribuisce al concepito personalità giuridica piena, ma effetti amministrativi: se la gravidanza non va a termine, il diritto decade. Tuttavia rappresenta una risposta concreta alle “lezioni del sanchezismo†sulle donne.
Dopo anni di retorica sui diritti e sulla liberazione femminile dalle “costrizioni della morale cattolicaâ€, Ayuso capovolge il paradigma. Libertà di coscienza, libertà di tenere il bambino. Maternità non come campo di battaglia ideologica, ma come destino che merita protezione.
Nel contesto di un paese in declino demografico, non è un gesto simbolico ma un principio politico: riportare la natalità al centro, creare consenso attorno alle madri, elevare il dibattito pubblico. Isabel DÃaz Ayuso non è la pasionaria di Vox, né l’anti-femminista di ritorno che Sánchez vorrebbe come avversario perfetto: difende la coscienza, non l’imposizione; la vita, non la propaganda; la donna reale, non il suo simulacro ideologico. Con l’arma più inaccettabile per la sinistra spagnola: quella della libertà .