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#news #tempi.it
Quando è cominciata l’epoca in cui viviamo? Direi nell’autunno del 2010, quando è uscito un film di quel genere che avrebbe poi quasi monopolizzato l’industria dello spettacolo negli anni successivi: biografie (o episodi di cronaca) rielaborate in finzioni narrative. In quel film lì, The social network, Mark Zuckerberg era un universitario stronzo che bisticciava con la fidanzata. Poi tornava in cameretta, scriveva delle cose terribili di lei su internet, e già che c’era faceva ciò che i geni, se maschi, spesso hanno fatto nella storia: conseguire un risultato professionale gigantesco solo nella speranza che quella che non li voleva li notasse. Insomma: Mark inventa Facebook. Erica, quando lo rivede, gli dice che sarà pure un genio, ma quel che ha detto di lei resta per sempre: «L’internet non è scritta a matita, Mark».
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Non c’è spazio per Gesù tra le strofe dei canti di Natale. Pochi giorni fa alcune insegnanti della scuola primaria “San Giovanni Bosco†di Reggio Emilia hanno deciso di riscrivere alcune rime della versione italiana di Jingle Bells per la recita degli alunni. «Oggi è nato il buon Gesù» è diventato «oggi è festa ancor di più» e «aspettando quei doni che regala il buon Gesù» si è trasformato in «aspettano la pace e la chiedono di più».
La preside della scuola, Francesca Spadoni, ha difeso il corpo docente a spada tratta, definendo la scelta un «esercizio della libertà di insegnamento, diritto fondamentale riconosciuto dalla normativa scolastica italiana e principio cardine della scuola democratica». Parole che non sono passate inosservate e che hanno scatenato la polemica in consiglio comunale. Il capogruppo della Lega, Alessandro Rinaldi, ha parlato di «deriva inaccettabile», definendo la scelta «ideologica e profondamente diseducativa». Immediata la risposta del consigliere del Partito democratico Federico Macchi: «Nel testo proposto ai bambini colgo un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace».
A far sentire la sua voce in questi giorni è stato anche Nadeem Chaudhry, mediatore culturale islamico di 33 anni, che in un’intervista al Resto del Carlino ha espresso tutta la sua amarezza per la scelta delle insegnanti del Don Bosco. Il giovane è nato in Pakistan, ma risiede da oltre vent’anni in Italia, ha vissuto prima in Liguria e oggi abita in in provincia di Reggio Emilia. Da qualche anno ha ottenuto anche la cittadinanza del nostro Paese. «La decisione è la prova che in Italia si sta deliberatamente tentando di eliminare i valori della nostra tradizione», ha spiegato a Tempi.

Ci spieghi meglio.
Per un straniero che arriva qui per la prima volta, conoscere il nostro patrimonio culturale è innanzitutto un’immensa opportunità . Se una certa componente politica pensa di appiattire le tradizioni del nostro Paese per non ledere la sensibilità di qualcuno, commette un grave errore. Negli ultimi anni, in nome della laicità , è in atto un vero e proprio accanimento ideologico contro la nostra cultura. Sembra che per favorire l’integrazione l’unica soluzione debba essere l’auto-eliminazione dell’Occidente.
A cosa può portare questo genere di scelte?
Negare la propria identità costituisce una sorta di “giustificazione†per gli stranieri, che così sono meno invogliati a integrarsi. L’effetto è controproducente, con il pericolo della chiusura in se stesse di intere comunità e di una “ghettizzazione†autoimposta. Si tratta di un danno non solo per i cittadini italiani, ma anche per chi viene privato della “spinta†a conoscere più a fondo la nostra società .
Lei per lavoro si trova spesso a rapportarsi con famiglie di studenti stranieri, in particolare provenienti da India e Pakistan. Quali sono le principali difficoltà che si trova ad affrontare?
L’integrazione è un processo lento e molto complesso. Di certo la priorità non sono i canti natalizi, quanto i contesti familiari profondamente diversi dai nostri, in cui spesso il ruolo dei genitori segue regole precise. Alle madri è completamente affidata l’educazione dei figli, mentre i padri sono quasi sempre assenti. Per comunicare con le famiglie la barriera linguistica costituisce un ostacolo difficilissimo da superare per gli insegnanti. Come si può spiegare la situazione scolastica di un alunno a genitori che non parlano una parola di italiano?
Cosa le ha permesso di sviluppare queste idee nel corso della sua carriera?
Gli incontri che ho fatto negli anni, in particolare il volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, e lo studio della storia millenaria e dell’arte italiana. Poi è stato utilissimo tenere sempre gli occhi aperti nel mio lavoro, mantenendo uno spirito aperto di confronto con la storia e la tradizione della mia famiglia, che è il vero senso dell’integrazione. Pur rimanendo musulmano, ad esempio, mi rendo conto del legame profondissimo della storia della Chiesa con questo Paese, del suo impatto sul suo patrimonio culturale e sociale.
Cosa la porta a pensare che «gli istituti reggiani stiano divenendo un terreno di sperimentazione ideologica», come ha affermato al Resto del Carlino?
Poche settimane fa Marwa Mahmoud, assessore alle Politiche educative del comune di Reggio Emilia, ha sostenuto che fosse necessario «decolonizzare lo sguardo» e promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Bisogna fare attenzione a generalizzare, le storia coloniale italiana è profondamente differente da quella di altri Paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra. È una strumentalizzazione quanto meno pericolosa, il problema semmai è contrario. Dobbiamo combattere per superare le barriere linguistiche e culturali, così da ottenere una coscienza di valori comuni e condivisi. Bisogna però fare attenzione a che la cancel culture non ci privi sempre più delle tradizioni occidentali, altrimenti in futuro il confronto sarà sempre più povero e scarno di contenuti.
Nessuno pensava davvero che l’esito sarebbe stato diverso, non per questo però la condanna di Jimmy Lai a Hong Kong è meno «devastante», per usare le parole della figlia del magnate dell’editoria, Claire. Nel verdetto di oltre 850 pagine non c’è nulla che provi la «sedizione» e la «collusione con forze straniere» del miliardario cattolico arrivato a Hong Kong da solo a 12 anni. «La motivazione giuridica è quantomeno scarsa, se non inesistente», ha commentato il suo avvocato. Eppure Lai è stato dichiarato colpevole e solo all’inizio dell’anno prossimo si saprà a quanto ammonterà la sentenza. Ma anche questo, in fondo, rischia di essere un dettaglio.
I magistrati scelti dal governo per portare avanti la persecuzione giudiziaria di Jimmy Lai hanno un ampio ventaglio di scelta: possono anche emettere una sentenza di condanna all’ergastolo. Ma basterebbe molto meno al tycoon per morire in carcere.
Lai, infatti, ha appena compiuto 78 anni e la sua salute non fa che peggiorare: nell’ultimo anno ha perso più di dieci chili di peso, soffre di diabete, problemi di cuore, pressione alta e la sua vista è calata.
Il regime comunista sa benissimo che il suo stato di salute va deteriorandosi e forse anche per questo, per rendere ancora più gravosa la sua pena, ha aspettato cinque anni prima di fare arrivare il processo a sentenza. Cinque anni che Lai ha passato in isolamento «in una cella senza finestre, senza luce naturale. La stanza ha le pareti di cemento armato e diventa rovente come un forno d’estate, quando a Hong Kong la temperatura sale oltre i 40 gradi», come dichiarato a Tempi dal figlio Sebastien Lai.
A dimostrazione della crudeltà del governo, inoltre, le autorità del carcere hanno profuso importanti sforzi per togliere all’attivista pro democrazia ogni tipo di conforto.
In particolare, sapendo che Jimmy Lai è cattolico, non gli hanno permesso per lungo tempo di ricevere l’eucarestia né gli consentono di tenere in cella un rosario per pregare o di partecipare alla Messa.
Che cosa ci si poteva aspettare di diverso da una dittatura e da un processo farsa che ha accettato come “prove” le dichiarazioni contro l’imputato estorte con la tortura a un testimone? Niente.
Che cosa ci si poteva aspettare da un processo a Hong Kong, che a quattro anni e mezzo dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale ha obbligato anche l’ultimo partito democratico della città a chiudere i battenti? Niente.

Ed è proprio per questo che la famiglia, pur angosciata, non è rimasta sorpresa dalla sentenza. E anche in questi giorni tiene il punto: Jimmy Lai non può essere salvato dall’interno, perché il regime cinese che ha messo le mani anzitempo su Hong Kong è marcio, dà una caccia spietata a tutti coloro che osano opporsi alla sua ideologia e se ne infischia della giustizia (ricordate come è morto il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo?).
Jimmy Lai può essere salvato solo da un intervento esterno, in primis da parte del presidente americano Donald Trump, che ha promesso di fare «tutto quanto in mio potere» per «salvarlo», del Regno Unito e dell’Unione Europea.
Pochi giorni fa Claire Lai ha rivolto un appello al governo cinese: «Non lasciatelo morire come un martire in queste condizioni di salute. Resterebbe una macchia sulla vostra storia che non sarete mai in grado di lavare via».
Perché Pechino si convinca a lasciarlo uscire di prigione servirà però un intenso lavoro diplomatico da parte del mondo libero. Al momento, infatti, l’orientamento del regime è quello espresso da un festoso comunicato di Erick Tsang, a capo dell’Ufficio affari costituzionali e continentali di Hong Kong: «Questo verdetto ristabilisce la giustizia. Lai resterà in carcere in eterno».
Jimmy Lai è stato incarcerato per avere difeso ciò che sta a cuore a tutte le democrazie liberali del mondo. Per questo non si può rimanere indifferenti alla sua sorte. Difendere Jimmy Lai significa difendere noi stessi.
Trump ha dichiarato di avere già chiesto al dittatore cinese Xi Jinping di liberarlo. Ma la pressione deve continuare nei prossimi mesi. C’è ancora tempo per salvarlo, ma dopo oltre 1.800 giorni di carcere è sempre più scarso.
«Questo caso ha suscitato il clamore mediatico perché è atipico. In altre circostanze, i bambini vengono allontanati dalle famiglie perché all’interno del nucleo domestico sono in una situazione di pericolo, perché vittime di violenza, perché vittime di genitori che fanno abuso di alcol o di sostanze stupefacenti. In questa famiglia non c’è niente di tutto questo. I bambini stanno fisicamente bene, sono curati, sono sereni, ricevono affetto dai genitori ed essi stessi sono affettuosi verso i genitori. Allora il problema qual è? È un problema culturale. Questa famiglia ha diritto di crescere i figli secondo la propria concezione di vita o lo Stato deve andare a sindacare e porre dei limiti? Dove arrivano i diritti dei genitori e dove arriva il dovere dello Stato nella tutela dei minori?».
A parlare è il sindaco di Palmoli, Giuseppe Masciulli, ospite il 18 dicembre della Fondazione Enrico Zanotti di Ferrara per un incontro a cui Tempi ha collaborato insieme all’associazione Esserci. Le riflessioni emerse nel corso dell’evento pubblico risultano ancora più puntuali alla luce degli ultimi risvolti legati a quella che il pubblico conosce come la storia della “famiglia del bosco”: la Corte d’Appello dell’Aquila ha rigettato il reclamo dei legali contro l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila. I figli di Nathan e Catherine Trevallion restano, quindi, separati dai genitori, in una casa famiglia dove è consentito alla madre di stare con loro per parte della giornata.
Il sindaco Masciulli conosce la parabola della “famiglia del bosco” da prima che il clamore mediatico schiacciasse la vicenda con la zavorra di un gossip esasperato. Il rammarico più sentito dal sindaco di Palmoli è l’occasione che il nostro paese ha perso, mancando di interrogarsi sul nodo centrale di una storia familiare che, al di là dei contorni specifici, ci riguarda tutti.
«Speravo – sottolinea Masciulli – che fosse occasione per aprire un dibattito su questo tema in tutta l’Italia: i genitori quali valori hanno diritto di trasmettere ai figli? La legislazione che regola questa materia risale al periodo in cui i bambini venivano sottratti all’obbligo scolastico per aiutare i genitori nei lavori agricoli, ma la società è cambiata totalmente. E le leggi dello Stato italiano non rispecchiano più la nostra situazione attuale. Si poteva dunque cogliere lo spunto per aprire un dibattito che coinvolgesse le associazioni, le categorie che rappresentano i genitori, le istituzioni. Mi auguravo una mossa di questo tipo che avrebbe migliorato la vita delle persone. Invece si è precipitati nel gossip, andando a creare un clamore legato a dettagli marginali, fino anche a fare un caso sul tipo di spazzolini da denti usati dai bambini».
Il dettaglio pruriginoso per solleticare gli istinti di pancia del pubblico sono molto diversi dal resoconto dei fatti. E nella cronaca asciutta della storia sono contenuti dei tasselli che avrebbero potuto mettere sul tavolo ipotesi di un intervento costruttivo, e non oppositivo, per sostenere la libertà della famiglia, senza cadere di un isolamento dal contesto comunitario.

I dati essenziali sono accaduti molto prima che i riflettori della stampa si accendessero sulla storia dei coniugi Nathan e Catherine Trevallion e dei loro tre figli. Primo: la famiglia non era sconosciuta e tagliata fuori dal contesto sociale. «Da quando sono arrivati nel 2021 – racconta il sindaco Masciulli – ho personalmente avuto contatti con questa famiglia perché, come accade nei piccoli comuni, per ogni necessità o informazione è consuetudine riferirsi al sindaco. Quando sono venuti in Comune, vedevo una famiglia molto affiatata, tre bambini sereni, sorridenti, puliti per quello che è normale in un contesto di vita in campagna e che manifestavano affetto verso i genitori e lo ricevevano».
Secondo: è nel contesto di questo rapporto istituzionale ma anche personale che poteva esserci un’alternativa virtuosa alla china drammatica dei fatti.
Nel settembre 2024 avviene l’intossicazione da funghi che colpisce tutta la famiglia Trevallion, a cui segue il ricovero ospedaliero e il sopralluogo dei Carabinieri nella casa del bosco. Ne deriva una copiosa documentazione fotografica e una breve relazione in cui si evidenziano problemi statici dell’abitato e carenze igienico sanitarie. Come previsto dalla legge, la relazione viene trasmessa non solo alla Procura di Vasto ma anche al Tribunale dei minori dell’Aquila.
Il sindaco Masciulli intuisce l’iter legislativo e burocratico che si profila e fa una proposta collaborativa alla famiglia: «Mentre la famiglia era ricoverata in ospedale, riesco a mettere a disposizione un’abitazione nel centro del paese. Avevo immaginato questa soluzione: al momento delle dimissioni ospedaliere, vanno ad abitare in questa casa idonea e iscrivono i bambini a scuola. Insieme al papà Nathan e agli insegnanti si era stabilito un percorso d’inserimento scolastico, anche con la compresenza dei genitori per un certo arco di tempo nelle mattinata. Proponevo che rimanessero ad abitare in questa casa di modo che, quando il tribunale dei minorenni avesse chiesto la relazione ai servizi sociali, questi ultimi avrebbero potuto relazionare in maniera positiva, cioè dichiarando che la famiglia viveva in una casa idonea, i bambini frequentavano la scuola e i problemi erano risolti».
L’obiettivo di questa proposta mette a fuoco un discrimine importante sul tema ancora molto scivoloso dei diritti di una famiglia rispetto all’intervento dello Stato. L’intento dell’intervento comunale non era quello di cambiare i connotati educativi e i valori dei Trevallion, ma di custodirne l’unità alla luce dei meccanismi legali e burocratici che potevano generarsi e di offrire il supporto della comunità cittadina.
La scelta di rifiutare questa collaborazione da parte dei Trevallion ha prodotto l’intervento a gamba tesa dei servizi sociali e tutto il dramma che ne è seguito, fomentato dalla stampa in modo esasperatamente deviato rispetto al reale vulnus della storia.

Gli ultimi risvolti confermano la separazione dei figli dai genitori. Ciò risulta molto preoccupante alla luce di quanto, invece, Masciulli legge nei dati presenti: «Le criticità evidenziate dal magistrato quando ha disposto il collocamento in struttura dei minori erano: l’abitazione inadeguata, carenze nell’istruzione scolastica e nella socializzazione. Ad oggi il problema abitazione è stato totalmente risolto, il problema istruzione è stato risolto con l’accettazione da parte della famiglia di collaborare con il Comune che dispone di una struttura con insegnanti affiancati da uno psicologo che si occupa dell’inserimento dei bambini migranti che arrivano nel corso dell’anno».
«La famiglia», prosegue, «ha accettato inoltre che i servizi sociali continuino a espletare le loro attività nell’abitazione privata in cui andranno ad abitare. Dunque, se prima c’erano delle ragioni, per quanto discutibili, nel tenere i bambini in una casa famiglia, oggi queste ragioni non ci sono più e io sto ripetendo da diversi giorni che non si capisce perché in prossimità del Natale questi bambini non possano tornare a casa».
L’aggiornamento più recente, vale a dire il rigetto della Corte d’Appello, va in direzione opposta, amplificando lo scenario peggiore a cui Masciulli ha tentato di opporre un’ipotesi di sussidiarietà : «Noi come Comune abbiamo assunto questo atteggiamento: il valore principale in assoluto è la famiglia, quindi questi bambini devono tornare a stare con i genitori. La domanda che ci siamo posti è: cosa possiamo fare? Sostenere la famiglia nel vivere secondo le sue convinzioni e nel rispetto delle leggi dello Stato. Ho dovuto però constatare che c’è un altro atteggiamento che tende a voler insegnare a questa famiglia come si vive, applicando dei principi quasi da Stato etico. Io credo che il Comune e le altre istituzioni dello Stato debbano essere di supporto alla famiglia e non a imporre un proprio modo di vedere la vita, l’istruzione e la socializzazione».
La ferita di questa vicenda è aperta e la china che si profila vede i bambini come vittime più segnate dagli strascichi legali. È accaduto parecchie volte che questo colpo ferale sia conseguenza diretta di un intervento mosso proprio da intenzioni che si arrogano la difesa del «superiore interesse dei minori». E poi degenerano in uno strappo dei rapporti vitali essenziali.
Per quanto il ritornello mediatico ci provi a ridurre tutto a una faccenda sentimentale da vita nella natura, a faziosità da tifoserie opposte fra presunte forme virtuose di socializzazione e nemici giurati della globalizzazione, il tema che brucia è un altro. Giuseppe Masciulli lo sintetizza – lucidamente – così: «Molti mi dicono che ho cambiato atteggiamento rispetto all’inizio dei fatti. È vero, perché ho preso atto della disponibilità della famiglia, ho visto che alcune questioni si sono risolte e siccome ritengo che il valore fondamentale sia l’unità della famiglia, oggi mi è chiaro che le ragioni di otto mesi fa per tenere i bambini fuori dal nucleo familiare oggi non sussistono più. Dobbiamo trovare altri metodi per sostenere la famiglia e non agire in maniera così drastica, creando dei traumi e delle sofferenze più gravi dei problemi che si vuole risolvere».
Il mondo è bello perché è vario. Venerdì scorso L’Espresso, storico settimanale della sinistra italiana, usciva con una foto di Pedro Sánchez a tutta copertina e un editoriale del direttore Emilio Carelli dal titolo “Un leader capace riferimento di un’altra politicaâ€. Un occhiello recitava: «Perché il premier spagnolo è la nostra Persona dell’Anno: i successi nel suo paese, modello per l’Europa».
All’interno un’intervista di Felice Florio al premier spagnolo sotto il titolo “Più diritti più libertà . Sánchez è la persona dell’annoâ€. Sommario: «Occupazione, sviluppo, ridistribuzione della ricchezza, difesa delle conquiste civili e lotta alle big tech. Il premier spagnolo spiega a L’Espresso che lo ha scelto come figura rappresentativa di questi 12 mesi la ricetta della crescita».
Lo stesso venerdì 12 dicembre i quotidiani spagnoli suonavano una sinfonia completamente diversa. “Il Psoe [il partito di Pedro Sanchez, ndt] si sta dissanguando per una corruzione senza freniâ€, titolava a tutta pagina Abc. Sommario: «Arresti e perquisizioni in tutta la Spagna legati a Cerdán, Leire e Plus Ultra nello stesso giorno in cui la Uco rivela che la rete degli idrocarburi spese “un chilo†per comprare i politici». Catenaccio: «La polizia arresta i vertici di Plus Ultra per riciclaggio di denaro chavista»; «Ãbalos, Koldo e Aldama rinviati a giudizio per sette reati nel caso delle mascherine».
Tutti i cognomi si riferiscono a esponenti di vario rango del partito socialista, tranne quello dell’imprenditore Victor de Aldama, un tempo vicinissimo al Psoe e implicato nei casi di corruzione che riguardano l’ex ministro dei Trasporti José Luis Ãbalos, il suo consigliere Koldo GarcÃa Izaguirre e il segretario organizzativo del Psoe Santos Cerdán. I titoli di Abc ne ricordano due: la truffa delle aziende che hanno versato un milione di euro (“un chiloâ€) al giro di Ãbalos per non pagare 49 milioni di euro di imposte e quella delle mascherine ai tempi del Covid.
Leire è Leire DÃez, nota come “la fontanera del Psoeâ€, cioè “l’idraulicaâ€, ruolo che in Italia corrisponde a “faccendiereâ€. La signora ha cercato di condizionare inchieste della polizia che avevano di mira esponenti socialisti raccogliendo informazioni compromettenti su giudici, procuratori e ispettori di polizia della Uco, l’Unità operativa centrale della Guardia Civil, il corpo di élite incaricato delle inchieste più delicate. Però il 9 dicembre è stata arrestata insieme all’ex presidente della Sepi (l’Iri spagnola) Vicente Fernández per appalti truccati e sovvenzioni illecite.
La Plus Ultra è una compagnia aerea spagnola che è stata salvata dalla suddetta Sepi nel 2021 con un prestito di 53 milioni di euro, che anziché per scopi industriali sono stati usati per ripagare prestiti contratti con entità del regime venezuelano; in poche parole: per riciclare denaro chavista. Da qui gli arresti di proprietario e presidente del Consiglio di amministrazione.
Lo stesso 12 dicembre El Mundo titolava: “Il protetto della Montero usava il suo appoggio per continuare coi suoi trucchiâ€. Catenaccio: «Gli investigatori credono che Vicente Fernández ha mantenuto il controllo della Sepi “nell’ombra†dopo le sue dimissioni»; «Due trame del Psoe nei due grandi nuclei di denaro pubblico». Montero è MarÃa Jesús Montero, vicepresidente del governo e ministro delle Finanze, già assessore alle Finanze dell’Andalusia. A quel tempo consigliere legale in capo e poi revisore dei conti del governo andaluso era Vicente Fernández, che fu poi nominato a capo della Sepi quando la Montero entrò nel governo nazionale.

I «due grandi nuclei di denaro pubblico» di cui parla El Mundo sono il ministero dei Trasporti di cui era ministro Ãbalos e la Sepi di cui era presidente Fernández. L’editoriale esordisce così:
«L’operazione avviata dalla Procura nazionale e dall’Uco contro la Sepi non è solo un episodio nel groviglio di indagini giudiziarie che hanno caratterizzato questa legislatura: conferma che la corruzione è stata sistemica. Se i sospetti saranno confermati, essa ha preso piede nella sala macchine stessa dello Stato, per mano non di attori minori, ma di funzionari pubblici ai massimi livelli. Alla nota macchinazione che circondava l’allora ministro dei Trasporti, José Luis Ãbalos, si aggiunge ora quella legata all’ex presidente della Sepi, Vicente Fernández, braccio destro di MarÃa Jesús Montero e nominato anch’egli da Pedro Sánchez al momento del suo arrivo al potere. Che la Guardia Civil stia cercando prove di corruzione in questa azienda è di straordinaria gravità : la Sepi gestisce gli investimenti e le partecipazioni strategiche dello Stato – 6 miliardi di euro all’anno – ed è un nodo cruciale nella struttura economica nazionale».
Il ministero dei Trasporti gestisce 11 miliardi.
Sarà stato più gentile El PaÃs, quotidiano notoriamente filosocialista? No. Il 12 dicembre la prima pagina del quotidiano madrileno portava il seguente titolo: “Informativa della Uco: la trama spese un milione per «comprare la volontà di Ãbalos»â€. Sommario: «Il caso idrocarburi interessa tre ministeri, secondo la Guardia Civil». Poco più sotto un altro titolo, senza pietà : “Si dimette un altro dirigente del Psoe per accuse di molestie sessualiâ€. L’editoriale a pagina 10 si intitola “Un colpo dopo l’altro†e si riferisce agli arresti della Leite e di Fernández. Sommario: «Il succedersi di casi di corruzione e molestie sessuali rendono urgente una risposta drastica e senza scuse da parte del Psoe».
Nell’intervista di Florio a Sánchez non c’è nemmeno un vaghissimo accenno a questi scandali, che affliggono il governo da più di un paio di anni e che nei sondaggi hanno fatto perdere quasi cinque punti ai socialisti rispetto alle elezioni del 2023 (dal 31,7 di allora al 27 per cento di oggi). Buona parte del botta e risposta fra giornalista e leader politico è dedicata ai successi economici della Spagna, che ha conosciuto una crescita del Pil nettamente sopra la media europea negli ultimi tre anni: +2,7 per cento nel 2023, +3,5 per cento nel 2024 e probabilmente +2,9 per cento quest’anno. Nell’intervista Sanchez si inorgoglisce per i 22 milioni di persone impiegate, record storico della Spagna.
Quello che L’Espresso non spiega, ma che Tempi e altre testate hanno cercato di spiegare, è che il boom del Pil spagnolo è dovuto in buona parte all’aumento della popolazione prodotto dall’immigrazione soprattutto di latinoamericani nel paese: in Spagna risiedevano 47 milioni e 940 mila abitanti alla fine del 2022, oggi sono 49 milioni e 442 mila. Gli immigrati sono stati impiegati soprattutto in settori a basso reddito e a bassa qualifica, che gli spagnoli di nascita snobbano. La Spagna infatti resta fanalino di coda della Ue per percentuale di disoccupati sul totale degli attivi: 10,5 per cento (contro il 6 per cento dell’Italia). Il tasso di occupazione spagnolo è del 53,1 per cento, contro il 62,7 per cento italiano.
L’unica domanda che Florio fa riguardo al Venezuela (senza citarlo per nome) non concerne lo scandalo del riciclaggio di denaro venezuelano attraverso una compagnia aerea spagnola che ha ricevuto 53 milioni di euro di denaro pubblico pur disponendo di pochi aerei e di pochi voli solo su Cuba e sul Venezuela; e nemmeno la controversa politica del governo spagnolo nei confronti del regime venezuelano e dei suoi oppositori. Si chiede a Sánchez che cosa pensi delle uccisioni extragiudiziarie di sospetti narcotrafficanti in acque internazionali da parte degli Stati Uniti. Naturalmente il primo ministro spagnolo risponde che la messa in discussione del diritto internazionale è preoccupante.
Lunedì scorso sul Wall Street Journal si leggeva, in un articolo intitolato “Il governo spagnolo si ingrazia Maduro†scritto da Madrid:
«La Spagna potrebbe giocare un ruolo costruttivo nell’esercitare pressioni su Maduro e sui suoi compari affinché abbandonino il potere. I venezuelani, molti dei quali lavorano qui in impieghi umili nonostante la loro formazione qualificata, potrebbero tornare alle loro città di nascita e ricostruirsi una vita. Invece i socialisti e i loro alleati di coalizione difendono il regime venezuelano. Il governo spagnolo non riconosce la vittoria del candidato di opposizione Edmundo González alle elezioni presidenziali del luglio 2024 anche se i risultati sono stati documentati. Il primo ministro Pedro Sánchez rifiuta di congratularsi con la leader dell’opposizione MarÃa Corina Machado per il premio Nobel per la pace che le è stato assegnato. E non chiama Maduro “dittatoreâ€Â».
Pedro Sánchez uomo dei diritti e della libertà ? No, grazie.
C’è un dettaglio che dice più di mille conferenze stampa: la Coppa d’Africa 2025 non si presenta come “festa popolareâ€, ma come un evento che sa già dove vuole stare nella catena del valore. Non solo stadi pieni e bandiere: lounge, pacchetti premium, accordi media a raffica, investimenti su aeroporti e trasporti. Il Marocco – che la ospita dal 21 dicembre al 18 gennaio – prova a trasformare un torneo in una certificazione di affidabilità : organizzativa, economica e geopolitica.
Sotto i riflettori, la Coppa d’Africa è sempre stata una festa: tamburi, colori, notti lunghe. In Marocco, però, la festa viene “messa a bilancioâ€. Nove stadi in sei città , 24 nazionali, 52 partite: l’Afcon 2025 è progettata come una prova generale del Mondiale 2030 e, insieme, come una dichiarazione di potenza ordinata. Il punto è che l’Afcon oggi è, prima di tutto, un’industria. E come tutte le industrie vive di tre parole poco romantiche ma decisive: diritti, sponsor, flussi.
La Caf sa che la partita vera, fuori dal campo, è la distribuzione. Non è un caso che abbia annunciato un’espansione delle partnership europee, con l’idea (non banale) di tornare o entrare su canali free-to-air in alcuni mercati: più pubblico, più “valore percepitoâ€, più appetibilità per gli sponsor. Qui il tecnicismo è semplice: i diritti tv sono il prezzo che un’emittente paga per trasmettere le gare. Se aumenti copertura e accessibilità , aumenti la vetrina. E la vetrina, nello sport globale, è moneta.
Nei documenti della Caf il peso economico è esplicito: nel budget 2024-2025 (anno non Afcon) la voce “Tv & Media†vale 76,13 milioni di dollari e le sponsorship 55,73 milioni, su ricavi totali previsti di 149,86 milioni. Tradotto: il motore principale non è il botteghino, è lo schermo. E quando il torneo arriva, il salto è brutale. La Caf, nella relazione finanziaria 2023-2024, registrava “revenue from competitions†per 148,62 milioni (quasi il doppio dell’anno precedente), con un risultato netto positivo per l’esercizio. Non è un dettaglio contabile: la Caf ha registrato un profitto di 72 milioni di dollari dall’ultima Coppa d’Africa in Costa d’Avorio (contro i 4 milioni del 2021). Il “title sponsor†TotalEnergies, per esempio, non è un logo sul backdrop: ha esteso la partnership con la Caf su più competizioni e più anni, includendo Afcon Marocco 2025. È un patto classico: il brand compra centralità emotiva e visibilità continentale; la confederazione compra entrate prevedibili (e quindi potere negoziale).
Lo stadio non è più solo biglietto e seggiolino. La Caf vende esperienze: i pacchetti ufficiali hospitality partono da 16.500 dirham a persona per formule “Follow my team†(tre gare del girone incluse). Tradotto: l’Afcon si posiziona anche su pubblico corporate, diaspora e di lusso. E qui si innesta il Marocco, che sta costruendo la cornice economica attorno al torneo: lo dimostrano il prestito Afdb da 270 milioni di euro per aggiornare infrastrutture aeroportuali e il piano per portare la capacità a 80 milioni di passeggeri entro il 2030 (da 38 milioni attuali). A novembre il paese ha già segnato un record turistico con 18 milioni di arrivi. Il messaggio è lineare: siamo un hub.
Questa Afcon, per Rabat, vale anche come “esame pubblico†prima del Mondiale 2030 co-ospitato con Spagna e Portogallo; con tre partite inaugurali in Argentina, Paraguay e Uruguay. Nove stadi (nuovi o rinnovati) in sei città : è infrastruttura, ma è anche racconto nazionale. E il racconto nazionale – quando lo sport diventa politica industriale – tende a suonare così: modernità , efficienza, attrazione di investimenti. In questo quadro, si capisce perché Rabat tratta l’Afcon come “industria di Statoâ€: reputazione che attira capitali, infrastrutture che accelerano cantieri, diplomazia che si fa evento. Fin qui la parte luminosa, quella che nei dossier si chiama “legacyâ€: eredità . Ma ogni legacy porta una controdomanda.
Ogni torneo-industria ha il suo tallone d’Achille: la percezione interna. Nel paese si registrano proteste e critiche sulla priorità data ai progetti di prestigio rispetto a sanità e istruzione: è il conflitto classico dei mega eventi, solo che in Marocco si intreccia con una strategia molto ambiziosa di posizionamento regionale e internazionale. E aggiunge un altro livello, più scivoloso: l’attenzione sui diritti e sulla gestione migratoria, in un paese ponte dove la politica delle frontiere è parte della postura geopolitica. E quindi la domanda finale – “cosa resta davvero?†– merita una risposta meno poetica e più ingrata: resta ciò che entra nelle routine.
Se le infrastrutture (aeroporti, trasporti, riqualificazioni urbane) ridurranno tempi e costi anche dopo la finale, il beneficio è reale; se restano cattedrali-evento, il conto torna sotto forma di frustrazione. Un dato “certificabileâ€, oggi, è che la pressione sociale produce anche reazioni di bilancio: Reuters riporta che per il 2026 è previsto un aumento della spesa per sanità e istruzione di 140 miliardi di dirham (15 miliardi di dollari), +16 per cento, circa il 10 per cento del Pil.
Qui serve un confronto per capire che non è un’anomalia marocchina ma un modello: la Costa d’Avorio, alla vigilia dell’Afcon 2023, stimava investimenti oltre 1 miliardo di dollari fra strade, stadi e infrastrutture collegate al torneo. Anche lì: promessa di “hub†e discussione su costi e benefici reali. E serve un precedente per ricordare che le scelte non nascono oggi: la Caf stessa rievoca il Marocco del 1988, quando l’Afcon era ancora soprattutto un rituale continentale e molto meno una piattaforma commerciale globale. Oggi, con un calcio che vive di capitale e di audience, la festa è diventata business.
La misura non è “bello o bruttoâ€. È: trasparenza dei contratti, ricaduta sui territori, qualità del lavoro generato, accessibilità (prezzi, trasporti, sicurezza), tutela di chi è più vulnerabile – dai lavoratori ai migranti – quando l’evento alza la pressione sul controllo sociale. E soprattutto: quanto di questa ricchezza resta nella vita quotidiana, non solo nei rendering. Il Marocco, insomma, sta provando a far convivere due narrazioni: quella dello Stato efficiente che investe e quella dei cittadini che chiedono che l’efficienza non finisca tutta negli stadi.
L’Afcon come industria funziona solo se la reputazione non è un fine, ma un mezzo: per portare risorse e ridistribuire fiducia. Altrimenti la Coppa resta una vetrina perfetta, con dietro, sempre più visibile, il cartello scritto a mano: “Gli stadi ci sono; i servizi?â€. Perché l’Afcon in Marocco è un laboratorio chiarissimo: uno Stato che usa il calcio per accelerare infrastrutture e reputazione, e una confederazione che spinge l’evento verso un modello sempre più “globaleâ€, vendibile, premium. Il rischio è quello di sempre: che il torneo funzioni benissimo come spettacolo… e lasci irrisolta la domanda più concreta. Quando il fischio finale spegne le luci, cosa rimane nei quartieri, e a chi?
Oreste ha sessantacinque anni e nessuna fedina lavorativa pulita. Non ha mai ucciso nessuno, ma ha assassinato almeno dieci carriere. Ha fatto il magazziniere, l’agente immobiliare, l’animatore nei villaggi e per un mese pure il poeta su commissione. “Mi pagavano a sentimento”, dice.
Non ha mai trovato il lavoro “giustoâ€. E ne va fiero. “Il lavoro fisso è una forma elegante di prigione”, spiega a chi lo chiama fallito. “Io preferisco l’ergastolo a tempo determinato”.
Quando gli parlano di pensione si fa il segno della croce. “La pensione è la morte civile, ti tolgono pure la scusa per lamentarti”. Vive in un monolocale pieno di curriculum appesi come ex voto. Ogni tanto li guarda e sospira: “Almeno io ci ho provato con tutti”.
Gli amici sono andati in pensione e fanno nordic walking. Lui cammina pure, ma per raggiungere la fermata del bus che lo porta al nuovo lavoro stagionale. Dice che è felice così: “Non ho costruito niente, ma ho montato tutto”. Quando qualcuno gli chiede se non si sente stanco, sorride: “Solo i morti smettono di cercare”. Poi si infila i guanti da lavoro, e aggiunge: “Io finché respiro, faccio straordinari di vita”.