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#news #tempi.it
«Ci mancava pure questa: sono morte le gemelle Kessler», lamentava una sciura col portinaio, con evidente trasporto emotivo.
Sarà che io le conoscevo solo di nome, le gemelle Kessler («Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme?», …sì, scagliate la prima pietra), che, quando ho sentito la notizia, non sono stato invaso da nessuna orda di ricordi in paillettes, ma soltanto da orrore e pena. E come spesso mi capita, mi sono rivolto alla letteratura, per cercare di chiamare per nome ciò che non mi lascia tranquillo.
C’è un mito antico, che avrebbero potuto scrivere le gemelle Kessler, invece lo ha scritto Ovidio: il mito di Filemone e Bauci. Questi due teneri e anziani coniugi, in cambio di aver offerto ospitalità a due dèi in incognito, ottengono che venga scongiurata la propria più grande paura: quella di veder morire l’altro, dopo una vita passata insieme («che io possa non vedere mai la tomba di mia moglie, e lei non abbia mai a seppellirmi», è la stupenda, umanissima preghiera di Filemone). Così fu: gli dèi tramutarono la loro umile capanna in splendido tempio, i due pii vecchietti ne furono sacerdoti fino all’ultimo giorno, e infine, giunta l’ora, guardandosi negli occhi e scambiandosi parole d’amore, il loro corpo progressivamente si tramuta in corteccia, le braccia in rami, il capo in fronde: diventano due alberi, una quercia e un tiglio.
Immagino che le gemelle Kessler, che sposate non erano e, a quanto apprendo, non avevano figli, avranno vissuto un legame intenso come quello di Filemone e Bauci, tanto da trovare odioso il solo pensiero di trascorrere un solo giorno senza l’altra.

È la stessa cosa che pensa Guido, il protagonista del racconto Il pasticcio di rigaglie di Luigi Santucci, uno dei tanti scrittori che in duemila anni ha letto la storia di Filemone e Bauci e l’ha riscritta con parole sue. Guido non vuole in nessun modo vedere morire la moglie Marta, ed egoisticamente le propone di suicidarsi insieme: la donna, scioccata, rifiuta. Allora Guido va a Lourdes a pregare la Madonna di beccarsi un male inguaribile. Non sa che in quel preciso momento la Madonna lo toglie a Marta, il cancro; e i due ritroveranno il proprio equilibrio (banchettando, neanche a farlo apposta, a pollo e champagne: giusto per rimanere in tema gemelle Kessler).
Santucci, come tanti cristiani italiani, qui è un po’ paraculo, perché infila una nota in cui si scusa per aver concluso il racconto con un miracolo. Ma proprio qui sta il punto.
Un miracolo ci vuole come il pane. Lo aveva capito Ovidio, uno che andava a caccia di meraviglia dalla mattina alla sera. E lo ha capito anche Santucci, forse. Un miracolo ci vuole, poiché la vita non basta: forse non si può accettare di morire, ma sicuramente non si può accettare di vedere morire chi amiamo. Ci vuole che l’amore continui, e che tutto sia salvato, santo come un albero che si erge nel silenzio antico della campagna.

Ma il mito, nel dirci la verità sui nostri desideri, è bugiardo: noi non diventiamo alberi. Però esistono “dèi†a cui aprire la nostra porta: sono coloro che ci amano. Il suicidio, infatti, la domanda dell’uomo moderno (chiedere ad Amleto) che esige una risposta (anche pubblica), essenzialmente è un problema di amore.
«L’animo mio, per disdegnoso gusto, | credendo col morir fuggir disdegno, | ingiusto fece me contra me giusto», è la tremenda confessione del Pier delle Vigne di Dante. Magari le gemelle Kessler erano ammirate da milioni di persone: ma chi era rimasto ad amarle? E loro, se ne accorgevano? O erano rimaste così sole da amarsi da sole, come accecate in uno specchio? Sempre che si possa chiamare amore, accettare che chi tu ami si tolga la vita. Chi amava il “disdegno†delle loro rughe e dei malanni? Dei rimpianti e dei badanti? Dei ricordi e dell’oblio? Chi le aiutava ad amarlo? Il “disdegnoâ€, infatti, non si ammazza: si può solo amare. Ogni altro tentativo, si chiama Inferno.
Il miracolo allora, se c’è, è un Altro che bussi alla porta. Apriremo?
«Quantitativamente Portofranco è una goccia nell’oceano, ma qualitativamente è un oceano in una goccia». Con questo suggestivo chiasmo Marcello Tempesta, docente dell’Università del Salento e co-autore dello studio Efficacia ed elementi di valore dell’attività del centro di aiuto allo studio dell’Associazione Portofranco Italia a cura della Fondazione per la Sussidiarietà , ha voluto sintetizzare le risultanze della sua ricerca sulla realtà di aiuto allo studio creata un quarto di secolo fa dal sacerdote ambrosiano e ciellino don Giorgio Pontiggia.
Interventi e relazioni che si sono succedute nel corso dell’evento “Dall’esperienza al metodo: il percorso educativo di Portofrancoâ€, organizzata da Portofranco Milano presso la sala Biagi di Regione Lombardia, hanno avvalorato il sintetico giudizio del Presidente del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università del Salento. Perché è vero che le 60 sedi di realtà collegate a Portofranco attive in tutta Italia erogano 98 mila ore di studio gratuite all’anno grazie a 2 mila volontari che offrono senza compensi finanziari il proprio tempo e la propria competenza, è vero che la sola sede di Milano serve 1.400 studenti che si interfacciano con 300 volontari di ogni età (docenti in attività e in pensione, professionisti, studenti universitari) e consente alle famiglie di risparmiare qualcosa come 2 milioni di euro che andrebbero spesi per lezioni private nello stesso numero di ore. Ma la ragion d’essere che è il vero contributo che Portofranco offre alla società italiana e porta in questo mondo sta tutta in un motto che campeggiava in un pannello all’ingresso e in un frame del filmato introduttivo: «Condividere lo studio per condividere il senso della vita».
Il versante qualitativo dell’azione di Portofranco lo hanno riconosciuto anzitutto le autorità intervenute all’evento.
«Portofranco è la conferma che il principio di sussidiarietà funziona, e che Regione Lombardia fa bene a sostenere queste realtà », ha detto il sottosegretario alla presidenza della Regione Raffaele Cattaneo. «Portofranco ha ricevuto l’Ambrogino d’oro con la motivazione che integra il welfare cittadino, ma più che un sistema di welfare incarna un sistema di comunità », ha commentato la vice sindaco di Milano Anna Scavuzzo. «Attraverso Portofranco i ragazzi si innamorano non solo della scuola, ma della società . Grazie all’autenticità e gratuità dei rapporti, nei quali sperimentano che “tu sei prezioso per meâ€Â», ha spiegato il sottosegretario con delega ai Giovani e allo Sport di Regione Lombardia Federica Picchi, per evidenziare il superamento del malessere giovanile che produce teppismo fra i giovani che hanno fatto l’esperienza del centro di aiuto allo studio.
«I due segreti di Portofranco sono una gratuità che non avviene come una cosa calata dall’alto, ma in un rapporto in cui ci si ritrova allo stesso livello, e il suo metodo, perché senza metodo non c’è esperienza», ha detto mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità , la Missione e l’Azione sociale dell’arcidiocesi di Milano. «Sussidiarietà e centralità della persona sono princìpi di azione che ci accomunano, a motivo dei quali raccomando la collaborazione fra le scuole e le realtà del territorio come Portofranco», ha commentato in conclusione e in collegamento Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito.
In mezzo, le relazioni di Tempesta e di Fulvia Pennoni, Ordinaria di Statistica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, co-autrice dello studio che si è occupata soprattutto di analizzare statisticamente un fatto che tutti apprezzano nei fatti: chi frequenta assiduamente Portofranco vede migliorare la sua performance scolastica.
Pennoni ha verificato per esempio che dedicare ore allo studio della matematica e della fisica presso il centro per l’aiuto allo studio permette di aumentare rispettivamente dal 29 al 41 per cento e dal 34 al 57 per cento la percentuale di voti sopra la sufficienza. Un altro calcolo permette di dire che la probabilità di promozione a giugno aumenta del 10 per cento per ogni ora aggiuntiva di studio della matematica.
Tempesta si è concentrato di più sugli aspetti qualitativi, che ha sintetizzato in una serie di definizioni del lavoro di Portofranco. Il quale costituisce un “aiuto di tipo personale in un contesto comunitarioâ€, perché le lezioni a tu per tu, caratteristiche della struttura, avvengono in un “ambiente di relazionalità estesaâ€, cioè dove c’è il tempo e la possibilità di intrattenersi con gli altri studenti, coi volontari e con gli animatori, cucinare insieme e fare altre cose, e dove volontari e animatori si confrontano formalmente e informalmente sul modo migliore di procedere (“condivisione educativa fra gli adultiâ€).
Da cui la frase che talvolta si sente pronunciare da alcuni studenti: «Portofranco è diventato la mia casa, la mia famiglia». I momenti di studio sono “appuntamenti, non lezioniâ€. Spiega Tempesta: «Al centro c’è la richiesta dello studente, il contrario di quello che avviene a scuola, dove interrogazioni e verifiche sono iniziativa dell’istituzione. Lo studente richiede gli appuntamenti perché fa una constatazione che genera in lui stupore, rispetto e attenzione: “C’è qualcuno che è lì per me, e lo fa gratuitamenteâ€Â».
La percentuale di studenti stranieri iscritti in forte crescita suggerisce un’altra notazione: il fenomeno è dovuto al fatto che non vengono avvicinati come esponenti di minoranze etniche, ma come persone a pieno e uguale titolo degli gli italiani; questo rende più stimolante la convivenza fra gli studenti autoctoni e quelli con background migratorio.
I criteri pedagogico-didattici che vengono in luce sono il “realismo educativo†e l’â€attenzione integrale alla persona†che si esprime come “centralità della personaâ€. Non c’è nessun progetto moralistico o ideologico calato sulla persona per darle una certa forma: si parte dal bisogno concreto riguardante una materia scolastica che lei manifesta; al centro del rapporto non c’è un progetto, ma il soggetto dello studente, il cui bisogno specifico esprime un più vasto bisogno di pienezza e di realizzazione personale. Gli esiti socio-educativi di questo metodo sono la crescita dei tassi di successo formativo, la diminuzione della dispersione scolastica e una tangibile inclusione sociale e relazionale.
Nel corso di una tavola rotonda nella seconda parte dell’evento Alberto Bonfanti, co-fondatore di Portofranco e suo attuale direttore, interrogato dal giornalista Enrico Castelli sull’attualità dell’insegnamento di don Giorgio Pontiggia ha spiegato: «È attuale l’idea iniziale: i ragazzi devono essere aiutati ad affrontare la fatica dello studiare, perché lo studio è la strada maestra per la costruzione del futuro. Il fallimento scolastico è un fallimento che condiziona tutta la vita, accompagna fallimenti affettivi familiari e induce alla ricerca di altre strade (sottinteso: cattive – ndr). Il metodo per contrastare questo esito è imperniato sulla gratuità : si studia perché ci si sente oggetto della preferenza di qualcuno. Ci vogliono insegnanti che guardano lo studente con commozione per il suo destino. Vedere un insegnante appassionato alla materia che insegna e che ha uno sguardo commosso sulla persona dello studente fa accendere il fuoco che è in lui». Uno dei motti di Portofranco è infatti una variazione di una frase attribuita a Plutarco, che affermava che «la mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere». Nella versione modificata da don Pontiggia il motto diventa «I ragazzi non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere».
L’evento del 19 novembre ha visto anche l’annuncio della creazione della Fondazione Portofranco Ets da parte del suo presidente Emmanuele Forlani. Ne sono soci fondatori la Cdo Opere sociali, la Cdo Opere educative e la Fondazione Sacro Cuore, che esprimono il consiglio di amministrazione e interagiscono con un’assemblea di partecipanti che conta già l’adesione di 51 realtà di centri di studio in tutta Italia ispirati alla metodologia di Portofranco e con un comitato di sostenitori. La Fondazione è la garante dei princìpi che sono all’origine di Portofranco ed è interlocutore delle istituzioni. «Dare spazio alla libertà presuppone che ci sia una proposta educativa», ha puntualizzato Forlani. «Essa è il frutto di una presenza e di una posizione culturale specifica».
Venerdì 21 novembre alle ore 11 a Milano, a Palazzo Lombardia, si terrà un incontro pubblico organizzato da Aiuto alla Chiesa che soffre sui cristiani perseguitati in Siria e Burkina Faso dal titolo: La fede calpestata. Cristiani in Siria e Burkina Faso.
Interverranno: Matteo Forte – Presidente II Commissione permanente – Affari istituzionali ed Enti locali di Regione Lombardia
S.E. Mons. Théophile Naré – Vescovo di Kaya e Amministratore Apostolico della diocesi di Dori (Burkina Faso)
Mons. Ihab Alrachid – Archimandrita della Chiesa greco-melchita cattolica e Professore di Diritto Canonico presso la Facoltà Teologica di Damasco
Sandra Sarti – Presidente di Aiuto alla Chiesa che Soffre
Massimiliano Tubani – Direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre
Modera: Leone Grotti – Giornalista di Tempi

Rony Tabash sta lavorando nel grande negozio di articoli religiosi vicino alla Basilica della Natività a Betlemme, la città dove è nato Gesù, all’angolo tra la via del Latte e la piazza della Mangiatoia. Venticinque anni fa, nell’anno della Giubileo, Rony cantò per papa Wojtyla. Anche allora si era in tempo di guerra, di lì a poco sarebbe scoppiata la seconda Intifada, e, come ricorderete, la Basilica era stata presa d’assedio dai guerriglieri palestinesi che li si erano asserragliati, accerchiati dall’esercito israeliano. Anche allora, i Tabash non chiusero la loro attività . Sono sempre rimasti e incoraggiano i cristiani a non andarsene dalla terra Santa. Da cento anni, la famiglia di Rony possiede il negozio che dà da vivere a centinaia di famiglie di artigiani. Lui si prepara al Natale, anche se sa che pochi saranno i pellegrini che riusciranno ad arrivare qui. La guerra di Gaza ha ripercussioni ovunque.
«Ogni giorno si presentano nuove sfide – dice a Tempi -. Non ho mai vissuto niente di simile prima, mai! Non sono in ansia solo per i soldi, anche se non so come arriverò alla fine del mese, ma sono preoccupato soprattutto per il futuro dei luoghi e delle famiglie cristiane, i bambini hanno paura, i miei figli non vogliono essere separati da noi».
Tabash racconta le difficoltà causate dalla pandemia di Covid e dell’assenza di pellegrini in Cisgiordania: «In molti hanno cercato lavoro a Gerusalemme. Ora, però, i posti di blocco sono chiusi e i permessi d’ingresso per i palestinesi sono stati bloccati». Le poche persone che hanno la doppia nazionalità emigrano all’estero perché hanno perso la speranza. Alcuni, come Rony, hanno deciso di rimanere, anche se potrebbero andarsene.
«Continuo ad aprire il mio negozio ogni giorno – dice ancora Rony a Tempi -, vado in piazza, davanti alla Basilica della Natività , e la gente mi chiede perché non me ne vado. L’unica cosa che mi sostiene è la fede; senza fede, non potrei andare avanti, nemmeno per un minuto. La speranza è debole e tutto ciò che mi rimane è la fede. Non posso lasciare mio padre, che è malato, lui mi dice: “Abbi fede, Betlemme è un luogo sacro, non verrà toccato”. Sì, resterò perché è un luogo sacro; viviamo nel luogo in cui è nato Gesù, non possiamo andarcene. Come cristiano palestinese la mia missione è stare qui, anche se ogni giorno si presentano nuove sfide. La guerra deve finire. Siamo stanchi, vogliamo la pace, solo la pace per i nostri figli e le nostre famiglie».
Rony lancia un grido al mondo: «Questo luogo è sacro solo per me, per la mia famiglia, per noi palestinesi in Cisgiordania? Non è un luogo sacro per tutti i cristiani del mondo?». «Molte persone desiderano venire in Terra Santa, ed è tempo di aiutarci, di essere presenti in questi luoghi. Venite, sostenete le famiglie cristiane in Terra Santa».

Sobhy Makhoul è il diacono del Patriarcato maronita di Gerusalemme. Docente di Teologia, da quarant’anni organizza i viaggi religiosi dei fedeli che arrivano da tutto il mondo: «La situazione è terribile ovunque – dice a Tempi -. La guerra a Gaza potrebbe riprendere o la Striscia essere divisa tra israeliani e Hamas, pronti a tornare alle armi. Noi maroniti siamo legati al Libano, dove la tregua è sempre più fragile. Non si sa cosa accadrà in Iran, in Iraq, in Siria. Tutta la regione medio orientale è in pericolo. In Cisgiordania gli israeliani, oltre ai muri, hanno costruito più di duecento cancellate, rosse, gialle e nere. Le aprono e le chiudono senza preavviso. Quelle nere, praticamente, sono sempre bloccate. Le altre sono aperte o chiuse a seconda dello stato di allarme».
Spostarsi è una impresa, spiega Makhoul. «Si rimane per ore in coda per scoprire, magari, che il passaggio è stato improvvisamente chiuso. Gli unici che si spostano sono i coloni, sempre più aggressivi. Vogliono la terra. Noi del Patriarcato maronita cerchiamo di aiutare le famiglie degli artigiani e vendiamo a distanza i presepi. È una delle poche attività possibili per i cristiani che vivono, o meglio vivevano, di commercio e turismo».
Il custode di Terra Santa, fra Francesco Ielpo, e il patriarca latino, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, attendono con ansia la presenza dei cristiani di tutto il mondo alle sorgenti della fede. Hanno diffuso un video. Fra Ielpo ricorda quanti sono venuti e vengono nonostante le difficoltà : «Un grande grazie, una grande riconoscenza, una grande gratitudine per tutti coloro che in questi due anni hanno continuato a venire: delegazioni vescovili, conferenze episcopali, amici, volontari. Davvero in questi momenti difficili hanno testimoniato un amore a noi e alla gente che vive in questa terra: è la terra di tutti. Questi santuari sono i santuari di tutta la cristianità . E qui, noi frati della Custodia di Terra Santa, ma oserei dire tutta la Chiesa locale, tutta la Chiesa di questa terra, vi attende, vi aspetta. Siamo davvero ansiosi di potervi accogliere con le braccia aperte, perché il pellegrinaggio, è davvero un’esperienza che segna la vita. È l’esperienza dell’incontro autentico».
Il cardinale Pizzaballa ha fatto suo l’appello e ricordato il valore del cammino verso la Terra Santa: «È il pellegrinaggio per eccellenza perché è l’incontro con Gesù, con la sua umanità , con la sua storia, che qui diventa un incontro con la realtà concreta innanzitutto dei luoghi santi, dove Gesù ha vissuto, ma anche con la piccola comunità cristiana che in questi anni ha veramente molto sofferto».
Il Patriarca non ignora problemi e paure: «Sì, lo so qual è la prima obiezione: “È pericoloso, c’è la guerra”. Ecco, la guerra è finita. Non siamo ancora nella pace, ma il pellegrinaggio è sicuro. Quindi è tempo di venire in Terra Santa per esprimere questa vicinanza con questa Chiesa».
Le violente proteste esplose a Città del Messico – 100 poliziotti feriti e 20 giovani fermati – non sono un semplice episodio di ordine pubblico né, tantomeno, una «marcia di pochi ragazzi e tanti adulti», come ha provato a minimizzare la presidente messicana Claudia Sheinbaum. Questa “mobilitazione della Generación Zâ€, convocata online senza leader e senza partiti, ha invaso le strade della capitale con migliaia di giovanissimi, un black bloc che ha sfondato le barriere verso il Zócalo, la piazza principale della città , e la polizia costretta a usare estintori per disperdere gruppi sempre più aggressivi.
Le immagini rimbalzate su TikTok mostrano un Paese spaccato: da una parte, un governo che difende la continuità della 4T (la cosiddetta Quarta Trasformazione, quarta perché arriva dopo l’indipendenza del paese dalla Spagna del 1821, le riforme per separare Chiesa e Stato del 1860 e la rivoluzione messicana del 1910-17), dall’altra, una generazione che non si riconosce più in un potere percepito come complice di fronte alla violenza dei cartelli.
La narrativa ufficiale della presidente è chiara: qualunque richiesta di rispondere alla criminalità organizzata con maggiore fermezza sarebbe «un ritorno al fascismo». Sheinbaum lo ha ripetuto nella conferenza del 3 novembre, accusando la destra di invocare una «guerra fuori dalla legge», un «permesso di uccidere» e presentando la sua amministrazione come l’unica che difende «il popolo, i diritti e il benessere».
È una strategia retorica ormai collaudata: delegittimare ogni critica associandola automaticamente al vecchio ordine corrotto, all’estrema destra e all’autoritarismo militare. Peccato che nelle strade la narrativa non convinca più nessuno. L’impressione diffusa – e non solo tra i giovani – è che la 4T lanciata da Andrés Manuel López Obrador, AMLO come lo conoscono tutti, il predecessore ed ispiratore di Sheinbaum, abbia fallito dove più prometteva: contenere il potere territoriale dei narcos.
Il paradosso è che proprio la generazione cresciuta nell’era dei governi progressisti si ritrova ora a scendere in piazza contro una sinistra incapace di garantire sicurezza. In questo senso le proteste messicane non sono isolate: in tutto il continente – dal Perù al Paraguay – emergono mobilitazioni spontanee, senza strutture politiche, dove frustrazione, rabbia e consumo ricreativo (cannabis, psichedelici, Mdma) alimentano dinamiche imprevedibili. La polizia, formata per contenere i cortei tradizionali, non sa come gestire gruppi fluidi che si organizzano su Telegram e TikTok, si muovono in tempo reale e rifiutano ogni interlocuzione con i partiti. È un nuovo ecosistema sociale, dove la politica istituzionale non detta più l’agenda ma la subisce.
Il governo messicano prova a rispondere sbandierando i successi economico-sociali della 4T. Sheinbaum ricorda i «13,5 milioni di messicani usciti dalla povertà », difende un bilancio ingigantitosi pericolosamente per l’equilibrio fiscale orientato a istruzione, sanità , infrastrutture e programmi di welfare, e non perde occasione per esaltare l’affermazione internazionale di figure affini alla sinistra radicale, come il neosindaco di New York, Zohran Mamdani. Ma è una comunicazione che scivola addosso a una generazione che vive quotidianamente tutt’altra realtà : quartieri sotto controllo dei cartelli, estorsioni normalizzate, desaparecidos, e un Paese dove il confine tra stato, politica locale e criminalità è spesso inesistente.
Il nodo centrale è proprio questo: i giovani non scendono in piazza per nostalgia della “guerra al narcotraffico†degli anni di Felipe Calderón, ma perché vedono il presente come un non-luogo dove lo Stato rinuncia a difenderli. E sentono come un insulto essere etichettati come “fascisti†solo per chiedere più sicurezza. Il rischio per Sheinbaum è enorme e se la frattura generazionale si salda con la percezione che la sinistra al governo protegga più i narcos che le vittime, il Messico potrebbe entrare in una nuova fase politica. Una fase dove la domanda di ordine – inevitabile in un Paese con oltre 30 mila omicidi l’anno – potrebbe essere intercettata da attori populisti, autoritari o, peggio, illiberali.

Il Messico, oggi, è un laboratorio di ciò che potrebbe accadere in tutta l’America Latina: governi progressisti seduti su vasti programmi sociali, ma sempre più distanti dalle esigenze di sicurezza delle nuove generazioni; un capitale urbano giovane che non riconosce più l’autorità politica; e una violenza criminale che continua a erodere la legittimità dello Stato. Le proteste della Generación Z sono il segno che, mentre Sheinbaum invoca il “popolo†e denuncia fantasmi fascisti, una parte crescente del Paese ha smesso di crederle e la battaglia, ora, non è più soltanto contro i cartelli. È per la credibilità dello Stato e la presidente, al momento, sembra aver perso l’orecchio di quella generazione che dovrebbe rappresentare il futuro del Messico.
Il tutto si inserisce in un contesto di crescente caos geopolitico che indebolisce ulteriormente l’immagine internazionale del governo. Negli ultimi mesi il Messico ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Ecuador, dopo l’assalto armato alla propria ambasciata a Quito per prelevare l’ex vicepresidente Jorge Glas, condannato per corruzione, e ha congelato di fatto i rapporti con il Perù, dove Lima accusa da tempo la 4T di interferenze politiche nel caso Pedro Castillo, l’ex presidente condannato per golpe. Due crisi simultanee che hanno isolato diplomaticamente Città del Messico proprio mentre Sheinbaum prova a presentarsi come garante di stabilità e continuità istituzionale.
Per i giovani che protestano, queste rotture non sono schermaglie da politica estera ma la prova che lo Stato non riesce a controllare né il fronte interno né quello internazionale, e che il Paese scivola in una spirale dove l’insicurezza domestica si somma all’irrilevanza estera. Un cocktail che alimenta ancora di più la sfiducia nella leadership della 4T oggi incarnata da Sheinbaum.