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Pubblichiamo di seguito la seconda e ultima parte della storia degli inizi del Movimento Popolare scritta per questa rubrica da uno dei protagonisti di quella stagione, Peppino Zola. La prima parte è disponibile qui.
* * *
Il 21 dicembre 1975 a Milano, in uno strapieno Teatro Nuovo in piazza San Babila, venne annunciata pubblicamente la nascita del Movimento Popolare. Alcuni, tra cui il sottoscritto, avrebbero preferito chiamarlo “Movimento Cattolico Popolareâ€, ma seguendo i consigli di alcuni amici gesuiti alla fine si scelse il nome con cui è conosciuto.
Ricordo ancora perfettamente la telefonata fattami la sera prima dell’appuntamento da Roberto Formigoni, che mi chiedeva di essere io a condurre la manifestazione. Accettai l’incarico per amicizia, con non poche perplessità , perché non mi sentivo molto pronto a gestire una assemblea così importante in un momento assai delicato per Milano, per l’intero paese e per il complesso mondo cattolico. Comunque l’assemblea andò molto bene, fece molto scalpore, suscitò grande interesse, e fece emergere anche qualche piccineria soprattutto tra le file della Democrazia cristiana.
Ricordo ad esempio che ad un certo punto dell’assemblea apparve Massimo De Carolis, non ancora deputato ma capogruppo della Dc in Comune che era anche leader della cosiddetta “maggioranza silenziosaâ€, il movimento di opinione nato in contrapposizione al Sessantotto. La Brigate rosse lo avevano ferito alle gambe qualche mese prima. Si aggirò in lungo e in largo per tutto il teatro, in modo da essere sicuro che tutti l’avessero notato. Fui costretto a precisare che il Movimento Popolare era cosa molto diversa dalla “maggioranza silenziosaâ€, che era sostenuta da Indro Montanelli, il quale invitava a “turarsi il naso e votare Dcâ€, mentre l’Mp aveva a cuore la ripresa in termini attuali degli ideali che venivano espressi nella dottrina sociale della Chiesa. Massimo non la prese bene…
Al 1975 seguirono anni di grandi e instancabili impegni su molti fronti. Partecipavamo con passione alle varie campagne elettorali; difendevamo, spesso anche a rischio della nostra incolumità , la libertà di espressione nelle scuole e nelle università e il diritto di voto degli studenti nelle elezioni degli organi collegiali, boicottati dagli extraparlamentari di sinistra che praticavano la tattica dell’intimidazione. Il mio impegno personale nell’ambito dell’Mp andò accentuandosi, soprattutto sul versante della scuola e della famiglia. Con tantissimi animai la campagna referendaria del maggio 1981 per l’abrogazione della legge che aveva istituito l’aborto legale, e sull’onda del grande documento di san Giovanni Paolo II intitolato Familiaris consortio (novembre 1981) partecipai alla costituzione del Sindacato delle famiglie (Sidef) nel 1982.
Dal 1980 ero impegnato in politica a livello locale. Mi ero candidato per il Consiglio comunale di Milano ed ero stato eletto con 12 mila voti di preferenza, secondo degli eletti dopo il famoso prefetto (ex) Libero Mazza, autore di un famoso rapporto sulla violenza politica a Milano, che la Dc aveva voluto come capolista: fu evidente a tutti la forza anche elettorale di chi faceva riferimento al Mp. L’anno precedente avevo ipotizzato astrattamente l’idea di candidarmi per il Parlamento nazionale. Nessuno mi disse di no, ma mi bastò cogliere un’ombra in una espressione di don Luigi Giussani per farmi abbandonare, autonomamente, l’idea.
Nel 1985, dopo 5 anni trascorsi all’opposizione (Milano era amministrata da una giunta di sinistra) ottenni 15 mila voti, arrivando primo davanti al capolista e vicesegretario nazionale della Dc Roberto Mazzotta. Malgrado questi risultati, la Dc milanese non volle mai mettere a capolista per Milano qualcuno proveniente dall’Mp, anche se nel 1990, dopo essere stato assessore ai Servizi sociali per due anni (1985-1987), ottenni 27 mila voti, a pari merito con l’onorevole Virginio Rognoni, che era stato ministro dell’Interno. Cito questi risultati per sottolineare come la presenza dell’Mp nella città di Milano (e anche altrove) riusciva a convogliare sulla Dc voti che altrimenti sarebbero andati dispersi un po’ dappertutto.
Ricordo con soddisfazione e piacere la mia esperienza come assessore ai servizi sociali, compito che svolsi per due volte fra il 1985 e il 1987 e poi fra il 1992 e il 1993, anno in cui il Consiglio comunale venne sciolto perché più della metà dei consiglieri-cuor di leone si dimisero a causa dell’inchiesta Mani pulite. Nella conduzione dell’assessorato cercammo di mettere in pratica i princìpi del pluralismo, della sussidiarietà e dell’attenzione ai bisogni reali della popolazione più in difficoltà . Tutti vennero chiamati a collaborare nelle risposte ai bisogni, al di là delle appartenenze politiche, e particolare attenzione venne dedicata al sostegno agli anziani ed alle famiglie.
Di particolare rilievo fu l’iniziativa denominata “Anziano in famigliaâ€, con la quale le famiglie venivano aiutate economicamente a tenere in casa gli anziani che altrimenti avrebbero dovuto essere ricoverati in una struttura. In tal modo si aiutava sussidiariamente la famiglia e si permetteva agli anziani di non essere ricoverati, con un risparmio netto per i costi che il Comune avrebbe dovuto sostenere. Fu il primo esperimento di quel tipo in Italia. Le giunte di sinistra che si sono poi succedute hanno azzerato il progetto.
Il richiamo più potente ad una visione cristiana ed umana della presenza nella società e, quindi, nella politica venne a tutti noi dallo storico discorso che don Giussani tenne ad Assago il 6 febbraio 1987, invitato a parlare durante un’assemblea della Dc lombarda. Vennero pronunciate parole molto pungenti, che l’uditorio ascoltò in silenzio ma fece molta fatica a comprendere, essendo oramai, allora, la Dc in tutt’altre faccende affaccendata.
Don Giussani mise tutti in guardia dal pericolo che il potere potesse «ridurre la realtà umana al proprio scopo», citando, tra l’altro, l’enciclica Dives in misericordia di san Giovanni Paolo II:
«Questa è la tragedia del nostro tempo: la perdita della libertà di coscienza da parte di interi popoli ottenuta con l’uso cinico dei mezzi di comunicazione sociale da parte di chi detiene il potere».
Don Giussani individuava nella permanenza del “senso religioso†la possibilità di assicurare la libertà per tutti e quella di dare vita creativamente ad opere utili per il bene comune, con un’annotazione:
«Un partito che soffocasse, che non favorisse o non difendesse questa ricca creatività sociale contribuirebbe a creare o a mantenere uno Stato prepotente sulla società ».
La Dc di allora non capì e, infatti, la reazione del segretario nazionale, Ciriaco De Mita, che era presente, fu molto critica, anche se non osò riferirsi direttamente a don Giussani: se la prese, come al solito, con Formigoni. Noi prendemmo molto sul serio quel discorso e ci impegnammo assai a diffonderlo e commentarlo. Personalmente tenni incontri con molti gruppi per approfondire il significato di quell’intervento, che non è esagerato definire storico e che, guardando alla presente situazione mondiale, appare ancora più attuale ora di allora.
A proposito del rapporto tra Comunione e Liberazione e coloro che erano impegnati in Mp e nella Dc, sarebbe bene rileggere il libro di Robi Ronza Il movimento di Comunione e Liberazione 1954-1986. Di solito a proposito del rapporto con Mp e Dc si sottolinea solo questa frase di don Giussani: «C’è fra noi tutti in quanto Cl, ed i nostri amici impegnati nel Movimento Popolare e nella Dc, un’irrevocabile distanza critica». Frase sacrosanta. Ma sempre si dimentica l’altra risposta data nella stessa intervista a Ronza: «Qual è tuttavia il criterio con cui la base di Cl guarderà alle loro iniziative [di quelli impegnati in Mp e Dc, ndr]? Certamente con la simpatia caratteristica di chi non può che condividerne l’ispirazione». Don Giussani deve sempre essere commentato tenendo presente la totalità della sua posizione: chi lo cita parzialmente finisce sempre con lo sbagliare. In sintesi: distanza critica, ma vissuta con grande simpatia. Ogni posizione diversa sarebbe ispirata da puro moralismo.
Leggendo il libro Movimento Popolare. Materiali per una storia sono rimasto colpito dalla originalità e dalla attualità delle ragioni che fecero nascere Mp. Alcuni giudizi dati allora dai fondatori ed alcune citazioni di Augusto Del Noce e di san Henry Newman valgono assolutamente, e forse ancora di più, per l’oggi. Ciò non vuol dire che dobbiamo “rifare†Mp, anche perché di solito la storia non si ripete per acritica imitazione del passato. Ma l’idea centrale che aveva dato vita a quel movimento è ancora valida oggi, anche se non c’è più la Dc, tolta di mezzo dall’insipienza di molta sua classe dirigente, da interventi unilaterali della magistratura e dall’inesorabile scorrere del tempo.
Malgrado tutto, ci sono ancora cattolici (non sto a sindacare se sedicenti o autentici) impegnati nella politica attiva, presenti nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, in Parlamento ed in molte altre realtà pubbliche. Il problema è che essi, avendo privilegiato un percorso personale rispetto alla posizione ideale dell’unità politica dei cattolici, stanno militando, legittimamente, in partiti diversi e spesso contrapposti. Ogni cattolico, però, dovrebbe avere un criterio che quanto meno faccia riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, che delinea tutti i fattori di ciò che definiamo, spesso astrattamente, “bene comuneâ€. Ci sono tematiche che dovrebbero essere affrontate secondo un criterio unitario, cioè un criterio cristiano.
Per quel che riguarda la vita, la famiglia, l’accoglienza, la persona, il lavoro, la libertà ed altro il giudizio cristiano e cattolico è molto chiaro. Ma allora perché i politici cattolici non creano un “luogo†prepartitico nel quale confrontarsi serenamente intorno a queste tematiche fondamentali per una società più umana? Perché in quel luogo non si possono individuare delle linee comuni che poi ciascun politico porterà avanti all’interno del proprio partito, a volte con facilità e a volte con un certo coraggio? Formigoni, a suo tempo, ebbe il coraggio di alzarsi in Parlamento per dire cose diverse dal governo in tema di guerra (era l’epoca dell’intervento militare in Iraq, 1991), tenendo in considerazione le preoccupazioni di san Giovanni Paolo II. Non potrebbe avvenire la stessa cosa anche per altre materie care ai cattolici?
L’alternativa a questa strada è che i cattolici in politica diventino i rassegnati servitori di idee altrui. A mio parere occorre un “luogo†nel quale il criterio cattolico, anche in politica, possa manifestarsi chiaramente, con assoluta trasparenza. Oggi il pensiero cattolico viaggia per sussurri, non per affermazioni chiare. Cosa significa ciò? Che i politici cattolici hanno vergogna di sostenere una posizione “cattolica� Spero proprio di no. Sarebbe un grave danno per tutta la democrazia. Un “luogo†come quello qui auspicato darebbe nuova linfa alla vita democratica dell’intero paese, esattamente come capitò di fare al Movimento Popolare. Strumenti diversi per tempi diversi, ma stessa direzione.
(2. fine)
Una laurea non vale l’altra. Ogni titolo di studio ha una sua storia, figlia di un percorso personale e di un contesto educativo e sociale in cui essa viene conseguita. Lo sanno bene gli studenti internazionali, specie quando hanno la necessità di vedere quella laurea riconosciuta all’estero. Chi si occupa di fare da sherpa per scortare quegli attestati in cima alla montagna che è la burocrazia italiana è Cimea, il Centro di informazione sulla mobilità e le equivalenze accademiche che, da più di quarant’anni, svolge attività informativa e di consulenza sulle procedure di riconoscimento dei titoli di studio nonché su temi legati all’istruzione e formazione superiore italiana e internazionale.
«Il nostro lavoro è un’arte», spiega a Tempi il direttore generale di Cimea Luca Lantero, che guida un team di più di sessanta persone, con età media inferiore ai trent’anni, in prevalenza donne e che insieme parlano quasi quaranta lingue diverse. «Dico che è un’arte perché per ottenere il riconoscimento di un titolo di studio non esiste alcuna formula matematica né un’infallibile tecnica comparativa, ogni caso va studiato a sé». E come si fa? «Ci sono molteplici fattori che vanno presi in considerazione, ma bisogna saperli riconoscere, così da capire su quali concentrarsi e come valorizzarli».
Una profonda conoscenza dei sistemi di istruzione e i loro aspetti legislativi e normativi nei vari paesi non basta. Non ha dubbi al riguardo il direttore generale di Cimea: «Non è sufficiente conoscere il numero di anni che sono occorsi per conseguire quel determinato titolo né quante materie hanno composto il piano studi; c’è molto di più». Che cosa? «Per esempio, il contesto culturale è molto rilevante: un tempo, in più di un paese africano non era scontato che l’età anagrafica corrispondesse alla data di nascita reale e saper comprendere un’informazione di questo tipo era dirimente per sapere dopo quanti anni di formazione quel titolo fosse stato effettivamente conseguito».
Cimea, che ha sede a Roma fin dalla sua nascita, nel 1984, tre anni prima che il progetto Erasmus vedesse la luce, dispone di un centro di documentazione internazionale e di banche dati specializzate sui sistemi esteri di istruzione superiore, sulle tipologie di titoli di studio di ogni paese e sulla legislazione nazionale in tema di istruzione superiore. Per provare a quantificare l’ordine di grandezza delle attività svolte, il Centro fornisce mediamente ogni anno, tramite email e in forma gratuita, risposte a più di 20 mila quesiti in tema di riconoscimento e valutazione di qualifiche a università italiane e straniere, singoli studenti, docenti e ricercatori, ma anche organizzazioni internazionali, ministeri, enti di ricerca e organismi pubblici, italiani e stranieri, imprese e associazioni, cittadini italiani, dell’Unione Europea nonché di tutti i continenti, rifugiati compresi, per i quali non è certo facile recuperare tutta la documentazione, e persino detenuti.
Una mole di conoscenze che, sottolinea Lantero, consente a Cimea di fare da «interlocutore presso la rete internazionale di centri di riconoscimento che, viceversa, hanno bisogno a loro volta di conoscere il sistema italiano». Grazie a un incarico ricevuto direttamente dal ministero della Pubblica istruzione nel 1986, Cimea è il centro italiano di riferimento per le reti Naric ed Enic, rispettivamente acronimo di National academic recognition information centres ed European national information centres. Detto più semplicemente: un’autorità indiscussa per tutti gli Stati facenti parte dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, oltre che per l’Unesco.
Tra i riconoscimenti istituzionali più importanti nella vita di Cimea c’è senza dubbio quello del ministero dell’Università e della ricerca che, in applicazione di quanto previsto dalla Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea (la cosiddetta Convenzione di Lisbona del 1997), gli ha affidato il compito di svolgere le attività di Centro nazionale di informazione sulle procedure di riconoscimento dei titoli vigenti in Italia, sul sistema italiano d’istruzione superiore e sui titoli presenti a livello nazionale.
«Sostanzialmente, noi abbiamo una grande conoscenza dei titoli di studio», taglia corto Lantero, che osserva: «Il titolo di studio, però, non è che l’elemento finale di un percorso più ampio. Ciò che noi conosciamo spazia dal programma di studio alla cultura accademica del luogo nonché dell’istituzione che l’ha rilasciato, da come vengono assegnati i voti a come sono organizzate le attività didattiche, con il conseguente risultato che siamo diventati esperti di internazionalizzazione di sistemi esteri a tutto tondo».
Per quanto riguarda il suo personale percorso professionale, Lantero, laureato in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, arriva in Cimea nel 2004. È per uno stage e viene assunto. Dei suoi primi giorni in via XXV Aprile ricorda: «Eravamo in quattro e io ero finito in una “cantina†piena di faldoni. Siccome, di solito, terminavo abbastanza in fretta i compiti che mi venivano affidati, avevo tempo per leggerli. Così sono incappato in un report sulle “università a rischioâ€Â». Era un’analisi sugli atenei fasulli e conoscerlo a fondo gli è certamente risultato utile, se è vero che, prosegue, «da quello studio sono nati progetti che ci hanno portato a essere il centro più performante, a livello globale, nel combattere le frodi in ambito educativo». Tanto che il Consiglio d’Europa, a giugno, ha scelto Cimea come partner per stabilire a Roma il suo di Centro per la prevenzione e contrasto alle frodi in ambito educativo.
Una curiosità ? Cimea è cresciuta grazie alle maternità . Sì, perché, ricorda Lantero, «di fronte alle prime colleghe che si sono sposate e che poi hanno chiesto la maternità , abbiamo dovuto cercare nuove persone per sostituirle durante i mesi di maternità . Soltanto che queste nuove risorse erano così brave che abbiamo voluto prolungare quei rapporti oltre il periodo di sostituzione. Questa è una cosa bella, che ci è successa e che nessuno ha mai scritto». Al direttore di Cimea piace raccontarlo perché «nel lavoro che facciamo riscontro una componente “vocazionale†per noi molto preziosa». Nel senso che, tra i riferimenti valoriali dell’attività di ogni giorno nel Centro, «la partecipazione consapevole al senso e allo scopo di ciò che costruiamo è fondamentale».
La sfida forse più ardua per Cimea oggi è «la verifica dell’autenticità di un titolo» in un contesto dove l’innovazione digitale non è sempre sinonimo né garanzia di maggiore trasparenza, anzi: «Il 12 per cento delle qualifiche che riceviamo sono dubbie e tra queste rientrano anche quelle che poi risultano contraffatte, false o rilasciate da istituzioni non ufficiali». Il faro rimane comunque «l’equo riconoscimento delle qualifiche» sancito dalla Convenzione di Lisbona, senza del quale anche il diritto allo studio resterebbe lettera morta. E, se questo è chiaro, anche il digitale può venire in soccorso. Per esempio grazie all’innovazione delle micro credenziali, un nuovo sistema di certificazione delle equivalenze, che Cimea ben conosce e che può dare un prezioso contributo alla seconda sfida che Lantero mette sul tavolo: «La delocalizzazione o transnazionalizzazione dell’educazione, perché se l’università italiana non saprà cogliere l’opportunità di portare la sua offerta formativa anche nei campus all’estero, perderà la sua capacità di attrarre studenti internazionali».
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Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di dicembre 2025 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Quando è cominciata l’epoca in cui viviamo? Direi nell’autunno del 2010, quando è uscito un film di quel genere che avrebbe poi quasi monopolizzato l’industria dello spettacolo negli anni successivi: biografie (o episodi di cronaca) rielaborate in finzioni narrative. In quel film lì, The social network, Mark Zuckerberg era un universitario stronzo che bisticciava con la fidanzata. Poi tornava in cameretta, scriveva delle cose terribili di lei su internet, e già che c’era faceva ciò che i geni, se maschi, spesso hanno fatto nella storia: conseguire un risultato professionale gigantesco solo nella speranza che quella che non li voleva li notasse. Insomma: Mark inventa Facebook. Erica, quando lo rivede, gli dice che sarà pure un genio, ma quel che ha detto di lei resta per sempre: «L’internet non è scritta a matita, Mark».
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Non c’è spazio per Gesù tra le strofe dei canti di Natale. Pochi giorni fa alcune insegnanti della scuola primaria “San Giovanni Bosco†di Reggio Emilia hanno deciso di riscrivere alcune rime della versione italiana di Jingle Bells per la recita degli alunni. «Oggi è nato il buon Gesù» è diventato «oggi è festa ancor di più» e «aspettando quei doni che regala il buon Gesù» si è trasformato in «aspettano la pace e la chiedono di più».
La preside della scuola, Francesca Spadoni, ha difeso il corpo docente a spada tratta, definendo la scelta un «esercizio della libertà di insegnamento, diritto fondamentale riconosciuto dalla normativa scolastica italiana e principio cardine della scuola democratica». Parole che non sono passate inosservate e che hanno scatenato la polemica in consiglio comunale. Il capogruppo della Lega, Alessandro Rinaldi, ha parlato di «deriva inaccettabile», definendo la scelta «ideologica e profondamente diseducativa». Immediata la risposta del consigliere del Partito democratico Federico Macchi: «Nel testo proposto ai bambini colgo un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace».
A far sentire la sua voce in questi giorni è stato anche Nadeem Chaudhry, mediatore culturale islamico di 33 anni, che in un’intervista al Resto del Carlino ha espresso tutta la sua amarezza per la scelta delle insegnanti del Don Bosco. Il giovane è nato in Pakistan, ma risiede da oltre vent’anni in Italia, ha vissuto prima in Liguria e oggi abita in in provincia di Reggio Emilia. Da qualche anno ha ottenuto anche la cittadinanza del nostro Paese. «La decisione è la prova che in Italia si sta deliberatamente tentando di eliminare i valori della nostra tradizione», ha spiegato a Tempi.

Ci spieghi meglio.
Per un straniero che arriva qui per la prima volta, conoscere il nostro patrimonio culturale è innanzitutto un’immensa opportunità . Se una certa componente politica pensa di appiattire le tradizioni del nostro Paese per non ledere la sensibilità di qualcuno, commette un grave errore. Negli ultimi anni, in nome della laicità , è in atto un vero e proprio accanimento ideologico contro la nostra cultura. Sembra che per favorire l’integrazione l’unica soluzione debba essere l’auto-eliminazione dell’Occidente.
A cosa può portare questo genere di scelte?
Negare la propria identità costituisce una sorta di “giustificazione†per gli stranieri, che così sono meno invogliati a integrarsi. L’effetto è controproducente, con il pericolo della chiusura in se stesse di intere comunità e di una “ghettizzazione†autoimposta. Si tratta di un danno non solo per i cittadini italiani, ma anche per chi viene privato della “spinta†a conoscere più a fondo la nostra società .
Lei per lavoro si trova spesso a rapportarsi con famiglie di studenti stranieri, in particolare provenienti da India e Pakistan. Quali sono le principali difficoltà che si trova ad affrontare?
L’integrazione è un processo lento e molto complesso. Di certo la priorità non sono i canti natalizi, quanto i contesti familiari profondamente diversi dai nostri, in cui spesso il ruolo dei genitori segue regole precise. Alle madri è completamente affidata l’educazione dei figli, mentre i padri sono quasi sempre assenti. Per comunicare con le famiglie la barriera linguistica costituisce un ostacolo difficilissimo da superare per gli insegnanti. Come si può spiegare la situazione scolastica di un alunno a genitori che non parlano una parola di italiano?
Cosa le ha permesso di sviluppare queste idee nel corso della sua carriera?
Gli incontri che ho fatto negli anni, in particolare il volontariato con la Comunità di Sant’Egidio, e lo studio della storia millenaria e dell’arte italiana. Poi è stato utilissimo tenere sempre gli occhi aperti nel mio lavoro, mantenendo uno spirito aperto di confronto con la storia e la tradizione della mia famiglia, che è il vero senso dell’integrazione. Pur rimanendo musulmano, ad esempio, mi rendo conto del legame profondissimo della storia della Chiesa con questo Paese, del suo impatto sul suo patrimonio culturale e sociale.
Cosa la porta a pensare che «gli istituti reggiani stiano divenendo un terreno di sperimentazione ideologica», come ha affermato al Resto del Carlino?
Poche settimane fa Marwa Mahmoud, assessore alle Politiche educative del comune di Reggio Emilia, ha sostenuto che fosse necessario «decolonizzare lo sguardo» e promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Bisogna fare attenzione a generalizzare, le storia coloniale italiana è profondamente differente da quella di altri Paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra. È una strumentalizzazione quanto meno pericolosa, il problema semmai è contrario. Dobbiamo combattere per superare le barriere linguistiche e culturali, così da ottenere una coscienza di valori comuni e condivisi. Bisogna però fare attenzione a che la cancel culture non ci privi sempre più delle tradizioni occidentali, altrimenti in futuro il confronto sarà sempre più povero e scarno di contenuti.
Nessuno pensava davvero che l’esito sarebbe stato diverso, non per questo però la condanna di Jimmy Lai a Hong Kong è meno «devastante», per usare le parole della figlia del magnate dell’editoria, Claire. Nel verdetto di oltre 850 pagine non c’è nulla che provi la «sedizione» e la «collusione con forze straniere» del miliardario cattolico arrivato a Hong Kong da solo a 12 anni. «La motivazione giuridica è quantomeno scarsa, se non inesistente», ha commentato il suo avvocato. Eppure Lai è stato dichiarato colpevole e solo all’inizio dell’anno prossimo si saprà a quanto ammonterà la sentenza. Ma anche questo, in fondo, rischia di essere un dettaglio.
I magistrati scelti dal governo per portare avanti la persecuzione giudiziaria di Jimmy Lai hanno un ampio ventaglio di scelta: possono anche emettere una sentenza di condanna all’ergastolo. Ma basterebbe molto meno al tycoon per morire in carcere.
Lai, infatti, ha appena compiuto 78 anni e la sua salute non fa che peggiorare: nell’ultimo anno ha perso più di dieci chili di peso, soffre di diabete, problemi di cuore, pressione alta e la sua vista è calata.
Il regime comunista sa benissimo che il suo stato di salute va deteriorandosi e forse anche per questo, per rendere ancora più gravosa la sua pena, ha aspettato cinque anni prima di fare arrivare il processo a sentenza. Cinque anni che Lai ha passato in isolamento «in una cella senza finestre, senza luce naturale. La stanza ha le pareti di cemento armato e diventa rovente come un forno d’estate, quando a Hong Kong la temperatura sale oltre i 40 gradi», come dichiarato a Tempi dal figlio Sebastien Lai.
A dimostrazione della crudeltà del governo, inoltre, le autorità del carcere hanno profuso importanti sforzi per togliere all’attivista pro democrazia ogni tipo di conforto.
In particolare, sapendo che Jimmy Lai è cattolico, non gli hanno permesso per lungo tempo di ricevere l’eucarestia né gli consentono di tenere in cella un rosario per pregare o di partecipare alla Messa.
Che cosa ci si poteva aspettare di diverso da una dittatura e da un processo farsa che ha accettato come “prove” le dichiarazioni contro l’imputato estorte con la tortura a un testimone? Niente.
Che cosa ci si poteva aspettare da un processo a Hong Kong, che a quattro anni e mezzo dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale ha obbligato anche l’ultimo partito democratico della città a chiudere i battenti? Niente.

Ed è proprio per questo che la famiglia, pur angosciata, non è rimasta sorpresa dalla sentenza. E anche in questi giorni tiene il punto: Jimmy Lai non può essere salvato dall’interno, perché il regime cinese che ha messo le mani anzitempo su Hong Kong è marcio, dà una caccia spietata a tutti coloro che osano opporsi alla sua ideologia e se ne infischia della giustizia (ricordate come è morto il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo?).
Jimmy Lai può essere salvato solo da un intervento esterno, in primis da parte del presidente americano Donald Trump, che ha promesso di fare «tutto quanto in mio potere» per «salvarlo», del Regno Unito e dell’Unione Europea.
Pochi giorni fa Claire Lai ha rivolto un appello al governo cinese: «Non lasciatelo morire come un martire in queste condizioni di salute. Resterebbe una macchia sulla vostra storia che non sarete mai in grado di lavare via».
Perché Pechino si convinca a lasciarlo uscire di prigione servirà però un intenso lavoro diplomatico da parte del mondo libero. Al momento, infatti, l’orientamento del regime è quello espresso da un festoso comunicato di Erick Tsang, a capo dell’Ufficio affari costituzionali e continentali di Hong Kong: «Questo verdetto ristabilisce la giustizia. Lai resterà in carcere in eterno».
Jimmy Lai è stato incarcerato per avere difeso ciò che sta a cuore a tutte le democrazie liberali del mondo. Per questo non si può rimanere indifferenti alla sua sorte. Difendere Jimmy Lai significa difendere noi stessi.
Trump ha dichiarato di avere già chiesto al dittatore cinese Xi Jinping di liberarlo. Ma la pressione deve continuare nei prossimi mesi. C’è ancora tempo per salvarlo, ma dopo oltre 1.800 giorni di carcere è sempre più scarso.
«Questo caso ha suscitato il clamore mediatico perché è atipico. In altre circostanze, i bambini vengono allontanati dalle famiglie perché all’interno del nucleo domestico sono in una situazione di pericolo, perché vittime di violenza, perché vittime di genitori che fanno abuso di alcol o di sostanze stupefacenti. In questa famiglia non c’è niente di tutto questo. I bambini stanno fisicamente bene, sono curati, sono sereni, ricevono affetto dai genitori ed essi stessi sono affettuosi verso i genitori. Allora il problema qual è? È un problema culturale. Questa famiglia ha diritto di crescere i figli secondo la propria concezione di vita o lo Stato deve andare a sindacare e porre dei limiti? Dove arrivano i diritti dei genitori e dove arriva il dovere dello Stato nella tutela dei minori?».
A parlare è il sindaco di Palmoli, Giuseppe Masciulli, ospite il 18 dicembre della Fondazione Enrico Zanotti di Ferrara per un incontro a cui Tempi ha collaborato insieme all’associazione Esserci. Le riflessioni emerse nel corso dell’evento pubblico risultano ancora più puntuali alla luce degli ultimi risvolti legati a quella che il pubblico conosce come la storia della “famiglia del bosco”: la Corte d’Appello dell’Aquila ha rigettato il reclamo dei legali contro l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila. I figli di Nathan e Catherine Trevallion restano, quindi, separati dai genitori, in una casa famiglia dove è consentito alla madre di stare con loro per parte della giornata.
Il sindaco Masciulli conosce la parabola della “famiglia del bosco” da prima che il clamore mediatico schiacciasse la vicenda con la zavorra di un gossip esasperato. Il rammarico più sentito dal sindaco di Palmoli è l’occasione che il nostro paese ha perso, mancando di interrogarsi sul nodo centrale di una storia familiare che, al di là dei contorni specifici, ci riguarda tutti.
«Speravo – sottolinea Masciulli – che fosse occasione per aprire un dibattito su questo tema in tutta l’Italia: i genitori quali valori hanno diritto di trasmettere ai figli? La legislazione che regola questa materia risale al periodo in cui i bambini venivano sottratti all’obbligo scolastico per aiutare i genitori nei lavori agricoli, ma la società è cambiata totalmente. E le leggi dello Stato italiano non rispecchiano più la nostra situazione attuale. Si poteva dunque cogliere lo spunto per aprire un dibattito che coinvolgesse le associazioni, le categorie che rappresentano i genitori, le istituzioni. Mi auguravo una mossa di questo tipo che avrebbe migliorato la vita delle persone. Invece si è precipitati nel gossip, andando a creare un clamore legato a dettagli marginali, fino anche a fare un caso sul tipo di spazzolini da denti usati dai bambini».
Il dettaglio pruriginoso per solleticare gli istinti di pancia del pubblico sono molto diversi dal resoconto dei fatti. E nella cronaca asciutta della storia sono contenuti dei tasselli che avrebbero potuto mettere sul tavolo ipotesi di un intervento costruttivo, e non oppositivo, per sostenere la libertà della famiglia, senza cadere di un isolamento dal contesto comunitario.

I dati essenziali sono accaduti molto prima che i riflettori della stampa si accendessero sulla storia dei coniugi Nathan e Catherine Trevallion e dei loro tre figli. Primo: la famiglia non era sconosciuta e tagliata fuori dal contesto sociale. «Da quando sono arrivati nel 2021 – racconta il sindaco Masciulli – ho personalmente avuto contatti con questa famiglia perché, come accade nei piccoli comuni, per ogni necessità o informazione è consuetudine riferirsi al sindaco. Quando sono venuti in Comune, vedevo una famiglia molto affiatata, tre bambini sereni, sorridenti, puliti per quello che è normale in un contesto di vita in campagna e che manifestavano affetto verso i genitori e lo ricevevano».
Secondo: è nel contesto di questo rapporto istituzionale ma anche personale che poteva esserci un’alternativa virtuosa alla china drammatica dei fatti.
Nel settembre 2024 avviene l’intossicazione da funghi che colpisce tutta la famiglia Trevallion, a cui segue il ricovero ospedaliero e il sopralluogo dei Carabinieri nella casa del bosco. Ne deriva una copiosa documentazione fotografica e una breve relazione in cui si evidenziano problemi statici dell’abitato e carenze igienico sanitarie. Come previsto dalla legge, la relazione viene trasmessa non solo alla Procura di Vasto ma anche al Tribunale dei minori dell’Aquila.
Il sindaco Masciulli intuisce l’iter legislativo e burocratico che si profila e fa una proposta collaborativa alla famiglia: «Mentre la famiglia era ricoverata in ospedale, riesco a mettere a disposizione un’abitazione nel centro del paese. Avevo immaginato questa soluzione: al momento delle dimissioni ospedaliere, vanno ad abitare in questa casa idonea e iscrivono i bambini a scuola. Insieme al papà Nathan e agli insegnanti si era stabilito un percorso d’inserimento scolastico, anche con la compresenza dei genitori per un certo arco di tempo nelle mattinata. Proponevo che rimanessero ad abitare in questa casa di modo che, quando il tribunale dei minorenni avesse chiesto la relazione ai servizi sociali, questi ultimi avrebbero potuto relazionare in maniera positiva, cioè dichiarando che la famiglia viveva in una casa idonea, i bambini frequentavano la scuola e i problemi erano risolti».
L’obiettivo di questa proposta mette a fuoco un discrimine importante sul tema ancora molto scivoloso dei diritti di una famiglia rispetto all’intervento dello Stato. L’intento dell’intervento comunale non era quello di cambiare i connotati educativi e i valori dei Trevallion, ma di custodirne l’unità alla luce dei meccanismi legali e burocratici che potevano generarsi e di offrire il supporto della comunità cittadina.
La scelta di rifiutare questa collaborazione da parte dei Trevallion ha prodotto l’intervento a gamba tesa dei servizi sociali e tutto il dramma che ne è seguito, fomentato dalla stampa in modo esasperatamente deviato rispetto al reale vulnus della storia.

Gli ultimi risvolti confermano la separazione dei figli dai genitori. Ciò risulta molto preoccupante alla luce di quanto, invece, Masciulli legge nei dati presenti: «Le criticità evidenziate dal magistrato quando ha disposto il collocamento in struttura dei minori erano: l’abitazione inadeguata, carenze nell’istruzione scolastica e nella socializzazione. Ad oggi il problema abitazione è stato totalmente risolto, il problema istruzione è stato risolto con l’accettazione da parte della famiglia di collaborare con il Comune che dispone di una struttura con insegnanti affiancati da uno psicologo che si occupa dell’inserimento dei bambini migranti che arrivano nel corso dell’anno».
«La famiglia», prosegue, «ha accettato inoltre che i servizi sociali continuino a espletare le loro attività nell’abitazione privata in cui andranno ad abitare. Dunque, se prima c’erano delle ragioni, per quanto discutibili, nel tenere i bambini in una casa famiglia, oggi queste ragioni non ci sono più e io sto ripetendo da diversi giorni che non si capisce perché in prossimità del Natale questi bambini non possano tornare a casa».
L’aggiornamento più recente, vale a dire il rigetto della Corte d’Appello, va in direzione opposta, amplificando lo scenario peggiore a cui Masciulli ha tentato di opporre un’ipotesi di sussidiarietà : «Noi come Comune abbiamo assunto questo atteggiamento: il valore principale in assoluto è la famiglia, quindi questi bambini devono tornare a stare con i genitori. La domanda che ci siamo posti è: cosa possiamo fare? Sostenere la famiglia nel vivere secondo le sue convinzioni e nel rispetto delle leggi dello Stato. Ho dovuto però constatare che c’è un altro atteggiamento che tende a voler insegnare a questa famiglia come si vive, applicando dei principi quasi da Stato etico. Io credo che il Comune e le altre istituzioni dello Stato debbano essere di supporto alla famiglia e non a imporre un proprio modo di vedere la vita, l’istruzione e la socializzazione».
La ferita di questa vicenda è aperta e la china che si profila vede i bambini come vittime più segnate dagli strascichi legali. È accaduto parecchie volte che questo colpo ferale sia conseguenza diretta di un intervento mosso proprio da intenzioni che si arrogano la difesa del «superiore interesse dei minori». E poi degenerano in uno strappo dei rapporti vitali essenziali.
Per quanto il ritornello mediatico ci provi a ridurre tutto a una faccenda sentimentale da vita nella natura, a faziosità da tifoserie opposte fra presunte forme virtuose di socializzazione e nemici giurati della globalizzazione, il tema che brucia è un altro. Giuseppe Masciulli lo sintetizza – lucidamente – così: «Molti mi dicono che ho cambiato atteggiamento rispetto all’inizio dei fatti. È vero, perché ho preso atto della disponibilità della famiglia, ho visto che alcune questioni si sono risolte e siccome ritengo che il valore fondamentale sia l’unità della famiglia, oggi mi è chiaro che le ragioni di otto mesi fa per tenere i bambini fuori dal nucleo familiare oggi non sussistono più. Dobbiamo trovare altri metodi per sostenere la famiglia e non agire in maniera così drastica, creando dei traumi e delle sofferenze più gravi dei problemi che si vuole risolvere».