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#news #tempi.it
Parigi. Emmanuel Macron aveva auspicato un «gesto architettonico contemporaneo» per la nuova Notre-Dame, devastata da un incendio nell’aprile 2019 e riaperta nel dicembre 2024 dopo una ricostruzione in tempi record. Le sei vetrate contemporanee firmate dall’artista figurativa Claire Tabouret, che in primavera andranno a sostituire quelle di Viollet le Duc, hanno accontentato il presidente della Repubblica francese e la sua consorte, Brigitte Macon, ma non la maggior parte dei loro concittadini, indignati dagli esperimenti modernisti sulla cattedrale più importante di Francia, patrimonio dell’umanità .
Una petizione lanciata dalla prestigiosa rivista Tribune de l’art ha già raccolto 300 mila firme contro le vetrate dell’artista figurativa francese, 44 anni, vincitrice assieme al laboratorio di vetri Simon-Marq del concorso pubblico che era stato lanciato da Macron per “modernizzare†Notre-Dame. Le vetrate non sono ancora state installate, ma i modelli in scala reale, gli schizzi e i lavori preparatori sono esposti da mercoledì al Grand Palais, a Parigi, nel quadro di una mostra intitolata “D’un seul souffleâ€.
«Ispirati alla Pentecoste, simbolo di unità e armonia, e realizzati in monotipo, sono arricchiti da stencil per i rosoni e i motivi decorativi. Questi progetti rispettano così la luce neutra dell’edificio e creano una transizione morbida con le vetrate di Viollet le Duc, proponendo colori vivaci ed equilibrati», si legge nella presentazione della mostra. Ma per la Commission nationale du patrimoine et de l’architecture, che dipende dal ministero della Cultura, gli storici dell’arte e altre associazioni di difesa del patrimonio non si tratta affatto di “una transizione morbidaâ€, ma di una rupture brutale con la storia e lo stile della cattedrale gotica parigina.

Ma chi è Claire Tabouret, l’artista all’origine delle vetrate della discordia? Il Monde la presenta come «la pittrice che si ispira ai migranti» per le sue opere. E anche nelle vetrate multiculti e inclusive che verranno installate nella cattedrale gotica parigina il tema dell’immigrazione è centrale.
«Claire Tabouret a Notre-Dame: sei vetrate che raffigurano i migranti di oggi ed esplorano l’identità fluida, il desiderio e la performatività di genere. Una scelta presidenziale che promuove i temi centrali dell’artista e che costituisce una brusca rottura con 850 anni di armonia gotica e spirituale», ha denunciato l’opinionista ed ex consigliera dipartimentale gollista Carène Tardy. Portavoce di un’indignazione generale dinanzi all’ennesimo capriccio firmato Macron.
Solo Macron e la diocesi di Parigi, che hanno sostenuto il progetto costato 4 milioni di euro ai contribuenti francesi, sembrano entusiasti del lavoro di Tabouret. «La sostituzione delle vetrate di Viollet le Duc con vetrate contemporanee procede secondo i piani. Si tratta di un attacco all’integrità dell’opera d’arte totale voluta dall’architetto», ha denunciato Sites & Monuments, storica associazione di difesa del patrimonio. Che assieme a un donatore privato, Jean-David Jumeau-Lafond, aveva presentato un ricorso a gennaio per annullare o rescindere l’appalto pubblico per la creazione di vetrate contemporanee.
Il ricorso si basava sul fatto che il campo d’azione dell’Ente pubblico, ai sensi della legge del 29 luglio 2019 sul restauro di Notre-Dame, è limitato alla “conservazione†e al “restauro†della cattedrale, e a nient’altro. E nell’operazione che ha coinvolto Claire Tabouret non si tratta né di un restauro (le vetrate originali di Viollet-le-Duc, classificate come monumenti storici, non sono state danneggiate dal fuoco e sono state persino pulite) né di una conservazione. Ciononostante, a fine novembre, il Tribunale amministrativo di Parigi ha deciso di respingere il ricorso di Sites & Monuments e di Jean-David Jumeau-Lafond, perché «i termini “conservazione” e “restauro», si legge nella sentenza, «non implicano un ritorno all’ultimo stato visivo conosciuto prima dell’incendio (…) e non escludono la possibilità di un approccio architettonico, come previsto dall’appalto per la realizzazione e l’installazione di vetrate contemporanee».
I concetti di “conservazione†e “restauro†sono definiti dalla Carta internazionale per la conservazione e il restauro dei monumenti e dei siti, firmata a Venezia nel 1964 e adottata l’anno successivo dall’Icomos, il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti, un’organizzazione non governativa. Ma secondo i giudici del Tribunale amministrativo, la legge del 29 luglio 2019 sul restauro di Notre-Dame non fa «riferimento esplicito alla Carta di Venezia». «Falso», come sottolineato dalla Tribune de l’art, perché durante i dibattiti parlamentari sulla legge del luglio 2019, la Carta di Venezia, ratificata dalla Francia, è stata citata in modo molto chiaro dai legislatori.
La deputata Anne Brugnera, relatrice del disegno di legge durante la seduta dell’Assemblea nazionale del 16 luglio 2019, ha precisato che non era necessario «invocare il rispetto della Carta di Venezia e che l’applicazione della Convenzione sul patrimonio mondiale dell’Unesco non è utile. Il nostro Paese, avendo firmato questi testi, li applicherà ». Una posizione che era stata inoltre avallata dall’allora ministro della Cultura Franck Riester: «La relatrice e io condividiamo la stessa interpretazione».
Il tribunale amministrativo non ha tenuto conto nemmeno delle dichiarazioni dell’ex ministra della Cultura Roselyne Bachelot che nel novembre 2020 aveva affermato altrettanto chiaramente che «le vetrate sono parte integrante del monumento» e «la Francia ha firmato la Convenzione di Venezia del 1964 che rende assolutamente impossibile qualsiasi rimozione delle suddette vetrate e la loro sostituzione con opere moderne. La cosa è per me inammissibile e contraria alle convenzioni che abbiamo firmato».
Hanno fatto irruzione tra le tre e le quattro del mattino del 21 novembre, sessanta motociclette e una colonna di pick-up, nella St Mary’s Catholic School di Papiri, stato del Niger, in Nigeria. Hanno portato via 239 bambini della materna e della primaria (i più piccoli di sei anni), 14 ragazzi delle superiori, 12 insegnanti. Un papà e una mamma sono morti di crepacuore nei giorni seguenti. Cinquanta alunni sono riusciti a scappare nella boscaglia. Gli altri sono rimasti ostaggi. Nessun preavviso, nessuna sirena, nessuna protezione. Solo, dopo il disastro, la chiusura precauzionale di quarantuno college federali.
Il numero di studenti rapiti supera quello delle “Chibok Girls”, le 276 studentesse rapite da Boko Haram nello stato del Borno, Nigeria nord-orientale nel 2014. Allora il mondo si commosse, nacque #BringBackOurGirls, Michelle Obama si fece fotografare con il cartello. Oggi cento bambini sono stati rilasciati, l’8 dicembre hanno riabbracciato i loro genitori – non si sa se dietro pagamento di riscatto (probabile) o per un’operazione militare (improbabile) – e centocinquantatré restano ancora nelle mani dei rapitori insieme agli insegnanti. Il vescovo di Kontagora, Bulus Dauwa Yohanna, conferma: «È vero, finora cento bambini sono stati liberati. Ringraziamo Dio per tutto».
Lo stesso vescovo aveva detto chiaro al governo pochi giorni prima del rilascio: «Questi bambini sono usciti di casa per studiare e hanno trovato il terrore. Le famiglie non dormono, non sanno se i figli sono vivi o morti. È una ferita morale e spirituale». E ancora: «Continueremo a predicare speranza e a scoraggiare la vendetta, ma esigiamo giustizia».
«Mia moglie piange in continuazione», raccontava alla Reuters il padre di un ragazzo di quattordici anni. «Ci chiedono pazienza, dicono che stanno lavorando per salvarli. Ma come si fa ad avere pace se non sappiamo se nostro figlio è vivo?». Poi la telefonata: vostro figlio è tra i cento liberati, sta tornando a Papiri da Minna. «Non vediamo l’ora di riabbracciarlo e preghiamo che non succeda mai più», dice un altro padre. Ma per 153 famiglie la notte continua.
Nel 2021-2022 girava voce di un attacco imminente, la scuola era rimasta chiusa cinque mesi, gli esami si erano tenuti altrove. Questa volta nessuno aveva avvisato, né formalmente né informalmente. La St Mary serve una cinquantina di villaggi di Agwara, molti bambini vengono da lontano, camminano tre o quattro ore per arrivare. Per questo i dormitori erano pieni. Carne da macello pronta all’uso.
Quello della St Mary’s è il terzo rapimento in una settimana. Tre giorni prima, due morti e trentotto sequestrati in una chiesa nello stato di Kwara. Venticinque studentesse portate via a Maga, nello stato di Kebbi (poi rilasciate). Non sono episodi isolati. Sono la norma in un nord-ovest e centro Nigeria dove i cosiddetti “banditi†– spesso in combutta con miliziani jihadisti vecchi e nuovi (Iswap, Lakurawa, Gsim) – hanno trasformato il sequestro di massa in industria (vedi quelli nelle scuole di Dapchi, Kaduna, Zamfara, Katsina). E dove i cristiani restano il bersaglio privilegiato: 50 mila uccisi dal 2009, 19.100 chiese distrutte, 15 milioni di sfollati. Per ogni musulmano ammazzato cadono 2,4 cristiani; proporzionalmente 5,2 volte di più.
Come Tempi ha ribadito all’indomani dei distinguo fioccati dopo la minaccia di un intervento americano in Nigeria agitata da Donald Trump, non esiste nessun altro posto al mondo, dove negli ultimi dieci anni siano stati rapiti o uccisi 250 sacerdoti e 350 pastori protestanti. Una media di 60 all’anno. Più di uno a settimana. Ed è bene ricordarlo quando, dall’Economist alla Bbc, i media che danno la notizia del rilascio dei cento bambini di Papiri non dimenticano la postilla obbligata: «Contrariamente a quanto afferma Trump, la stragrande maggioranza dei rapimenti e delle uccisioni in Nigeria non ha motivazioni religiose».
Impossibile ridurre la mattanza a scontri comunitari. Basti ricordare i seminaristi di Ivianokpodi, costretti a implorare la liberazione tenendo in mano teschi umani, o il giovane seminarista di Kaduna Michael Nnadi, obbligato a ballare e a muggire come una mucca prima di essere giustiziato con un colpo alla testa. E neppure appena di povertà , cambiamento climatico, competizione per la terra, come piace ripetere a certi osservatori. Tutto vero, tutto parziale: nella Middle Belt i pastori fulani islamici stanno facendo pulizia etnica dei cristiani a colpi di benzina e machete. Lo documentano i reportage (in primis di Tempi), lo confermano i numeri, lo gridano i vescovi, inascoltati.
Nelle ultime settimane gli attacchi sono esplosi. Il 26 novembre il presidente Bola Tinubu ha dichiarato lo «stato di emergenza», il 2 dicembre ha nominato un nuovo ministro della Difesa, un generale con esperienza anti-insurrezione. Un esperto sentito dall’Economist ipotizza che le minacce di intervento americano ventilate da Trump possano aver spinto i banditi a intensificare i colpi poiché «un governo che affronta la censura internazionale potrebbe essere più propenso a pagare. Questo potrebbe anche spiegare i recenti attacchi ai cristiani». E quelli che da quindici anni trasformano la Nigeria nell’epicentro mondiale della persecuzione anticristiana? Tutto vero, tutto ancora una volta parziale, mentre 153 bambini restano ostaggi di uomini che non temono Dio, tantomeno lo Stato.
L’aspetto su cui vorrei soffermarmi in questo mio intervento riguarda direttamente la produzione e i risultati dei film di origine italiana destinati alla Sala Cinematografica. Analizziamo rapidamente i dati relativi alle quote di mercato dei film di origine nazionale nei principali paesi europei, tutti esposti come l’Italia alla pressione del prodotto USA. Sul mercato domestico, misurando gli ingressi in Sala, i film italiani si attestano come quota di mercato sotto il 30%. Considerando il periodo 2010 – 2024 (ed escludendo i due anni della pandemia) siamo mediamente attorno al 26%. Si noti che non è un dato malvagio e risulta largamente superiore a quello registrato dai film nazionali in paesi come la Germania, la Spagna e il Regno Unito. Non è così, invece, in Francia dove i film di origine nazionale si attestano nello stesso periodo qui considerato su una media del 40%.
Per continuare a leggere prosegui qui o iscriviti a Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni.Â
Dopo anni di parole radioattive e di politicamente, follemente, aggressivamente corretto, Pantone, quel sommo oracolo delle tinte, papa laico del cromatismo per antonomasia, ha osato l’impensabile: eleggere il bianco, con il nome poetico di “Cloud Dancer” (Pantone 11-4201, per i cultori del dettaglio), come Colore dell’Anno 2026. Mai accaduto da 26 anni. Mai visto un bianco da quando nel 1999 il brand americano decise di istituire la ricorrenza “Color of the yearâ€, decretando la tinta che avrebbe catturato lo spirito del momento (il primo, il Cerulean Blue, debuttò nel 2000 quale colore del millennio).
Non un bianco qualunque: un bianco “ballando tra le nuvole”, etereo, un bianco tregua. «È un invito a percorrere nuove strade e nuovi modi di pensare, nuovi capitoli», gongola Leatrice Eiseman, direttrice esecutiva del Pantone Color Institute, sperticandosi in lodi alla serenità come nemmeno una brochure zen per manager in burnout. E Laurie Pressman, presidente dell’istituto, lo dipinge come «un bianco non sbiancato, un bianco naturale», un lenzuolo pulito per l’anima afflitta da un mondo «saturo e rumoroso». Ma guai a loro e ai loro antidoti minimalisti al “sovraccarico sensoriale della vita modernaâ€! Perché in questa giungla di tweet e thread infuocati, ha da venire il bianco come non-colore aristotelico, pronto a scatenare l’inferno.
La domanda è infatti: dove hanno vissuto quelli di Pantone negli ultimi dieci anni? Se lo chiede la fashion editor del New York Times Vanessa Friedman, convocata dal quotidiano in “commissione” con altri colleghi: «Dato il recente dibattito politico, quando sento “bianco”, mi vengono in mente anche associazioni meno salutari, che dubito Pantone abbia preso in considerazione». «È certamente una scelta importante dopo un anno in cui i programmi DEI sono stati smantellati e il partito al potere ha discusso su quanto essere amichevoli con il nazionalismo bianco», ha chiosato la collega Callie Holtermann. «Forse non è questo che Pantone intende con “pace, unità e coesione”, ma immagino che verrà in mente ad alcuni spettatori».
Specie dopo un anno all’insegna del colore Mocha Mousse, una via di mezzo tra il cioccolato e il cappuccino, che Pantone giurava non avesse nulla a che fare con le carnagioni, ma che i woke avevano già eletto a “riparazione razziale tardivaâ€. «Le tonalità della pelle non hanno influenzato affatto», ha tagliato corto Pressman parlando al Washington Post e ricordando che appunto anche per Mocha Mousse nel 2025 e prima con Peach Fuzz nel 2024 «ci è stato chiesto se la scelta avesse qualcosa a che fare con la razza o l’etnia».
La risposta era no allora e resta no oggi, e quindi, dice Pressman, largo al bianco. «Non un bianco puro, non un bianco tecnico», insiste. «Questo è volutamente un bianco non sbiancato, un bianco dall’aspetto molto naturale». Il che rende ancora più comico, sempre in fatto di metafore, quella evocata da Pantone e corteggio di giornalisti quando spiegano che l’elezione a New York del giovanissimo sindaco Zohran Mamdani (con le sue radici indiane e ugandesi, ndr) potrebbe essere un esempio della nuova filosofia.
Ciò detto, nulla grida cortocircuito come le white women woke dotate di social network che, come nota il New York Post con gusto sadico, al minimo accenno di bianchezza lanciano l’allarme rosso. «Pantonedeaf!», tuona una su X. «È razzista e tone-deaf», incalza un’altra, come se scegliere il bianco fosse equivalente a dipingere svastiche su un arcobaleno. «È un promemoria di chi controlla ancora la narrazione. Ci stanno prendendo in giro apertamente, scegliendo il bianco puro come colore culturale dell’anno, mentre il resto di noi grida per l’umanità ». E non è finita: «Sta facendo molto Sydney Sweeney vibes… Quindi scegli il bianco e lo vendi come un “reset rilassanteâ€? Per chi, tesoro? A chi dovrebbe risultare rilassante?», sibila qualcun altro su Instagram, evocando l’attrice bionda come epitome del male bianco-borghese.
«Dato l’attuale clima politico e culturale, dichiarare una tonalità di bianco colore dell’anno è una dichiarazione audace», dice Vogue, mentre il New Yorker la bolla come «equivoco simbolico», evocando purezza, controllo e canoni colonialisti. Mandy Lee, analista di moda su Marie Claire, inchioda la scelta: «Tone-deaf e inaccurata», ignorando il contesto politico-economico di un’America trumpiana dove l’anti-immigrazione fiuta odore di bianco nazionalista.
Va detto che l’ossessione per il bianco fuori luogo non è un unicum pantoniano, ma un sintomo di un’epidemia woke che vede razzismo ovunque, persino nel codice binario dell’esistenza. Torniamo a Sydney Sweeney, la santa patrona di questa demenza cromatica. Nell’estate 2025, American Eagle lancia una campagna jeans con slogan “Sydney Sweeney has great jeans” – un gioco di parole su “genes”, geni, che scatena l’inferno: eugenetica! Razzismo! Standard di bellezza bianchi! “Nazi vibes”, perché la bionda Sweeney, con quel suo look “ariano”, oserebbe promuovere “buoni geni” in un mondo Black Lives Matters. E mica è l’unica.
Lo scorso anno ha tenuto banco per giorni anche qui in Italia il caso di L.T., veneta che frequentava un master alla Columbia, e che ha spiegato a Federico Rampini cosa significa «scusarmi (letteralmente, lo richiede il master stesso, ndr) in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche», «scusarci con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori», «ogni due settimane una bianca come me deve partecipare a una riunione di White Accountability (“responsabilità biancaâ€): due ore con una persona che ci interroga per farci riconoscere le nostre micro-aggressioni verso i neri e chiederci un pentimento».
Un docente di inglese, Zack De Piero, ha fatto causa alla Penn State University, sostenendo di essere stato sottoposto a “formazione antirazzista†in cui gli è stato detto che la lingua inglese è razzista e che “insegnare inglese = perpetuare white supremacyâ€. Secondo la denuncia, in un workshop o training era presente un video intitolato “White Teachers are a Problem†– cioè “Gli insegnanti bianchi sono un problema†– e a lui veniva richiesto di frequentare ripetuti “antiracist trainings†finché non “capiva†(cioè non si auto-criticava). Capire cosa? Che «come individuo bianco, sono in qualche modo responsabile di tutte le ingiustizie del mondo».
Nel 2025 il Goldwater Institute ha depositato una denuncia contro l’Arizona State University perché un training obbligatorio per docenti e staff, intitolato “Inclusive Communitiesâ€, richiedeva di accettare come verità che la “supremazia bianca è normalizzata nella società â€, che “whiteness†va criticata, e che persino domande innocenti (“Da dove vieni?â€, “Che capelli hai?â€) potevano essere interpretate come razziste.
Tre esempi di innumerevoli tentativi di riduzione del bianco e lotta al privilegio bianco. Si va dal caso del bianchissimo professor Paul Rossi, insegnante di matematica dell’esclusiva Grace Church School di New York accusato di «creare uno squilibrio neurologico negli studenti», a quello della Dalton School, dove fra le proposte del preside, sostenute da 100 insegnanti e membri dello staff, c’era quella di abolire i corsi avanzati nei quali gli studenti afroamericani avevano ottenuto risultati peggiori degli studenti non afroamericani. Fino al caso della Brearley School che si è proclamata “scuola antirazzista†e ha reso obbligatori corsi di antirazzismo per genitori, personale docente e non docente e membri del Consiglio di amministrazione (bianchi, of course).
Dalle nuove linee guida della California per insegnare la matematica antirazzista alla scuola di Evanston, Illinois, dove alla fine del lockdown il sovrintendente aveva deciso che solo gli studenti neri, marroni e Lgbtq avrebbero potuto accedere in autunno all’istruzione in presenza, alle 44 scuole di San Francisco che dovevano cambiare nome perché intitolate a “mostri” come George Washington o Abraham Lincoln.
Dal licenziamento dalla Reuters di Zac Kriegman, colpevole di avere scoperto che i numeri smentivano la tesi dei neri uccisi più dei bianchi dalla polizia, alle due immaginarie ragazzine nere dei cartoni animati che perdono le loro voci perché le doppiatrici bianche non vogliono più essere «complici». Dai brand accusati di sfruttare l’antirazzismo per fare business all’inevitabile difesa del “white lives don’t matter”.
Potremmo citare migliaia di esempi fino a quel caso magistrale del poeta bianco canadese eterosessuale che non riuscendo a trovare un editore per i suoi versi si è reinventato di colore e gender-fluid e ha pubblicato decine di poesie bruttissime.
In questo circo di ipersensibilità cromatica, Pantone indica il bianco e i guardiani del woke ci vedono subito il cappuccio del Ku Klux Klan o il cappello Maga, come se ogni nuvola nascondesse un raduno di suprematisti sotto steroidi o un gin tonic con i miliardari della Silicon Valley (il bianco nuvoletta estiva “ispirato ai toni grigio-bianchi naturali di una piumaâ€, «può avere molto più senso se vivi in una parte del mondo ricca e tranquilla e scorri abitualmente prodotti e trend di moda, arredamento, cosmetica e in qualche caso tecnologia», è ancora una pagina di Marie Claire per cui meglio sarebbe che il colore dell’anno fosse «votato dalla gente, con un sistema democratico»).
Forse, tra allarmi woke, tone-deaf e moralismi estetici, se si vuole catturare lo spirito del tempo, non c’è davvero migliore allegoria del bianco scelto da Pantone. Prossimo colore dell’anno, il “Transparent Voidâ€, l’unico colore che non esiste: perfetto per chi ha perso ogni sfumatura di buonsenso.
Quando si parla di tecnologia, di cloud, cyber security o intelligenza artificiale, si pensa spesso a un mondo distante, popolato da linguaggi tecnici e processi automatizzati. Nel racconto di Stefano Davitti, però, tutto questo prende una direzione diversa: quella della persona. Presidente e amministratore delegato di Ergon, azienda fiorentina da cui è nato il Gruppo E, Davitti guida una realtà che conta cinque società , tre business unit e oltre cento collaboratori. Un ecosistema di competenze che opera come un’unica impresa e che aderisce alla Compagnia delle Opere (Cdo), con cui condivide un’idea molto chiara di impresa: il lavoro come luogo di crescita, responsabilità e bene comune.

Il percorso personale di Davitti non nasce nei laboratori di informatica, ma dalla responsabilità . A 23 anni si ritrova a guidare l’azienda di famiglia e quell’esperienza diretta gli permette, giovanissimo, di intuire che il futuro passa dalla capacità di organizzare l’informazione. Così trasforma l’impresa familiare in una banca dati nazionale sulle proprietà immobiliari e sulla affidabilità creditizia: a metà anni Ottanta, quando internet non esisteva ancora, Davitti pensa già alla consultazione online dei dati. È il primo seme dell’avventura. Qualche anno più tardi, grazie all’incontro con un amico system integrator, matura l’idea – allora ardita – di fondare in Toscana un’azienda It strutturata. Nel 2005, da un piccolo gruppo di tecnici incontrati quasi per caso, nasce Ergon. Da allora, la crescita è continua: nel 2010 l’acquisizione del ramo software Estrobit; nel 2015 la riorganizzazione societaria e l’inizio della partnership con Mediasecure, che spalanca la porta alla cyber security e porta alla partecipazione in MgaLabs; nel 2018 la nascita formale del Gruppo E; nel 2023 l’ingresso nell’intelligenza artificiale con Memori; nel 2024 la fusione di Ergon e Mediasecure.
Oggi il Gruppo E opera con una struttura che integra in un’unica proposta competenze diverse raggruppate in tre business unit: Next Generation Infrastructures, per infrastrutture It di nuova generazione, datacenter, applicazioni e networking; Information security, con servizi avanzati di sicurezza, governance e Ot security; Innovability, l’area dedicata allo sviluppo sostenibile, all’intelligenza artificiale, alla business intelligence e ai progetti Esg – che si allineano ai criteri environmental, social and governance (ambientale, sociale e di governance) di valutazione delle performance di un’impresa anche sul piano della sostenibilità e della responsabilità sociale. «Siamo più aziende», spiega Davitti, «ma ci muoviamo come un’unica realtà sotto il brand Gruppo E. La nostra forza è la complementarità ».
In tutto questo, il concetto di transizione digitale sostenibile svolge un ruolo chiave. «La sostenibilità non è solo quella energetica o ambientale», chiarisce. «Produciamo report da sei anni e bilanci di sostenibilità da tre: sono strumenti che ti obbligano a guardarti dentro, a valutare l’impatto reale del tuo lavoro. Per noi sostenibilità significa anche reinvestire sul territorio: dal 2021, per esempio, finanziamo gli scavi archeologici di San Casciano dei Bagni, un patrimonio unico del paese». Accanto alla responsabilità verso l’esterno, per Davitti c’è quella verso chi lavora: «Abbiamo sedi distaccate a Siena, Pistoia, Milano, Perugia. Vogliamo che le persone stiano bene, che abbiano un luogo di lavoro vicino, che faciliti la vita. Siamo nati in smart working: per noi è naturale mettere la persona nella condizione migliore per lavorare».
È forse questo il punto più evidente del metodo Ergon: «Per ottenere il meglio dalle persone, devi farle partecipare al gioco», racconta. «Crescita professionale, possibilità di incidere, contributo alle decisioni: tutto è perfezionabile. Chi arriva deve sentirsi libero di proporre. E il benessere creato viene condiviso, tutti i settori hanno piani di incentivi». Il risultato è un ambiente che cresce e attrae: solo nell’ultimo anno sono entrate quasi trenta persone. Una struttura con molti soci nei ruoli chiave, che consente «una capillarità umana che ci permette di non perdere il contatto diretto con i collaboratori».
Per Davitti l’azienda è un “microcosmo socialeâ€: «Il benessere personale ed emotivo di chi lavora è un dovere quotidiano. Porte aperte, poche gerarchie, ascolto costante: l’atteggiamento deve essere quello del rispetto e dell’accoglienza. È lo stesso spirito che ritroviamo nella Cdo». Il legame con la Cdo nasce da conoscenze comuni, ma presto diventa molto più di una rete: «La Cdo ci ha accompagnato durante una fase di crescita. Oggi vogliamo restituire, mettendoci a disposizione per raccontare la nostra esperienza e collaborando su progetti specifici. I princìpi del Manifesto del Buon Lavoro – la persona al centro, il valore sociale dell’impresa, la crescita condivisa – sono esattamente ciò che ci guida» e rappresenta una fotografia fedele del Dna aziendale.
Guardando avanti, Davitti non ha dubbi: «La tecnologia corre, e questo per noi è un bene: più è complesso un sistema informativo, più è stimolante. Cyber security e cloud sono ormai maturi; il nuovo fronte è l’intelligenza artificiale». Non è una minaccia all’uomo: «La paura nasce dalla non conoscenza. Le rivoluzioni tecnologiche hanno sempre creato lavoro, non distrutto. L’Ai cambierà il modo di lavorare, ma offrirà anche nuove opportunità a chi avrà voglia di intraprendere».
C’è un’unica incognita reale: la distanza tra innovazione e istituzioni. «La società corre più veloce delle norme. Questo sì, può generare problemi. Ma è una sfida comune, e va affrontata insieme». Nella storia personale e imprenditoriale di Stefano Davitti emerge un tratto semplice e profondo: la tecnologia è uno strumento, non un fine. Il fine resta l’uomo. È la stessa intuizione che guida il Manifesto del Buon Lavoro e che permette di raccontare, attraverso il Gruppo E, un’Italia che cresce senza dimenticare che ogni impresa nasce sempre da un incontro tra persone.
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Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di dicembre 2025 di Tempi. Abbonati per sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.