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Scrivere del Movimento Popolare mi è possibile solo riferendomi alla esperienza personale da me vissuta dentro quella entusiasmante esperienza di popolo: da semplice laico cristiano non mi avventuro in teorie pur necessarie per una vita non banale, ma mi limito a far memoria di una esperienza, rispetto alla quale non posso che essere grato.
Occorre premettere che vi è, per me personalmente e per tanti di coloro che hanno dato vita al Movimento Popolare, un “primaâ€, costituito dalla intensa e coinvolgente educazione ricevuta all’inizio in Gioventù Studentesca e poi in Comunione e Liberazione (Cl). Una educazione che ci aveva e ci ha trasmesso una evidenza inestirpabile, e cioè che Cristo c’entra con tutta la vita e che il cristianesimo non è un insieme di riti, ma una novità che investe, appunto, tutta la vita in tutti i suoi aspetti, compresi quelli più pubblici. Una persona cambiata dall’esperienza vissuta nella comunità cristiana è cambiata in tutto e non solo in alcuni aspetti, magari quelli più intimi e nascosti, che non incidono su tutto ciò che definiamo come “bene comuneâ€.
Tale educazione, quindi, ha inciso non solo su quella parte di vita che di solito viene definita “spiritualeâ€, ma sulla vita affettiva e familiare, sul compito educativo, sul rapporto con tutti gli uomini e le donne e anche su quell’aspetto che chiamiamo “politicaâ€, a partire da impegni in opere sociali che sono venuti prima dell’interesse diretto alla politica. Era inevitabile che, anche contro una certa mentalità che persisteva dentro al mondo cattolico, persone educate in tale modo prima o poi si interessassero anche del “bene comune†e di iniziative che precedevano la politica in senso stretto, ma che ne erano la sana premessa. Anzi: la qualità dell’azione politica ha cominciato a peggiorare quando tanti hanno pensato di occuparsi di tale attività senza prima dedicarsi a positivi e creativi impegni sociali.
Anche a me è capitato di vivere un itinerario del genere. Infatti nel 1971, quando in famiglia avevamo la preoccupazione di scegliere la scuola materna per il primo figlio, ci ponemmo il problema e dopo una breve esperienza in una scuola comoda perché “sotto casaâ€, capimmo, soprattutto per merito di mia moglie Adriana, che non potevamo rassegnarci ad una scuola qualsiasi, sia per essere coerenti con il grandioso insegnamento ricevuto da don Luigi Giussani e conseguentemente con la responsabilità di non rassegnarsi ad una vita vissuta banalmente, sia perché uno dei punti sempre sottolineati proprio da don Giussani era quello relativo al compito educativo.
Allora, forti di questi insegnamenti e del bene che volevamo a nostro figlio, ci confrontammo con alcuni amici e decidemmo di assumere una insegnante che contribuisse alla formazione dei nostri figli coerentemente con le preoccupazioni educative che noi avevamo. Un istituto di suore ci mise a disposizione un’aula, qui a Milano in via Duccio da Boninsegna, e così cominciò questa avventura.
Ho ancora la fotografia del primo giorno di scuola (materna) che ritrae le quattro famiglie: i Feliciani (con Aldino), i Bertacchi (con Maria), i Peregrini (con Sophie) e gli Zola (con Giovanni). Nello stesso periodo un’esperienza analoga veniva realizzata da un altro gruppo di famiglie in zona Vigentino.
L’anno dopo ci mettemmo insieme, anche su consiglio di don Giussani, e così iniziò di fatto e poi anche giuridicamente la scuola La Zolla, che oggi ospita circa 1.200 allievi tra materna, elementare e scuola media. Dieci anni dopo, e cioè nel 1981, si tenne un primo incontro tra tutte le scuole nate sull’onda della Zolla (che, a sua volta, si era ispirata all’esempio di una scuola creata da alcuni amici a Rho). Parteciparono 34 scuole, il che significa che, in quel periodo, nascevano tre scuole ogni anno: un ritmo straordinario, che testimoniava una vitalità ed una creatività fuori dal comune!
Questa esperienza fu per me anche, indirettamente, l’inizio di un avvicinamento alla politica. Interessandomi di scuola, infatti, nacquero molti rapporti con persone non appartenenti al movimento di Cl e con esse, anche grazie al Movimento Popolare che aveva come responsabile per la scuola Gianfranco Lucini, nacque un vero e proprio “movimento†a difesa della libertà di educazione. Assistetti alla nascita dell’Agesc (Associazione genitori scuole cattoliche) e, sulla spinta di uno dei fondatori di tale associazione (il grande Giancarlo Tettamanti), accettai di candidarmi per il Consiglio scolastico provinciale. Alle elezioni ricevetti un sorprendente numero di voti, e oltre ad essere eletto fui presidente del Consiglio per circa due anni (1978-1980). Furono anni di grandi battaglie culturali e politiche, a difesa della libertà di educazione sia nelle scuole statali che nelle scuole paritarie (che ancora non erano definite giuridicamente come tali, e noi chiamavamo “scuole libereâ€).
Facendo un passo indietro, occorre ricordare che nel 1974 vi era stata un’altra storica battaglia da combattere, quella relativa al referendum sul divorzio. Intenso fu il nostro impegno, che si manifestò nella stesura di un importante documento nel quale si definiva il divorzio una “riforma borgheseâ€, nel momento in cui con la parola “borghese†i sessantottini di ogni tendenza squalificavano qualunque posizione culturale e politica diversa dalla loro. Ricordo che prima dell’inizio di una grande assemblea pubblica sul referendum un gruppo di sindacalisti presenti all’evento leggeva proprio il nostro documento, e uno di loro, favorevole alla legge che aveva introdotto il divorzio in Italia, disse che quello era l’unico giudizio in circolazione da considerare “pericoloso†per le ragioni dei fautori del divorzio.
Partecipai ad un numero molto grande di assemblee anche nelle scuole. Insieme a Roberto Formigoni praticamente ogni sera e per tutta la campagna referendaria tenemmo incontri: io illustravo i problemi giuridici che riguardavano l’argomento, mentre Roberto sosteneva le ragioni politiche che dovevano portarci a rifiutare anche a livello legislativo il divorzio. Non sempre tali assemblee si svolgevano tranquillamente: alcune volte dovemmo lasciare la sala da porte secondarie…
Purtroppo la maggioranza del popolo italiano espresse un parere diverso dal nostro. L’esito di quel referendum mise in luce molti problemi esistenti nel nostro paese. In particolare, divenne evidente che la cultura di sinistra ed anticattolica aveva rotto gli argini, alleandosi, paradossalmente, con la cultura liberal-radicale. La legge che aveva introdotto il divorzio in Italia era stata presentata da due deputati, Loris Fortuna e Antonio Baslini, socialista il primo e liberale il secondo. Ma a rendere popolare la legalizzazione del divorzio erano stati i radicali, e a condurre la campagna per il “no†alla sua abrogazione furono i comunisti. Questi ultimi, attraverso le pagine del giornale di partito, L’Unità , ingaggiarono una durissima e quotidiana battaglia contro gli “oscurantisti†nemici del divorzio. Fu da quel referendum che il Pci cominciò a trasformarsi in un “partito radicale di massaâ€, come aveva preconizzato Augusto Del Noce.
I radicali, esigui per numero nelle urne, divennero i protagonisti di un cambiamento culturale prima che politico, che poi portò all’approvazione dell’aborto ed ora, sempre con il sostegno degli ex compagni del Pci transitati nel Partito democratico (Pd), stanno sostenendo eutanasia e suicidio assistito. Appaiono come gli specialisti delle riforme di morte.
L’altro aspetto messo in luce dalla campagna referendaria fu la grave divisione manifestatasi in casa cattolica. Tante associazioni, e in particolare quelle alimentate e vezzeggiate per molti anni dalla classe intellettuale cattolica, si espressero anche pubblicamente a favore del mantenimento della legge sul divorzio, disobbedendo apertamente alle indicazioni dei vescovi italiani che invitavano a votare per l’abrogazione.
Tutto ciò, naturalmente, mise anche in luce l’inizio della crisi democristiana, che sempre meno riusciva a far riferimento agli ideali da cui aveva preso le mosse. Al contrario di ciò che diceva Giulio Andreotti, il potere stava logorando la Democrazia cristiana. Molti di noi si accorsero subito di questa situazione e questo fu uno dei fattori fondamentali che mise in moto un movimento culturale e politico che portò a ipotizzare la nascita di un soggetto che ridesse le giuste spinte ideali alla “balena biancaâ€, l’appellativo con cui ci si riferiva alla Dc. Si arrivò così all’assemblea di fondazione del Movimento Popolare, il 21 dicembre 1975.
(1. continua)
A distanza di un secolo dalla sua nascita, Margaret Thatcher è più viva che mai. E per diversi motivi. Al lettore non può sfuggire, per esempio, quanto l’Italia sia ostaggio costante dei sindacati. Meglio, di una loro parte, quella più politicizzata ed estremista, dimentica troppo spesso che un paese non può dirsi civile, tra le altre cose, se i suoi sindacati non sono responsabili. Basta non solo sentir parlare il segretario della Cgil, chiaro esempio di vacuità contenutistica, ma leggere le varie motivazioni dietro le quali si indicono ogni settimana gli scioperi: cambiamento climatico e liberazione della Palestina (da Israele, non dai terroristi, ovviamente) sono tra i più gettonati.
La Iron Lady, com’è noto, tenne la mano ferma contro quelle organizzazioni sindacali che contribuirono a rendere il Regno Unito un Paese complessivamente bloccato e stagnante. Ma non è solo questo. Ne parla lo storico scozzese Niall Ferguson in un libro da poco tradotto per la Luiss University Press: Apologia di Margaret Thatcher.
L’autore non fa mistero della sua predilezione per Thatcher, e per diverse ragioni, a partire da quelli autobiografici. Da ragazzo, Ferguson ricorda come nulla in pratica funzionasse. Nel 1975 l’inflazione era al 27 per cento. Gli scioperi erano costanti. Ma nei ranghi conservatori prese a farsi largo una donna che nel 1979 sarebbe stata eletta riportando il Paese sulla retta via. Liberale in economia, conservatrice sul piano culturale, Thatcher è l’esempio per Ferguson della “teoria del grande uomoâ€, in questo caso della “grande donnaâ€: la storia, in altre parole, la fanno una minoranza di persone, di élite.
Per Ferguson Thatcher riportò speranza laddove albergava la frustrazione e sembrava non vi fosse via di uscita dalla stagflazione. Emblematica è la descrizione che offre un liberalconservatore come è, senza misteri, proprio l’autore: Thatcher «era un Hayek con la borsetta, e mi piaceva da impazzire».
Oggi, insieme al suo alter ego americano, Ronald Reagan, viene considerata l’emblema del male: liberista selvaggia, distruttrice della società , amica dei capitalisti e così via. Ma Thatcher, semplicemente, fece qualcosa di tipico buon senso: e cioè provò a riportare la responsabilità nelle mani delle persone, senza nascondersi dietro al paternalismo statalista, e a ridare spazio alla libertà individuale. Concetto, al giorno d’oggi, tanto evocato quanto bistrattato, visto che a farla da padrone è il proposito socialisteggiante di riduzione e, ancor meglio, eliminazione delle diseguaglianze.
Ferguson non cela come il liberalismo economico thatcheriano ebbe una certa influenza negativa sul piano culturale: l’individualismo promosso contribuì a erodere la stabilità delle famiglie, così come quella matrimoniale; si sfilacciò la Britishness che univa inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi, così come la fede cristiana. Ma complessivamente le sue lezioni rimangono, per chi le voglia ascoltare: meno socialismo, di destra o di sinistra poco importa, più libertà ; meno statalismo, più responsabilità . Sia sul piano nazionale sia su quello europeo, terreno di polemica accesa da parte di Lady Thatcher, ostile com’era alla creazione di un’organizzazione burocratica sovra-statale.
Su questo come sul resto, ricorda Ferguson, aveva ragione. E come nota nella prefazione Lorenzo Castellani, da Thatcher si apprende pure un’altra fondamentale lezione. E cioè che le idee e la cultura sono cruciali, anche e soprattutto in politica. Lei stessa fu legata ad alcuni think tank liberali, come il “Centre for Policy Studiesâ€, che contribuirono a far cambiare il vento collettivista del Paese.
Seminare le idee richiede tempo e sforzo. La sinistra lo sa bene, la destra molto meno. E spesso, anzi quasi sempre segue la via sbagliata: quella della schiavitù, di cui parlava Hayek.
Le testimonianze dei sopravvissuti al massacro del 7 ottobre, il racconto dei primi militari, dei volontari del Magen David Adom, la croce rossa israeliana, che hanno visto e fotografo lo sfacelo che era stato fatto dai terroristi ai corpi delle vittime, le comunicazioni tra gli assalitori intercettati dall’intelligence israeliana e anche i biglietti trovati nelle tasche dei terroristi arrestati non lasciano dubbi. Il 7 ottobre 2023 segna un giorno in cui la violenza sessuale è stata chiaramente e scientificamente usata come arma di sterminio di massa e come messaggio a tutto un paese.
Lo dimostra una inchiesta svolta dalla fondazione Dinah (dal nome della prima donna, figlia di Giacobbe, di cui la Bibbia nella Genesi racconta lo stupro). Dinah è un progetto di studio e ricerca che unisce un team di donne di alto livello accademico, che sta approfondendo gli aspetti giuridici delle violenze sessuali in guerra. Crimini che hanno una configurazione non ancora chiaramente definita a livello internazionale e che in molti casi è difficile perseguire.
Ruth Halperin-Kaddari, giurista di fama internazionale, è con la giudice Nava Ben-Or tra le fondatrici del progetto e ha redatto il rapporto finale. La incontriamo a Tel Aviv. A Tempi illustra i risultati dell’indagine che Dinah ha svolto dopo i primi rapporti della commissione Onu, guidata da Pamel Patten, che avevano confermato le violenze sessuali. L’indagine è raccolta in un volume, A Quest for Justice, October 7 and Beyond, che è il primo quadro giuridico e probatorio completo ad analizzare l’uso sistematico della violenza sessuale come arma di guerra durante gli attacchi di Hamas contro Israele il 7 ottobre.
Il “Dinah Report” raccoglie le testimonianze di 15 ostaggi rilasciati, 17 sopravvissuti ai massacri del Nova Festival e dei kibbutz Re’im, Nir Oz e Kfar Aza, 27 primi soccorritori, i medici dell’obitorio e i terapisti che lavorano con le vittime del 7 ottobre.
«A differenza dei precedenti rapporti che si concentravano sulla documentazione delle atrocità – dice Halperin-Kaddari – questo libro costruisce un modello legale per perseguire questi crimini, anche quando l’attribuzione diretta ai singoli autori è impossibile».
Basandosi sulle testimonianze dei sopravvissuti, sulle prove forensi, sui video e le dichiarazioni di alcuni terroristi catturati, il libro sostiene che la violenza sessuale non è stata incidentale, ma parte di una strategia genocida deliberata. Redatto da un team interamente femminile di esperte di diritto e genere riconosciute a livello mondiale, il rapporto di Dinah sfida i governi, la Corte penale internazionale, le Nazioni Unite e gli organismi per i diritti umani ad agire: chiede di perseguire Hamas per crimini contro l’umanità e di inserire il gruppo fondamentalista nella lista nera delle Nazioni Unite per l’uso della violenza sessuale come tattica di guerra.
«Non solo – dice Halperin-Kaddari a Tempi – occorre modificare gli standard legali internazionali su come affrontare la violenza sessuale in situazioni di guerra. Questo non è solo un libro su Israele, ma un caso di studio legale globale per affrontare la violenza sessuale legata ai conflitti in tutto il mondo. La violenza sessuale non è stata accidentale, ma parte di una deliberata strategia genocida, una intenzionale e strategica arma utilizzata per disumanizzare le vittime, seminare paura e degradare la famiglia, il gruppo, l’etnia, la nazione a cui la vittima appartiene. Attaccando la sessualità , una della fonti primarie di vita e simbolo della continuità della esistenza della comunità manda un messaggio di morte e distruzione a tutti».Â
La violenza sessuale in guerra pone questioni legali e sociali complesse. Il 7 ottobre, come in molti altri casi nel mondo, molte vittime sono state uccise, i corpi bruciati. Non possono parlare. Dopo le urla le avvolge il silenzio. I sopravvissuti e gli ostaggi rilasciati spesso sono troppo traumatizzati per testimoniare contro i loro abusatori e le prove forensi necessarie a una incriminazione sono difficili da ottenere sulla scena del crimine devastata nelle zone di guerra. Questo crea profonde difficoltà a raccogliere le basi per ottenere giustizia. Per superare questi ostacoli e assicurare la possibilità di perseguire i criminali e portarli davanti ad un giudice, il progetto Dinah ha sviluppato una cornice legale innovativa.
Il punto non è solo colpire i colpevoli diretti, è riconoscere le ferite profonde inflitte agli individui e alle comunità . Ristabilire la verità storica e prevenire future atrocità perché simili atti in futuro non restino impuniti. Il rapporto è dettagliato: la violenza sessuale è stata consumata al Nova Festival, sulla strada 232, alla base militare di Nahal Oz, nei kibbutz Re’im , Nir Oz e Kfir Aza.
Alcune vittime sono state trovate nude con le mani legate, spesso ad alberi o pali, stuprate e uccise in modo atroce, con i genitali mutilati. Il rapporto, spedito alle Nazioni Unite, descrive nei dettagli i crimini avvenuti durante il festival, nei kibbutz, nelle basi militari e nei tunnel a Gaza. Familiari sono stati costretti ad assistere agli abusi sessuali su amici e parenti prima che fossero uccisi. Le vittime avevano chiodi, granate, sbarre di ferro e coltelli inseriti negli organi sessuali. Una donna aveva i genitali «come se qualcuno l’avesse fatta a pezzi», dice un medico forense.

Le violenze sessuali sono continuate durante la prigionia. Nudità forzata, assalti sessuali fisici e verbali, minacce di matrimoni forzati. Molte vittime sopravvissute sono ancora troppo traumatizzate per parlare. Altre stanno ritrovando solo ora il coraggio e la forza per raccontare cosa è accaduto e vincere il terribile senso di vergogna che le attanagliata, orribile effetto collaterale, ulteriormente disumanizzante, di questo genere di violenza. Le foto scattate durante le autopsie sono inequivocabili e troppo orrende per poter essere mostrate. Gli organi sessuali delle donne sono stati devastati, lacerati con ogni genere di strumenti acuminati, con efferato disprezzo. Le comunicazioni tra i terroristi che sono state intercettate confermano il racconto dei sopravvissuti. I terroristi si incoraggiavano a vicenda. Alcuni di quelli che sono stati catturati hanno ammesso. Avevano in tasca le istruzioni, frasi in ebraico da dire alle vittime per minacciarle e costringerle a sottoporsi agli abusi.
L’intento, in sostanza, era genocida, disumanizzante e ha coinvolto tutti coloro che hanno partecipato all’assalto, anche se non hanno personalmente commesso gli stupri. Per questo Dinah chiede di non abbassare il livello di responsabilità personale, ma di estenderlo alla responsabilità di quanti hanno partecipato in diverso modo alle atrocità : il contesto dell’attacco non è solo lo scenario, ma anche la prova dell’intento dello stupro di massa.
«In sostanza – dice la giurista – lo scopo di Hamas era usare la violenza sessuale come parte di un intento genocida con l’obiettivo di terrorizzare e disumanizzare la società israeliana con significative implicazioni a livello internazionale. Un quadro che si deve estendere ad altri conflitti in corso. Non solo per dare giustizia alle singole vittime: la comunità internazionale non può permettere che simili crimini siano compiuti impunemente o minimizzati come singoli casi».
Resta aperta l’atroce questione della negazione o della minimizzazione da parte di molte organizzazioni internazionali. Il progetto Dinah ha faticato a trovare la collaborazione che si aspettava da parte delle Associazioni internazionali per i diritti delle donne e degli organismi dell’Onu nati a tutela delle donne, quando non ha dovuto fronteggiare aperte ostilità .
E i fatti denunciati sono ancora oggi negati, minimizzati, ridotti a singoli episodi o, peggio, in qualche modo riportati come inevitabili benché esecrabili “effetti collaterali” di una guerra “che ha ben altre ragioni”. Come se si temesse che dimostrare che le violenze sessuali in una situazione di conflitto non sono “ordinarie violenze” sminuisse le “ragioni per cui si combatte”. Per quanto riguarda il 7 ottobre il negazionismo è evidente. Ma attenzione: è una logica che si ritrova in diversi conflitti, in tutto il mondo. Vale per tutti.
Sbaglia chi pensa di poter confinare l’uso, l’abuso, il sadico accanimento, l’esercizio del potere sul corpo umano da cui nasce la vita a un passato ormai remoto di una barbara umanità . Sono dinamiche che appartengono al presente, in tutti i continenti, in tutte le guerre, note o dimenticate, vicine o lontane. Vedremo come si muoveranno le Nazioni Unite: Dinah chiede un’ulteriore missione internazionale di accertamento dei fatti, alla luce del crescente numero di prove. Chiede che i crimini vengano riconosciuti come specifici reati e possano essere perseguiti tutti coloro che li hanno, in diversi modi, commessi o aiutato a commetterli. Aggiungerei: colpevoli anche quanti questi stupri li hanno esaltati o consapevolmente negati.
Cristo, cristianesimo, cristianità sono cose diverse ma certamente collegate fra loro. Separarle radicalmente può comportare un rifiuto del mistero cristiano fondamentale, che distingue la fede dalle altre religioni: il mistero dell’Incarnazione. Cristo non ha disprezzato nulla dell’uomo, se non il peccato. Il Creatore si è fatto creatura. Confonderli però sarebbe altrettanto fuorviante. Cristo ha fondato la Chiesa che è il cristianesimo nella storia e dalla predicazione del Vangelo sono nate nella storia alcune società cristiane, delle cristianità , i cui errori non sono colpa di Cristo (e nemmeno del cristianesimo), ma hanno avuto, e avrebbero, il merito di rendere più praticabile la vita cristiana per gli uomini. La cristianità serve ai piccoli e ai poveri, ai più deboli, perché li aiuta nella via della salvezza e della santificazione.
“Siamo alla fine della cristianità †titolava il Corriere della Sera di alcuni giorni fa riprendendo un intervento del card. Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. Viene un po’ da sorridere, pensando da quanti decenni si parli della fine della cristianità fra i cattolici (e non solo), come ha fatto notare lo stesso cardinale, il quale ha opportunamente detto anche che fine della cristianità non significa fine del cristianesimo.
Vogliamo provare a mettere un po’ d’ordine in questo dibattito confuso e spesso fuorviante?
Di cristianità ce ne sono state diverse, in Oriente e in Occidente, ma quella a cui normalmente si fa riferimento è il frutto della prima evangelizzazione, che dopo l’Editto di Milano del 313 permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo liberamente nei confini dell’impero romano. Da questa predicazione nasce una cultura, cioè un giudizio sulla realtà della vita anche pubblica dei popoli, che arriva a “toccare†le istituzioni. Nasce così una civiltà , prima l’impero romano cristianizzato poi la cristianità medioevale, una civiltà cristiana occidentale che dura circa un millennio, da Costantino allo “schiaffo di Anagni†(1303), che certifica secondo una certa interpretazione storica un dissidio “ideologico†fra Chiesa e potere politico.
Questa «società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio», per usare l’espressione di san Giovanni Paolo II, non è l’unica possibile e non è stata priva di colpe anche gravi, ma ha comunque impresso i valori evangelici nella cultura, nell’arte, nella carità , in generale nella vita quotidiana.
Qualcuno però l’ha contestata, anche all’interno della Chiesa, rifiutando l’idea stessa di chiesa costantiniana, troppo vicina al potere politico, auspicando invece una Chiesa come “separata†dalla storia.
Così, questi cattolici ostili all’idea di cristianità non hanno apprezzato il grande sforzo operato dalla Chiesa, in primis dal suo Magistero, per difendere e riconquistare il consenso perduto, opponendosi al processo di scristianizzazione messo in atto da forze anti-cristiane durante l’epoca delle ideologie (1789-1989).
Una cosa detta dal card. Zuppi è certamente vera: quella cristianità non c’è più e non da oggi. Lo ha scritto ripetutamente il Magistero almeno da Pio XII, sforzandosi di imprimere nel vissuto delle comunità cristiane uno spirito missionario, che sta alla base della “nuova evangelizzazioneâ€. Questa consapevolezza è importante perché è la base di quello che tutti i pontefici chiedono da prima della Seconda guerra mondiale e in modo particolare ha chiesto la Dichiarazione Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici (1965): la consecratio mundi, o se preferiamo l’«animazione cristiana dell’ordine temporale».
Quindi, ricapitolando: la cristianità non c’è più, ma rimane il cristianesimo, seppure minoritario, e rimane la Chiesa, diversa e uguale a quella medioevale e anche a quella del Concilio di Trento (1545-1563). Quest’ultima, in particolare, era la Chiesa fondata sulla parrocchia guidata da un sacerdote (qualcuno l’ha definita una “civiltà parrocchialeâ€), mentre oggi il Magistero chiede (senza molto ottenere) il coinvolgimento dei laici e soprattutto lo sforzo per fare penetrare il Vangelo fra “i lontaniâ€, fra coloro che per diversi motivi non frequentano la Chiesa, che non sono più gli avversari dell’epoca delle ideologie, ma semplicemente il triste e drammatico risultato di una secolarizzazione sempre più selvaggia.
Ecco allora che la strada è indicata: la nuova evangelizzazione, che presuppone una Chiesa missionaria, composta anche e soprattutto da laici formati, per i quali il Catechismo della Chiesa Cattolica non sia un oggetto con cui riempire le librerie, ma qualcosa da leggere e studiare, perché altrimenti non saremo in grado di “rendere ragione della speranza che è in noi†(1 Pt, 3-15).
L’esito di una nuova evangelizzazione è nelle mani di Dio, ma essa certamente prevede anche la diffusione della dottrina sociale della Chiesa attraverso cui la fede diventa cultura e può dare vita a una nuova cristianità , alla “civiltà della verità e dell’amore†ripetutamente evocata dai Papi. Quali poi potrebbero essere le caratteristiche di questa cristianità non è dato sapere: certo, sarebbe assurdo non tenere conto di tutto quello che è successo nei secoli della modernità : il pluralismo religioso dopo gli spostamenti delle popolazioni, la diffusione e il fallimento delle ideologie, la secolarizzazione dei costumi, le tossine lasciate dalla “dittatura del relativismoâ€. Eppure, Dio è più grande rispetto al tanto male che è stato diffuso, e gli uomini possono convertirsi, sollecitati dalla Grazia e dopo una proposta seria e affascinante.
Ma credo sia proprio questo il punto: siamo convinti e siamo preparati per fare questa proposta oppure siamo succubi del “pensiero dominante†che ci vuole sottomessi al “politicamente corretto†al punto dall’avere dimenticato la bellezza del nostro patrimonio cristiano?
Il Canada ha pubblicato (con enorme ritardo) il sesto rapporto annuale sull’eutanasia. Nel 2024 sono decedute attraverso il cosiddetto Aiuto medico a morire (Maid) 16.499 persone, il 6,9% in più del 2023 (15.247). Dalla legalizzazione dell’eutanasia, nel 2016, sono morte più di 76 mila persone e l’aumento percentuale in otto anni è stato del 1.520%, dati mostruosi che dovrebbero servire da monito a tutti coloro che vogliono approvare una legge sulla “buona morte”.
Anche il Canada, come altri paesi, fatica a tenere il conto di quante persone decidono di porre fine alla propria vita con l’eutanasia. Nel rapporto sono presenti infatti incongruenze delle quali, però, il governo sembra non curarsi. Secondo i dati nazionali, ad esempio, in Quebec sono morte 5.998 persone e nella British Columbia 2.997. Ma i numeri rilasciati dalle singole province parlano rispettivamente di 6.058 decessi e 3.000. A che cosa è dovuta questa discrepanza di 63 persone? Mistero.
Non è un mistero, invece, che da quando in Canada è stata approvata nel 2021 la legge C-7 – che garantisce l’accesso all’eutanasia anche alle persone la cui morte non è «ragionevolmente prevedibile» (il cosiddetto “track 2”) – il numero di disabili uccisi con il Maid è aumentato a dismisura.
Se il numero di decessi, come detto, è aumentato del 6,9% nel 2024, quello dei casi rientranti nel Track 2 è cresciuto del 17%. Se nel 2021 sono morti 224 pazienti Track 2, nel 2022 il dato è salito a 469, nel 2023 a 625 e l’anno scorso a 732.
La legge prevede per accedere al Track 2 che il malato sia affetto da una «condizione medica grave e irreparabile», ma che cosa questo significhi nel concreto nessuno lo ha mai stabilito per legge.

Se l’eutanasia è stata approvata in Canada, come nel resto del mondo, per alleviare le sofferenze dei malati, il dolore non è neanche lontanamente tra le cause che spingono i canadesi a richiedere l’eutanasia.
Le prime cinque motivazioni citate dai malati che hanno chiesto l’eutanasia in Canada nel 2024 sono: 1) perdita della capacità di impegnarsi in attività significative, 2) perdita della capacità di svolgere le attività più comuni della vita quotidiana, 3) perdita di indipendenza, 4) perdita di dignità e 5) disagio emotivo, ansia, paura e sofferenza esistenziale. Il dolore viene solo al sesto posto.
Nel 2024, il 31,6% di tutti i casi di eutanasia ha riguardato persone con disabilità nel Track 1 (4.858) e addirittura il 61,5% nel Track 2 (437).
In termini assoluti, dunque, un canadese su tre che riceve l’eutanasia è disabile. Non solo. Una persona su quattro ha citato la solitudine e l’isolamento come causa principale per richiedere la “buona morte”.
Bisogna notare infine che nel Track 2 una persona su tre aveva problemi di salute mentale (oltre a patologie di natura fisica). A partire dal 2027 sarà sufficiente essere affetti da disturbi mentali per chiedere la “buona morte”. È facile prevedere per allora una nuova ondata di casi.
Anche per questo il problema del Canada si è ribaltato in meno di dieci anni: il paese è passato dal cercare di allargare le maglie dell’eutanasia al tentare disperatamente di restringerle.
Per questo a Ottawa si sta discutendo del disegno di legge C-218, il “Right to Recover Actâ€, che renderebbe illegale fornire l’eutanasia soltanto a chi ha problemi mentali.
Ma una volta aperto, non è facile richiudere il vaso di Pandora dell’eutanasia. Il Dipartimento della salute pubblica (Health Canada), ad esempio, ha pubblicato nuove linee guida per richiedere a medici e infermieri «di sollevare la possibilità dell’eutanasia con pazienti che potrebbero essere d’accordo o potrebbero avere i requisiti per accedere al Maid».
Questo punto contraddice clamorosamente una promessa fatta inizialmente dalle istituzioni canadesi: che nessuno sarebbe stato “spinto” a chiedere l’eutanasia e che un’iniziativa in tal senso sarebbe dovuta venire soltanto dal paziente.

Ma da tempo non è più così. Ha fatto scalpore, ad esempio, la notizia diffusa da un veterano canadese su un’email inviata dall’Associazione dei veterani di Nova Scotia. Nella missiva, l’Associazione invitava tutti i membri a partecipare il 20 novembre in una parrocchia anglicana a un incontro sull’eutanasia.
«Sono scioccato», ha dichiarato il veterano. Soprattutto perché il dottore invitato a parlare del Maid era Gordon Gubitz, che ad agosto ha dichiarato all’Atlantic: «L’eutanasia mi dà energia, è il lavoro più significativo della mia carriera. È triste che una persona debba soffrire tanto. È triste che una famiglia sia sconvolta dal dolore. Ma sono così felici che una persona ottenga ciò che desidera».
Narrano le cronache del giornale locale che nel mio paese, non vi dirò quale perché vorrei che assumesse quasi un ruolo e una funzione paradigmatica nella questione cui voglio accennare, la scorsa settimana un consigliere, credo di Forza Italia, è intervenuto in Consiglio comunale sul decremento demografico e sul conseguente calo delle iscrizioni nelle scuole elementari e medie dello Stato.
Tanto per essere più precisi, dirò che questo mio paese, né piccolo né grande, si trova in Brianza, a nord di Milano, lungo la superstrada che porta ai laghi, al confine con la provincia di Lecco.
Dunque, qui la situazione è appunto tale da essere, credo, paradigmatica. Calo sempre più vertiginoso delle iscrizioni, aule che si svuotano, palestre e servizi che rimangono inutilizzati, costi che rimangono invariati e di conseguenza, percentualmente, esorbitanti. Tanto che l’amministrazione comunale sta pensando per intanto di accorpare i plessi. Che farne, poi, di tutto il ben di Dio rimasto vuoto, si vedrà .
Embè, direte voi, che c’è di nuovo? Non è così in tutt’Italia? È vero. C’è però che, in questo paesotto brianzolo, si dà una ricca presenza di scuole libere (un tempo si sarebbero chiamate “privateâ€) di ogni ordine e grado. Dalle materne, elementari, medie, per passare alle professionali e finire al liceo. Ebbene succede che, mentre nelle scuole statali gli alunni calano e calano, nelle scuole paritarie crescono e crescono. Tanto che mentre, diciamo così, nelle scuole dirimpettaie si pensa alle dismissioni degli spazi, nelle paritarie si è costretti a contorcimenti vari e vite d’inferno per trovarne di sempre nuovi.
Nel suo intervento il consigliere di Forza Italia ha puntato il dito sul fatto che troppo spesso chi opera nelle scuole statali è come se ritenesse il proprio ruolo e la propria funzione “dovutaâ€, “scontataâ€. Tanto da non preoccuparsi di rendere attrattiva la propria offerta formativa. O, addirittura, da non preoccuparsi affatto. Tanto, dice, siamo lo Stato, di riffa o di raffa sempre qui devono venire. In più siamo gratis… Diversa la temperie, suggerisce sempre quel consigliere nel suo intervento, dove il soggetto educatore che è la famiglia sceglie la scuola in forza della sua offerta formativa.
E, sempre per proseguire nel confronto, aggiunge due piccole note il consigliere: nella prima è messa a paragone la conduzione di entrambe. Da una parte una “reggenza†vecchia di anni con un posto di dirigente vacante, colmato da una figura esterna. Un’assenza più che una presenza, fatte salve le inevitabili e dovute incombenze burocratiche. Dall’altra consigli di amministrazione che si propongono, vengono eletti e si rinnovano periodicamente in forza del gradimento riscosso nell’utenza. È inutile che io precisi quale sia la conduzione delle une e quella quale dell’altra.
Nella seconda nota è messa a paragone da una parte l’assenza di volontà , più che di capacità , di innovare, progettare e individuare percorsi attrattivi. Dall’altra un’attenzione ai bisogni che ha portato le paritarie a proporre, ad esempio, “la scuola media senza compiti†pensando ai ragazzi più fragili e con bisogni particolari per cui la scuola li segue ogni giorno fino alle 17 del pomeriggio.
La mancanza di alunni, lo svuotamento delle classi con inevitabili progetti di spostamento e accorpamento, aggiunge poi un ulteriore piccolo problema, credo, anche qui ormai generalizzato in tutto il Belpaese: le scuole statali raccolgono la grande maggioranza degli stranieri con una presenza sempre più importante di alunni che necessitano di particolare attenzione e assistenza educativa.
Questa ultima annotazione del consigliere di Fi non è parsa vera al consigliere del Pd che ha preso la palla al balzo per rimarcare che la scelta per le scuole libere è possibile solo a chi se lo può permettere. Quindi ai ricchi. Mentre per i poveri e gli emarginati, le ingiustizie eccetera eccetera.
Ora, forse quel consigliere del Pd avrà creduto di aver fatto gol e di aver chiuso la partita e palla al centro. Non è così. So di dire cose sapute e risapute, trite e ritrite, ma se invece di ostinarsi pervicacemente sull’ostracismo verso le scuole libere, se invece di continuare a sostenere costi più che doppi ad alunno per una scuola statale con un’offerta formativa tendente allo zero, se la sinistra nostrana avesse aperto a un minimo di libertà di educazione, se avesse aperto a un minimo di pluralismo di offerta formativa, con libertà di scelta a parità di condizioni, con anche un po’ di competizione fra scuole statali, obiettivi e incentivi di risultato, oggi forse l’italico sistema scolastico non si troverebbe nella situazione che sappiamo. Libertà di educazione: meno costi per tutti, più libertà per tutti.
Invece, ecco la nemesi storica: la sinistra per essere contro le ingiustizie e contro il razzismo finisce per essere di fatto, ingiusta e razzista. Buone scuole per chi può e scuole recinto per chi non può. Bravi, complimenti.
In quel Consiglio comunale, a dire il vero, non è poi risuonata l’ulteriore obiezione che da sempre attraversa questa interminabile querelle vecchia di decenni: “Ma le scuole libere sono scuole ideologicamente orientate, religiosamente ispirate. E chi non crede? Buttate fuori tutti quelli che non credono?â€. Si opererebbe così – questa è l’obiezione – un’insopportabile esclusione. Il tutto mentre nello Stato regnerebbe, sovrana, l’inclusione.
Lo diciamo da subito: la risposta a quest’obiezione non può essere in punta di principio, ma solo esperienziale, di fatto. Posto che bisognerebbe capire quale inclusione regni in classi in cui ormai la maggioranza degli alunni non parla italiano ma, a volte, anche due, tre lingue diverse, vorrei aggiungere che bisogna imparare a fidarsi un po’ di più di chi per storia e tradizione sente come proprio il compito di una responsabilità educativa.
Sempre in questo paesotto brianzolo una ventina d’anni fa si fondò un liceo “cristianamente ispiratoâ€. Fu intitolato al beato don Carlo Gnocchi, il prete dei mutilatini di guerra. Ebbene, a proposito di pluralismo e chiusura ideologica, ricordo che il primissimo consiglio di amministrazione aveva nel suo seno un eminente rappresentante locale della comunità musulmana. Un musulmano contribuiva a dirigere una scuola cristiana? Ebbene sì. E, ancora e sempre nel suddetto paesotto, è presente una scuola di formazione professionale nata anch’essa dalla passione educativa di una comunità cristiana, voluta soprattutto per ragazzi in difficoltà famigliare e scolastica, e che oggi accoglie in gran parte ragazzi di etnie e religioni differenti.
Bisogna fidarsi un po’ di più di chi, per storia, sente tra i propri compiti, quasi naturalmente direi, la responsabilità educativa.
La proposta cristiana, che è quella che pratico e conosco, non nasce per chiudere qualche malcapitato in una prigione chiamata religione ma per aprire all’umano.
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Ps 1. Mia moglie che ha insegnato per quarant’anni come maestra elementare, anche in quella scuola del paesotto brianzolo, e che ora è in pensione, non ha dubbi: «Tutta colpa dei sindacati». Lo so che mia moglie è monomaniacale e per lei sarebbe colpa dei sindacati anche quando il minestrone viene troppo salato, ma non vuole sentire ragioni: «E non farmi parlare del personale docente che vedo entrare nelle scuole. Dicono: siamo nello Stato e dello Stato, e chi ci tocca a noi?». Difficile darle torto: tutti sappiamo il non edificante scambio su cui sono vissuti i sindacati. Posto di lavoro non esaltante, stipendi non esaltanti, status sociale non esaltante, ma posto di lavoro a vita, stipendio a vita, status sociale a vita.
Ps 2. Tanto per dire cosa è la scuola di Stato. Sempre la stessa moglie, da qualche anno ormai, dopo essere andata in pensione, si reca, qualche giorno la settimana, per affiancare le maestre e seguire personalmente alunni particolarmente in difficoltà . Ebbene, le normative obbligano chiunque entri nella scuola, per qualsiasi attività , a un’assicurazione. Son poche lire, ma quando si dice il principio: a mia moglie hanno fatto sapere che deve fare un’assicurazione e in più che se la deve pagare da sé, di tasca propria. Così ecco che oltre a dare la disponibilità a lavorare gratis, a far risparmiare soldi allo Stato (perché comunque il servizio andrebbe garantito), ci deve aggiungere del suo.
Ps 3. In questi anni abbiamo assistito al tentativo di riempire il vuoto educativo con il proliferare delle competenze e delle ripartizioni di competenze. Dai corsi sulle foglie trilobate all’incidenza della reattività del quarto metacarpo sulla percezione spazio-temporale, alle scienze dell’allevamento, all’igiene del cane e del gatto, ai corsi sugli zombie (tutto vero), all’astrobiologia, ai corsi motosega 1 e motosega 2, a “corpo affetti e relazioniâ€, a “gli alieni sono tra noiâ€, a “progetta il tuo alienoâ€, alla meditazione mindfulness, alla consapevolezza del respiro, a “esplorare e sentire il proprio corpoâ€. Di tutto di più. Ebbene, bisognerà farsene una ragione. Le competenze ormai si vanno a prendere da tutt’altra parte che non a scuola. E sarà sempre più così. Cara scuola, la fonte del sapere non è più in te. Media, social, intelligenza artificiale, podcast, tutor virtuali, compagnie, di tutto di più. Occorrerà tornare a dare spazio, saremo obbligati a dare spazio, a chi vive di passione educativa e ancora va a scuola per educare alla libertà e, quindi, al discernimento critico. Quel che vale e va guadagnato e quel che no. Quel che è buono e va custodito e quel che no. Quel che è fondato e va approfondito e quel che no. Ci sarà una sorta di selezione naturale e rimarrà sul campo chi ancora crede che tirare grandi gli uomini sia il lavoro, forse più difficile, ma più importante al mondo. Avventurieri dell’umanità , altro che statali (a scanso di equivoci, conosco insegnanti dello Stato che sono commoventi nel loro andare oltre la capacità digestiva del grande moloch).
Nel Paese dei Normali vive un uomo che parla col cane. Non per follia, ma per mancanza di alternative. Dice che almeno il cane non interrompe, non fa domande e non gli chiede come si sente. Si chiama Arturo, il cane, ma risponde solo quando gli conviene: praticamente è già un essere umano.
Ogni mattina l’uomo gli racconta le notizie. “Oggi sciopero dei treni.†Il cane sbadiglia. “Caro, tu almeno ce l’hai un lavoro.†Poi prepara il caffè e ne versa un goccio nella ciotola, “per solidarietà nervosaâ€. Parlano di tutto: politica, calcio, senso della vita. Su quest’ultimo tema il cane vince a mani basse.
Al parco, l’uomo osserva gli altri padroni che chiamano i cani con nomi da influencer: Chanel, Tesla, Freud. Lui scuote la testa. “Arturo è un nome da disoccupato, ma con dignità .†Quando qualcuno gli chiede se non si senta solo, risponde: “Mai. Ho un essere vivente che mi ascolta senza contraddirmi. È più di quanto mi abbia dato la mia ex.â€
Una volta ha provato a uscire con una donna conosciuta online. Lei ha detto “Io amo gli animaliâ€, ma poi ha chiesto ad Arturo di non salire sul divano. Fine dell’idillio. “Gli uomini tradiscono, i cani noâ€, ha detto tornando a casa. Arturo ha abbaiato due volte: sembrava ridere.
Ha capito che la fedeltà non è questione di specie. Così ogni sera apre una birra, guarda Arturo e dice: “Tu mi capisci, vero?†Il cane lo fissa, scodinzola e pensa solo “cenaâ€. È il momento più sincero della loro giornata.