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Fino a tre anni fa Hanna Hansen, nome di battesimo Victoria Stadtlander, modella, madre di due figli, ex campionessa mondiale di kickboxing e pugile di successo, avrebbe potuto lottare per un titolo mondiale in Belgio. Un sogno per cui aveva lavorato duramente per tre anni. Ma nel dicembre 2022, al termine di un allenamento, una barra nera le attraversò la vista. Diagnosi: distacco della retina. Prognosi: fine della carriera. Qualunque pugno avrebbe potuto portarla alla cecità .
Oggi Hanna Hansen è probabilmente l’influencer salafita più nota in Germania. Con oltre 500.000 follower, è considerata una stella nascente tra i musulmani su TikTok e Instagram. Ed è sotto “sorveglianza” dell’Ufficio bavarese per la protezione della Costituzione quale «influencer islamista».
Cosa è successo quando ha appeso i guantoni al chiodo? Secondo l’esperta di islamismo Sigrid Herrmann, l’ex pugile ha trasformato la ricerca di senso e significato della vita «in un nuovo modello di business». Tutto documentato sui social, dove «similmente ai predicatori maschi, Hansen si finanzia attraverso servizi basati sulla sua nuova fede»: iscrizioni a pellegrinaggi, raccolte fondi, tesseramento alla sua associazione Helfende Hand eV che porta aiuti in Marocco, Afghanistan, Pakistan, Gambia, Somalia, Sudan, Ciad, Kosovo e Siria.
L’Ufficio per la protezione della Costituzione ne documenta l’ascesa dall’inizio del 2024: «Grazie alle sue attività e alla sua presenza sui social media, è riuscita a diventare in brevissimo tempo un’attivista di spicco sulla scena islamista». Nella primavera del 2024, Hansen inizia a tenere comizi al fianco del predicatore salafita Abu Alia della piattaforma “Islamstudium” raccontando il suo percorso: lontana dal mondo «anti-islamico e presumibilmente amorale» della moda, della musica e delle arti marziali, verso la fede. «La convertita collega la sua “narrazione del risveglio†a un appello alle giovani donne affinché comprendano il velo e l’hijab come un mezzo di emancipazione e rimuovano il secolarismo dalle loro vite».
Nel novembre 2024 Hansen diventa la terza moglie del predicatore islamista Sven Lau, noto per precedenti penali e condanne per sostegno a gruppi terroristici. Le autorità di sicurezza vedono questo matrimonio come un legame pericoloso. Lau è amico del predicatore d’odio Pierre Vogel, anche lui ex pugile e convertito all’Islam. In quanto donna, Hansen ha di fatto palancato «nuove strade» alla propaganda salafita femminile, praticamente senza concorrenza, aumentando enormemente la sua influenza.
«Nonostante le sue vaste attività nel campo della “da’wa” (proselitismo) – scrive ancora l’organo di intelligence del Land Baden-Württemberg -, Hansen non ha una formazione teologica islamica formale. Può solo dimostrare di aver conseguito studi di base in studi islamici presso un’università serba. […] Hansen promuove l’islamismo più come uno stile di vita che come un più profondo impegno teologico con l’ideologia islamista. Una componente centrale della sua agitazione è la demarcazione e la denigrazione dello stile di vita occidentale, che descrive come immorale e corrotto. […] Propaga un forte dualismo tra credenti e non credenti (ostili ai musulmani), così come tra bene e male. Secondo lei, i musulmani in Germania e in Occidente affrontano pericoli e tentazioni ovunque, che saranno puniti con il fuoco eterno dell’inferno nell’aldilà . Inoltre, sostiene che lo Stato tedesco combatta attivamente i musulmani attraverso presunte misure repressive».
Hansen fa parte di un nuovo movimento femminile musulmano attivo in Germania (vedi gli incontri della rete di “sorelle” tra Monaco e Friburgo) e in rapida espansione su TikTok e Instagram. «Giovani e devote donne musulmane stanno assumendo un ruolo sempre più importante nelle pubbliche relazioni islamiche, da quelle conservatrici a quelle fondamentaliste», ha scritto Emma, rivista femminista tedesca in una lunga inchiesta segnalata qualche tempo fa dal Feministpost. Video patinati con versetti coranici e consigli di trucco, Ramadan e rossetto, presentano la donna musulmana casta e velata come antitesi della donna occidentale «peccatrice».
Le “influencer halal†raggiungono milioni di ragazze e ragazzi, plasmando la coscienza religiosa della giovane generazione digitale. I video sono realizzati con cura cinematografica: Netflix style, ma con un messaggio chiaro: l’Islam come cultura pop e identità separata dalla società occidentale.
L’hijab, simbolo visibile dell’Islam, gioca un ruolo centrale e non è solo visto come un obbligo religioso, ma reinterpretato come atto di autodeterminazione. Le donne dovrebbero indossare il velo «come una corona», consiglia l’influencer Amal Kobeissi. L’hijab fa brillare le donne «come principesse» e le rende più forti di fronte alle ostilità . Kobeissi, donna di origine tedesca con radici libanesi, pubblica su TikTok la sua vita familiare quotidiana intervallata da messaggi religiosi e politici. Con oltre 220.000 follower su Instagram e mezzo milione su TikTok, è una delle influencer musulmane di lingua tedesca più influenti. Ha lanciato persino una linea di moda di veli, promuovendola come naturale estensione della sua religione.
Come Kobeissi, altre influencer spiegano in migliaia di video perché indossano il velo, come reagisce la società e come vengono spesso emarginate. L’hijab diventa simbolo di emancipazione: le donne sarebbero rispettate nell’Islam e libere di praticare la loro religione. La realtà di molti paesi musulmani, dove le donne sono costrette a portarlo o punite per violazioni, non intacca l’immagine glamour dei video su TikTok.
La guerra di Gaza ha recentemente innescato nuove conversioni. Fenomeno già osservato tra terroristi occidentali dell’Isis, circa il 20 per cento dei quali si era convertito durante i combattimenti in Siria. Lo Stato Islamico ha promosso il suo paradiso digitale: nobili jihadisti che combattono per Allah, donne rispettate e «non ridotte ai loro corpi». Molti influencer musulmani operano in rete sostenuti da associazioni e organizzazioni, partecipando a seminari e scambi di informazioni. Parte dei finanziamenti proviene dall’estero, dagli Stati del Golfo. Le influencer donne rappresentano la controparte amichevole dei vecchi sceicchi barbuti, ricorda ancora Emma: non incitano all’odio, ma i loro messaggi fanatici non sono meno pericolosi, semplicemente confezionati in chiave femminile e pop.
TikTok e Instagram accelerano questa tendenza, visibile nelle scuole e nelle università . Insegnanti riferiscono di ragazze con velo e ragazzi che controllano il rispetto di preghiere e Ramadan, prendendo informazioni direttamente da internet. Un’insegnante di Vienna racconta di studentesse che si nascondevano nei bagni per mangiare durante il digiuno, temendo di essere smascherate.
Università tedesche come Kiel e Charité a Berlino hanno ospitato eventi segregati con predicatori salafiti, sollevando preoccupazioni politiche. Uno studio del 2024 dell’Istituto di Ricerca Criminologica della Bassa Sassonia (KFN) mostra quanto i giovani musulmani siano vulnerabili ai movimenti islamisti: il 46 per cento dei minori di 16 anni intervistati concorda con la teocrazia come miglior forma di governo. Hansen chiude idealmente il cerchio – dalla campionessa di kickboxing alla predicatrice, dalla vita pubblica nello sport a quella digitale nella religione -, incarnando una nuova generazione di influencer salafite che mettono in discussione la libertà e la sicurezza della società occidentale.
Nel Paese dei Normali c’è un medico condotto che visita tutti. Dal neonato al novantenne, dal cane ferito alla suocera malinconica. Viaggia con una Panda del ’98 che conosce a memoria le buche ma non le strade. Dice che ormai il navigatore lo guida per compassione.
Ogni sera torna tardi, e una sì, una no, si scorda dove abita. La moglie lo chiama e lui risponde da un posto diverso: «Tranquilla, stasera dormo dai signori Bianchi, hanno fatto il risotto». Una volta è rientrato con una coperta di pile ricamata: «Grazie, dottore». Non ricordava di chi fosse il ringraziamento.
Dice che la medicina moderna ha dimenticato la stretta di mano e lui la distribuisce come vaccino morale. Ha le tasche piene di prescrizioni, caramelle e biglietti della tombola. A volte sbaglia casa, ma mai diagnosi. Si commuove quando gli anziani gli offrono vino o salame. «L’alcol uccide – dice – ma solo chi non ha più nessuno che gli voglia bene».
Ogni tanto si addormenta nel corridoio di un paziente, scambiato per un parente lontano. Una volta ha curato il gatto di una signora convinta di avere la febbre. Ha misurato la temperatura a entrambi e ha prescritto riposo a tutti e due.
Quando finalmente rientra, la moglie lo abbraccia e gli chiede se almeno stavolta abbia curato se stesso. Lui risponde: «Ci ho provato, ma il paziente non collabora». Poi si addormenta sul divano con lo stetoscopio al collo, pronto a sognare la prossima visita.
Nel Paese dei Normali è l’unico che non guarisce mai del tutto, ma fa guarire gli altri solo con la sua confusione.
Non succedeva dal 3 novembre 2013, da quel giorno la Roma non era stata più così in alto all’undicesima giornata. In testa da sola, dopo aver raccolto ben 31 punti, frutto delle dieci vittorie consecutive iniziali e del pareggio in casa del Torino. Era allenata da Rudi Garcia, l’uomo che voleva riportare «la chiesa al centro del villaggio» e che dopo due turni si sarebbe ritrovato a inseguire la Juventus, poi campione d’Italia con largo anticipo.
Oggi il francese guida il Belgio, che ha raggiunto un’agile qualificazione mondiale grazie anche a un girone “amico” (Galles unica seria rivale, poi Macedonia del Nord, Kazakistan e Liechtenstein). Al suo posto, alla Roma e in testa, c’è Gian Piero Gasperini, mai partito così bene in una più che ventennale carriera professionistica. Un primato che condivide con l’Inter, parentesi della più cocente delusione dell’uomo che, insieme con Massimiliano Allegri, ricopre a maggior titolo il ruolo di allievo dell’appena scomparso Giovanni Galeone.
Gasperini atterra ad Appiano Gentile nel 2011 dopo aver centrato una promozione in B e una salvezza con il Crotone e dopo aver portato il Genoa in Europa, come ai tempi belli di Osvaldo Bagnoli. A Milano lo chiama Massimo Moratti, ancora alla ricerca del giusto erede di José Mourinho. Un presidente umorale, difficile da gestire. Gasperini pensa di essersi allenato con Enrico Preziosi, ma si sbaglia.
La campagna acquisti non è all’altezza delle aspettative, l’avvio è una sconfitta in Supercoppa nel derby con il Milan e il resto sono le punzecchiature di Moratti, ben felice di cacciarlo dopo il ko di Novara il 20 settembre (quarta giornata che è in realtà la terza, per uno sciopero dei calciatori nel turno di esordio). Una botta da cui il tecnico si riprende tornando al Genoa, non prima di aver vissuto una parentesi a Palermo con un presidente altrettanto impegnativo come Maurizio Zamparini.
Bruciato da una big, Gasperini si costruisce la sua a Bergamo, da dove riparte nel 2016. Avvio da brividi, con quattro sconfitte e una vittoria. Si parla già di esonero, lui si rilancia battendo Crotone in trasferta e, soprattutto, Napoli in casa. È l’inizio di una esperienza che dura nove anni, con l’Atalanta inserita stabilmente tra le grandi, qualificata in Champions, portata alla conquista di una storica Europa League nel 2024 e resa ricca dalle cessioni al mercato: ultimo esempio, i 68 milioni spesi dall’Al-Qadsiah per Mateo Retegui. Un rapporto solido con la piazza e la famiglia Percassi, proprietaria del club, ma con il desiderio di guardarsi intorno. Come avviene a fine campionato 2025.
Lo chiama Claudio Ranieri, che si congeda dalla panchina per diventare manager a tutto tondo. Una proposta talmente allettante da dire no alla Juventus, giunta fuori tempo massimo una volta scottata da Antonio Conte (con una telefonata – raccontano – di Damien Comolli già entrata nella leggenda del calcio: «Mi dica perché dovrei prenderla alla Juventus? Mi convinca». Risposta: «È lei che mi ha chiamato»).
La Roma deve ritrovarsi dopo essere stata portata in Europa dalla rimonta di Ranieri. A Gasperini chiedono di valorizzare il prodotto interno, sul mercato si fa il possibile. E proprio i malumori del tecnico su mancati arrivi mandano in estasi chi aveva puntato su una esperienza simil-Inter, in una piazza mai semplice. Niente di più sbagliato. Gasperini va oltre le trattative non concretizzate, i due centravanti (Dovbyk+Ferguson) che finora hanno garantito appena 2 gol, e i tanti malanni, a cominciare da quelli di Dybala. Recupera chi era stato messo da parte (non solo capitan Pellegrini, ma anche Celik ed Hermoso), rilancia protagonisti che si erano un po’ persi (Mancini e Cristante), dà fiducia a Soulé, oggi miglior marcatore con 3 reti e 2 assist.

La Roma segna poco (12 gol) e subisce altrettanto poco (5 gol, miglior difesa nelle “big five” d’Europa, insieme con l’Arsenal). Non pareggia, con 8 vittorie e 3 sconfitte. Soprattutto è già a immagine e somiglianza del suo tecnico, abituato a disegnare squadre su tempi medio-lunghi. E quindi aggressività , recupero palla («Non voglio aspettare l’errore dell’avversario per farlo»), occupazione degli spazi e soluzioni insolite anche in attacco: vedi l’assist in piena area di Mancini per Celik nel 2-0 all’Udinese.
Serviva un tipo pragmatico come Gasperini per far ritrovare un’anima alla Roma, dove finora sono stati bravi ad ascoltarlo: «La squadra mi segue». La media punti del tecnico è di 2,18, dietro solo al Fabio Capello (2,54) dello scudetto 2001, l’ultimo fuori dall’asse Milano-Torino (fronte Juventus), prima dell’inserimento del Napoli. Qui Luciano Spalletti ha vinto il titolo da allenatore più anziano, può batterlo il tecnico nato a Grugliasco il 26 gennaio 1958 e oggi il più vecchio di tutti in Serie A. E a Bergamo? L’operazione “figlioccio” del Gasp è stata un fallimento totale con Ivan Juric. Ci riprovano con Raffaele Palladino, allievo attento ai tempi del Genoa. Vedremo.
Da cinquant’anni in Italia c’è una parola che ritorna come una domanda inevasa: libertà . Non quella astratta ma la più concreta che esista, la libertà di educare. Era la sfida del Movimento popolare ed era la richiesta di don Luigi Giussani quando diceva «mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare». Quella battaglia non si è mai chiusa davvero ed è stata per decenni una battaglia storica del mondo cattolico, che ha portato sulle spalle il tema quando nessun altro lo considerava centrale per la vita del Paese.
Regione Lombardia raccolse quell’intuizione nel 2000 con il Buono scuola voluto da Roberto Formigoni, oggi diventato Dote scuola. Un altro passaggio decisivo arrivò con la legge 62 del 2000, la legge Berlinguer, che riconobbe come pubblico l’intero sistema scolastico, statale e paritario. Due conquiste importanti, ma non sufficienti. Perché la parità resta incompiuta. Da un lato, lo Stato dichiara che la scuola paritaria è parte del sistema pubblico. Dall’altro, lascia intatto l’ostacolo che impedisce la parità reale, cioè il differenziale economico. E qui bisogna essere chiari: non si tratta di sostenere le scuole dei ricchi. È esattamente il contrario: si tratta di consentire a tutti, a partire dai più poveri, di poter accedere alle scuole migliori. Come ha affermato papa Leone: «L’educazione dei poveri per la fede cristiana non è un favore, ma un dovere»!
Una famiglia che sceglie una scuola statale paga poche decine di euro. La stessa famiglia, se sceglie una paritaria, spende tra 2.500 e 12.000 euro per figlio, con una media tra 6.000 e 8.000. I numeri del Ministero, che rilevano esattamente i costi per lo Stato, danno valori simili: nell’ultimo anno scolastico sono stati 6.737 euro per allievo nella scuola dell’infanzia, 8.520 nella primaria, 6.770 nella secondaria di primo grado, 7.533 nella secondaria di secondo grado. A fronte di 80 miliardi di spesa pubblica annua per l’istruzione, alle paritarie arrivano solo 800 milioni, cioè l’1 per cento. Eppure, gli studenti delle paritarie sono 800 mila su 8 milioni, cioè il 10 per cento. Uno studente su dieci, un contributo pari a un decimo. Una sproporzione evidente.
Le paritarie, oltre a garantire pluralismo educativo, svolgono un ruolo che lo Stato raramente riconosce, perché sollevano la scuola statale da un carico enorme di iscrizioni e costi, offrendo un servizio pubblico reale a fronte di un contributo minimo. Però nelle attuali condizioni circa 200 all’anno sono costrette a chiudere.
Ma ancor prima dei numeri viene il riconoscimento di un diritto, scritto in almeno sei articoli della Costituzione, precisamente gli articoli 3, 30, 31, 33, 34 e 118. L’articolo 3 ordina di rimuovere gli ostacoli economici. L’articolo 30 affida ai genitori il dovere e diritto di educare i figli. L’articolo 31 sostiene economicamente la famiglia. L’articolo 33 riconosce che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato», ma impone un trattamento equipollente agli alunni. L’articolo 34 prevede borse di studio e «altre provvidenze economiche». L’articolo 118 tutela la sussidiarietà . Gli stessi principi compaiono nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, dove ai genitori viene riconosciuta la «priorità nella scelta del genere di istruzione» e il diritto di farlo «secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche».
Perché allora questo diritto non è esigibile? Per una lettura distorta della formula «senza oneri per lo Stato». Nel dibattito alla Costituente l’onorevole Epicarmo Corbino, il liberale che la propose, chiarì che non si voleva escludere il sostegno alle scuole non statali, ma solo evitare un diritto automatico ai fondi pubblici. Giovanni Gronchi temeva giustamente che quella formula potesse diventare un ostacolo alla libertà educativa. Ma gli altri liberali e azionisti, come Tristano Codignola, ricordarono che non vietava affatto interventi futuri e contributi di funzionamento (l’articolo 33 usa il verbo «istituire»).
Il senso autentico non era una chiusura, ma una cornice di responsabilità condivisa. La lettura restrittiva è nata dopo ed è stata spesso funzionale a un’idea di scuola come presidio culturale statale, se non addirittura luogo di indottrinamento ideologico. Non a caso questa posizione è largamente prevalente ancora oggi nella sinistra radicale (forse anche perché il 68% delle scuole paritarie è di matrice cattolica), che la liquida come sottrarre risorse alla scuola statale per darle alle scuole dei ricchi. Noi la pensiamo in modo opposto, vogliamo una scuola pubblica, cioè aperta e fruibile da tutti, ma non di Stato, perché la responsabilità educativa appartiene ai genitori, come dice la Costituzione.
Oggi questa responsabilità pesa ancora di più in un Paese colpito dalla crisi demografica. Meno studenti significa meno futuro, meno capitale umano, meno possibilità di sviluppo.
Per superare la disparità ci sono tre vie. La prima è porre gli stipendi dei docenti paritari a carico dello Stato, soluzione rischiosa perché chi paga orienta anche i contenuti. La seconda è un Buono scuola nazionale, capace di coprire dal venticinque al cinquanta per cento delle rette. L’emendamento presentato in queste ore da Nm e Fi alla Legge di Bilancio, prevede un contributo fino a 1.500 euro annui per chi ha un Isee sotto i 30.000. Molto utile, ma non risolutivo. La terza, la più lineare, è detrarre integralmente le spese scolastiche dal reddito imponibile. Costo massimo stimato 2,7 miliardi. In un Paese che spende 80 miliardi per la scuola e più di 900 miliardi di spesa pubblica complessiva è davvero insostenibile? E se aumentasse la scelta delle paritarie? Se cresce la qualità , migliora tutto il sistema, come accaduto nella sanità lombarda con la legge che ha introdotto competizione virtuosa tra strutture pubbliche e private accreditate.
La questione non è tecnica. È culturale e politica. Riguarda il capitale umano di un Paese che perde studenti, natalità e fiducia. Riguarda un popolo, quello delle paritarie, che si è assopito e ha smesso di rivendicare ciò che gli appartiene. Un diritto non esercitato diventa un diritto sospeso. Non si tratta di chiedere un favore. Si tratta di pretendere ciò che la Costituzione riconosce. Su un tema così decisivo non servono promesse, ma un Governo e un Parlamento disposti a investire un paio di miliardi all’anno sul capitale più prezioso di cui disponiamo. Chi ha investito 160 miliardi nel Super bonus 110 non ci venga a dire che è impossibile.
Le Associazioni firmatarie, in rappresentanza di famiglie, dirigenti, docenti e scuole sono particolarmente soddisfatti nell’apprendere che l’emendamento che propone l’avvio dell’introduzione di un buono scuola nazionale abbia superato il primo filtro del Parlamento e sia entrato tra i 414 considerati prioritari da discutere in aula, una prima gratificazione del grande lavoro svolto nell’ultimo anno teso a far riemergere i dettami della Costituzione che nel combinato disposto degli articoli 3, 30, 31, 33, 34, 118 sancisce che la libertà di scelta educativa è un diritto costituzionale e ad avviare una stagione di aiuti diretti alle famiglie. Ringraziano in particolare i Senatori di FI e di Noi Moderati che hanno creduto, seguito ed ottenuto questo risultato.
Si augurano che anche gli altri partiti di maggioranza, in coerenza con i positivi interventi tenuti sia dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sia dal Ministro Giuseppe Valditara a fine estate si uniscano loro e concretizzino l’approvazione dell’emendamento, a ulteriore potenziamento delle politiche di
sostegno alle famiglie.
Auspicano che i parlamentari della sinistra riformista, quella sinistra che con il compianto Ministro Luigi Berlinguer ha portato all’approvazione della legge di parità 62/2000, superati gli ostacoli ideologici, si uniscano all’approvazione dell’emendamento, memori dell’insegnamento di Luigi Berlinguer che ricordava sempre che la legge di parità è una legge di sinistra perché permette alle famiglie meno abbienti di poter usufruire di servizi che altrimenti sarebbero possibili solo ai ricchi.
L’emendamento è stato presentato in forma ridotta per avere minima incidenza sulla legge di bilancio e chiede una copertura di 20 milioni riferito ai soli dei settori della secondaria di I grado e del primo biennio secondaria di II grado, secondo quanto previsto dall’ articolo 3 della Costituzione.
Ribadiscono a quella parte di opposizione che subito ha reagito nella conosciuta modalità ideologica, che l’intervento richiesto non è un “regalo†alla scuola paritaria, ma uno stanziamento doveroso, nel rispetto degli articoli 3 e 30 della Costituzione, a permettere alle famiglie meno abbienti di esercitare il loro diritto costituzionale.
Seguiremo con attenzione il dibattito in Senato nella speranza che questo raggio di luce sia foriero di una bella giornata in cui finalmente le famiglie meno abbienti, dopo anni di emarginazioni, possano finalmente iniziare ad esercitare i loro diritti.
Le associazioni firmatarie:
Age – Associazione italiana genitori
Non si tocca la famiglia
Aninsei
Ditelo sui tetti
Fiinsei
Nonni 2.0
Comitato politico scolastico non statale
Assonidi
Opera nazionale Montessori
Articolo 26
Confederex
Disal
Faes
Associazione nazionale Famiglie numerose
Sindacato delle famiglie
Associazione italiana maestri cattolici
Generazione famiglia
Moige