NEWS - prima pagina - NEWS - politica - NEWS meteo

Cliccando su i link posti di seguito, si aprirà la pagina delle news relativa al titolo del link stesso


News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

#news #Società #Italiana #Diritto #Internazionale #Unione #Europea

Diritti Umani a cura di Giorgia Pane
Il mito (sfatato) della neutralità: il ruolo delle imprese nei crimini in corso nel territorio palestinese occupato alla luce dell’ultimo Rapporto Albanese

Emma Baldi (Università degli Studi di Milano); Giorgia Pane (Università degli Studi di Milano)

«The present report is written at the cusp of a profound and tumultuous transformation. Globally witnessed atrocities require urgent accountability and justice, which demand diplomatic, economic and legal action against those who have maintained and profited from an economy of occupation turned genocidal. What comes next depends on everyone.»

1.    Premessa

Il 1° luglio 2025 la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 ha pubblicato il suo ultimo rapporto, intitolato “From Economy of Occupation to Economy of Genocide†(da qui in avanti “il Rapporto†o “il Rapporto Albaneseâ€). Il testo rappresenta un’analisi senza precedenti della struttura economica che sostiene e beneficia del progetto coloniale israeliano, fondato sulla sistematica dislocazione e sostituzione della popolazione palestinese nel territorio occupato (occupied Palestinian territory, da ora “OPTâ€).

Il presente post si propone – nei limiti di spazio disponibili – di offrire un’analisi del Rapporto, ricostruendone i contenuti principali e il quadro giuridico di riferimento, per poi interrogarsi, alla luce di tali elementi, sulla tenuta della narrativa secondo cui l’attività d’impresa sarebbe neutrale in contesti di conflitto armato e occupazione militare.

Storicamente, le imprese hanno avuto un ruolo determinante nei progetti coloniali: fornendo risorse, infrastrutture, tecnologie e legittimazione economica, hanno contribuito a consolidare i processi di espansione e dominio territoriale (si vedano, per esempio, George, Stern). Come evidenziato dalla Relatrice Speciale, il progetto coloniale israeliano non fa eccezione: al contrario, si fonda esplicitamente su una duplice logica di trasferimento forzato e sostituzione («displacement and replacement»), nella quale attori economici – pubblici e privati, israeliani e internazionali – risultano coinvolti in modo strutturale e continuativo. Secondo la ricostruzione del Rapporto, questi attori parteciperebbero all’impalcatura dell’occupazione, dell’apartheid e, più recentemente, alla transizione verso una vera e propria «economia del genocidio», contribuendo a mantenerla, espanderla o trarne profitto.

Va chiarito, sin da ora, che l’obiettivo di questo contributo non è quello di analizzare nel dettaglio le singole categorie giuridiche legate alla responsabilità delle imprese – complicità, facilitazione, partecipazione, istigazione – né di soffermarsi su distinzioni tecniche tra responsabilità civile, penale o internazionale. Per ragioni di spazio e di finalità, l’analisi si concentra piuttosto sull’evidenziare in che modo la presenza e l’operato delle imprese abbiano inciso – e continuino a incidere – nella realizzazione materiale del piano coloniale israeliano nell’OPT. In tal senso, termini come “partecipazioneâ€, “facilitazione†e “assistenza†saranno utilizzati in modo descrittivo, per indicare i diversi modi attraverso cui le imprese, in molteplici settori, risultano implicate nella violazione di norme fondamentali del diritto internazionale.

Il post si articola in quattro sezioni. Nella prima, si propone un riassunto ragionato del Rapporto, con particolare attenzione ai settori economici coinvolti. La seconda sezione ricostruisce il quadro giuridico internazionale che disciplina la responsabilità delle imprese in contesti di occupazione e commissione di crimini internazionali, con particolare riguardo alla due diligence cd. rafforzata. La terza sezione approfondisce il caso dell’OPT come «laboratorio ideale» per pratiche d’impresa sperimentali, contribuendo a sfatare il mito della neutralità. Infine, la quarta e ultima sezione si sofferma sulle raccomandazioni conclusive della Relatrice Speciale e apre una riflessione sulle prospettive di accountability effettiva a livello nazionale e internazionale.

2.    Risultanze principali del Rapporto Albanese

Il Rapporto analizza il ruolo delle entità aziendali nel sostenere l’occupazione israeliana e quella che la Relatrice Speciale definisce la «campagna genocidaria» in corso a Gaza (par. 2 del Rapporto), nel contesto di un progetto coloniale fondato su logiche di traferimento e sostituzione della popolazione palestinese. L’occupazione israeliana è presentata nel Rapporto come una forma istituzionalizzata di insediamento coloniale, la cui prosecuzione comporta gravi violazioni del diritto internazionale (par. 1 del Rapporto). Le imprese – sia israeliane sia internazionali – risultano implicate in queste violazioni attraverso forniture, finanziamenti, tecnologie e servizi.

L’inchiesta condotta dalla Relatrice Speciale ha portato all’identificazione di circa 1.000 entità aziendali implicate, in vario modo, in attività collegate all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e all’escalation successiva all’ottobre 2023 (par. 8 del Rapporto). Tale mappatura è stata resa possibile grazie a oltre 200 contributi di organizzazioni della società civile, ricercatori e stakeholder istituzionali. Nonostante la gravità delle accuse, soltanto 15 imprese tra quelle formalmente contattate hanno fornito risposta alle comunicazioni ufficiali, evidenziando un preoccupante deficit di trasparenza e accountability da parte del settore privato, anche rispetto a contestazioni di complicità crimini internazionali di eccezionale rilevanza, nonché un’allarmante indifferenza nei confronti delle Nazioni Unite come istituzione internazionale. L’analisi delle modalità di coinvolgimento rivela la presenza di un’infrastruttura economica complessa e interconnessa che sostiene attivamente – e in taluni casi trae profitto diretto – dal trasferimento, dalla repressione e dalla sostituzione della popolazione palestinese.

In primo luogo, il settore tecnologico e della sorveglianza (par. 36 e seguenti del Rapporto), in cui aziende israeliane e multinazionali operano nella raccolta di dati biometrici, nello sviluppo di software di riconoscimento facciale, nel monitoraggio predittivo, nella gestione di checkpoint automatizzati e nella fornitura di servizi cloud e di intelligenza artificiale a uso governativo e militare (NSO Group, IBM, HP, Microsoft, Alphabet Inc. (Google), Amazon.com Inc.). A queste grandi imprese si affiancano numerosi attori secondari – fornitori, subappaltatori, consulenti IT – che integrano e amplificano la portata dei sistemi dual-use, impiegati in ambito sia civile che militare.

La seconda macroarea riguarda il settore militare e della sicurezza (par. 29 e seguenti del Rapporto), che costituisce l’asse portante dell’apparato repressivo. Aziende israeliane come Elbit Systems e Israel Aerospace Industries producono droni, sistemi di puntamento e armamenti pesanti, spesso testati direttamente nei territori occupati. Il rapporto documenta anche la collaborazione attiva con imprese straniere, come Lockheed Martin (USA) e Leonardo S.p.A. (Italia), nonché il ruolo strategico di società di logistica globale – tra cui Maersk – nel trasporto di materiali bellici. L’intero comparto sembra reggersi su una fitta rete di intermediari: broker, studi legali, revisori contabili e consulenti aziendali facilitano la circolazione transfrontaliera di armamenti e servizi, spesso offuscando le responsabilità giuridiche attraverso strutture societarie complesse (par. 72 del Rapporto).

Un terzo asse è costituito dal sistema finanziario e degli investimenti (par. 73 e seguenti del Rapporto), che alimenterebbe e consoliderebbe l’infrastruttura economica dell’occupazione. Banche (BNP Paribas, Barclays), fondi pensione (Norwegian Government Pension Fund, Caisse de dépôt et placement du Québec), compagnie assicurative e gestori patrimoniali (Blackrock, Vanguard, Allianz, AXA) risultano coinvolti nel finanziamento diretto o indiretto di attività collegate agli insediamenti illegali e all’industria della difesa. L’afflusso di capitale contribuisce a rafforzare un modello economico asimmetrico, che subordina i territori palestinesi a una condizione di dipendenza strutturale. In questo ambito rientra anche lo sfruttamento sistematico delle risorse naturali – suolo, acqua, petrolio e combustibili fossili – espropriate alla popolazione palestinese e reindirizzate verso l’economia israeliana, con un impatto diretto sull’autonomia economica dei territori occupati.

La quarta macroarea concerne il settore del turismo (par. 69-71 del Rapporto), che si presenta come uno strumento di normalizzazione dell’occupazione. Diversi operatori privati, incluse piattaforme digitali e agenzie di viaggio (Booking Holdings Inc., Airbnb Inc.), promuovono esperienze turistiche negli insediamenti, spesso oscurando la presenza palestinese o rappresentando l’occupazione come un elemento marginale. Questa forma di “turismo coloniale†non solo alimenta l’economia degli insediamenti, ma rafforza una narrazione egemonica fondata sull’esclusione. All’interno di questo circuito rientra anche il ruolo delle catene di distribuzione e dei supermercati, che contribuiscono alla normalizzazione della colonizzazione attraverso la commercializzazione e il consumo quotidiano di prodotti provenienti dai territori occupati (Carrefour). Parallelamente, il settore immobiliare e infrastrutturale (par. 44-47 del Rapporto) contribuisce alla trasformazione fisica e simbolica del territorio: investimenti in abitazioni, servizi e strutture commerciali nei territori occupati consolidano l’annessione de facto e impediscono una continuità territoriale palestinese (Caterpillar, Hyundai, Volvo).

Infine, il mondo accademico e della ricerca gioca un ruolo tutt’altro che neutrale (par. 82 e seguenti del Rapporto). Le università israeliane forniscono supporto diretto allo sviluppo di tecnologie militari e sistemi di sorveglianza, nonché basi ideologiche al progetto coloniale. Al tempo stesso, molte collaborazioni accademiche internazionali – anche con istituzioni di eccellenza come il MIT, nonché sulla base di finanziamenti per il tramite del programma “Horizon†della Commissione Europea – vengono portate avanti senza una valutazione critica del contesto politico, contribuendo, di fatto, al “whitewashing†di pratiche sistematiche di violazione dei diritti umani. Oltre alla produzione tecnico-scientifica, anche quella culturale e discorsiva partecipa alla costruzione di un immaginario che legittima la dominazione coloniale, marginalizzando o silenziando le narrazioni palestinesi.

Nel loro insieme, queste cinque macroaree (corrispondenti a otto specifici settori nel Rapporto) mostrano come la struttura economica dell’occupazione si regga su un’integrazione funzionale tra apparati militari, strumenti tecnologici, capitale finanziario, interventi infrastrutturali e prodotti della ricerca. Tale sistema, lungi dall’essere marginale o collaterale, costituisce – secondo il Rapporto – uno degli ingranaggi centrali nella perpetuazione della violenza strutturale e nella transizione, tuttora in corso, verso una economia della distruzione e del genocidio (par. 26 del Rapporto).

3.    Due diligence rafforzata e responsabilità aziendale nel territorio palestinese occupato

Nel contesto delineato dal Rapporto Albanese, è necessario richiamare il quadro normativo che disciplina gli obblighi delle imprese ai sensi del diritto internazionale, in particolare in situazioni di occupazione e in contesti segnati dalla commissione di gravi violazioni del diritto internazionale. In via generale, benché il diritto internazionale classico attribuisca responsabilità primarie agli Stati, gli attori non statali, incluse le imprese, non possono sottrarsi all’obbligo di rispettare norme imperative di diritto internazionale generale (jus cogens) (Peters, p. 101), come il divieto di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, e il principio di autodeterminazione dei popoli.

In particolare, le imprese possono incorrere in vari gradi di responsabilità sia durante l’occupazione militare di un territorio, sia nei contesti in cui si verificano crimini internazionali come il genocidio. In entrambi i casi, il diritto internazionale impone obblighi giuridici rilevanti anche agli attori economici privati, ponendo limiti stringenti alla liceità delle attività imprenditoriali.

Durante un’occupazione militare, si applicano le norme del diritto internazionale umanitario, in particolare i Regolamenti dell’Aia del 1907 e la IV Convenzione di Ginevra del 1949, che stabiliscono – tra gli altri – il divieto di spoliazione e di sfruttamento economico delle risorse naturali del territorio occupato, se non strettamente connesso a esigenze militari e nel rispetto della popolazione civile (art. 55 Regolamento dell’Aia; art. 53 IV Convenzione di Ginevra), nonché il divieto di trasferimenti forzati (art. 49 IV Convenzione di Ginevra). Tali norme non si applicano esclusivamente alla potenza occupante in senso stretto, ma, in determinate condizioni, possono vincolare anche attori non statali, comprese le imprese. Secondo il Rapporto del Working Group on Business and Human Rights su Conflict-Affected Regions (par. 10, da ora “Rapporto del Working Groupâ€), infatti, il diritto internazionale umanitario si estende anche ad attori privati, qualora le loro attività risultino «strettamente collegate» (closely linked) al conflitto armato. In questo senso, appare opportuno evidenziare che tale approccio non coincide perfettamente con la nozione di «direct participation in hostilities» come interpretata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. Quest’ultima, infatti, presuppone il rispetto cumulativo di tre criteri rigorosi (soglia del danno, nesso causale diretto, e belligerent nexus) ed è finalizzata a regolare lo status individuale nei conflitti armati. Al contrario, la nozione di attività «strettamente collegate» al conflitto adottata nel Rapporto del Working Group di cui sopra si inserisce in un quadro più ampio e flessibile coerente con Principi Guida ONU su imprese e diritti umani (sul punto Van Ho), includendo condotte di sostegno militare, logistico o finanziario, anche al di fuori del campo di battaglia e in assenza di un intento volto a supportare una parte nelle ostilità (si vedano in merito Pietropaoli, Davis e il Rapporto dell’ICRC su Private Businesses and Armed Conflict).

Inoltre, in contesti segnati da atti che configurano possibili crimini contro l’umanità, le imprese devono altresì astenersi da ogni forma di partecipazione negli stessi (Draft Articles on the Prevention and Punishment of Crimes Against Humanity, art. 6.8). Infine, la responsabilità delle imprese si estende potenzialmente anche alla loro condotta in contesti di genocidio, come previsto dall’articolo VI della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, e confermato dalla giurisprudenza internazionale (CIG Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Bosnia and Herzegovina v. Serbia and Montenegro) 2007, par. 420; si veda anche Kelly).

Pur non potendo affrontare in questa sede le complesse questioni legate alla nozione giuridica di complicità, alle sue varianti e soglie di responsabilità (Clapham e Jerbi; Ramasastry), è opportuno sottolineare che la condotta delle imprese può configurare forme di responsabilità penale “ausiliaria†(i.e. “aiding and abettingâ€) delle imprese stesse o dei loro dirigenti. In base all’elaborazione della giurisprudenza dei tribunali penali internazionali, come anche applicata dalle corti domestiche, in particolare statunitensi ai sensi dell’Alien Tort Statute (si veda ad esempio qui), la responsabilità penale in questo caso non richiede necessariamente l’intento diretto di contribuire al genocidio, ma può derivare dal sostegno materiale, finanziario o logistico, laddove questo abbia avuto un effetto rilevante (“substantial effectâ€) sulla commissione del crimine (ICTY, Prosecutor v. Furundzija, par. 235; ICTY, Prosecutor v. Tadic, par. 688-692; ICC, Prosecutor v. Al Mahdi, par. 26; Hathaway et al, pp. 1606-1609), e dove l’impresa o i suoi dirigenti abbiano avuto conoscenza effettiva dell’uso che sarebbe stato fatto dei propri servizi o risorse (ICTY, Prosecutor v. Furundzija, par. 249; Rapporto dell’International Commission of Jurists, pp. 9, 39-40; Pietropaoli).

È in quest’ottica che va inquadrata l’emergente tendenza a richiedere alle imprese di condurre una due diligence rafforzata in materia di diritti umani (heightened human rights due diligence) in aree di conflitto o a rischio elevato come l’OPT (par. 17 del Rapporto Albanese, nonché il Rapporto dell’UNDP su Heightened Human Rights Due Diligence for Business in Conflictâ€Affected Contexts, par. 41-54 (da ora “Rapporto UNDPâ€), si vedano anche Aguirre e Pietropaoli, Tripathi).

Sebbene i Principi Guida ONU su imprese e diritti umani non prevedano esplicitamente una forma distinta di due diligence per i contesti di conflitto o dove il rischio di violazioni gravi dei diritti umani è elevato, essi si fondano sul principio di proporzionalità: maggiore è il rischio e grave la violazione, più complessi devono essere i processi di due diligence (Principio 14; e p. 9 del Rapporto UNDP). Ne consegue che, poiché il rischio di gravi violazioni dei diritti umani si intensifica, anche le attività di due diligence delle imprese devono essere conseguentemente rafforzate e adeguate al contesto. In questo senso, la due diligence rafforzata permette alle imprese non solo di identificare, prevenire e mitigare i propri (potenziali o effettivi) impatti sui diritti umani, ma anche di comprendere come le loro attività possano contribuire ad alimentare le dinamiche del conflitto e le relative violazioni.

Di conseguenza, nei contesti ad alto rischio la due diligence ordinaria risulta insufficiente: le imprese devono adottare misure rafforzate di valutazione e gestione dei rischi, assicurare un monitoraggio continuo, in particolare attraverso un coinvolgimento significativo degli stakeholder locali. Laddove tale valutazione sia impossibile o inutile, le imprese hanno il dovere di interrompere le proprie operazioni commerciali, per non rischiare di incorrere in complicità. Le strategie di disimpegno devono essere ideate e implementate in modo “responsabileâ€, assicurando che le stesse non producano ulteriori impatti negativi, in termini di esacerbazione degli abusi e aggravamento ulteriore delle condizioni della popolazione locale (“responsible disengagementâ€) (Rapporto del Working Group, par. 64-65).

Specie in contesti ad alto rischio, la natura del coinvolgimento di un’impresa in determinati impatti sui diritti umani non è statica, ma evolve nel tempo. In tali contesti, l’inazione o l’adozione di misure inadeguate può determinare lo spostamento dell’impresa lungo un continuum di responsabilità, da una complicità passiva a una responsabilità diretta o aggravata per violazioni gravi. Tale principio è chiaramente enunciato nell’Allegato al Rapporto in esame, che sottolinea come la mancata adozione di «azioni appropriate» esponga le imprese a un accresciuto rischio di incorrere in responsabilità, soprattutto in presenza di violazioni sistematiche e prolungate (par. 8 dell’Allegato).

Pur non trattandosi ancora di un obbligo formalmente riconosciuto nel diritto internazionale positivo, una parte della prassi nazionale si sta consolidando in questa direzione. In particolare, numerosi casi trattati nell’ambito dei National Contact Points (“NCPâ€) dell’OCSE mostrano come alle imprese venga sempre più spesso richiesto, anche in sede quasi-giudiziale, di adottare forme rafforzate di due diligence quando operano in zone ad alto rischio. Le decisioni nei casi DAS Air (Regno Unito),

JCB (Regno Unito), Sjøvik AS (Norvegia) mostrano come gli NCP abbiano riconosciuto la necessità di rafforzare la responsabilità delle imprese in tali contesti (Buriakovska e Davaanyam).

Nel caso specifico dell’OPT, le entità aziendali sono da tempo messe in guardia circa la natura sistematica e generalizzata delle violazioni perpetrate. Come ricorda la Relatrice Speciale, una corretta attività di due diligence in materia di diritti umani avrebbe dovuto consentire l’identificazione tempestiva del rischio di coinvolgimento in tali violazioni – ancor più se fossero stati adottati i necessari meccanismi rafforzati (heightened human rights due diligence) previsti per i contesti ad alto rischio (par. 30 dell’Allegato).

Dopo l’ottobre 2023, il quadro si è ulteriormente aggravato: la documentazione relativa alla commissione di crimini internazionali e violazioni gravi si è moltiplicata, mentre gli sviluppi giuridici internazionali hanno reso inequivocabile la qualificazione del contesto. In particolare, il parere consultivo della CIG del luglio 2024 ha ribadito il carattere illegale dell’occupazione e la violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; a ciò si aggiunge l’ordinanza sulle misure provvisorie emessa dalla CIG nel gennaio 2024 nella causa Sudafrica c. Israele, nella quale la Corte ha riconosciuto la plausibilità dei diritti invocati dal Sudafrica, con specifico riguardo al diritto dei palestinesi nella Striscia di Gaza «to be protected from acts of genocide» (par. 54 dell’ordinanza). Tali sviluppi rendono insostenibile qualsiasi pretesa di ignoranza da parte delle imprese riguardo alla sistematicità delle violazioni e ai rischi legali connessi alla loro attività nei territori occupati.

4.   L’OPT come «ideal testing ground»

A partire da ottobre 2023, il comportamento delle imprese operanti nell’OPT ha subito un cambiamento qualitativo che non consente più di configurarlo come mera inazione o complice omissione. Le attività economiche si manifestano sempre più chiaramente come forme di coinvolgimento diretto e consapevole in un sistema strutturato di espropriazione, trasferimento e sostituzione della popolazione palestinese. Questo “salto di qualità†impone una revisione radicale della tradizionale rappresentazione dell’impresa come attore neutrale nei contesti ad alto rischio: in questo senso, la neutralità dell’attività economica costituisce un mito giuridicamente insostenibile.

Come ha recentemente affermato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Türk, «even when they do not directly participate», le imprese non sono attori neutrali nei contesti di conflitto: la loro semplice presenza e le loro operazioni incidono, in modo diretto o indiretto, sulle dinamiche del conflitto (per un approfondimento, Zandvliet e Anderson). Questa affermazione risulta tanto più rilevante nei territori occupati, dove le attività economiche rischiano di contribuire, anche senza intenzionalità, alla commissione di gravi violazioni del diritto internazionale.

Nessuna impresa può considerarsi neutrale quando le sue operazioni sono direttamente o indirettamente collegate a un contesto documentato di occupazione illegale, discriminazione razziale (par. 229 del parere consultivo della CIG del luglio 2024) e nell’ambito delle crescenti preoccupazioni riguardo al diritto dei palestinesi di essere protetti contro atti di genocidio (par. 54 dell’ordinanza sulle misure provvisorie della CIG del 2024), come attestato anche dal moltiplicarsi delle fonti indipendenti e autorevoli (incluso il Rapporto in esame, si veda anche Database of Business Enterprises Pursuant to Human Rights Council Resolutions 31/36 and 53/25).

Il Rapporto sottolinea come l’OPT costituisca da tempo un «laboratorio ideale» («ideal testing ground», par. 87 del Rapporto) per lo sviluppo, la sperimentazione e l’ottimizzazione di tecnologie, pratiche logistiche e modelli commerciali, in particolare nei settori della sicurezza, della sorveglianza e del controllo predittivo. Tali attività non solo alimentano il sistema coloniale, ma traggono da esso vantaggi economici misurabili, trasformando la persistenza dell’impresa sul territorio da scelta tecnica a scelta politica e redditizia. Non si tratta, come spesso affermato, di una situazione in cui non esistono alternative praticabili al rimanere: al contrario, precedenti internazionali e standard consolidati dimostrano che l’uscita dal contesto occupato è non solo doverosa, ma pienamente possibile (si consideri l’esempio delle imprese menzionate al par. 51 del Rapporto Albanese e al par. 33 dell’Allegato al Rapporto stesso). La scelta di restare, dunque, non risponde a esigenze di necessità operativa, ma a interessi di profitto, che finiscono per rafforzare materialmente e simbolicamente l’impalcatura dell’occupazione e della violenza sistemica.

Anche la pretesa «neutralità della ricerca» è oggetto di una critica esplicita nel Rapporto, che evidenzia come molte università e istituti di ricerca internazionali collaborino con soggetti coinvolti in gravi violazioni. Le imprese – e con esse le istituzioni accademiche e finanziarie – diventano così parte di un piano criminoso in cui in cui le azioni di ciascun attore contribuiscono al funzionamento complessivo di un’economia che guida, alimenta e abilita la distruzione sistematica del popolo palestinese. Come sottolinea la Relatrice Speciale, «business continues as usual, but nothing about this system, in which businesses are integral, is neutral» (par. 91 del Rapporto Albanese).

5.    Conclusioni

Nelle raccomandazioni conclusive, il Rapporto richiama con forza la necessità di un disimpegno immediato e incondizionato da parte delle imprese coinvolte nei meccanismi economici che alimentano e sostengono l’occupazione israeliana, la sistematica discriminazione razziale e le presunte dinamiche genocidarie nell’OPT. A parere di chi scrive, tale disimpegno non costituisce un’opzione etica facoltativa, ma un preciso dovere giuridico, alla luce del diritto internazionale e degli obblighi che derivano dal divieto di commissione dei crimini internazionali e dal rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Le imprese, così come gli Stati, le istituzioni finanziarie e gli attori accademici, sono chiamate ad assumersi responsabilità concrete: non soltanto mediante l’interruzione di rapporti economici lesivi, ma anche attraverso piani di riparazione e collaborazione con le autorità giudiziarie.

In questo scenario, il ruolo della società civile internazionale si rivela essenziale. Il Rapporto riconosce esplicitamente il valore delle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzione, nonché delle iniziative di pressione politica e giuridica a livello nazionale e multilaterale, volte a ottenere forme concrete di accountability (par. 90 dell’Allegato al Rapporto).

A nostro avviso, quest’ultimo punto lascia aperta la questione circa le prospettive effettive di giustiziabilità degli obblighi prospettati, in un contesto internazionale caratterizzato da forti lacune nella perseguibilità delle imprese per crimini internazionali che rende necessario fare affidamento sui sistemi giuridici nazionali, con tutte le difficoltà che questo comporta, tanto in ambito penale quanto in ambito civile (sul punto si veda, per esempio, Zerk). In conclusione, il Rapporto propone un’analisi dettagliata e critica delle implicazioni dell’attività d’impresa, mettendo in discussione il mito della neutralità e facendone il punto di partenza per un ripensamento profondo del ruolo dell’impresa nei conflitti armati contemporanei.

Foto: Omar Al-Qattaa/AFP/Getty Images

Data articolo:Wed, 09 Jul 2025 07:43:38 +0000
Diritto dello spazio a cura di Riccardo Ricchetti
LA NUOVA LEGGE ITALIANA SULLO SPAZIO: UN’ANALISI ATTRAVERSO LA LENTE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Riccardo Ricchetti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

A sessantuno anni dal lancio del San Marco 1 – il terzo satellite nella storia dopo il sovietico Sputnik 1 e lo statunitense Explorer 1 – il  Parlamento italiano ha approvato la Legge 13 giugno 2025, n. 89, che reca disposizioni in materia di economia dello spazio (di seguito “legge spazioâ€). Dopo un iter parlamentare durato circa un anno, il testo definitivo si compone di trentuno articoli, suddivisi nei seguenti titoli: i) disposizioni generali, ii) disposizioni in materia di esercizio delle attività spaziali da parte di operatori spaziali, iii) immatricolazione degli oggetti spaziali, iv) responsabilità degli operatori spaziali e dello Stato, v) misure per l’economia dello spazio.

Il presente contributo si propone di esaminare la compatibilità della nuova normativa italiana con il quadro giuridico internazionale vigente, conosciuto nel suo complesso come Corpus Iuris Spatialis (cfr. von der Dunk et al.). Un’analisi critica del provvedimento consentirà, inoltre, di valutare la capacità del nuovo impianto regolatorio di garantire certezza giuridica agli operatori e, al contempo, attrattività per gli investimenti privati, consolidando la posizione dell’Italia come player spaziale di primo piano nel panorama globale.

L’esigenza di una disciplina nazionale in materia di spazio si inserisce in un contesto cosmico in rapida evoluzione, divenuto oramai un teatro popolato da una pluralità di soggetti, pubblici e privati, spesso animati da logiche economiche e commerciali. Nonostante la straordinaria capacità del Corpus Iuris Spatialis di garantire un lungo periodo di relativa pace e ordine oltre l’atmosfera terrestre, occorre sottolineare come i trattati che lo compongono – Outer Space Treaty (OST), Rescue Agreement (ARRA), Liability Convention (LIAB), Registration Convention (REG), Moon Agreement (MOON) – non siano stati concepiti per affrontare l’esponenziale domanda di accesso allo spazio da parte degli operatori privati. Per tale ragione, essi sono prive di norme di dettaglio e, pertanto, necessitano di meccanismi di implementazione a livello internazionale e domestico. Di conseguenza, oltre quaranta Paesi (cfr. National Space Law Database – UNOOSA) hanno adottato delle proprie legislazioni nazionali, recependo parte dei contenuti dei trattati internazionali menzionati.

In questo quadro, l’Italia, pur avendo ricoperto fin dagli albori dell’era spaziale un ruolo da protagonista, era rimasta priva di una legislazione organica del settore. L’apporto italiano in questo campo è infatti risultato evidente sin dai primi anni Sessanta: non soltanto il primo oggetto europeo a varcare la linea di Kármán fu italiano, ma a questo primato hanno fatto seguito numerosi progetti pioneristici in collaborazione con le principali agenzie spaziali mondiali. In aggiunta, l’Italia può da tempo vantare un tessuto industriale, manifatturiero e accademico-scientifico di eccellenza, in grado di dare un contributo essenziale a importanti missioni di esplorazione e ricerca nel cosmo. Ciononostante, l’approccio seguito dal legislatore italiano si è limitato, da un lato, all’adesione ai principi espressi dal Corpus Iuris Spatialis,con la sola eccezione del Moon Agreement, e, dall’altro, a un progressivo adattamento istituzionale per garantire una politica spaziale unica e coerente a livello nazionale.

La L. 89/2025 colma, quindi, una significativa lacuna nell’ordinamento interno, disciplinando l’accesso degli attori privati nazionali allo spazio, stabilendo una procedura dettagliata per il rilascio delle autorizzazioni a operare, istituendo un registro nazionale degli oggetti spaziali lanciati e definendo il regime di responsabilità per danni derivanti da attività spaziali.

1. Il modello dell’International Law Association

Nel delineare l’ossatura della nuova legge spazio, il legislatore italiano ha inteso ricalcare in maniera evidente il modello proposto dalle Sofia Guidelines on a Model Law for National Space Legislation (di seguito, “ILA Model Lawâ€), elaborate in occasione della settantacinquesima conferenza dell’International Law Association (ILA) e successivamente adottate dal Comitato per gli Usi Pacifici dello Spazio Extra-Atmosferico (COPUOS). Tali linee guida, frutto di un approfondito lavoro di armonizzazione giuridica, offrono uno schema di riferimento per gli Stati interessati a sviluppare o aggiornare la propria legislazione spaziale nazionale (cfr. Hobe). Pur rientrando nella categoria degli atti di soft law,e quindi privo di carattere vincolante, è innegabile come tale modello abbia contribuito a consolidare elementi comuni tra i diversi ordinamenti nazionali, così facilitando la cooperazione e riducendo le incertezze interpretative.

In particolare, l’ILA Model Law identifica cinque macroaree ritenute fondamentali per una legislazione nazionale in materia di spazio: i) finalità e definizioni generali, ii) autorizzazione e supervisione, iii) registrazione, iv) responsabilità e obblighi assicurativi, v) giurisdizione e sanzioni. Risulta evidente la corrispondenza con la struttura intorno alla quale si articola la legge italiana, che riprende esattamente nei primi quattro titoli le tematiche individuate dal modello internazionale. Analogo approccio è stato adottato con riferimento alle principali legislazioni nazionali in materia di spazio adottate sino ad ora – in particolare dai Paesi europei e da alcuni dell’area africana e latino-americana – a dimostrazione del valore indiscusso dell’ILA Model Law quale strumento di armonizzazione e codificazione del diritto internazionale spaziale.

2. I tre building blocks della legge spazio al vaglio del diritto internazionale

Nel solco dell’ILA Model Law, ogni ordinamento nazionale in materia di spazio si articola idealmente attorno a tre building blocks: autorizzazione e vigilanza, immatricolazione o registrazione e responsabilità (cfr. von der Dunk 2006, p. 95). In tal senso, la legge spazio segue perfettamente tale tripartizione, introducendo contemporaneamente alcune specificità legate alla realtà istituzionale nazionale.

2.1. L’autorizzazione e vigilanza delle attività spaziali

Il primo blocco – il regime di autorizzazione e vigilanza – trova una disciplina dettagliata nel Titolo II della Legge n. 89/2025 e rappresenta la trasposizione interna del dettato dell’articolo VI OST, il quale individua gli Stati come i soggetti internazionalmente responsabili sia per le attività condotte di propri organi, sia per quelle compiute da soggetti non governativi. Tale principio, discostandosi parzialmente dalle regole generali di diritto internazionale sull’attribuzione delle condotte dei privati allo Stato, impone ai singoli Paesi di predisporre un sistema efficace di autorizzazione e supervisione continua, volto a prevenire l’assunzione di responsabilità internazionale per operatori non autorizzati o non sottoposti ad alcuna forma di controllo (cfr. Zannoni).

In linea con tale principio, la legge spazio dispone che tutte le attività spaziali «condotte da operatori di qualsiasi nazionalità, nel territorio italiano nonché […] condotte da operatori italiani al di fuori del territorio italiano» debbano essere previamente autorizzate dalla cosiddetta “Autorità responsabileâ€, identificabile con «il Presidente del Consiglio dei ministri o l’Autorità politica delegata alle politiche spaziali e aerospaziali».

La procedura amministrativa per il rilascio dell’autorizzazione prevede la compartecipazione di una pluralità di attori istituzionali. In primo luogo, l’Agenzia spaziale italiana (ASI) è incaricata, entro sessanta giorni, di effettuare gli accertamenti necessari circa la sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi indicati agli articoli 5 e 6. In caso di esito positivo, l’istruttoria viene trasmessa all’Autorità responsabile, al Ministero della Difesa e al Comitato interministeriale per le politiche relative allo spazio e alla ricerca aerospaziale (COMINT). Quest’ultimo valuta che l’attività spaziale oggetto della richiesta non possa rappresentare un pregiudizio per la sicurezza nazionale, per la continuità delle relazioni internazionali e per gli interessi fondamentali della Repubblica. Nello svolgere tale esame, il COMINT ha facoltà di adire le amministrazioni pubbliche potenzialmente interessate, nonché gli organismi di informazione e sicurezza della Repubblica, il Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio dei ministri e l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. La decisione definitiva sulla domanda di autorizzazione deve essere necessariamente adottata «entro il termine massimo complessivo di centoventi giorni».

L’ampio coinvolgimento interistituzionale appare giustificato dalla necessità di garantire una procedura di rilascio dell’autorizzazione oggettiva e trasparente, in grado di bilanciare i diversi interessi coinvolti. Tuttavia, l’efficacia del regime descritto potrà essere compiutamente valutata solo sulla base della sua concreta implementazione. Difatti, esso appare particolarmente complesso e rischia di tradursi in ritardi burocratici, duplicazioni procedurali e crescente incertezza giuridica per gli operatori. In un settore dinamico e altamente competitivo come quello spaziale, un approccio troppo rigido o gravoso potrebbe scoraggiare gli investimenti, ostacolare l’innovazione e compromettere la competitività. Sarà, dunque, fondamentale che i decreti attuativi introducano criteri chiari e tempi certi, garantendo un equilibrio reale tra le esigenze di sicurezza e quelle di sviluppo del settore.

Per completare la trattazione, la legge spazio introduce un sistema di vigilanza da parte dell’ASI, riconoscendo a quest’ultima la facoltà di accedere a tutti i documenti e alle informazioni relative all’attività spaziale autorizzata e all’oggetto spaziale lanciato in orbita. Nell’ipotesi in cui le operazioni di controllo non possano essere espletabili per cause imputabili all’operatore, la legge dispone l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 150mila a 500mila euro. In forma più grave, l’esercizio non autorizzato di attività spaziali, ovvero il loro proseguimento oltre la scadenza della stessa, comporta, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la pena della reclusione da tre a sei anni e della multa da 20mila a 50mila euro.

Degna di nota è il meccanismo di riconoscimento dell’autorizzazione concessa da parte di altri Stati, purché conformi a criteri equivalenti a quelli richiesti dalla legge spazio o in virtù di un accordo bilaterale. Sebbene in apparenza tale previsione possa apparire marginale, in realtà essa risponde a una concreta esigenza sollevata dagli operatori privati, spesso penalizzati dalla frammentazione normativa e dalla necessità di ottenere plurime autorizzazioni.

Alla luce di quanto esposto, i meccanismi di autorizzazione e vigilanza predisposti dalla nuova legge italiana attuano il dettato dell’articolo VI OST e, di conseguenza, aderiscono all’obbligo da parte dello Stato di garantire che le attività spaziali autorizzate siano in conformità con il diritto internazionale (cfr. von der Dunk 2011). In aggiunta, il regime sanzionatorio previsto rispecchia la norma di chiusura dell’ILA Model Law, la quale impone di stabilire una sanzione amministrativa in caso di attività spaziali non autorizzate in virtù della gravità dell’infrazione. Tuttavia, a differenza di quest’ultima, la legge italiana ricorre a sanzioni di natura penale.

2.2. L’immatricolazione degli oggetti spaziali

Esaurita l’analisi del regime autorizzativo, il Titolo III si concentra su un altro building block, ossia l’immatricolazione o registrazione degli oggetti spaziali.

L’obbligo di registrazione trova il suo fondamento giuridico nella Registration Convention de 1975, la quale impone agli Stati parte di istituire un registro nazionale per gli oggetti spaziali lanciati da aree che si trovano sotto la propria giurisdizione o il proprio controllo e di trasmettere «non appena possibile» una serie di dati identificativi al Segretario Generale delle Nazioni Unite (artt. II- IV REG).

Accanto al registro nazionale, la risoluzione 1721(XVI) del 1961 approvata dall’Assemblea generale ONUdispone la creazione del cosiddetto resolution register presso il Segretario Generale ONU. Sebbene di natura volontaria e aperta anche a Stati non parte della Registration Convention, questo strumento assume un ruolo chiave nel favorire la cooperazione e la trasparenza a livello globale.

L’obbligo di registrazione a livello nazionale e internazionale risponde a due esigenze. In primo luogo, l’immatricolazione consente di identificare lo Stato di lancio di un oggetto spaziale, con evidenti ricadute in termini d’individuazione del soggetto responsabile di eventuali danni (cfr. Cheng, 1997). In secondo luogo, i due registri consentono una condivisione costante delle informazioni relative agli oggetti spaziali, adempiendo gli obblighi di trasparenza espressi dallo stesso Corpus Iuris Spatialis (cfr. Lyall e Larsen, pp. 75-115). Tale funzione è stata ulteriormente ribadita dalle Guidelines for the Long-term Sustainability of Outer Space Activities (LTS Guidelines), approvate dal COPUOS nel giugno 2018. Segnatamente, la guideline A.5 incoraggia gli Stati e le organizzazioni internazionali a mantenere registri accurati e aggiornati, sottolineando l’importanza della registrazione ai fini della sicurezza operativa e della sostenibilità a lungo termine delle attività nello spazio extra-atmosferico.

L’Italia, aderendo alla Registration Convention, aveva già ottemperato, sin dal 2005, all’obbligo di istituzione di un registro tenuto dall’ASI. La Legge n. 89/2025 conferma tale assetto e lo rafforza significativamente, mutuando integralmente l’articolo 10 dell’ILA Model Law e prevedendo l’istituzione un registro pubblico nazionale, accessibile e strutturato secondo le specifiche tecniche della Convenzione del 1975.

In sintesi, il nuovo quadro normativo italiano in materia di registrazione si caratterizza per una rigorosa adesione agli standard internazionali e per l’introduzione di strumenti idonei a rispondere alle sfide emergenti derivanti dalla crescente commercializzazione dello spazio. Tuttavia, l’efficacia di tale sistema dipenderà in larga misura dalle modalità di gestione affidate all’ASI e dal grado di accessibilità dei registri.

2.3. La responsabilità per danni causati da attività spaziali

Un altro tema di cruciale importanza trattato è relativo alla responsabilità degli operatori spaziali pubblici e privati per i danni causati dalle loro attività. Mediante il Titolo IV, la legge spazio affronta i profili della responsabilità civile degli operati spaziali e ne regola le implicazioni risarcitorie.

Il riferimento imprescindibile a livello internazionale è costituito dalla Liability Convention del 1972, la quale stabilisce un regime di responsabilità, come pacificamente accettato dalla dottrina internazionalistica (cfr. Cheng), di natura oggettiva e assoluta per i danni causati sulla superficie terrestre o agli aeromobili in volo e alle persone e cose che si trovano a bordo di questi ultimi (art. II LIAB). Ciò comporta che l’operatore sia ritenuto sempre responsabile, con l’unica eccezione dell’ipotesi in cui dimostri che il danno sia stato causato esclusivamente e dolosamente dalla condotta di un terzo e che non sia stato possibile impedire tale condotta. Diversamente, la responsabilità sarà ritenuta per colpa solo nel caso di danni occorsi nello spazio extra-atmosferico (art. III LIAB).

La legge spazio recepisce tale impostazione, affermando all’articolo 18 un principio generale di responsabilità civile dell’operatore per i danni causati da attività spaziali. Tale approccio si ispira all’articolo 11(a) dell’ILA Model Law, il quale suggerisce agli Stati di inserire nelle proprie legislazioni nazionali una norma specifica per la responsabilità dell’operatore. Tuttavia, la normativa italiana presenta alcune differenze rispetto al modello internazionale.

In primo luogo, la disciplina nazionale non distingue tra danno causato sulla superficie terrestre o a un aeromobile in volo e danno provocato altrove. In questa particolare ipotesi, invero, il diritto internazionale ritiene che tale responsabilità sia di natura colposa, come ad esempio in caso di danno arrecato a una infrastruttura nello spazio extra-atmosferico, ma i redattori italiani sono rimasti silenti sul punto. Nonostante ciò, l’Italia ha sottoscritto la Convenzione del 1972 e conseguentemente accoglie quanto stabilito dall’articolo III della stessa, il quale prevede proprio questa distinta forma di responsabilità per il caso specifico sopra riportato.

In secondo luogo, merita attenzione il riferimento all’articolo 1227 del Codice civile, prevedendo un parallelismo tra concorso del fatto colposo del danneggiato e concorso del fatto colposo del creditore. La scelta di recuperare un istituto esistente nell’ordinamento civile e riadattarlo a una fattispecie completamente nuova è particolarmente significativa, poiché dimostra come anche degli strumenti giuridici domestici possano essere utili a colmare le lacune presenti nel diritto dello spazio (cfr. Jakhu).

Proseguendo, l’articolo 19 disciplina l’azione di rivalsa che promuove lo Stato nei confronti degli operatori spaziali che abbiano cagionato danni a Stati esteri, secondo quanto stabilito dalla Liability Convention. Quest’ultima dispone che lo Stato che subisce un danno possa presentare allo Stato di lancio una domanda di riparazione. Definito l’an e il quantum del risarcimento, lo Stato italiano potrà a sua volta rivalersi sull’operatore spaziale responsabile del danno «entro 24 mesi dall’avvenuto adempimento delle obbligazioni risarcitorie».

Viceversa, in caso di danni causati sul territorio italiano da uno Stato straniero, il danneggiato potrà presentare «denunzia di sinistro e istanza di risarcimento allo Stato italiano, entro sei mesi dal verificarsi del danno o da quando gli effetti sono emersi». Questo comporta che lo Stato italiano chieda e ottenga dall’omologo straniero il risarcimento del danno patito e che versi «le relative somme alle persone danneggiate che hanno presentato denunzia». Se ciò non dovesse avvenire a causa della mancata domanda di riparazione da parte italiana entro i termini previsti o in caso di risarcimento insoddisfacente, la vittima sarà legittimata a «proporre domanda di risarcimento […] direttamente nei confronti dello Stato italiano, entro cinque anni decorrenti dalla scadenza del termine concesso allo Stato italiano per presentare la domanda di risarcimento o dalla comunicazione avente a oggetto l’esito della denunzia».

Senza addentrarsi nelle questioni procedurali, è possibile individuare un fil rouge tra le disposizioni richiamate: garantire, in modo tempestivo e completo, un’equa riparazione del danno patito. Al contempo, il passaggio da una visione puramente interstatale in materia di responsabilità per danni causati da attività spaziali a una che vede il coinvolgimento degli operatori privati responsabili, soprattutto in termini risarcitori, va letto nell’ottica dell’articolo VI OST.

Al fine di garantire l’adempimento delle eventuali obbligazioni risarcitorie, l’articolo 21 impone la stipula di «contratti assicurativi o altra idonea garanzia finanziaria a copertura dei danni derivanti dall’attività spaziale con massimale pari a 100 milioni di euro per ciascun sinistro». Precisamente, il massimale è calcolato sulla base di tre fasce di rischio, definite mediante un successivo decreto attuativo, e può essere ridotto fino al 50% per le attività meno pericolose. Di fronte a un operatore che «persegue esclusiva finalità di ricerca o che è qualificato come start-up innovativa [n.d.r. il massimale sarà pari a] 20 milioni di euro per ciascun sinistro».

In definitiva, il tema della responsabilità per i danni provocati dalle attività spaziali trova ampio riscontro nella legge italiana, il quale non manca di ispirarsi alle principali norme internazionali di riferimento. L’introduzione di meccanismi finalizzati all’ottenimento tempestivo del risarcimento dovuto e l’introduzione di un obbligo assicurativo per gli operatori rendono la legge spazio un valido strumento per contribuire a promuovere una crescita sostenibile e sicura delle attività spaziali nel contesto nazionale, e soprattutto globale.

3. Le misure per la space economy e la riserva di capacità trasmissiva nazionale

Il Titolo V rappresenta l’assoluta novità della L. 89/2025, in quanto getta le basi di una politica industriale nazionale in materia di spazio. Esso prevede, da un lato, l’istituzione di un Fondo nazionale per l’economia dello spazio e, dall’altro, la redazione di un piano quinquennale di investimenti per il settore. In aggiunta, vengono introdotte procedure semplificate per favorire la costituzione di partenariati pubblici-privati, con specifiche misure dedicate a start-up e piccole e medie imprese.

Benché attengano prevalentemente a profili economico-finanziari e amministrativi, alcune previsioni di tale sezione assumono rilievo sul piano internazionale e rivelano l’orientamento strategico dell’Italia nel dominio spaziale.

In particolare, la norma che qui trova un approfondimento è l’articolo 25. La sua formulazione definitiva, risultante da un intenso confronto parlamentare, istituisce la cosiddetta riserva di capacità trasmissiva nazionale (RCTN), avente lo scopo di «garantire la massima diversificazione nonché la sicurezza nazionale, sia satelliti sia costellazioni in orbita geostazionaria, media e bassa, gestiti esclusivamente da soggetti appartenenti all’Unione europea o all’Alleanza atlantica, anche in modo da assicurare un adeguato ritorno industriale per il sistema Paese», nonché di assicurare « in situazioni critiche o di indisponibilità delle principali dorsali di interconnessione delle reti terrestri, un instradamento alternativo e con velocità di trasmissione adeguata alle comunicazioni tra

nodi di rete strategici per applicazioni di natura governativa o di interesse nazionale, ivi comprese le funzionalità e le comunicazioni del cloud nazionale».

La RCTN si configura come una risorsa di emergenza, su cui poter fare affidamento nell’eventualità in cui le reti di comunicazione terrestre siano inutilizzabili, a causa di disastri, emergenze o potenziali conflitti armati. La RCTN fungerebbe, pertanto, da binario parallelo attraverso cui assicurare la continuità dello scambio di comunicazioni e il corretto funzionamento dell’apparato pubblico. Ciò presuppone il ricorso a costellazioni satellitare e all’archiviazione in cloud di una moltitudine di dati sensibili, conservati su infrastrutture satellitari in orbita LEO e MEO.

La norma in questione ha sollevato fin dalla sua presentazione diversi interrogativi circa la gestione delle infrastrutture spaziali strategiche sul piano nazionale. Come anticipato, l’inedita presenza di attori privati ha inevitabilmente inciso sul controllo delle comunicazioni satellitari e sulla sicurezza dei singoli Paesi, offrendo, da un lato, tecnologie all’avanguardia e minando, dall’altro, il monopolio pubblico in questo settore. In tale quadro, la previsione che la gestione di infrastrutture critiche quali la RCTN avvenga esclusivamente da soggetti appartenenti all’Unione europea o alla NATO riflette la crescente attenzione alla sicurezza cibernetica e alla protezione dei dati strategici, in linea con l’attuale assetto geopolitico.

Sul punto, risulta significativo il richiamo implicito alla costellazione IRIS2 (Infrastructure for Resilience, Interconnectivity and Security by Satellite), cogestita dall’ESA e dall’Agenzia europea per il programma spaziale (EUSPA). Questo progetto europeo incarna le medesime finalità assegnate alla RCTN: resilienza, interconnessione e protezione (sul punto v. ESPI). Tuttavia, la realizzazione di IRIS2 ha subito diverse battute di arresto nel corso degli anni, evidenziando una grave lacuna nella visione spaziale strategica europea. A oggi, infatti, nessuna infrastruttura satellitare pubblica europea è in grado di assolvere le finalità della RCTN. Al contrario, la tecnologia necessaria è attualmente fornita da soggetti privati, in particolare dalla statunitense SpaceX, leader indiscussa nel settore. Non solo SpaceX ha dispiegato un numero di satelliti imparagonabile rispetto ai propri concorrenti, ma soprattutto la società spaziale fondata da Elon Musk possiede una nuova generazione di direct to cell satellites, i quali non necessitano della presenza di infrastrutture terrestri per operare. È evidente come tale disparità renda Starlink, allo stato attuale, la realtà più competitiva attualmente sul mercato.

Ciononostante, è opportuno soffermarsi su quelli che sono gli elementi critici derivanti dal possibile affidamento di questi servizi a un soggetto privato. Tralasciando le valutazioni di natura politica che esulano dal presente contributo, è condivisibile che le infrastrutture spaziali connesse alla sicurezza di un Paese permangano nelle mani di soggetti istituzionali, ovvero di partenariati pubblico-privati sotto adeguato controllo statale. Pertanto, è indubbio che l’esecutivo italiano debba valutare attentamente tali aspetti e predisporre strumenti idonei a garantire la sicurezza pubblica. Sul punto, l’intenzione dichiarata nella legge spazio non è quella di utilizzare in via esclusiva un’unica costellazione satellitare. Al contrario, il Governo ha espresso la necessità di creare una costellazione satellitare italiana da utilizzare per le finalità sopra riportate e, al contempo, ha avviato interlocuzione anche con altri soggetti privati oltre alla già menzionata Space X. Nell’ottica di diversificazione, appare rilevante una potenziale alternativa rappresentata dalla costellazione OneWeb del gruppo Eutelsat.

Ad ogni modo, l’articolo 28 della legge spazio esclude l’applicabilità della stessa alle attività spaziali condotte dal Ministero della difesa e dagli organismi di informazione per la sicurezza della Repubblica. La medesima norma reca, inoltre, un richiamo esplicito ai poteri speciali di golden power, esercitabili dall’esecutivo anche sugli assetti nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per l’attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Così facendo, il nuovo provvedimento italiano sembra fugare i dubbi circa i rischi per la difesa nazionale, assicurando un forte controllo pubblico in tale contesto.

4. Conclusione

L’adozione della Legge 89/2025 rappresenta una tappa fondamentale nel consolidamento del ruolo dell’Italia nel panorama spaziale globale. Essa non si configura soltanto come una risposta normativa alla crescente rilevanza strategica del dominio extra-atmosferico, ma altresì come uno strumento cruciale per rafforzare la competitività del sistema industriale nazionale nell’ambito della space economy.

Sotto il profilo giuridico, il testo normativo si pone in coerenza con i principi fondamentali del Corpus Iuris Spatialis, recependo le fonti internazionali e ricalcando il Model Law on National Space Legislation dell’International Law Association. Tale approccio conferma la consapevolezza, già riconosciuta in dottrina (cfr. Jakhu), della necessità di integrare il diritto interno con una solida architettura giuridica sovranazionale, capace di garantire prevedibilità, responsabilità e sostenibilità nell’esercizio delle attività spaziali.

Degna di nota è, inoltre, la volontà del legislatore di superare la tradizionale centralità delle agenzie pubbliche, favorendo l’emersione di un ecosistema imprenditoriale nazionale in cui gli operatori privati possano operare autonomamente lungo l’intera catena del valore. In tal senso, l’Italia si afferma oggi come uno dei pochi Stati operativi lungo tutto lo spettro delle attività spaziali, condizione che le conferisce un vantaggio competitivo strutturale.

Ciononostante, l’effettiva portata della legge spazio dipenderà dalla sua attuazione. La validità teorica, infatti, dovrà tradursi in meccanismi applicativi efficaci e adattabili all’evoluzione del settore. I decreti attuativi avranno, quindi, un ruolo cruciale nel definire in concreto l’effettivo impatto del provvedimento sul settore spaziale nazionale. Senza un’implementazione chiara e flessibile, sorge il rischio che gli obiettivi normativi restino confinati all’ambito programmatico, senza incidere sul dato reale.

Occorre, infine, richiamare la recente proposta dell’EU Space Act presentata dalla Commissione europea. Sarà fondamentale comprendere se e come il regolamento europeo potrà integrarsi con le legislazioni nazionali adottate da tredici Stati membri, evitando sovrapposizioni. Solo mediante la costruzione di una cornice giuridica condivisa, nei limiti imposti dai trattati europea, l’Italia potrà realmente tradurre in sostanza il motto dell’ASI: «La strada che porta allo spazio passa per il nostro Paese».

Data articolo:Wed, 02 Jul 2025 13:47:44 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Mauro Gatti
La mancata sospensione dell’Accordo di Associazione UE-Israele

Mauro Gatti (Università di Bologna; Membro della redazione)

I rappresentanti degli Stati membri dell’UE hanno discusso della situazione a Gaza sia in occasione del Consiglio Affari esteri (23 giugno) sia nel Consiglio europeo (26 giugno), senza tuttavia giungere ad alcuna decisione. Come spesso accade, gli Stati membri risultano divisi: alcuni, come la Spagna, auspicano una risposta alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, mentre altri, come la Germania, vi si oppongono. Di conseguenza, gli Stati membri si sono limitati, come di consueto, ad accordarsi per “proseguire le discussioni†(Conclusioni del 26 giugno).

Eppure, l’UE avrebbe la possibilità di reagire concretamente nei confronti di Israele, segnatamente sospendendo l’applicazione dell’Accordo di Associazione UE-Israele (di seguito, l’Accordo di Associazione). Una sospensione mirata, limitata ad alcuni aspetti chiave dell’Accordo, non richiederebbe necessariamente l’unanimità tra gli Stati membri.

Ad oggi, il massimo che l’Unione è riuscita a produrre, dopo venti mesi di attacchi contro la popolazione civile palestinese, è l’adozione di un rapporto amministrativo sulla situazione a Gaza, cui ha fatto seguito soltanto… un secondo rapporto (1). Del resto, appare poco probabile che l’UE sospenda l’applicazione dell’Accordo di associazione o adotti altre misure significative, nemmeno nel prossimo futuro (2) In questo contesto, il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani non sembra costituire una priorità per l’Unione (3).

1. I rapporti sulla Situazione a Gaza

Nel 2000, l’UE e Israele hanno concluso un Accordo di associazione, che crea un’area di libero scambio e istituisce un “dialogo politico†tra le parti. Ai sensi dell’art. 2 dell’Accordo, il “rispetto dei diritti umani e dei principi democratici†costituisce “elemento essenziale†dell’accordo. Se Israele violasse tale art. 2, l’UE potrebbe adottare misure che includono, tra l’altro, la sospensione dell’applicazione dell’Accordo. Infatti, il rispetto dei diritti umani è “elemento essenziale†dell’Accordo, la cui violazione costituisce una material breach dell’Accordo, che l’UE può invocare per sospendere o persino terminare l’applicazione dell’Accordo (in tal senso, v. Bartels 2004, Hachez 2015; cfr. l’art. 60 della Convenzione di Vienna del 1969). L’art. 79 dell’Accordo di associazione, peraltro, riconosce espressamente che, qualora una delle parti ritenga che l’altra parte non abbia adempiuto a un obbligo previsto dal presente accordo, essa può adottare le “misure appropriateâ€.

Vari soggetti richiedono, da tempo, la sospensione dell’Accordo di Associazione UE-Israele, in ragione, inter alia, dell’occupazione illegale della Palestina e della discriminazione sistematica contro i Palestinesi in Israele (v., ad es., Ferreira et al., 2014). La questione ha assunto particolare rilevanza dall’inizio della campagna israeliana contro Gaza. Già a febbraio 2024, i governi di Spagna e Irlanda hanno richiesto alla Commissione di “undertake an urgent review of whether Israel is complying with its obligations […] and if it considers that it is in breach, that it proposes appropriate measures to the Council to consider.†La Commissione non pare, però, aver dato seguito a questa richiesta. Ciò non sorprende, se si considera il sostegno che Von der Leyen offre ad Israele (basti pensare che, dopo l’aggressione di Israele all’Iran, di cui al post di Santini, Von der Leyen ha riaffermato il diritto all’“autodifesa†di Israele).

Josep Borrell, allora Alto rappresentante, aveva una linea politica diversa e ha richiesto un rapporto sulla situazione in Medio-oriente al Rappresentante speciale dell’UE per i diritti umani (EUSR). Il rapporto dell’EUSR (di seguito: il Rapporto del 2024) è stato anticipato al Consiglio a luglio e aggiornato a novembre 2024. Il testo completo non è stato pubblicato ufficialmente, ma è stato fatto filtrare alla stampa (Il Rapporto è stato pubblicato da EUObserver). Poiché l’ufficio dell’EUSR “has no dedicated capacity to assess the situation on the groundâ€, il Rapporto del 2024 si fonda interamente su valutazioni fatte da entità appartenenti al sistema delle Nazioni unite (id., p.2). Alla luce di queste valutazioni, il Rapporto ha rilevato la probabile commissione di crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza, inclusi attacchi indiscriminati contro la popolazione civile (id., par. 51), attacchi agli ospedali (id., parr. 63-65), l’uso della fame come metodo di guerra (id., par. 58), e la detenzione senza tutele legali di palestinesi(id., par. 67).

Ovviamente, le conclusioni del Rapporto del 2024 non sono vincolanti per l’UE: un rapporto dell’EUSR non crea diritti e obblighi e non riflette la posizione politica dell’Unione: spetta al Consiglio decidere in merito (cfr. CGUE, Signature d’accords internationaux, punto 64). Peraltro, il Rapporto certifica una situazione notoria. Ad esempio, una nota dell’ambasciata olandese a Tel Aviv del novembre 2023, filtrata alla stampa, rilevava come l’esercito israeliano fosse “intent on deliberately causing massive destruction to infrastructure and civilian centres†(Euractiv). Già a fine 2023, Israele aveva già causato la morte di più di 20.000 persone, la maggior parte civili, e aveva forzato, attraverso i suoi bombardamenti, l’evacuazione di più dell’80% della popolazione di Gaza (OCHA). E, di lì a poco, Israele ha bloccato gli aiuti umanitari per i palestinesi (UN; PBS), tanto che, a marzo 2024, Josep Borrell, rilevava che “starvation is being used as a war arm†(BBC).

Il Rapporto del 2024 ha, comunque, avuto una certa rilevanza pratica, poiché, sulla base di questo Rapporto, Borrell ha proposto al Consiglio di sospendere il “dialogo politico†con Israele (Borrell 2024). Apparentemente, Borrell mirava ad una sospensione parziale dell’Accordo di associazione con Israele, limitata alla sua parte “politicaâ€. Il “dialogo politico†con uno Stato terzo, infatti, è una questione che riguarda la Politica estera e di sicurezza comune (PESC, v., in tal senso, CGUE, Accordo con il Kazakistan, punto 41), relativamente alla quale l’Alto rappresentante dispone di un potere di iniziativa. Diversamente, spetterebbe alla Commissione proporre la sospensione delle altre parti dell’Accordo, ad esempio, in materia di commercio. Proponendo la sospensione del solo “dialogo politico†con Israele, l’Alto rappresentante ha aggirato la Commissione europea, la quale probabilmente non avrebbe adottato iniziative contrarie agli interessi di Israele. Ad ogni modo, il Consiglio non ha dato seguito alla proposta di Borrell (ANSA; DW).

Di lì a sette mesi, è stato il governo olandese a chiedere all’Alto rappresentante, Kaja Kallas, una “review of Israel’s compliance with Article 2†(Veldkamp 2025). Tale richiesta è stata assecondata, in seno al Consiglio, dalla maggioranza degli Stati membri, il 20 maggio 2025 (Consiglio).

Anche il nuovo Rapporto (di seguito, Rapporto del 2025) è stato redatto dal Rappresentante speciale dell’UE per i Diritti umani, sempre sulla base di fonti delle Nazioni Unite, ed è stato inviato agli Stati membri il 20 giugno 2025. Il Rapporto non è stato pubblicato ufficialmente, ma è stato fatto filtrare alla stampa (anche questo Rapporto è stato pubblicato da EUObserver). Come ci si poteva attendere, il Rapporto del 2025 conferma gli esiti del Rapporto precedente, traendone l’ovvia conclusione: “there are indications that Israel would be in breach of its human rights obligations under Article 2 of the EU-Israel Association Agreementâ€.

A prima vista, il Rapporto del 2025 potrebbe sembrare poco utile, dal momento che ricalca quello del 2024, il quale sarebbe già stato più che sufficiente a giustificare la sospensione dell’Accordo di associazione. Peraltro, entrambi i Rapporti hanno, finora, avuto lo stesso impatto sulle decisioni del Consiglio, cioè nessuno. Ciò nonostante, essi rivestono una certa importanza, in quanto esprimono una critica — seppur implicita e informale — nei confronti di Israele, una critica che il Consiglio verosimilmente non avrebbe formulato in modo esplicito e formale. Per quanto improbabile, è anche possibile che, riconoscendo nel contesto dell’UE i crimini israeliani, i Rapporti contribuiscano a consolidare una maggioranza di Stati membri favorevole all’adozione di misure — seppur tardive e limitate — nei confronti di Israele.

2. L’inazione del Consiglio

Il Rapporto del 2025 è stato discusso dai rappresentanti degli Stati membri nella riunione del Consiglio affari esteri del 23 giugno 2025. La discussione non ha portato ad alcun risultato concreto. Il Rapporto è stato discusso anche dal Consiglio europeo il 26 giugno 2025, di nuovo senza giungere a nessuna decisione. Le conclusioni del Consiglio europeo contengono una lista di formule tanto vaghe quanto usuali: il Consiglio europeo “deplores the dire humanitarian situation in Gaza†e ricorda genericamente che “Israel must fully comply with its obligations under international lawâ€. Soprattutto, il Consiglio europeo “takes note of the report on Israel’s compliance with Article 2 of the EU-Israel Association Agreement and invites the Council to continue discussions on a follow-up, as appropriate, in July 2025†(Conclusioni del 26 giugno 2025, corsivo mio).

L’inazione delle istituzioni governative si pone in continuità con la politica dell’Unione, che non ha adottato alcuna misura nei confronti di Israele dall’ottobre 2023. Sembra difficile, peraltro, che le “discussions†in seno al Consiglio possano portare all’adozione di misure significative nelle prossime settimane.

La sospensione dell’Accordo di associazione in toto pare particolarmente inverosimile. La sospensione dell’applicazione di un accordo internazionale è oggetto di una decisione del Consiglio (Art. 218, par. 9, TFUE), avente carattere discrezionale (v., in tal senso, CGUE, Mugraby, punto 70).  Peraltro, il Consiglio non sospende di frequente accordi internazionali per reagire a violazione dei diritti umani (cfr. Bartels 2023). Nel caso degli Accordi di associazione, in particolare, la sospensione deve essere approvata dal Consiglio all’unanimità, secondo l’art. 218, parr. 8 e 9, TFUE (v. CGUE, Accordo con l’Armenia, punto 29). Basta l’opposizione di un singolo governo a impedire la sospensione dell’Accordo di associazione con Israele. E vari governi europei sostengono Israele, per ragioni storiche (ad esempio, Germania), per affinità ideologica (Ungheria, Italia) o perché suoi fornitori di armi (Germania, Italia).

Più plausibile, ma comunque improbabile, pare la sospensione parziale dell’Accordo di associazione. I Trattati dell’UE non regolano esplicitamente la procedura per la sospensione parziale di accordi internazionali. Vi sono stati, comunque, casi in cui l’UE ha sospeso degli accordi in modo parziale, come reazione al comportamento di Stati terzi. Nel 2011, in particolare, il Consiglio ha deciso di sospendere l’applicazione dell’Accordo di cooperazione con la Siria, limitatamente al commercio di petrolio e prodotti petroliferi, a causa della “brutale campagna sferrata da Bashar Al-Assad e dal suo regime contro il loro stesso popolo†(Decisione 2011/523, preambolo). La decisione che sospende parzialmente l’applicazione dell’Accordo non si fonda sulla base giuridica degli Accordi di associazione, su cui si basava l’atto di conclusione dell’Accordo con la Siria, e che avrebbe imposto l’uso dell’unanimità in Consiglio (v. artt. 217 e 218, par. 8, TFUE). Invece, la decisione di sospensione parziale dell’Accordo con la Siria si fonda sulla base giuridica sostanziale della politica commerciale (art. 207 TFUE), cui è relativo l’oggetto della parte di accordo sospesa, e che richiede generalmente la votazione a maggioranza qualificata.

In altri termini, mentre la sospensione in toto di un Accordo di associazione richiede la votazione all’unanimità in Consiglio, la sospensione di una parte dell’Accordo di associazione, apparentemente, potrebbe avvenire con votazione a maggioranza qualificata in Consiglio, quando essa riguarda settori in cui i Trattati dell’UE impongono tale modalità di voto (in tal senso, v. Cîrlig 2025, p. 2; cfr. la posizione della Commissione nella relazione allegata a COM(2024) 142, par. 4;). È, dunque, ipotizzabile che il Consiglio possa, con un voto a maggioranza qualificata, sospendere le parti dell’Accordo di associazione UE-Israele relative al commercio, che ne costituiscono il cuore. Posto che l’UE è il principale partner commerciale di Israele, una decisione in tal senso avrebbe un notevole impatto concreto.

Ciò nonostante, nella riunione del 23 giugno, il Consiglio non ha sospeso l’Accordo di associazione, neppure parzialmente. Si può, peraltro, dubitare che una tale sospensione parziale possa avvenire in tempi brevi, sia perché alcuni Stati membri sono strenui sostenitori di Israele (v. sopra), sia perché gli Stati uniti esercitano pressione sui Paesi europei. Anche la resistenza della Commissione potrebbe contribuire a scoraggiare una sospensione parziale dell’Accordo di associazione. Ai sensi dell’art. 218, par. 9, TFUE, spetta alla Commissione proporre la sospensione dell’Accordo di associazione (salvo il caso di una sospensione riguardante il solo dialogo politico, come visto sopra). Alla luce dell’orientamento politico della Commissione Von der Leyen, pare difficile che, a breve, questa proponga di sospendere, sia pure parzialmente, l’Accordo di associazione con Israele.

Visto che la sospensione dell’Accordo di associazione è assai improbabile, si potrebbe ipotizzare che l’UE adotti altre misure nei confronti di Israele, magari già nel Consiglio affari esteri di luglio. Nell’ultima riunione del Consiglio europeo, secondo il presidente lituano, “the high representative was asked to bring initial proposals to the table and she will do it … during July and probably the [Foreign Affairs Council] will take some measures†(Politico). È presumibile che si faccia qui riferimento a misure PESC, che possono essere proposte dall’Alto rappresentante (e non dalla Commissione). In tale ambito, l’Unione potrebbe teoricamente adottare delle “misure restrittiveâ€, cioè delle sanzioni, nei confronti di Israele o della sua dirigenza (come ha fatto nei confronti della Russia, oggetto di 17 ‘pacchetti’ di sanzioni dal 2022). Ma l’adozione di misure restrittive richiede l’unanimità degli Stati membri e pare impossibile che tutti gli Stati membri concordino nel sanzionare Israele o i suoi dirigenti.

È più probabile che l’Alto rappresentante proponga delle misure PESC di minore portata. Un’indicazione in tal senso viene dalle Conclusioni del Consiglio europeo, il quale “reiterates its call on the Council to take work forward on further restrictive measures against extremist settlers and entities and organisations which support them†(Conclusioni del 26 giugno). È possibile, quindi, che il Consiglio sanzioni semplici cittadini israeliani ‘estremisti’, come già avvenuto lo scorso anno (Decisione 2024/1967). D’altronde, sanzionare dei singoli ‘estremisti’ è sì facile, ma illogico e, probabilmente, inefficace: responsabili dei crimini a Gaza non sono soltanto gli ‘estremisti’, ma soprattutto i dirigenti e gli agenti dello Stato israeliano e, di conseguenza, lo Stato stesso. Ad esempio, è curioso che l’UE sanzioni gruppi ‘estremisti’ che cercano di “bloccare gli autocarri che forniscono e trasportano aiuti umanitari†a Gaza (Decisione 2024/1967, allegato, sub Tsav 9), ma non lo Stato, e i suoi leader, che bloccano gli aiuti umanitari su ben più ampia scala.

Visto che le misure PESC, in questo contesto, paiono poco praticabili o inefficaci, l’Unione potrebbe esplorare delle soluzioni offerte da altre politiche. La prassi suggerisce che misure lato sensu sanzionatorie potrebbero essere adottate nel quadro della politica commerciale, nell’ambito della quale il Consiglio vota a maggioranza qualificata. Ad esempio, la Commissione ha, di recente, proposto di eliminare gradualmente l’importazione di gas dalla Russia, per mezzo di una misura afferente alla politica commerciale ed energetica (COM(2025) 828). In linea di principio, una soluzione simile sarebbe configurabile, mutatis mutandis, anche nel caso di Israele.

In particolare, nove Stati membri (Belgio, Irlanda, Finlandia, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia) hanno chiesto alla Commissione di valutare “how trade in goods and services linked to illegal settlements in the Occupied Palestinian Territory can be brought into line with international law†e, particolarmente, con il Parere della Corte internazionale di giustizia del 19 luglio 2024 (v., in particolare, i parr. 279 e 280). Si può ipotizzare che l’Unione possa, nell’ambito della politica commerciale, limitare l’importazione di beni e servizi provenienti dalle colonie israeliane. Una misura del genere, comunque, inciderebbe soltanto su una frazione delle esportazioni israeliane e, di conseguenza, potrebbe non risultare incisiva. Peraltro, è improbabile che una tale misura venga adottata. Al di fuori della PESC, il potere d’iniziativa appartiene generalmente alla Commissione. Difficilmente la Commissione Von Der Leyen, date le sue priorità politiche, proporrebbe l’adozione di misure commerciali lato sensu sanzionatorie nei confronti di Israele. E, quand’anche le proponesse, non è certo che una maggioranza qualificata di Stati membri le approverebbe, viste le probabili pressioni statunitensi. Non sembra casuale, quindi, che, nelle Conclusioni del 26 giugno, il Consiglio europeo abbia omesso di menzionare possibili sviluppi futuri in merito al commercio con le colonie israeliane.

3. Il disinteresse per i diritti umani

Tra il 2024 e il 2025, il Rappresentante speciale per i Diritti umani dell’UE ha redatto due Rapporti sulla situazione in Medio-oriente, nei quali si rileva il mancato rispetto per i diritti umani, “elemento essenziale†dell’Accordo di associazione UE-Israele. Sebbene tali Rapporti non siano vincolanti né rappresentino la posizione ufficiale dell’Unione, essi rivestono una certa rilevanza, in quanto suggeriscono una critica – sia pur implicita e indiretta – nei confronti di Israele. In questo senso, i Rapporti del Rappresentante speciale per i Diritti umani possono essere ricondotti alla lunga serie di strumenti di soft law attraverso cui le istituzioni dell’Unione contribuiscono all’attuazione delle sue politiche, anche al di là di quanto espressamente previsto dai Trattati (cfr., fra gli altri, Eliantonio et al. 2023).

L’effetto principale dei Rapporti è quello di certificare – se mai ve ne fosse bisogno – che Israele ha commesso gravi infrazioni del diritto internazionale e dei diritti umani a Gaza, violando così un “elemento essenziale†dell’Accordo di associazione con l’UE. Tale violazione giustificherebbe l’adozione di misure nei confronti di Israele – come la sospensione dell’Accordo – che, tuttavia, il Consiglio non ha adottato.
Questa inazione da parte dell’UE si inserisce, peraltro, in continuità con la sua precedente politica di passività nei confronti di Israele. Contrasta, invece, con la reattività mostrata verso altri Stati: l’Unione ha già sospeso accordi con Stati terzi, o adottato altre misure sanzionatorie, in risposta a violazioni del diritto internazionale (si vedano, ad esempio, i casi di Siria e Russia citati sopra). Pare dunque vero che l’Unione contribuisce alla “rigorosa osservanza†del diritto internazionale, come richiesto dai Trattati (art. 3, par. 5, TUE), ma solo nelle relazioni con alcuni Stati terzi.

La passività dell’UE nei confronti di Israele non è una conseguenza del requisito dell’unanimità in Consiglio, spesso indicato come il principale ostacolo all’azione esterna dell’Unione. L’UE potrebbe infatti sospendere parte dell’Accordo di associazione con Israele, o adottare altre misure, con una maggioranza qualificata degli Stati membri. L’inazione dell’Unione è piuttosto il risultato delle priorità politiche della Commissione e di una parte significativa degli Stati membri, i quali – come osservato dal Primo ministro sloveno – “hanno deciso di dare priorità ai propri interessi e non ai diritti umani del popolo palestinese†(ANSA). Il rispetto dei diritti umani, evidentemente, non costituisce un elemento “essenziale†dell’Associazione UE-Israele.

Data articolo:Mon, 30 Jun 2025 08:30:00 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Diego Mauri
Attacchi ‘alla Carta’: considerazioni a caldo sui recenti bombardamenti degli USA in Iran

Diego Mauri (Università di Palermo, Membro della Redazione); Andrea Spagnolo (Università di Torino, Membro della Redazione)

Introduzione

Dopo ore di apparenti tentennamenti, gli Stati Uniti d’America hanno fatto il loro «spettacolare» ingresso nel conflitto tra Israele e Iran, divampato il 13 giugno 2025 (su cui v. Santini). Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, l’aeronautica statunitense ha colpito i siti di arricchimento nucleare di Natanz (già oggetto di diversi attacchi cibernetici, l’ultimo dei quali nel 2021) e Fordow (probabilmente il più strategico e ‘nascosto’, trovandosi ad almeno 80 metri di profondità sotto uno spesso strato roccioso), nonché il centro scientifico di Isfahan (v. qui). Gli USA hanno fatto ricorso a bombe idonee a distruggere installazioni sotterranee sganciate da bombardieri e a missili da crociera lanciati da un sottomarino.

Stando al Dipartimento della difesa, i tre siti avrebbero subito danni gravi.

Commentare quanto accaduto – e quanto ancora sta accadendo – dal punto di vista del diritto internazionale, e segnatamente delle norme che regolano l’uso della forza nelle relazioni internazionali (il c.d. jus ad bellum), richiede meno sforzi di quanto ci si potrebbe attendere. L’azione statunitense si qualifica come un uso illecito della forza armata contro lo Stato iraniano, avvenuto tramite l’impiego dei mezzi militari sopra descritti. L’impiego di una forza di tale natura – in una con la sua semplice minaccia – è oggetto di un divieto espresso e lapidario contenuto all’art. 2, par. 4, della Carta  delle Nazioni Unite e corrispondente a una norma consuetudinaria e cogente di pari contenuto. 

La chiarezza di tale conclusione, come si leggerà, è ulteriormente rafforzata dalla critica delle possibili giustificazioni delle azioni statunitensi. Lungi dall’essere un mero esercizio teorico, l’analisi che segue vuole contribuire a fare chiarezza sulle ragioni dell’illiceità dell’attacco contro l’Iran, in uno scenario teso, in cui alcuni Stati sembrano volerlo condonare e financo approvare, non negando supporto agli USA nell’eventualità in cui il conflitto dovesse prolungarsi.

Il terreno su cui si svolgerà l’analisi è quello delle regole e dei principi che regolano l’uso della forza armata, in particolare per il tramite della causa di giustificazione normalmente invocata in questi casi, ovvero la legittima difesa. Accertata l’impossibilità di invocare tale causa, si affronteranno le conseguenze dell’illiceità dell’operazione statunitense nei confronti di Stati terzi e dei futuri (?) negoziati sul programma nucleare iraniano.

Una difesa non legittima

La Carta ONU, com’è noto, nell’art. 51 (e cioè, in chiusura al noto Capitolo VII, che tratta le azioni che l’Organizzazione può intraprendere in caso di aggressione, violazione della e minaccia alla pace e sicurezza internazionali) stabilisce che nulla può impedire a uno Stato, laddove stia subendo un Â«attacco armato», di far ricorso al diritto «naturale» (inherent nel testo inglese) di difendersi, sia individualmente sia collettivamente. E tale difesa presuppone, tipicamente, l’impiego di forza armata. È nell’ambito di tale norme che possono essere discusse due possibili giustificazioni per l’attacco:

  • Gli USA stanno ricorrendo alla legittima difesa individuale, poiché essi stessi destinatari di un attacco armato da parte dell’Iran;
  • Gli USA stanno ricorrendo alla legittima difesa collettiva, e cioè stanno aiutando Israele a difendersi da un attacco armato da parte dell’Iran

In entrambi i casi â€“ e cioè, sia che ipotizzassimo un intervento ‘autonomo’ degli USA sia che ipotizzassimo un loro intervento a lato di Israele, ipotesi, quest’ultima, che parrebbe trasparire dalle dichiarazioni rese dal Presidente Trump nella mattina del 22 giugno («we [gli USA e Israele] worked as a team […] and we’ve gone a long way to erasing this horrible threat to Israel») – occorre, affinché sia lecita una reazione in legittima difesa, che i presupposti per l’esercizio di un tale diritto siano soddisfatti. Si tratta di presupposti oramai sedimentati nel diritto consuetudinario:

  • Qualificazione delle condotte dello Stato ‘attaccante’ come «attacco armato»
  • Imminenza dell’attacco
  • Necessità e proporzionalità della reazione in legittima difesa rispetto all’attacco in corso

Ci concentreremo sui primi due requisiti perché, all’evidenza, ‘assorbenti’: se non vi è attacco armato in corso, nemmeno ha senso valutare se la reazione in legittima difesa è necessaria o proporzionata (mancando, a monte, l’attacco da neutralizzare e sulla base del quale valutare gli ultimi due requisiti). 

Partendo dunque dal primo: può dirsi che l’Iran stesse conducendo un «attacco armato» nei confronti degli USA (ipotesi sub a) o di Israele (ipotesi sub b)? Non è nemmeno il caso di ricordare come la nozione di«attacco armato» costituisca un termine giuridico, dotato di un certo significato e suscettibile di produrre determinati effetti. 

Occorre iniziare da quella che può sembrare un’ovvietà: se l’attacco armato presuppone un certo impiego di forza armata (suscettibile di produrre, di regola, certi effetti cinetici), non ogni uso di forza armata si qualifica come «attacco armato». Immaginiamo il tipico caso di spari al confine tra due Stati (c.d. ‘incidenti di frontiera’) o di colpi di avvertimento sparati tra navi militari in alto mare o, ancora, manovre coercitive tra velivoli militari: ancorché implicanti un certo impiego di forza, queste condotte non sono sufficienti per integrare la categoria di «attacco armato». Lo chiarisce, in modo inequivoco, la giurisprudenza della Corte internazionale giustizia (Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua (Nicaragua c. Stati Uniti d’Americasentenza del 27 giugno 1986, par. 195; più di recente, e per un caso riguardante proprio gli USA e l’Iran, Piattaforme petrolifere (Repubblica Islamica dell’Iran c. Stati Uniti d’America)sentenza del 6 novembre 2003, parr. 51 ss.). Nel diritto consuetudinario accertato dalla Corte (e riprodotto in talune dichiarazioni dell’Assemblea Generale), la nozione di «attacco armato» corrisponde dunque a un uso particolarmente grave e intenso della forza; al di sotto di tale soglia, l’uso della forza costituisce comunque un illecito, e segnatamente una violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta ONU.

Questa interpretazione preserva lo â€˜spirito’ (o, detta secondo i termini ermeneutici propri del diritto pattizio, «l’oggetto e lo scopo» della Carta ONU) del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: se ogni uso della forza giustificasse una reazione armata a titolo di legittima difesa, l’art. 2, par. 4 si troverebbe svuotato di ogni senso. È lo stesso articolato normativo della Carta a imporre un’interpretazione delle norme dello jus ad bellum secondo una logica che potremmo definire â€˜anti-escalatoria’: lo Stato che subisce un uso (o minaccia) della forza non Ã¨ autorizzato a rispondere con la forza, ma con gli altri strumenti di attuazione coattiva di cui l’ordinamento internazionale dispone; solo e soltanto in caso di attacco armato, e nel rispetto dei limiti imposti dal diritto internazionale, si può reagire in legittima difesa. Per quanto possa sembrare contro-intuitivo, solo su queste premesse si può reggere, come in effetti si regge da ottant’anni esatti, l’ordinamento internazionale contemporaneo.

Ciò premesso, l’argomento degli USA a sostegno del proprio attacco – che fa il paio con quello speso, pochi giorni prima, da Israele per l’avvio della nuova fase delle ostilità con l’Iran – si riduce all’asserita (e, ad oggi, indimostratapreparazione, da parte dell’Iran, di armi di distruzione di massa, segnatamente di armi nucleari. Vale la pena ricordare come, solo nel 2024, esponenti del governo iraniano abbiano sottolineato la volontà dell’Iran di non dotarsi di armi nucleari, in linea con la fatwa della guida spirituale Khamenei del 2004 (qui, in farsi, qui una traduzione in inglese). 

Tuttavia, com’è noto, pur formalmente parte del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), l’Iran è stato ‘accusato’ di violarlo, conducendo, dall’inizio del XXI secolo, attività secrete ritenute prodromiche alla costruzione di armamenti nucleari. Il Joint Comprehensive Plan of Action del 2015 (su cui v. Sossai), cioè l’accordo con cui l’Iran si è impegnato a limitare a soli scopi pacifici lo sviluppo nucleare – consentito dall’art. IV del TNP – e ad accettare le ispezione della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (secondo l’acronimo inglese, IAEA), aveva risolto quelle controversie, prima che nel 2018 gli USA decidessero di abbandonarlo, minandone di fatto il funzionamento. 

È in tale contesto che va letta la risoluzione del 12  giugno 2025 con cui il Consiglio dei Governatori della IAEA stigmatizzava la violazione, da parte dell’Iran, dei propri obblighi di cooperazione con l’Agenzia stessa, sostanziati dalla mancata rivelazione di diverse informazioni relative al programma nucleare.. In un passaggio cruciale, il Consiglio richiedeva espressamente l’intervento del Consiglio di sicurezza: «the Director General’s inability […] to provide assurance that Iran’s nuclear programme is exclusively peaceful gives rise to questions that are within the competence of the United Nations Security Council».

Esattamente il giorno successivo, Israele avviava le proprie operazioni militari contro l’Iran, nell’asserito esercizio di un diritto alla legittima difesa già ampiamente (e rapidamente) stigmatizzato da taluni commentatori (v. SantiniMilanović). Le ragioni sono presto dette: pur assegnando massimo valore ai sospetti della IAEA sul programma nucleare iraniano appena esposti e alle numerose minacce di distruzione di Israele e di attacchi contro gli USA (come lo stesso Trump ricorda: «[f]or 40 years, Iran has been saying: “Death to America, death to Israelâ€Â») da parte dell’Iran, è però vero che non vi era alcun «attacco armato» in corso, sia al momento della reazione israeliana sia al momento della reazione statunitense.

Si può però obiettare che, per quanto non in corso un attacco armato da parte dell’Iran, tale attacco – così ampiamente ‘anticipato’ dagli elementi appena ricordati – sia comunque considerabile ‘imminente’? L’evoluzione degli armamenti – sia per capacità distruttiva, dal lato dell’attaccante, sia per capacità di intercettazione e prevenzione, dal lato dell’attaccato – è stata tale, negli ultimi decenni, da spingere a una rimodulazione del requisito dell’imminenza (il secondo di quelli ricordati sopra): può uno Stato dover attendere di subire un attacco missilistico su larga scala, magari nucleare, prima di impiegare la forza o per intercettare la minaccia o per bloccarla ‘sul nascere’? Una risposta di segno negativo sarebbe tutt’altro che accettabile. Ma se è così, allora è chiaro che bisogna stabilire un limite temporale prima del quale attaccare per neutralizzare futuri attacchi è vietato, ciò che richiede uno sforzo interpretativo giustamente definito come il «più controverso» di tutto lo jus ad bellum.

Non possiamo ora ripercorrere per intero la parabola che – specialmente all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 – ha irrobustito e diffuso una tendenza, specialmente ad opera di taluni Stati (sul punto torneremo più sotto), a ‘estendere’ le nozioni di «attacco armato» e, per quel che ci interessa, di «imminenza» (O’Meara). Va però detto che, nel caso che ci occupa, considerare come imminente un futuro attacco armato (nucleare) da parte dell’Iran va ben oltre una qualsiasi interpretazione, ancorché a maglie larghe, del requisito. 

Detto altrimenti, sviluppare un programma nucleare che potrebbe, in futuro, portare alla realizzazione di un’arma nucleare costituisce senz’ombra di dubbio una violazione del diritto internazionale: ci si può limitare a ricordare che l’Iran è parte di un trattato, per l’appunto il TNP, che, segnatamente all’art. II, vieta agli Stati non in possesso di ordigni nucleari l’acquisizione o lo sviluppo di tali armamenti. Ma quanto precede di per sé non integra una minaccia o uso della forza internazionale, né a più forte ragione, sulla base di quanto detto sopra, un «attacco armato» capace di legittimare risposte (israeliane e statunitensi) implicanti l’uso della forza. 

Non vi è dunque, sulla base della Carta dell’ONU, alcuna giustificazione all’utilizzo della forza armata, contro l’Iran, da parte degli USA (e di Israele), dal momento che non opera l’esimente della legittima difesané â€“ ed è banale ricordarlo – l’azione degli USA (e di Israele) ha ricevuto una qualsivoglia «autorizzazione» al ricorso a misure implicanti l’uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ai sensi del Capitolo VII. I gravi fatti che si stanno consumando dal 21-22 giugno (e dal 13 giugno) 2025 si qualificano dunque come attacco armato nei confronti dell’Iran. Il Ministro degli Esteri iraniano Araghchi, nel corso di una conferenza stampa a Istanbul, ha impiegato poche parole per inchiodare la responsabilità internazionale degli USA, peraltro appoggiandosi alla Carta ONU, più volte menzionata nel discorso.  

Le dichiarazioni rese dal Segretario della Difesa statunitense Hegseth puntano invece in tutt’altra direzione: si magnifica il concetto di Â«deterrenza americana», che gli attacchi del 21-22 giugno avrebbero contribuito a realizzare nei confronti dello Stato Â«bullo» (non più ‘canaglia’) del Medio-Oriente. Attacchi chirurgici, notoriamente annunciati, che non hanno comportato la perdita di vite umane né tra membri delle forze armate iraniane né tra la popolazione civile (sempre secondo Hegseth). Ma se questo è lo scopo della (re-)azione americana – e cioè, impedire a uno Stato ‘ostile’ di sviluppare in futuro armi di distruzione di massa – allora siamo totalmente al di fuori di quello che la Carta ONU, e con essa lo jus ad bellum come venutosi a consolidare negli ultimi otto decenni, ammette come lecito. Detto altrimenti, la Carta non è un ‘menù’ che ammette qualsiasi scelta di impiego della forza â€“ anzi, è l’esatto opposto, in ossequio alla logica anti-escalatoria che la anima sin dal principio, come già ricordato.

Non è difficile tracciare paragoni col passato. Mantenendo la lente sugli USA (ma sarebbe facile citare, come del resto fa Milanović, il più recente ed eclatante esempio dell’aggressione russa all’Ucraina), tradizionalmente affetti da «eccezionalismo» (e quindi, Ã  la Anghie, da frequenti doppi standard di sapore imperialista) quando si parla di legittima difesa praticata con tanta disinvoltura, il ricordo va quasi spontaneamente alla â€˜coalizione dei volenterosi’ di iniziativa e a trazione USA contro l’Iraq, nel 2003. Tale coalizione operò in assenza di una specifica autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza e sulla base di presunte prove (‘prodotte’ al Consiglio di Sicurezza con modalità ormai divenute ‘pop’ e poi rivelatesi totalmente false) relative allo sviluppo, da parte del regime di Saddam Hussein, di armi di distruzioni di massa. Diverse sono le analogie, diverse le differenze. Di rischio di attacchi futuri e ‘a sorpresa’ contro gli USA, ad esempio, si parlava nell’atto con cui il Congresso statunitense (ecco una prima differenza rispetto al caso iraniano) autorizzava il Presidente ad avviare la campagna militare. E se alcuni alleati tradizionali degli USA – il Regno Unito, che giocò un ruolo attivo nella coalizione fin dai primi momenti – trovarono argomenti a sostegno dell’azione americana, diverso fu il caso di altre potenze, tra cui Germania e Francia, che sin da subito affermarono l’illegalità tout court della campagna militare.

L’illiceità dell’attacco degli USA e gli Stati terzi

L’illiceità della condotta statunitense induce a riflettere sulle condotte degli Stati terzi, in particolare per ciò che ci riguarda, degli Stati alleati degli USA, soprattutto quelli, come l’Italia, legati da accordi di carattere militare.

Per dirla con Franck«che succede ora»? Se, come appena detto, all’indomani dell’invasione dell’Iraq da parte della coalizione dei volenterosi diverse erano state le voci che, anche dalle principali Cancellerie europee, si erano levate contro la legalità dell’intervento, colpisce, oggi, la pressoché totale assenza di voci dissonanti tra gli alleati degli USA. Le prime invocazioni di «negoziati» e «dialoghi di pace» – che, nelle intenzioni di chi le formula, dovrebbero riprendere proprio dopo l’abbandono del tavolo negoziale degli USA e il precipitare degli eventi verso la forza armata – da parte dei principali leader europei sui social media (FranciaFinlandiaUnione europea) sono sempre accompagnate dal monito secondo il quale l’Iran non dovrà mai avere accesso all’arma nucleare, evitando accuratamente di spendere la benché minima parola di condanna nei confronti dell’attacco statunitense (e, prima, israeliano). In particolare, le parole del Primo Ministro del Regno Unito Starmer suonano, al momento, come le più ‘concilianti’ con l’azione intrapresa dagli USA, giustificata proprio per «alleviare» la minaccia dell’arma nucleare iraniana. La Russia e la Cina hanno condannato l’azione statunitense con termini simili a quelli impiegati dall’Iran (citando espressamente la Carta ONU), mentre i Paesi arabi â€“ tra cui Arabia Saudita e Qatar – hanno adottato una posizione più ‘morbida’ rispetto a quella espressa con riferimento agli attacchi condotti da Israele (v. qui per una panoramica).

Al di là di ciò che gli Stati dicono – ciò che comunque rileva, al netto della mera valenza politica, sul piano della prova di un’eventuale acquiescenza rispetto alla pretesa legittimità della condotta statunitense – sarà interessante vedere ciò che taluni di loro, e in particolare l’Italia, faranno. Se è vero che, come dichiaratodal Ministro degli Affari Esteri Tajani, le basi italiane non sono state coinvolte negli attacchi, è però noto (e innegabile) il valore tattico di talune di queste basi, in particolare Aviano o Sigonella (che da anni ospita droni armati statunitensi, regolarmente impiegati in operazioni di intelligence e, secondo taluni, pure di targeted killings; v. ad es. qui e qui). Cosa succederebbe se l’Italia, in ipotesi, mettesse il proprio spazio aereo o comunque porzioni del proprio territorio a disposizione di eventuali azioni armate statunitensi contro l’Iran? A nostro avviso, si configurerebbe una violazione sia del diritto internazionale sia, sul piano interno, del diritto costituzionale.

Appurato che gli attacchi degli USA costituiscono violazioni gravissime e ingiustificate della Carta dell’ONU e delle norme dello jus ad bellum, corre l’obbligo, in capo a ogni Stato di non aiutare né assistere lo Stato autore di tali violazioni. Si tratta di una regola ricavabile dal Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati (Progetto) e, segnatamente, dall’art. 40, potendo la condotta statunitense qualificarsi come violazione grave di norme imperative di diritto internazionale generale, in cui, come detto in apertura, si possono includere le rilevanti regole dello jus ad bellum. Ciò vale anche laddove l’assistenza o l’aiuto che l’Italia sarebbe chiamata a fornire sia imposta da accordi di varia natura con gli USA, a partire dal Trattato istitutivo della NATO (che, fornisce la cornice di riferimento di questo tipo di cooperazione) e sino al più ‘tecnico’ degli accordi finalizzati a dare esecuzione al primo. Con queste premesse, la Repubblica italiana, se fornisse assistenza a future azioni aggressive degli USA, sarebbe complice della commissione di un (grave) illecito internazionale, ai sensi dell’art. 16 del Progetto. Sarebbe infatti difficile negare la sussistenza dei due presupposti della norma: la consapevolezza che con il proprio aiuto si agevola la commissione del fatto illecito altrui e la circostanza che tale attacco violi l’art. 2, par. 4, della Carta dell’ONU che, con tutta evidenza, obbliga anche l’Italia.

Sul piano interno, invece, è lecito ritenere che l’art. 11 della Costituzione – che enuncia il principio pacifista al cuore dell’assetto repubblicano – vieti qualsiasi forma di compartecipazione a campagne militari in contrasto con il diritto internazionale, in nome del ripudio della guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se vi sono voci discordanti circa l’idoneità, da parte dell’art. 11, a vietare anche forme di assistenza a favore di Stati che stiano subendo un attacco armato (v. qui e qui), non vi è invece dubbio che, di fronte a un attacco condotto in spregio alle regole dello jus ad bellum quale quello del 21 giugno 2025, il divieto condensato all’art. 11 sia destinato ad operare, e quindi a vincolare, tutte le articolazioni della Repubblica. Né il rispetto di impegni convenzionalmente assunti e immessi nel nostro ordinamento, né a maggior ragione argomenti di opportunità politica sono suscettibili di giustificare, sul piano interno (prima ancora che su quello internazionale), eventuali azioni dell’Italia a sostegno degli USA.

Il ritorno della diplomazia?

Come rilevato in apertura del paragrafo precedente, non mancano prese di posizione di Stati che puntano alla necessità che l’Iran «torni a sedersi al tavolo dei negoziati» per discutere dei limiti al proprio programma nucleare. Pare piuttosto forte la presa di posizione congiunta di Francia, Germania e Regno Unito di poche ore fa (ndr 22 giugno 2025): Â«[w]e call upon Iran to engage in negotiations leading to an agreement that addresses all concerns associated with its nuclear program».

Posto che, come già osservato, l’Iran, in quanto Stato parte del TNP, ha l’obbligo di non sviluppare o acquisire armi nucleari (art. II) e il diritto di effettuare ricerche in ambito nucleare per finalità pacifiche (art. IV), non è chiaro, oggi, su cosa debbano o possano vertere tali negoziati.

In ogni caso, l’attacco militare israeliano e quello statunitense modificano radicalmente la portata di tali inviti nella prospettiva del diritto internazionale e, in particolare, del diritto dei trattati.

A suggerirlo è l’art. 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che prescrive l’invalidità di un trattato internazionale la cui conclusione sia stata procurata dalla minaccia o dall’uso della forza armata in contrasto con la Carta dell’ONU. In altri termini, tale norma riguarda il caso di uno Stato che viene ‘costretto’ da un altro o da altri a concludere un trattato con la minaccia o con l’uso della forza armata. Il precedente storico solitamente citato è l’accordo di Monaco del 1938, attraverso cui la Cecoslovacchia cedette parte del proprio territorio alla Germania Nazista, costretta alla firma dalla minaccia di essere invasa proprio da quest’ultima.

Si tratta di una disposizione che ‘lega’ a doppio filo la Convenzione di Vienna e la Carta di San Francisco. Il senso è semplice: se l’ordinamento giuridico internazionale fondato sulla Carta non prevede la risoluzione delle controversie attraverso la minaccia o l’uso della forza armata, allora tutti i trattati conclusi in violazione di tale presupposto non possono essere validi. 

È un’invalidità assoluta, che lo Stato costretto può sanare solo attraverso un nuovo accordo, formato sulla base di un consenso genuino, diverso da quello precedentemente estorto con la minaccia o l’uso della forza armata. 

Fanno eccezione i trattati di pace, gli armistizi o gli accordi per il cessate il fuoco nel contesto di conflitti armati, per la semplice ragione che sono strumenti convenzionali finalizzati al ristabilimento della pace.

Qui si colloca il conflitto in corso tra Iran e Israele e tra Iran e USA. Il ritorno al tavolo dei negoziati, in questa fase, potrà essere funzionale soltanto a far cessare le ostilità in corso. Eventuali accordi sui limiti all’arricchimento dell’uranio, sulle ispezioni internazionali o su qualsiasi altro aspetto del programma nucleare iraniano che preveda obblighi a carico dell’Iran non potranno essere conclusi ‘pendente’ la minaccia dell’uso della forza armata e, a fortiori, gli attacchi armati cui stiamo assistendo. 

Conclusioni

Di fronte alla scelta di Israele, prima, e degli USA, poi, di violare, in modo plateale (o forse meglio ‘spettacolare’), norme fondamentali della Carta dell’ONU, sulla base di ragioni difficilmente ricavabili da essa, è compito degli altri Stati che compongono la comunità internazionale riconoscere l’illegalità di tale comportamento e ricondurre all’obbedienza delle regole che fondano il sistema di sicurezza collettiva, innanzitutto omettendo di cooperare o supportare in qualsiasi modo chi che viola il diritto internazionale e poi evitando di reiterare le stesse minacce quando si tratta di auspicare il ritorno della diplomazia.

Chi non può attaccarsi alla Carta dell’ONU finisce – come le ultime due decadi insegnano – per attaccare… la Carta, e a ‘bullizzare’, con essa, le norme dello jus ad bellum e della convivenza pacifica tra gli Stati.

Data articolo:Mon, 23 Jun 2025 18:11:02 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Viola Santini
L’operazione “Leone Nascente†contro l’Iran: prime osservazioni giuridiche nella prospettiva jus ad bellum e jus in bello

Viola Santini (Università di Firenze)

Nelle prime ore di venerdì 13 giugno, lo Stato di Israele ha dato il via all’operazione denominata ‘Leone Nascente’ (Rising Lion) contro la Repubblica Islamica dell’Iran. L’intervento militare di Israele si configura come un’operazione su vari livelli operativi, la cui complessità solleva diverse questioni critiche circa la sua conformità ai principi del diritto internazionale generale e del diritto internazionale umanitario (DIU). Il presente contributo intende offrire una prima riflessione sui principali profili di rilevanza giuridica dell’operazione, con particolare riferimento ai principi dello jus ad bellum e dello jus in bello.

Jus in bello o jus ad bellum

Il primo nodo da affrontare concerne la qualificazione giuridica dell’attacco del 13 giugno: deve essere valutato alla luce delle norme sul ricorso alla forza armata (jus ad bellum) o, piuttosto, secondo quelle applicabili alla conduzione dei conflitti armati (jus in bello)? Di seguito, le due ipotesi e le tesi a sostegno di una e dell’altra saranno analizzate nelle loro implicazioni.

  1. L’attacco si inserisce all’interno di un conflitto armato internazionale (IAC) preesistente.Secondo un primo orientamento, tra Israele e Iran vi sarebbe già in atto un conflitto armato internazionale. L’attacco del 13 giugno andrebbe quindi valutato esclusivamente secondo le regole del DIU. Tale tesi si fonda su due argomentazioni principali. 
  2. Il “sostanziale coinvolgimento†dell’Iran nelle operazioni di attori non statali (NSA) ostili a Israele. Ãˆ stata avanzata l’ipotesi che i legami tra l’Iran e attori non statali attualmente coinvolti in conflitti con Israele, come Hezbollah, Hamas e gli Houthi, potrebbe rilevare ai fini della determinazione dell’esistenza di un conflitto armato tra Teheran e Tel Aviv (la c.d. proxy war, o guerra per procura). Ai fini della qualificazione giuridica di tale coinvolgimento, rileva il criterio di attribuzione del controlloeffettivo, come elaborato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) in Nicaragua c. Stati Uniti (par. 115-116). Questo standard richiede che lo Stato eserciti un grado di controllo operativo diretto sugli atti specifici del gruppo armato. Per quanto riguarda Hamas e gli Houthi, seppur sia documentato un supporto da parte dell’Iran in termini di assistenza finanziaria, supporto militare e condivisione di tecnologia bellica, i due gruppi mantengono la loro autonomia politico-strategica, nonché ideologica. Nel caso di Hezbollah, il legame politico e operazionale con Teheran è più stretto. Va ricordato, però, che la soglia dell’effective control richiesta ai fini dell’attribuzione della condotta è particolarmente elevata e, nel caso di specie, difficilmente soddisfatta. Gli attacchi di Hezbollah sono stati lanciati da territori di Stati terzi, in particolare Siria e Libano, e non risulta evidente che l’Iran esercitasse un controllo operativo diretto su tali operazioni. Al più, potrebbe configurarsi una situazione di c.d. overallcontrol, rilevante non per l’attribuzione degli atti, ma per la determinazione dell’internazionalizzazione del conflitto, secondo l’orientamento della CIG in Bosnia c. Serbia (par. 404). Infine, il cessate il fuoco del febbraio 2025, sebbene fragile, ha temporaneamente congelato le ostilità sul fronte Hezbollah-Israele. Dunque, anche qualora si ipotizzasse un certo grado di controllo da parte dell’Iran su Hezbollah, non risulta evidente in che misura ciò possa costituire prova sufficiente dell’esistenza di un conflitto armato internazionale ancora in corso tra Iran e Israele. 
  3. Gli engagements diretti tra Israele e Iran. Una seconda linea argomentativa, più convincente, si fonda sulla constatazione di una serie di scontri armati diretti intercorsi tra Israele e Iran nel corso del 2024. In particolare, si fa riferimento agli episodi bellici documentati nei mesi di aprile, luglio e ottobre, qualificabili come IAC ai sensi dell’art 2(1) comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949. La minore intensità di questi confronti armati, come chiarito ai par. 236-244 del Commentario aggiornato del Comitato della Croce Rossa Internazionale (CICR), non impedisce la loro configurazione come IAC. È infatti, a tal fine, sufficiente qualsiasi forma di ricorso alla forza armata tra due Stati, indipendentemente dalla durata, intensità o scala. In questo senso, la soglia per l’attivazione delle norme del DIU è “remarkably low†(Milanović 2014) e certamente inferiore a quella necessaria per qualificare un conflitto armato non internazionale (NIAC), che richiede il requisito della “violenza armata protratta†(ICTY, Sentenza della Trial Chamber, caso Tadić, par. 562), Tuttavia, nel caso di specie, il nodo interpretativo riguarda non tanto la natura dei singoli eventi del 2024, quanto piuttosto la discontinuità temporale che li separa dall’operazione “Leone Nascente†del giugno 2025. L’ultimo engagement noto risale infatti a ottobre 2024, e nel periodo successivo non si registrano ulteriori episodi di ostilità diretta. Tale discontinuità temporale solleva interrogativi circa la possibilità di qualificare gli scontri del 2024 come un conflitto armato internazionale conclusosi, distinto dall’attuale operazione Rising Lion. In tal caso, quest’ultima andrebbe valutata alla luce dello jus ad bellum. Per quanto riguarda la fine di un conflitto armato internazionale, l’art. 6(2) della IV Convenzione di Ginevra stabilisce che il DIU cessa di applicarsi “al termine generale delle operazioni militari†(general close of military operations). Sebbene il Commentario del 1958 alla IV Convenzione di Ginevra suggerisse (par. 2) criteri formali come la fine definitiva di tutti gli scontri tra gli interessati, l’armistizio, la capitolazione o la debellatio, gli approcci più recenti convergono su una valutazione fattuale della cessazione del conflitto. Secondo l’orientamento prevalente nella dottrina più recente, nonché alla luce dell’interpretazione successiva fornita dal CIRC (Commentario del 2016 alla I Convenzione di Ginevra, par. 278), la nozione di “termine generale delle operazioni militari†va intesa in senso più ampio. Essa presuppone non soltanto la cessazione delle ostilità attive, ma anche l’assenza di un rischio concreto e sufficientemente imminente di ripresa delle operazioni militari, poiché tali operazioni non coincidono necessariamente con atti di violenza armata. Alla luce di tale criterio, si può ritenere che, nel periodo compreso tra ottobre 2024 e giugno 2025, vi sia stata una cessazione effettiva delle attività belliche tra Iran e Israele. A sostegno di questa tesi, vi sono anche alcune dichiarazioni ufficiali di Israele in seguito all’attacco, che sembrano indicare l’operazione del 13 giugno come autonoma e differente – per finalità operative, contesto strategico e natura – rispetto agli engagements del 2024, collocati da Israele nel quadro dell’operazione ‘Swords of Iron‘ contro Hamas. Tuttavia, va rilevato come la persistenza di un clima di tensione tra i due stati, peraltro difficilmente evitabile, data l’instabilità regionale dovuta alla prosecuzione del conflitto a Gaza, rende più difficile escludere del tutto la sussistenza di un rischio concreto di riattivazione delle ostilità nel medesimo arco temporale.

Il ricorso alla forza da parte di Israele come forma di autodifesa o come atto di aggressione armata. La seconda tesi sostiene che l’attacco lanciato da Israele il 13 giugno 2025 non si inserisca in un conflitto armato internazionale preesistente. Costituirebbe piuttosto un nuovo impiego della forza armata, da valutare alla luce dello jus ad bellum. In tale prospettiva, assumono rilievo le norme di cui all’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, e all’articolo 51 della stessa Carta, relativo al diritto di autodifesa. Tale impostazione merita considerazione, specie alla luce delle dichiarazioni ufficiali rilasciate da Israele e di altri attori (AustraliaFranciaGermaniaUnione Europea, leader del G7), che hanno esplicitamente collocato l’operazione Rising Lion nel quadro dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, adottando il lessico e i riferimenti propri dello jus ad bellum. Sia gli interventi pubblici del Primo Ministro Netanyahu, sia i comunicati ufficiali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), sembrano qualificare l’operazione come una misura di autodifesa preventiva rispetto alla minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano, presentata come una questione esistenziale per la sopravvivenza stessa dello Stato di Israele. 

È rilevante menzionare come tale linguaggio sembri richiamare, seppur implicitamente, il Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) del 1996 sull’uso delle armi nucleari, in cui si afferma che: «La Corte non può perdere di vista il diritto fondamentale di ogni Stato alla sopravvivenza, e dunque al ricorso di autodifesa, in conformità con l’articolo 51 della Carta, quando la propria sopravvivenza è in gioco» (par. 96). Tuttavia, anche in assenza di informazioni dettagliate di intelligence accessibili al pubblico, è possibile escludere che l’attacco israeliano del 13 giugno 2025 costituisca una forma di autodifesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Non risultano, infatti, atti ostili recenti da parte dell’Iran tali da integrare la nozione di “attacco armato†ai fini della nozione classica di legittima difesa. Di conseguenza, l’azione israeliana potrebbe essere piuttosto essere qualificata come una forma di autodifesa anticipatoria o, come suggerito nel comunicato stampa ufficiale dell’IDF, preventiva, in risposta alla minaccia nucleare iraniana. Tuttavia, sebbene l’articolo 2(4) della Carta ONU vieti sia la minaccia sia l’uso della forza, l’articolo 51 presuppone l’esistenza di un attacco armato effettivo (Gioia 2022). In questa prospettiva, la legittima difesa preventiva (pre-emptive self-defence), intesa come risposta armata a una minaccia ancora ipotetica o remota, è ritenuta non ammissibile dal punto di vista del diritto internazionale.

Una posizione intermedia è sostenuta (par. 41-51) dalla pratica di alcuni Stati e da parte della dottrina, che ammettono la cosiddetta legittima difesa anticipatoria (anticipatory self-defence), intesa come reazione a un attacco già in fase di preparazione avanzata, quando la minaccia sia imminente, certa e irreversibile. Anche a voler ammettere, in via ipotetica, la legittimità della legittima difesa anticipatoria nell’ambito dello jus ad belluml’analisi proposta da Marko Milanovic, a cui si rimanda, evidenzia come l’operazione israeliana del 13 giugno non soddisfi i requisiti stringenti che tale eccezione richiederebbe per essere giuridicamente fondata. Il programma nucleare iraniano, allo stato attuale, non sembra configurarsi come una minaccia imminente né certa, ma piuttosto di una capacità potenziale dell’Iran di sviluppare tali armi nel futuro. In assenza di un attacco armato effettivo o di una minaccia imminente, l’uso della forza da parte di Israele eccede i limiti di liceità, anche se letti nel modo più ampio possibile, previsti dall’art. 51 della Carta ONU. Di conseguenza, l’operazione Rising Lion può essere qualificata come atto di aggressione ai sensi del diritto internazionale generale e della Risoluzione 3314(XXIX), con le conseguenze che ne derivano, incluso il riconoscimento del diritto di autodifesa – da esercitarsi sempre in rispetto dei principi di proporzionalità e necessità, e in conformità con il DIU – dell’Iran.

Vi è infine un’interpretazione che concilia queste due prospettive, proponendo l’applicazione continua e concomitante dei principi di proporzionalità ad bellum e in bello (Greenwood 1983Lieblich 2021), in alternativa ad un approccio statico e nettamente separato tra i due. In questo senso, come sostenuto anche da Milanovic, un’analisi ad bellum autonoma può essere condotta in corrispondenza di significativi atti di escalation durante un conflitto già in corso. Tale impostazione ci pare la più convincente perché trova riscontro in diversi elementi. In primo luogo, la prassi degli Stati è univoca nel considerare l’evento attraverso le categorie proprie dello jus ad bellum confermando così la rilevanza delle norme della Carta ONU quale parametro di riferimento. Inoltre, tanto le modalità operative quanto le finalità dell’attacco del 13 giugno sembrano distinguersi in modo marcato rispetto agli episodi di ostilità precedenti. Infine, questo approccio sembra più appropriato a scenari di guerra dinamici e frammentati. Consente, infatti, di evitare l’applicazione on and off del DIU tra un impiego militare e l’altro, ammettendo però la possibilità che un’escalation significativa, sia praticamente che concettualmente distinta, nell’uso della forza possa richiedere una nuova valutazione ai sensi dell’art. 2(4). 

Tutti questi elementi insieme fanno propendere per un inquadramento ad bellum e, alla luce della rilevata non applicabilità dell’art. 51, per la qualificazione dell’attacco israeliano come atto di aggressione. 

Profili di diritto internazionale umanitario

Il secondo profilo critico attiene alla condotta concreta delle operazioni militari israeliane, sia in occasione del primo attacco del 13 giugno, sia nei giorni immediatamente successivi. La valutazione della loro liceità ricade nell’ambito del DIU, che risulta certamente applicabile, sia in quanto già attivato nel contesto di un conflitto armato internazionale preesistente, sia, in subordine, perché attivato ex novo a seguito dell’attacco stesso. Al momento, Israele sembra aver fatto ricorso a due principali direttrici strategiche.

  1. Attacchi a infrastrutture critiche. Gli attacchi hanno preso di mira due tipologie di strutture. Un’ulteriore infrastruttura colpita è quella digitale: l’accesso a Internet risulta pressoché interrotto in gran parte del territorio iraniano. Il blocco sembrerebbe essere stato attuato dallo stesso governo di Teheran, ufficialmente allo scopo di prevenire attacchi cibernetici. L’Iran, del resto, non è nuovo all’uso di blackout informatici, spesso con finalità repressive (Gohdes 2023). La misura solleva rilevanti interrogativi circa la sua compatibilità con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e merita senz’altro menzione; tuttavia, non sarà oggetto di approfondimento, per limiti di spazio e di focus sul diritto internazionale umanitario di questo contributo.
  2. Impianti nucleari. Nella prima fase dell’operazione, Israele ha colpito infrastrutture direttamente collegate al programma nucleare iraniano, in particolare gli impianti di arricchimento dell’uranio situati a Natanz, Fordow e Isfahan. Tali siti non sono centrali nucleari destinate alla produzione di energia elettrica (nuclear electrical generating stations, nuclear power plants), le quali, in linea generale, sono, anche secondo la CIRC, da presumersi beni di carattere civile ai sensi del DIU e godono, durante un IAC, di una protezione rafforzata ai sensi dell’art. 56(1) del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Pur non rientrando tecnicamente nella categoria delle centrali di produzione energetica, gli impianti colpiti rappresentano infrastrutture nucleari sensibili a duplice uso (dual use facilities), in quanto potenzialmente impiegabili sia per scopi civili (es. alimentazione di reattori di ricerca e centrali nucleari in generale) sia per fini militari (es. sviluppo di armi nucleari). Ai sensi dell’art. 52(2) del I Protocollo Aggiuntivo – riprodotto verbatim nella Regola consuetudinaria 8 – un bene può essere qualificato come obiettivo militare solo se soddisfa due condizioni cumulative: (1) contribuisce efficacemente all’azione militare per natura, ubicazione, uso attuale o uso futuro previsto; e (2) la sua distruzione, cattura o neutralizzazione conferisce un chiaro vantaggio militare, nelle circostanze del momento. Il riferimento allo “scopo†legittima la considerazione dell’uso futuro dell’infrastruttura, mentre il Commentario al medesimo articolo include, in via esemplificativa, anche i centri di ricerca e sperimentazione per lo sviluppo di armamenti tra i potenziali obiettivi militari. Ne deriva che, in linea di principio, taluni impianti nucleari dual use potrebbero essere legittimamente colpiti. Tuttavia, due sono le precisazioni necessarie rispetto al caso di specie.

In primo luogo, nonostante l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) abbia espresso (par. 34) preoccupazione per l’aumento di produzione e di accumulazione di scorte di uranio arricchito da parte dell’Iran, in una dichiarazione più recente, in seguito allo scoppio del conflitto, la stessa Agenzia ha richiamato le risoluzioni (in particolare, GC(XXIX)/RES/444 e GC(XXXIV)/RES/533) della Conferenza Generale in materia di attacchi militari contro installazioni nucleari, ribadendo che qualsiasi attacco armato o minaccia contro impianti nucleari destinati a fini pacifici costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e dello Statuto dell’Agenzia. Questa comunicazione ufficiale e una successiva intervista al direttore generale della IAEA, chiariscono che la accumulazione di materiale fissile, sebbene preoccupante, non è prova, di per sé, un uso militare degli impianti iraniani. 

In secondo luogo, la distruzione o danneggiamento degli impianti in questione può comportare rischi gravi e concreti per la popolazione civile in termini di rilascio di sostanze radioattive o di altre forze pericolose (IAEA, GC(XXXIV)/RES/533). Ai sensi del già citato art. 56(1) del Protocollo I, le installazioni contenenti forze pericolose, tra cui impianti nucleari destinati alla produzione di energia elettrica, sono soggette a una protezione speciale anche quando costituiscano obiettivi militari, a condizione che il loro attacco possa “causare gravi perdite alla popolazione civileâ€. Questo principio ha assunto anche carattere consuetudinario (Regola 42), dunque si applica al caso di specie nonostante né Israele né l’Iran abbiano ratificato il Protocollo I. Pertanto, anche laddove si ritenga che gli impianti di arricchimento colpiti contribuiscano in modo effettivo all’azione militare iraniana, essi non perdono automaticamente la loro qualificazione come beni civili, ma restano soggetti a una presunzione di protezione, la cui revoca richiede una valutazione rigorosa di proporzionalità e necessità. Inoltre, qualora l’attacco comporti la possibilità di rilascio di forze pericolose, sussiste un obbligo rafforzato di constant care al fine di evitare, o almeno minimizzare, effetti catastrofici per la popolazione civile. 

Industrie del petrolio e del gas e infrastrutture energetiche. Israele ha colpito, tra gli altri, hub per lo stoccaggio e la distribuzione di carburante (tra cui quello di Shahran, nei pressi di Teheran), nonché impianti di trattamento del gas e produzione elettrica a uso domestico, come Fajr-e Jam, e il principale giacimento nazionale, il South Pars. Tali infrastrutture rappresentano componenti critiche del sistema energetico iraniano e sono strettamente connesse ai c.d. beni e servizi essenziali. In quanto tali, esse rientrano prima facie nella categoria degli oggetti civili ai sensi del DIU. Esse risultano, inoltre, indispensabili per il funzionamento dei servizi pubblici e per l’approvvigionamento della popolazione di beni primari quali acqua potabile, alimenti, medicinali e assistenza sanitaria. L’art. 54 del Primo Protocollo aggiuntivo vieta espressamente di attaccare, distruggere, rimuovere o rendere inutilizzabili oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. In quest’ottica, alla luce di un’interpretazione teleologica della norma, la protezione si estende anche a quelle infrastrutture dalle quali tali servizi dipendono funzionalmente.

Tuttavia, il diritto umanitario riconosce la possibilità che un oggetto civile divenga un obiettivo militare legittimo, a condizione che soddisfi i due requisiti cumulativi stabiliti dall’art. 52(2) del Protocollo I, visti sopra. Il Commentario al medesimo articolo precisa che solo le installazioni energetiche che forniscono energia prevalentemente a fini di difesa nazionale, come impianti per la produzione di gas o elettricità destinati in modo predominante all’apparato militare, possono, in linea teorica, essere considerate obiettivi legittimi. È richiesto che sussista un proximate nexus, ovvero un nesso diretto e sufficientemente immediato, diverso da una semplice funzione a sostegno dello sforzo militare, tra l’infrastruttura in questione e le operazioni militari in corso, affinché la perdita della protezione possa considerarsi giustificata (Dinstein 2004). Nel caso di specie, tale collegamento causale non risulta evidente. Le informazioni disponibili non suggeriscono un utilizzo militare primario o preponderante delle infrastrutture colpite, né indicano che esse svolgessero una funzione direttamente integrata nella condotta delle ostilità. In assenza di elementi probatori ulteriori, e considerato il potenziale impatto umanitario della loro distruzione sulla popolazione civile, tali obiettivi devono continuare a essere considerati beni civili, e in quanto tali protetti dal divieto di attacco ai sensi del DIU.

In entrambi i casi analizzati, è poi opportuno ricordare che il I Protocollo Aggiuntivo all’art. 55, unitamente alle Regole consuetudinarie 44 e 45, sancisce un divieto specifico relativo all’impiego di mezzi e metodi di guerra che siano diretti a causare o che possano prevedibilmente causare danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale. Tale divieto risulta rilevante nel contesto di attacchi contro le suddette industrie e infrastrutture, che possono causare, per esempio, il rilascio di gas ad alto impatto climatico (come il metano, a seguito dell’attacco a giacimenti o impianti di trattamento del gas), la contaminazione delle acque superficiali e sotterranee, danni alla fauna e agli ecosistemi locali, nonché, in caso di coinvolgimento di strutture connesse al ciclo del combustibile nucleare, possibili dispersioni di materiale radioattivo o contaminazione chimica dell’ambiente circostante.

Uccisioni mirate. Le uccisioni mirate (targeted killings) hanno avuto come obiettivo, fino ad ora, tre distinte categorie di soggetti, unitamente agli oggetti a essi funzionalmente connessi. La prima categoria è rappresentata dalla catena di comando militare, comprendente membri dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran) e delle forze armate regolari, tra cui il Comandante in capo, il Capo di Stato Maggiore e un generale del Comando congiunto tra Pasdaran e forze armate regolari, noto come Khatam al-Anbiya. Tali soggetti costituiscono obiettivi legittimi in quanto membri delle forze armate di una parte al conflitto, ai sensi della Regola 3 del DIU consuetudinario, secondo cui “all members of the armed forces of a party to the conflict are combatantsâ€. Per questa categoria non è dunque necessaria un’ulteriore analisi sulla liceità del targeting. Restano invece da esaminare le due ulteriori categorie di soggetti colpiti.

Uccisioni mirate di scienziati nucleari iraniani. Israele ha condotto operazioni finalizzate all’eliminazione mirata di almeno sei o nove scienziati nucleari iraniani. Tali soggetti, non risultando formalmente incorporati nelle forze armate della Repubblica Islamica dell’Iran, devono essere qualificati, in linea di principio, come civili ai sensi del DIU. La sola circostanza che potrebbe eccezionalmente giustificarne la qualificazione come obiettivi militari legittimi è il loro eventuale direct participation in hostilities (DPH), secondo quanto previsto dall’art. 51(3) del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra. Tuttavia, il gruppo di esperti della CIRC sulla nozione di DPH, sembra avere escluso questa possibilità, affermando che: “neither armament industry employees, nor nuclear weapons experts, were considered to be directly participating in hostilities regardless of their value to the war effort†(p. 49). Infatti, lo status di DPH prevede un contributo diretto all’azione militare, distinguendosi così dalla partecipazione indiretta alle ostilità e dalla generica contribuzione allo sforzo bellico complessivo (cfr. Commentario al I Protocollo Aggiuntivo, par. 1945). Come chiarito nella Interpretive Guidance on the Notion of Direct Participation in Hostilities elaborata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, affinché un atto possa integrare una partecipazione “direttaâ€, è necessario che sussista un nesso causale sufficientemente stretto tra la condotta dell’individuo e il danno concretamente arrecato al nemico (p.52). Standard come la “causazione indiretta del danno†o la “facilitazione materiale†di atti lesivi non sono sufficienti a tal fine. In senso analogo si è espresso anche il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) nel caso Prosecutor v. Strugar (Appello, § 177, 178), evidenziando che la direct participation implica che l’individuo partecipi personalmente all’azione offensiva in corso finalizzata a danneggiare il nemico. Nel caso di specie, tuttavia, il danno ipotizzato appare non solo anticipato, ma addirittura predetto: si ritiene che l’Iran possieda le c.d. capabilities per sviluppare armamenti nucleari, ma non vi è al momento alcuna evidenza (vedi qui e qui) che tale sviluppo sia in atto, o che sia imminente. Pertanto, salvo che Israele sia in grado di fornire ulteriori elementi che dimostrino che ciascuno di tali individui fosse effettivamente impegnato in atti riconducibili a DPH nel momento del targeting – considerando che tale status non è permanente, ma discontinuo e intermittente (ICTY, Prosecutor v. StrugarAppello, § 177) in quanto limitato alla durata della partecipazione diretta – essi devono essere considerati civili. In difetto di tale prova, la loro uccisione deve ritenersi contraria al DIU e, dunque, illecita. 

“Strategia della decapitazione†contro i leader politici del paese. Il termine strategia della decapitazione fa riferimento al tentativo di paralizzare un gruppo o uno Stato attraverso la rimozione dei suoi vertici e viene spesso attuato mediante operazioni di targeted killings (Antulio J. Echevarria 2017). Israele ha condotto dei raid contro il palazzo presidenziale di Masoud Pezeshkian e contro la residenza della Guida Suprema (rahbar), l’ayatollah Ali Khamenei. Nei giorni successivi al 13 giugno, sono stati colpiti anche il Ministero della Difesa e il quartier generale delle Forze Armate. Come già osservato per i leader militari, il Ministero della Difesa e i centri di comando delle forze armate sono generalmente considerati obiettivi legittimi, in virtù della loro funzione strategica (Jachec-Neale 2018). Allo stesso modo, Khamenei potrebbe essere considerato un obiettivo legittimo, dal momento che tra le funzioni della Guida Suprema rientrano il comando delle forze armate, la dichiarazione di guerra e di pace e la mobilitazione delle truppe, elementi che suggeriscono uno status militare del rahbar. Rimane controverso, però, l’attacco al palazzo presidenziale.

Non si tratta, in realtà, di una strategia bellica nuova: si pensi, ad esempio, al bombardamento della residenza di Slobodan MiloÅ¡ević durante l’intervento NATO del 1999 (Jachec-Neale 2015). Nonostante ciò, la questione dello status e della legittima attaccabilità dei leader politici è poco esplorata dalla dottrina. Se l’obiettivo era l’edificio in quanto tale, occorre applicare la già vista distinzione tra bene civile e obiettivo militare, considerando se, oltre alla funzione politica, il palazzo presidenziale avesse assunto anche una funzione militare al momento dell’attacco. Se, invece, l’intento era colpire direttamente il Presidente, e dunque il leader politico, la questione resta giuridicamente aperta. Potrebbe rilevare, in tal caso, la Convenzione del 1973 sulla prevenzione e la repressione di crimini commessi contro individui internazionalmente protetti, in particolare l’art. 1, lett. b), che estende tale protezione a qualsiasi rappresentante o funzionario statale che, al momento e nel luogo del fatto, goda di una tutela speciale contro attacchi alla persona, libertà o dignità, ivi inclusi i suoi alloggi privati, i locali ufficiali e i mezzi di trasporto. Tuttavia, pur suggerendo l’esistenza di un regime di protezione speciale per le più alte cariche dello Stato, la Convenzione del 1973 si applica esclusivamente ad atti ostili compiuti da persone fisiche e non da soggetti statali (art. 1(2): “Alleged offender†means a person […]).

L’incidenza dell’operazione “Leone nascente†sulle trattative per la conclusione di un accordo internazionale

Una volta rilevate le principali criticità dell’operazione “Leone nascente†nella prospettiva jus ad bellum e jus in bello, un ultimo profilo, quello relativo al suo possibile impatto sulla dimensione diplomatica e negoziale, merita attenzione.

L’attacco israeliano si inserisce, infatti, nel contesto delle negoziazioni tra Stati Uniti e Iran su un trattato in materia nucleare, ora in stallo. Le trattative risultavano già difficili a causa della richiesta statunitense di una rinuncia totale dell’Iran al proprio programma nucleare, in contrasto con il Trattato sulla non proliferazione, il cui art. 4 garantisce il diritto all’uso pacifico dell’energia nucleare. L’Iran si era espresso su tali condizioni, definendole “inaccettabiliâ€. In questa prospettiva, le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti precedenti (“Trump warns of ‘massive conflict’ soon if Iran nuclear talks break downâ€) e successive all’attacco (“Trump warns Iran to agree to a deal ‘before there is nothing leftâ€), nonostante il contestuale distanziamento a livello di coinvolgimento diretto dalle operazioni israeliane, sollevano dubbi circa una possibile coercizione esterna. Qualora l’accordo venisse effettivamente concluso, tali circostanze potrebbero configurare un motivo di nullità del trattato ai sensi dell’art. 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che sancisce la nullità di un trattato concluso sotto minaccia o uso della forza. Tale disposizione non esclude che la coercizione possa provenire da uno Stato terzo, non parte alla negoziazione e, al contempo, le dichiarazioni statunitensi sembrano potenzialmente qualificabili come minaccia o escalation annunciata dell’uso della forza. Sebbene al momento le trattative risultino sospese, si ritiene che questo profilo rimanga di grande rilevanza per valutare la validità giuridica di un eventuale accordo futuro tra le parti (su cui v. più approfonditamente Mauri, Spagnolo).

Data articolo:Mon, 23 Jun 2025 18:10:41 +0000
Diritti Umani a cura di Carlo Mazzoleni
Responsabilità d’impresa e industria estrattiva: cosa cambia con la nuovaDirettiva UE? Il caso del marmo di Carrara

Carlo Mazzoleni (Università di Roma La Sapienza)

  1. Introduzione

A meno di un anno dalla sua adozione, la Direttiva (UE) 2024/1760 relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità (di seguito “Direttiva†o “CSDDD†dall’inglese Corporate Sustainability Due Diligence Directive) è oggetto di un repentino ripensamento da parte della neoeletta Commissione UE. Il 26 febbraio 2025 è stato infatti presentato il c.d. “Pacchetto Omnibus“, un insieme di proposte volte a semplificare la normativa UE in materia di sostenibilità e che potrebbe incidere significativamente sulla portata della Direttiva (per un commento vedi il recente contributo su questo blog). Il 3 aprile 2025, in attesa di discutere le possibili modifiche, il Parlamento UE ha approvato l’estensione dal 2026 al 2027 del termine per il recepimento della CSDDD a livello nazionale da parte degli Stati membri.

La proposta di revisione ha destato critiche sia da parte di alcune grandi imprese, che chiedono maggiore certezza normativa, che da varie organizzazioni della società civile, preoccupate di vedere vanificata l’adozione di una legge che introduce nuovi obblighi per le grandi imprese relativi agli impatti negativi sull’ambiente e sui diritti umani delle loro attività commerciali, incluso lungo le loro catene del valore. Per quanto siano stati evidenziati certi limiti (soprattutto in relazione all’ambito di applicazione) ed il rischio di effetti indesiderati nei paesi in via di sviluppo, la CSDDD rappresenta un fondamentale passo in avanti in materia di sostenibilità aziendale, in quanto traduce in obblighi giuridici standard di condotta internazionali − quali i Principi Guida ONU su impresa e diritti umani (Principi Guida) − non direttamente vincolanti per le imprese e ai quali gli Stati non hanno dato completa attuazione.

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2022 un rapporto del Gruppo di Lavoro ONU su imprese e diritti umani ha individuato varie criticità nell’attuale ordinamento in relazione alla tutela dell’ambiente ed il rispetto dei diritti fondamentali a fronte delle attività d’impresa. Oltre a condannare la diffusione del fenomeno del caporalato e le connesse violazioni dei diritti dei lavoratori (soprattutto nei settori agro−alimentare e tessile), il rapporto individua una serie di scenari in cui le attività d’impresa determinano danni ambientali (come nel caso dell’ILVA a Taranto e delle attività estrattive di ENI in Basilicata) che comportano gravi lesioni di diversi diritti degli individui interessati. Un ulteriore settore industriale che in Italia, come nel resto del mondo, risulta particolarmente esposto al rischio di causare danni ambientali e violazioni dei diritti umani è quello minerario: emblematico in tal senso è il caso dell’estrazione di marmo nelle Alpi Apuane, in provincia di Massa−Carrara, sorprendentemente non preso in considerazione dal Gruppo di Lavoro ONU, nonostante la presentazione di uno studio al riguardo – vedi qui. Negli ultimi anni, infatti, l’esponenziale aumento delle attività estrattive ha esacerbato gli impatti negativi sia ambientali (quali l’inquinamento delle acque, l’erosione del suolo, l’alterazione paesaggistica e rischi per la biodiversità) che socio−economici (quali le scarse ricadute occupazionali ed i limiti a forme alternative di sviluppo per il territorio), il che ha portato varie associazioni della società civile a chiedere regole più stringenti in materia di attività minerarie (vedi Braucher e Imperatore).

Il presente contributo intende analizzare brevemente le implicazioni che potrebbero derivare dalla trasposizione in Italia della CSDDD per le imprese operanti nel settore minerario, utilizzando il caso dell’estrazione di marmo nelle Alpi Apuane per evidenziare gli impatti negativi associati alle attività estrattive ed i limiti dell’attuale quadro normativo nel farvi fronte.

2. Nuove regole di condotta per le imprese introdotte dalla CSDDD

La Direttiva richiede agli Stati membri di imporre alle grandi imprese – incluse quelle attive nel settore estrattivo – di adottare misure idonee ad identificare e affrontare gli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente che possono verificarsi nell’ambito delle loro attività e lungo le rispettive catene del valore, oltre a stabilire un regime di responsabilità civile e amministrativa per il mancato rispetto di tali obblighi (per un’analisi esaustiva si rimanda a Bonfanti).

Nell’ambito di applicazione della CSDDD rientrano le imprese che soddisfano i requisiti stabiliti all’articolo 2, tra cui: le imprese con sede nell’UE con almeno 1000 dipendenti e un fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di euro; le imprese straniere che generano lo stesso fatturato nel mercato dell’Unione. Secondo il Datahub gestito dall’ONG olandese SOMO, sono circa 7000 le imprese interessate, di cui circa 5000 con sede nell’UE (tra cui 420 in Italia). A tali imprese è richiesto di adottare una serie di misure volte ad identificare, prevenire, cessare e porre rimedio agli impatti negativi dovuti sia alle loro attività che a quelle delle loro filiali e dei partner commerciali nella loro catena di attività.

Il contenuto del dovere di diligenza è definito dagli articoli 7-16 della Direttiva che, sostanzialmente, ricalcano il processo di due diligence elaborato in strumenti internazionali quali i Principi Guida dell’ONU e le Linee Guida dell’OCSE, espressamente richiamati nei Considerando della CSDDD (ad esempio, nn. 5 e 6). In particolare, l’articolo 8 impone l’adozione di misure adeguate per individuare e valutare gli impatti negativi, effettivi o potenziali, delle attività d’impresa: a tal fine, alle imprese viene chiesto di mappare le proprie attività – e quelle delle loro filiali e partner commerciali − al fine di individuare i settori generali in cui è più probabile che gli impatti negativi si verifichino e, quindi, di effettuare una valutazione più approfondita in relazione ai settori maggiormente critici. Sulla base dei rischi riscontrati, la CSDDD prescrive l’adozione di misure idonee a prevenire gli impatti negativi potenziali (art. 9) e ad arrestare quelli effettivi (art. 10). In entrambi i casi, le imprese sono chiamate ad effettuare gli investimenti finanziari o non finanziari, gli adeguamenti o gli aggiornamenti necessari (ad esempio, degli impianti, dei processi e delle infrastrutture di produzione); di apportare le modifiche o i miglioramenti necessari al piano aziendale, alle strategie generali e alle attività della società stessa; ove necessario, di predisporre e attuare un piano d’azione che preveda scadenze ragionevoli e precise per l’attuazione di misure adeguate e indicatori qualitativi e quantitativi per misurare i progressi. Altra disposizione estremamente innovativa è l’art. 13, che introduce l’obbligo per le imprese di adottare misure adeguate per dialogare in modo efficace con i portatori di interessi in varie fasi del processo di due diligence, tra cui nell’individuazione degli impatti negativi ex art. 8 e nell’elaborazione di piani correttivi ex artt. 9 e 10.Per favorire un’effettiva partecipazione dei portatori di interesse, alle imprese è richiesto di identificare ed affrontate gli ostacoli al dialogo e provvedere a che i partecipanti non siano soggetti ad azioni di ritorsione, anche mantenendo la riservatezza e l’anonimato.

Circa i meccanismi sanzionatori, la CSDDD prevede due diverse conseguenze in caso di violazione degli obblighi di dovuta diligenza. Da un lato, gli Stati membri sono chiamati ad istituire un’autorità nazionale di controllo (art. 24) competente a richiedere informazioni ed effettuare indagini (di propria iniziativa o a seguito di segnalazione circostanziata trasmessale a norma dell’art. 26), imporre ordini e sanzioni pecuniarie (in conformità con l’art. 27), adottare misure provvisorie in caso di rischio imminente di danni gravi e irreparabili. Dall’altro, l’art. 29 introduce un regime di responsabilità civile per i danni causati dall’inosservanza agli obblighi di cui agli artt. 10 e 11 (relativi alla prevenzione ed all’arresto degli impatti negativi). La norma stabilisce che i soggetti danneggiati debbano essere nelle condizioni di potere ottenere sia un pieno risarcimento che provvedimenti giudiziali inibitori che costringano le imprese a porre fine alle violazioni compiendo un’azione o cessando una condotta.

Per valutare in che modo le imprese interessate dovranno modificare le proprie pratiche e politiche aziendali per conformarmi alla Direttiva, è necessario confrontare le nuove regole con quanto previsto dalle legislazioni nazionali che regolano le diverse attività d’impresa. Concentrandosi in questa sede sul settore minerario italiano, si prende in esame il caso dell’estrazione di marmo nelle Alpi Apuane al fine di analizzare se, e in che misura, l’attuale quadro normativo richieda alle imprese di prendere in considerazione ed affrontare gli impatti negativi, potenziali ed attuali, delle proprie attività minerarie sull’ambiente e sui diritti fondamentali, così da far emergere le principali novità che saranno introdotte con la trasposizione della CSDDD nell’ordinamento italiano.

3. L’estrazione di marmo dalle Alpi Apuane: impatti socio-ambientali e limiti normativi

A partire dalla fine degli anni ‘80, la millenaria attività di estrazione di marmo dalle Alpi Apuane, in particolare nella provincia di Massa−Carrara, ha conosciuto una significativa crescita per effetto di due principali fattori (vedi Braucher). Da un lato, l’introduzione di moderne e più efficienti tecnologie per l’escavazione ha permesso di aumentare la produttività; dall’altro, l’avvento del mercato del carbonato di calcio, prodotto utilizzato in svariati settori e ricavabile dalla riduzione in polvere di scaglie e detriti di marmo, ha fatto sensibilmente crescere la domanda di materiale. In passato considerati scarti, oggi quasi l’80% del marmo estratto dalle cave di marmo è composto da detriti, mentre i tradizionali blocchi destinati a fini artistici e ornamentali costituiscono circa il 20% (vedi lo studio di Legambiente relativo a 76 cave nel periodo 2002−2022).

Nonostante l’estrazione e la lavorazione del marmo abbiano un importante valore tradizionale e culturale per il territorio e la sua popolazione − oltre ad essere un settore estremamente redditizio per le imprese che vi operano −, da anni varie associazioni della società civile (tra cui, in ordine alfabetico: Apuane Libere, Athamanta, Legambiente Carrara, Salviamo le Apuane) denunciano come l’aumento delle attività minerarie stia generando diverse ricadute socio-ambientali negative.

Particolarmente gravi sono le conseguenze per l’ambiente, incluso in aree protette del Parco Regionale delle Alpi Apuane. La questione principale riguarda l’inquinamento delle risorse idriche a causa delle infiltrazioni di “marmettolaâ€, materiale prodotto dall’estrazione del marmo e dal forte impatto sulla qualità delle acque superficiali e sotterranee (vedi qui, qui e per articoli scientifici Tazzini et al. e Piccini et al.) Inoltre, la crescente attività estrattiva ha determinato un’alterazione permanente del paesaggio, incidendo sulla biodiversità delle aree interessate (vedi Gentili et al.). Ulteriore impatto ambientale – dalle dirette conseguenze per la sicurezza degli abitanti delle zone interessate – è il dissesto idrogeologico dovuto alle operazioni di cava e alla gestione degli scarti di produzione, che comporta un aumento del rischio di frane e di alluvioni (vedi al riguardo l’esposto presentato da Legambiente alla Procura di Carrara nel 2023). Per quanto riguarda poi gli impatti socio-economici, da tempo il settore lapideo determina scarse ricadute occupazionali, costituendo al contempo un limite a forme alternative di sviluppo economico, ad esempio nei settori turistico e agricolo−pastorale (circa tali impatti e possibili soluzioni proposte dalla società civile vedi il Manifesto per le Alpi Apuane ed il Piano Programma di Sviluppo Economico Alternativo delle Apuane).

A fronte degli impatti socio−ambientali causati dalle attività minerarie, l’attuale quadro legislativo risulta carente di norme idonee ad assicurarne un’efficace individuazione e prevenzione. Senza entrare nel dettagli della complessa normativa applicabile − suddivisa tra norme nazionali (in materia estrattiva è tutt’ora in vigore il  regio decreto n. 1443 del 1927, mentre in materia ambientale rileva il Testo Unico Ambientale del 2006), regionali (essendo le Regioni competenti a disciplinare i processi di autorizzazione per le cave (dal DPR 2/1972) e le miniere (dal D. Lgs. 112/1998): ad esempio, in Toscana è in vigore laLegge regionale 78/1998, modificata con riguardo alle sole cave dalla Legge regionale 35/2015; sul reparto di competenze in materia ambientale vedi qui) e comunali (essendo affidata ai Comuni la competenza di autorizzare le  attività estrattive sul proprio territorio – vedi qui per il Comune di Carrara) − ci si limita a sottolineare come il procedimento per il rilascio delle autorizzazioni per le attività estrattive prenda in scarsa considerazione i possibili impatti negativi sull’ ambiente e le implicazioni socio−economiche per i cittadini.

In primo luogo, ai fini del rilascio dell’autorizzazione le imprese non sono tenute a effettuare una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) a meno che la cava superi determinati limiti di materiale estratto o di estensione (ai sensi dell’ allegato III del TUA, lettera “sâ€, la VIA è richiesta per cave con più di 500.000 m3 /a di materiale estratto o di un’area interessata superiore a 20 ettari). Nel contesto dell’estrazione di marmo dalle Alpi Apuane, la gran maggior parte delle cave non raggiunge tali soglie, esentando così le imprese dall’obbligo di VIA. A questo proposito, nel Rapporto Cave 2021 Legambiente raccomanda l’adozione di una nuova legge quadro che preveda l’obbligo di effettuare la VIA per tutte le richieste di estrazione. Inoltre, sebbene le autorizzazioni prevedano spesso prescrizioni volte a garantire un appropriato smaltimento degli scarti di lavorazione e a garantire la stabilità idrogeologica del terreno, queste misure si rivelano spesso inefficaci. Ad esempio, come più volte evidenziato da Legambiente (v. qui e qui), le disposizioni per lo smaltimento della “marmettola†risultano insufficienti a prevenire l’inquinamento delle risorse idriche. In generale, viene criticata l’impostazione stessa di tali prescrizioni, che si limitano a imporre determinate azioni piuttosto che richiedere il raggiungimento di un risultato concreto (evitare la dispersione della “marmettola†nell’ambiente). A tutto questo si aggiunge la difficoltà di verificare il rispetto da parte delle imprese di tali prescrizioni, dovuta alla scarsa trasparenza delle attività nelle cave (vedi qui e qui). Questa opacità rende estremamente complesso ricondurre gli impatti ambientali a determinate condotte − soprattutto perché tali effetti, in particolare l’inquinamento delle acque, possono emergere a distanza di tempo e in aree distanti dai siti estrattivi −, garantendo così l’impunità delle imprese responsabili.

4. Considerazioni conclusive

Il caso dell’estrazione del marmo dalle Alpi Apuane è indicativo dei rischi ambientali e sociali legati alle attività minerarie in Italia, nonché dei limiti dell’attuale quadro normativo nel prevenirli e farvi fronte. Peraltro, tale scenario potrebbe estendersi nei prossimi anni ad altre parti d’Italia, in particolare quelle ricche di materie prime necessarie per produrre energie rinnovabili e dunque essenziali per la transizione energetica (vedi qui la mappa elaborata dall’ISPRA), di cui l’UE ha stabilito di aumentare la produzione con il Regolamento sulle materie prime critiche del 2024, che l’Italia ha recepito con il D.L. 84/2024.

Dunque, la trasposizione nell’ordinamento italiano della CSDDD rappresenta un’importante occasione per colmare le attuali lacune normative, imponendo alle imprese minerarie nuovi obblighi finalizzati ad individuare, prevenire e porre termine agli impatti negativi delle proprie attività su ambiente e diritti fondamentali. Tali regole di condotta imporranno alle imprese interessate di riconsiderare le proprie pratiche aziendali che, per quando conformi all’attuale legislazione, potrebbero non soddisfare i requisiti del ben più articolato processo di due diligence introdotto dalla Direttiva. Tra le principali novità che la CSDDD è destinata ad introdurre vi sono gli obblighi di identificare con precisione gli impatti negativi potenziali e di adottare misure idonee a prevenirli: infatti, come emerso in relazione al caso dell’estrazione di marmo nelle Alpi Apuane, ad oggi alle imprese estrattive non è richiesto sempre di effettuare la VIA e le prescrizioni autorizzative impongono esclusivamente obblighi di condotta e non di risultato. Inoltre, la mancata osservanza del nuovo dovere di diligenza consentirà ai diretti interessati di attivare i meccanismi sanzionatori, di natura amministrativa e civili, contenuti nella Direttiva.

Naturalmente, i nuovi obblighi si applicheranno in via diretta esclusivamente alle grandi imprese che rientrano nell’ambito di applicazione soggettivo della CSDDD: nel contesto dell’estrazione di marmo a Carrara si tratterebbe di poche imprese, poiché la maggior parte delle aziende minerarie non raggiunge le soglie di fatturato e numero di dipendenti. Nondimeno, la Direttiva è destinata a produrre conseguenze indirette anche per le imprese che siano “partner commerciali nella catena di attività†di imprese vincolate dalla CSDDD, cioè quelle con cui tale impresa abbia concluso un accordo commerciale connesso alle proprie attività ed inerente, tra gli altri, all’estrazione o all’approvvigionamento di materie prime (art. 3, lettera “gâ€). Tale definizione ricomprende certamente le piccole-medie imprese dedite all’escavazione di marmo e che riforniscono di materiale le grandi imprese vincolate al rispetto della CSDDD. Poiché per non incorrere in violazioni delle nuove regole le grandi imprese dovranno garantire che anche i propri partner commerciali operino in maniera conforme ai nuovi obblighi, è verosimile che verranno elaborate nuove clausole nei contratti di fornitura che impongano alle piccole e medie imprese di adeguarsi ai requisiti di sostenibilità previsti dalla Direttiva.

In ogni caso, perché la CSDDD produca effettivi cambiamenti nell’attuale contesto estrattivo italiano, tuttavia, sarà essenziale una efficace recepimento della normativa europea attraverso un procedimento partecipato e trasparente, che porti all’adozione di una nuova legge piuttosto che all’estensione di normative già esistenti. Fondamentale sarà poi l’elaborazione di chiare linee guida che definiscano in concreto il concetto di “misure idonee†a garantire il rispetto della Direttiva da parte delle imprese: l’art. 19 della CSDDD affida tale compito alla Commissione, chiamata ad elaborare indicazioni che definiscano concretamente la condotta richiesta alle imprese in specifici ambiti e, in particolare, nei settori maggiormente critici quale quello minerario. Nonostante possibili modifiche previste dal pacchetto Omnibus citato in apertura, gli Stati membri e l’Italia sono tenuti a prepararsi a tradurre la Direttiva in norme nazionali vincolanti per le imprese: per il settore estrattivo italiano questo non potrà che implicare importanti cambiamenti che avranno ripercussioni tanto nel contesto dell’estrazione del marmo dalle Alpi Apuane quanto nei futuri progetti per l’estrazione di minerali critici per la transizione energetica.

Data articolo:Mon, 16 Jun 2025 09:35:30 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Maddalena Cogorno
«GREAT EXPECTATIONS»: PRIME CONSIDERAZIONI SULL’ISTITUZIONE DI UN TRIBUNALE SPECIALE PER L’AGGRESSIONE DELL’UCRAINA

Maddalena Cogorno (Università di Firenze)

Il 14 maggio 2025, in occasione della riunione annuale del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, a Lussemburgo, l’Ucraina ha formalmente richiesto al Consiglio d’Europa di istituire un Tribunale speciale per il crimine di aggressione (TSA) e il Comitato ha invitato il Segretario Generale a guidare il processo di istituzione, che ha così preso avvio.

Il Tribunale, dunque, si farà e anche piuttosto rapidamente: la sua inaugurazione potrebbe già avvenire nel corso del 2025.

La bozza di statuto non è ancora stata resa pubblica ma, sulla base di informazioni diffuse dal Consiglio d’Europa, è possibile iniziare a riflettere sul ruolo e il funzionamento del futuro tribunale.

La prima domanda che sorge è che tipo di tribunale sarà.

Negli ultimi decenni, infatti, la repressione dei crimini internazionali si è realizzata in una varietà di forme: tribunali domestici (anche attraverso la giurisdizione universale), tribunali puramente internazionali (ICC, ICTY/ICTR), nonché grazie ai c.d. “tribunali ibridi†che, dopo un periodo di quiescenza, sono tornati in auge dal 2015 (Corte penale speciale in Repubblica Centrafricana (CPS), Kosovo Specialist Chambers (KSC)).

A prima vista, il TSA sembra configurarsi come un tribunale internazionale. Esso avrà competenza solo sul crimine di aggressione, come definito nella risoluzione 3314 (xxix) dell’Assemblea generale ONU, commesso sul territorio dell’Ucraina da «senior political and military leaders who are responsible for planning, preparing, initiating, or executing the crime». L’assenza di riferimenti espliciti alla nazionalità dei leader amplia la competenza ratione personae del tribunale, rendendola più universale e ammettendo che individui di qualsiasi nazionalità che abbiano avuto un ruolo significativo nell’aggressione dell’Ucraina potranno essere perseguiti di fronte al TSA; così come l’assenza di riferimento al diritto nazionale ucraino, con l’esclusione quindi della possibilità di perseguire anche reati ordinari (tipico dei tribunali misti), allontana il tribunale dal sistema giudiziario ucraino, sottolineandone l’internazionalità. Anche la sede, che verrà definita nei prossimi mesi e che, per ragioni di sicurezza e di fluidità nella cooperazione con Eurojust e la Corte penale internazionale, si prevede sia posta a L’Aja, città simbolo della giustizia internazionale, confermerebbe questa vocazione internazionale del TSA.

Alcuni tratti già rivelati della conformazione del tribunale, però, potrebbero tradire il modello puramente internazionale e spingere il TSA nel ventaglio dei tribunali misti, caratterizzati da una sintesi di elementi strutturali e funzionali tipici sia di tribunali interni sia di tribunali internazionali

Il TSA, infatti, secondo quanto reso noto, «will be established within the framework of the Council of Europe» ma «will derive its jurisdiction from Ukraine»: non è chiaro, quindi, se la base giuridica del tribunale sarà (come avvenne per la Corte Speciale per la Sierra Leone) direttamente l’accordo internazionale tra il Governo ucraino e il Consiglio d’Europa, o, come nel caso – ad esempio – delle Kosovo Specialist Chambers, la legislazione nazionale attuativa. Certo è che, assente una delle due fonti, il tribunale non può prendere vita, almeno nelle forme immaginate e che quindi una qualche sorta di collegamento con l’Ucraina lo ancorerà al sistema giudiziario nazionale, come è tipico dei tribunali misti.

Anche la composizione delle Camere, che in molti tribunali misti includeva sia personale nazionale sia reclutato a livello internazionale e che rappresenta un fattore chiave per la definizione della natura di una corte, potrebbe allontanare il TSA dal modello puramente internazionale. Infatti, se la puntualizzazione che sia il procuratore sia i giudici «would not need to be a national of a state that is Member or Associate Member of the Management Committee» sembrerebbe suggerire che non via sia spazio riservato a giudici nazionali, sarà interessante verificare se, in linea con l’esperienza delle KSC, tutto il personale dovrà avere nazionalità non ucraina o se, pur non esistente una quota prevista di giudici ucraini, i giuristi ucraini potranno partecipare all’attività del tribunale.

Infine, il tribunale sarà finanziato su base volontaria da un gruppo di Stati, non necessariamente membri del Consiglio d’Europa, «in cooperation with Ukraine»: quest’ultima precisazione sembra sottolineare una particolare responsabilità dell’Ucraina nel garantire risorse al TSA, come fu il caso delle Camere per la Cambogia, e dei Panels in Timor Leste.

La definizione di tali elementi non è mai neutra: ogni scelta, infatti comporta significative ripercussioni in termini di legittimazione della corte, capacity-building, transitional justice e peacebuilding, che sono stati inizialmente riconosciuti come effetti “collaterali†stragiudiziali dell’attività processuale dei tribunali misti, ma che sono divenuti così importanti da essere posti, nelle corti più recentemente istituite, una finalità esplicita, nonché un loro tratto identitario. Funzioni di tal genere sembrano, in effetti, affidate anche al TSA, che, secondo quanto diffuso dal Consiglio d’Europa, avrà il compito di «reaffirm the fundamental principle that war must not be waged as a tool of state policy» e rappresenterà «an investment in global peace, justice and the credibility of international law». Diversamente dai tribunali misti, però, queste funzioni sembrano rivolgersi all’intera comunità internazionale e non essere volte specificatamente a ricostruire il tessuto sociale dell’Ucraina, presumibilmente in ragione della natura stessa del crimine di aggressione, che non comporta un logoramento interno allo Stato, quanto piuttosto un deterioramento delle relazioni tra Stati e della rule of law internazionale.

Qualora gli elementi ancora indefiniti accentuassero il coinvolgimento dell’Ucraina nel lavoro del tribunale, esso potrebbe più convintamente essere ricondotto nell’alveo delle corti ibride, andando a confermare, peraltro, anche le più recenti tendenze manifestate in riferimento a tale fenomeno: l’iniziativa per l’istituzione della corte proveniente dalla comunità internazionale, più che dallo Stato interessato, il coinvolgimento di un’organizzazione regionale e non più (o non principalmente) delle Nazioni Unite in un’ottica di regionalizzazione della repressione di crimini internazionali, una struttura accentrata e parallela o distaccata rispetto ai tribunali dello Stato coinvolto.

Infatti, la richiesta del 14 maggio rappresenta il culmine di un percorso iniziato subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, più di tre anni fa. La proposta di ricorrere ad un Tribunale speciale per perseguire il crimine di aggressione fu avanzata da giuristi e funzionari governativi ucraini già nel febbraio 2022, ma guadagnò rapidamente il sostegno di giuristi internazionali, organizzazioni per i diritti umani e numerosi Stati, per la maggioranza europei, e l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa fu il primo organo ad invocarne l’istituzione nell’aprile 2022, appena due mesi dopo l’invasione.

Anche l’Unione europea si attivò rapidamente: a novembre 2022 la Commissione europea presentò agli Stati membri diverse opzioni per garantire la responsabilità del crimine di aggressione contro l’Ucraina, confluite poi nel lavoro del Core group attivato da gennaio 2023 con rappresentati di diversi Stati e organizzazioni internazionali. Così, con un fortissimo coinvolgimento e una significativa propulsione delle organizzazioni regionali, sono state gettate le basi per l’istituzione di un tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina, fino all’elaborazione dello statuto che ne regolerà il funzionamento.

Un altro tratto peculiare degli ultimi tribunali ad hoc istituiti e che si riproporrà nel funzionamento del TSA, è la necessità di affrontare il tema della complementarità con la Corte penale internazionale. Al pari della CPS in Repubblica Centrafricana, infatti, il tribunale si rivolgerà ad una situazione su cui la CPI sta già indagando. A differenza della CPS, che ha competenza su tutti i crimini internazionali e che sembra volersi combinare “verticalmenteâ€, sul piano della competenza personale, con il lavoro della CPI, tramite un’implicita suddivisione per la quale a quest’ultima verrebbero riservati i “big fish†e alla prima altri imputati di rango inferiore, nel caso del TSA è esplicitato che, siccome la CPI «currently lacks the legal authority to prosecute the crime of aggression in this case due to jurisdictional limitations […] The Special Tribunal will fill this gap», proponendo una sorta di “complementarità orizzontale†ratione materiae, sul piano del tipo di crimine indagato. In ipotesi di competenza concorrente, però, in entrambi i casi, è alla CPI che viene riconosciuta primazia. Questo spostamento di baricentro in favore del tribunale de L’Aja sembra convalidare la teoria della “complementarità positiva†proposta da Nouwen e Kersten: nonostante lo Statuto di Roma preveda un meccanismo di complementarità per cui la CPI può essere attivata solo successivamente ad una verifica che le giurisdizioni interne siano «unable or unwilling» a procedere,la prassi dell’ufficio della procura si è sviluppata in un senso parzialmente differente, premurandosi di ricordare, quando occuparsi di un caso di fronte alla CPI si è rivelato difficoltoso, l’importanza di preferire processi a livello locale, e viceversa, incoraggiando vivacemente il referral da parte degli Stati quando è apparso agile procedere di fronte alla CPI stessa. Secondo tale teoria, si rafforza così un’ideologia per cui la dimensione internazionale sarebbe preferibile per la repressione dei crimini internazionali, a scapito di quel principio di sussidiarietà che invece anima lo spirito dello Statuto di Roma. Il TSA, pur non essendo una corte nazionale, è comunque frutto della volontà e abilità dello Stato di procedere, sebbene in concerto con la comunità internazionale, e sembra porsi in una relazione ambigua con la CPI, volendone evidenziare la centralità quando questa riesce ad attivarsi, ma tentando, contemporaneamente, di aggirarne i limiti (e quindi, all’atto pratico, in una certa misura delegittimandola), quando essa si rivela inerme, in una specie di innovativa “complementarità inversaâ€.

Quello della complementarità, però, non è l’unico tratto problematico del lavoro del TSA. Il tribunale, infatti, presenta anche delle questioni nuove, che implicano delle criticità peculiari.

Il TSA sarà il primo tribunale ad occuparsi del crimine di aggressione nella sua forma attuale, nonché il primo tribunale istituito ad hoc per rivolgersi ad una situazione che non abbia carattere – puramente o primariamente – interno allo Stato interessato. L’esperienza più simile potrebbe essere riconosciuta nel lavoro delle Extraordinary African Chambers, che, però, sono state considerate un tribunale meramente nazionale, operante secondo il principio di giurisdizione universale grazie all’assistenza internazionale. Tale novità, connaturata alla struttura stessa del crimine di aggressione, convogliata nella forma di un tribunale ad hoc rischia di trasformare la repressione dei crimini internazionali in un utilizzo strategico e politicizzato del diritto internazionale. Il pericolo, infatti, è quello di plasmare il sistema di giustizia internazionale, ricorrendo all’istituzione di un tribunale internazionale laddove gli Stati (principalmente occidentali) desiderino condannare politicamente l’azione di un certo Stato, in una versione deformata di quella victor’s justice che tanto fu criticata a Norimberga, e pure in una forma più estrema, considerato che, al netto delle molteplici criticità, il tribunale per i crimini dei nazisti lavorò al termine del conflitto e non durante come farà il TSA – altra circostanza che ne sottolinea la potenzialità di strumento politico di lawfare. Tale politicizzazione erode l’universalità della repressione dei crimini internazionali, ponendo in campo evidenti double standard e ignorando altre situazioni (come l’aggressione continua da parte di Israele dei Territori Palestinesi) di cui è scomodo o meno conveniente occuparsi. Questa posizione sembra, in effetti, confermata nella dichiarazione resa dal Consiglio d’Europa che «The tribunal will reaffirm the fundamental principle that war must not be waged as a tool of state policy», che pare voler mutare il TSA in uno strumento principalmente politico. A cascata, il rischio è quindi, di ulteriormente minare la credibilità del funzionamento e della tenuta del diritto internazionale, già gravemente compromesso.

Criticabile, ancora nel senso della credibilità dell’operato del tribunale, è la scelta di ammettere la conduzione di processi in absentia, esclusi di fronte alla CPI dall’art. 63 dello Statuto di Roma, come innanzi a ICTY (art. 21 dello Statuto), ICTR (art. 20 dello Statuto), alla Corte Speciale per la Sierra Leone (art. 17 dello Statuto) e alle Camere per la Cambogia (art. 81 delle Internal Rules). La scelta del TSA, in realtà, non è del tutto sorprendente, vista la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che li ammette, pur con le dovute garanzie, riconoscendo che «the impossibility of holding a trial by default may paralyse the conduct of criminal proceedings, in that it may lead, for example, to dispersal of the evidence, expiry of the time-limit for prosecution or a miscarriage of justice». Ciononostante, la possibilità di procedere in absentia di fronte al TSA richiama fortemente l’esperienza dello Tribunale Speciale per il Libano (STL), che vide tutti i casi svolgersi assenti gli imputati e che fu aspramente criticata. Se dalla prospettiva della tutela dei diritti dell’imputato questa scelta di per sé non viola le prerogative dell’individuo, dal punto di vista dell’effettività del lavoro del tribunale e della sua percepita legittimità da parte della comunità internazionale e della società civile, essa è decisamente meno auspicabile: il rischio è la riduzione del lavoro del TSA ad un esercizio meramente simbolico ed intellettuale, per dare una forma processuale ad una condanna politica che è già possibile, con altri strumenti e che è già, almeno parzialmente, in atto, ad esempio con processi di fronte alla Corte europea dei diritti umani per le violazioni della CEDU nel contesto dell’aggressione, che si stanno svolgendo senza la partecipazione della Federazione Russa, uscita dal Consiglio d’Europa nel novembre 2022. Istituire un tribunale, condurre processi, emettere sentenze senza la presenza degli individui interessati (senza quindi, dalla loro prospettiva, una variazione delle loro vite), che possono nel frattempo continuare a condurre le proprie funzioni, comporta il pericolo di minimizzare qualsivoglia effetto deterrente e di frustrare le aspettative delle vittime, in un’epoca in cui la percezione dell’efficacia del diritto internazionale è fondamentale per garantire cooperazione e supporto.

Proprio le vittime, poi, rimangono una questione aperta, su cui solo la pubblicazione dello statuto del TSA potrà gettare luce. Se, da una parte, il coinvolgimento delle vittime nei processi per i crimini internazionali è ormai un elemento fondamentale del funzionamento dei tribunali penali internazionali e ibridi, fino quasi a sfociare in un “victim-centered approach†che dimentica la vocazione originaria dei tribunali di discernimento delle responsabilità, caricandoli invece di compiti di transitional justice che per loro natura possono solo parzialmente soddisfare, dall’altra il TSA sarà il primo tribunale a doversi interrogare sullo spazio da concedere alle vittime del crimine di aggressione, che non ha – a differenza degli altri crimini internazionali – obiettivo primario di colpire gli esseri umani ma che vede nello Stato aggredito la propria vittima principale. Spetterà dunque al TSA definire per tale crimine il concetto di vittima, che l’art. 85 delle Regole di procedura e prova della CPI  identifica invece, genericamente, come «natural persons who have suffered harm as a result of the commission of any crime within the jurisdiction of the Court», incluse le «organizations or institutions that have sustained direct harm to any of their property which is dedicated to religion, education, art or science or charitable purposes, and to their historic monuments, hospitals and other places and objects for humanitarian purposes». Tale formulazione, applicato nel caso dell’aggressione, porterebbe a riconoscere quali vittime anche civili danneggiati in modi che non sono necessariamente contrari ai diritti umani o al diritto umanitario internazionale, come quelli spinti a fuggire dal contesto di guerra, pur non essendo forzati a farlo, o coloro che non sono in grado di accedere a cibo o cure mediche a causa di un collasso dei servizi, così come, addirittura, membri delle forze armate dello Stato vittima che siano stati uccisi o feriti nel corso dell’aggressione, anche se in conformità alle norme del diritto internazionale umanitario. Questa impostazione sembra, in effetti, rispecchiarsi nel lavoro del Register of Damage for Ukraine, meccanismo istituito dal Consiglio d’Europa, che ha mandato di raccogliere «all eligible claims seeking compensation for the damage, loss and injury inflicted by the aggression of the Russian Federation in and against Ukraine» e che, in tale espressione, include reclami presentati da individui, persone giuridiche e dallo Stato stesso, relativi a spostamenti involontari della popolazione, violazioni dell’integrità fisica e psichica, distruzione di proprietà, danni economici e perdita di accesso ai servizi pubblici. Poiché il Registro potrà rivelarsi una fonte preziosa di prove già catalogate e selezionate, è probabile che esso rientri tra quegli organi (come la stessa CPI, l’International Centre for the Prosecution of the Crime of Aggression against Ukraine (ICPA) o la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio ONU per i diritti umani) con cui il TSA dovrà attivare forme di cooperazione e dialogo, anche nella gestione delle procedure di riparazione delle vittime. Una via percorribile, per evitare di soffocare il tribunale con una mole mastodontica di richieste da parte delle vittime, potrebbe essere allora quella, in parte scelta dalla CPI con il meccanismo del Trust Fund, di centralizzare in un apposito organo la gestione delle richieste delle vittime del crimine di aggressione, magari affidando al Registro stesso l’esecuzione di eventuali ordini di riparazione e la garanzia di assistenza morale e materiale dei soggetti identificati come vittime.

Ultimo, ma non certo per importanza, profilo critico del preannunciato funzionamento del TSA coinvolge il riconoscimento dell’immunità dei capi di Stato e di governo e dei ministri degli affari esteri. Mettendo le mani avanti, infatti, il documento che delinea la struttura del tribunale anticipa che «There are clear legal, political and practical obstacles [to bring Russian leaders to trial] — notably, the immunity of sitting Heads of State, Heads of Governments and Foreign Ministers (so-called “troika membersâ€) and difficulties in obtaining physical custody over potential defendants. However, international law is evolving, and personal immunity is not a carte blanche for impunity. The “troika members†could only be brought to trial before the Special Tribunal if they were no longer in power or their immunity had been waived. However, investigations and the gathering of evidence can be conducted, indictments can be prepared, and a legal body will stand ready to prosecute and try the persons concerned if and when circumstances allow». La questione è risalente e ancora dibattuta, nonostante si possa ormai dire risolta per quanto riguarda la possibilità di esercitare la giurisdizione sui capi di Stato, di governo e i ministri degli affari esteri da parte dei tribunali penali internazionali, tanto che sia gli statuti, sia la giurisprudenza di ICTY, ICTR, della CPI (vedasi il caso Al Bashir e l’art. 27 dello Statuto di Roma), hanno affermato l’irrilevanza delle immunità su tali soggetti. Anche tutti i tribunali misti finora istituiti hanno, inoltre, dichiarato nei propri statuti l’irrilevanza dell’immunità – sia funzionale sia personale – dei soggetti apicali. È dunque, possibile, in tali fora, incriminare capi di Stato in carica, mentre rimane problematica l’esecuzione dei mandati di arresto spiccati nei loro confronti da tali tribunali, soprattutto – ma non solo – quando ciò spetterebbe da Stati terzi, rispetto allo Statuto di Roma o ad accordi istituitivi di tribunali ad hoc.

Per i tribunali nazionali rimane, invece, saldo l’orientamento della Corte internazionale di giustizia per il quale «certain holders of high-ranking office in a State, such as the Head of State, Head of Government and Minister for Foreign Affairs, enjoy immunities from jurisdiction in other States, both civil and criminal». La scelta del TSA, sotto questo profilo, di staccarsi dalla prassi dei tribunali internazionali e misti e di voler ammettere l’immunità dei soggetti vertice, oltre ad assimilare tale giurisdizione, implicitamente, alla categoria dei tribunali nazionali relativamente al riconoscimento delle immunità, getta un’ulteriore ombra di disillusione rispetto all’effettività ed incisività del futuro tribunale. In tale cornice, ancor di più, il lavoro del TSA rischia di rivelarsi un paradossale esercizio figurativo: da una parte, infatti, i leader in carica (attori, per definizione, del crimine di aggressione) non possono essere processati, dall’altra, qualora cessino la propria carica, potrebbero essere perseguiti in absentia, senza vere ripercussioni sulle loro vite. Su tale scia la società civile ha condannato la scelta compiuta sul rispetto delle immunità, auspicando un emendamento dello statuto del tribunale in senso contrario, denunciando che, spesso, «immunity goes hand in hand with impunity».

In effetti, così conformato, tra il rispetto esplicito delle immunità e la possibilità di condurre processi in absentia, il rischio di politicizzazione “primomondista†e di lawfare, l’assenza di riferimenti alle vittime e una relazione con la CPI a metà strada tra la cooperazione la fuga, il TSA non si presenta alla comunità internazionale con gambe salde per sostenere il peso della responsabilità, moralmente enorme e tecnicamente complessa, che gli è stata affidata.

Sebbene non si possa rilevare un unico parametro su cui misurare il successo o il fallimento di un tribunale (Il numero di condanne? Il numero di casi? L’importanza gerarchica degli imputati? La quantità di vittime coinvolte o risarcite? L’effetto riconciliativo sulla società? Il contributo della sua giurisprudenza allo sviluppo del diritto?) rimane molto chiara la necessità di evitare che il lavoro del TSA non sia altro che simbolico.

Il terreno è certamente scivoloso, ma forse in questo sta la chiave dell’unica possibile prospettiva da cui apprezzare l’istituzione del TSA: ridurre le aspettative su di esso, ridimensionarlo ad un mero tassello di un più ampio piano di ricostruzione della pace, tra sforzi diplomatici per la cessazione del conflitto e programmi operativi per la ricostruzione (come il Council of Europe Action Plan for Ukraine “Resilience, Recovery and Reconstructionâ€), secondo un approccio olistico di pace, giustizia e promozione dello stato di diritto. La responsabilità primaria di tutto ciò, allora, ritorna sulla volontà degli Stati di far funzionare – o meno – il sistema di giustizia internazionale e di dimostrarsi – essi stessi, e non il sistema astrattamente considerato – credibili, efficaci e incisivi nel voler lottare contro l’impunità e la commissione di (tutti) i crimini internazionali, ovunque nel mondo.

Data articolo:Wed, 28 May 2025 20:11:19 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Riccardo Rossi
Giurisdizione in materia di validità e contraffazione di un brevetto europeo: note a margine della sentenza BSH Hausgeräte c. Electrolux

Riccardo Rossi (Università degli Studi di Milano)

1. L’iter giurisdizionale e la sentenza emessa dalla Corte

Con la sentenza nel caso C-339/22, BSH Hausgeräte c. Electrolux, emessa lo scorso 25 febbraio, la Corte di giustizia ha avuto occasione di pronunciarsi su alcune questioni concernenti l’interpretazione dell’art. 24(4) del regolamento (UE) n. 1215/2012 (Bruxelles I-bis), il quale conferisce giurisdizione esclusiva sulle questioni di validità di un brevetto al giudice dello Stato membro in cui esso è stato registrato.

Le questioni sottoposte alla Corte originavano da un procedimento instaurato dalla BSH Hausgeräte, in qualità di titolare di un brevetto europeo convalidato, per le rispettive frazioni nazionali, in Germania, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Austria, Svezia, Regno Unito e Turchia, dinanzi al Patent- och marknadsdomstolen (Tribunale della proprietà industriale e del commercio) svedese, quale giudice del domicilio della convenuta Electrolux, ai sensidell’art. 4 Bruxelles I-bis. In particolare, la BSH proponeva un’azione di contraffazione di tutte le parti nazionali di tale brevetto europeo, al fine di ottenere la cessazione dell’illecito e la condanna al risarcimento del danno. Intentando un’azione ex art. 4 Bruxelles I-bis, la BSH ha potuto domandare il risarcimento per la violazione cumulativa di tutte le frazioni nazionali del brevetto europeo interessato; al contrario, se avesse agito presso il foro dell’illecito ex art. 7(2) Bruxelles I-bis, coincidente con il luogo di convalida di ciascuna frazione nazionale (Wintersteiger, punti 27-28), avrebbe potuto domandare in quella sede solamente il risarcimento dei danni derivati dalla violazione di quella frazione nazionale e occorsi nel territorio del relativo Stato membro di convalida, come chiarito dalla Corte di giustizia in altre occasioni (cfr. Shevill, punto 33; Hejduk, punto 36).

Come spesso accade nel corso dei procedimenti per contraffazione, la convenuta eccepiva la nullità di tutte le frazioni nazionali del brevetto europeo, contestando, in forza dell’art. 24(4), la competenza giurisdizionale del giudice svedese per ciascuna di esse, salvo che per la frazione svedese. A seguito della pronuncia di incompetenza del giudice di primo grado, fondata sugli artt. 24(4) e 27 Bruxelles I-bis,lo Svea hovrätt, Patent- och marknadsöverdomstolen (Corte d’appello di Stoccolma per la proprietà intellettuale e il commercio) formulava il rinvio pregiudiziale che ha dato luogo alla sentenza in esame.

2. Prima e seconda questione: risvolti pratici e sviluppi futuri

Con la prima e la seconda questione, il giudice del rinvio chiedeva se l’art. 24(4) Bruxelles I-bis dovesse interpretarsi nel senso che, ove il convenuto sollevi una eccezione di invalidità del brevetto nel corso di un procedimento di contraffazione, il giudice adito ai sensi dell’art. 4 resti competente a giudicare della domanda di contraffazione.

Il ragionamento della Corte prende le mosse dalla lettera dell’art. 24(4), ricordando come tale disposizione, codificando il dispositivo della sentenza GAT, attribuisca la competenza esclusiva ai giudici dello Stato membro di registrazione del brevetto per le questioni di registrazione o validità dello stesso, indipendentemente dal fatto che la questione venga proposta in via di azione ovvero in via di eccezione. In tal senso, la questione di validità può essere esaminata e decisa solo dal giudice dello Stato di registrazione del brevetto.  La sentenza GAT, tuttavia, non aveva chiarito se il giudice adito con un’azione di contraffazione dovesse dichiararsi incompetente a giudicare dell’intera vicenda ovvero solo della questione di validità.

Secondo la Corte, solo quest’ultima interpretazione è conforme alla lettera, allo schema e agli obiettivi del regolamento, in linea con quanto suggerito dall’AG, secondo il quale la lettura restrittiva della sentenza GAT rappresentava «il male minore» (conclusioni del 22 febbraio 2024, punto 88).

Infatti, in primo luogo, l’art. 24(4) si riferisce solo alle questioni di validità, non alle domande di contraffazione (cfr. Duijnstee, punto 23; IRnova, punto 48). In secondo luogo, l’art. 24(4) rappresenta una eccezione al criterio generale previsto ai sensi dell’art. 4 e, come tale, deve interpretarsi restrittivamente. In terzo luogo, l’interpretazione opposta impedirebbe in concreto ai titolari di un brevetto europeo di agire presso il foro del domicilio del convenuto ai sensi dell’art. 4, poiché a tale convenuto basterebbe opporre la questione di validità nel corso del procedimento per attivare il meccanismo di cui all’art. 24(4) e determinare una dichiarazione di incompetenza del giudice adito sull’intera controversia.

Com’è evidente, tale soluzione determina la biforcazione del procedimento relativamente, da un lato, alla questione di validità – sottoposta alla competenza del giudice dello Stato membro di registrazione – e, dall’altro, alla domanda di contraffazione – sottoposta al giudice dello Stato membro del domicilio del convenuto. Sul punto, la Corte chiarisce che il giudice della contraffazione può, «se ritiene che esista una possibilità ragionevole e non trascurabile che tale brevetto sia annullato dal giudice competente» ex art. 24(4), sospendere il procedimento, al fine di tenere conto della decisione emessa dal giudice investito dell’azione di nullità.

La risposta fornita dalla Corte induce a esaminare più nel dettaglio la portata della giurisprudenza GAT e il tentativo di un suo ridimensionamento da parte della Corte [2.1] e il necessario coordinamento tra la competenza del giudice della contraffazione e la competenza del giudice della validità del brevetto [2.2.].

2.1. La giurisprudenza GAT e il suo ridimensionamento da parte della sentenza BSH

Con la sentenza in esame la Corte opera un chiarimento e un ridimensionamento di quanto affermato con la sentenza GAT. Tale pronuncia, apertamente criticata dalla dottrina (v. tra gli altri Fumagalli; Ancel; Kur; Gonzáles Beilfuss; Torremans 2024, p. 342 ss.), aveva limitato sensibilmente i poteri di cognizione del giudice competente per la contraffazione, impedendogli di conoscere incidentalmente la questione di validità del brevetto sollevata in via di eccezione. Ciò, stando al ragionamento della Corte nel caso GAT, per tre ragioni fondamentali, nessuna delle quali, peraltro, appare esente da critiche, come subito vedremo.

In primo luogo, secondo la sentenza GAT, permettere al giudice della contraffazione di definire, ancorché incidentalmente, la questione di validità del brevetto, avrebbe generato il rischio di decisioni contrastanti sulla validità del brevetto (GAT, punto 29). Sul punto, sarebbe forse bastato un richiamo alla sentenza Hoffmann, in cui la Corte aveva affermato che gli effetti del giudicato di un provvedimento giurisdizionale si valutano sulla base del diritto dello Stato di origine. In questo senso, ove il diritto dello Stato di emissione della sentenza preveda la possibilità di risolvere incidentalmente, senza efficacia di giudicato, una questione di validità, la risoluzione di tale questione non darebbe luogo a un contrasto di giudicato con una successiva pronuncia di segno opposto con effetti erga omnes, emessa nello Stato membro di registrazione (in questo senso Fumagalli, p. 749). Così è, ad esempio, nel diritto italiano: quando un giudice adito con un’azione di contraffazione risolve incidenter tantum una questione di validità sollevata in via di eccezione, su tale questione non si forma il giudicato e la valutazione della stessa avrà, dunque, effetti limitati al giudizio di contraffazione nel quale si è resa necessaria (cfr. Cass. n. 6382/2017). Al contrario, allorché sia proposta una vera e propria domanda (principale o riconvenzionale) di nullità, la questione entra nell’oggetto del giudizio e la relativa pronuncia assume valore di cosa giudicata, con effetti erga omnes ex art. 123 cod. prop. ind. in caso di dichiarazione di nullità della privativa (v. Vanzetti et al., p. 556 s.; De Giorgis, p. 86 ss.).

In secondo luogo, sempre secondo la medesima sentenza, poiché alcune leggi processuali nazionali impongono di pronunciarsi sulla questione di validità con efficacia erga omnes anche laddove tale questione sia sollevata in via di eccezione, attribuire il potere di conoscere incidentalmente la questione di validità al giudice competente per l’azione di contraffazione avrebbe compromesso «la parità e l’uniformità dei diritti e degli obblighi che risultano dalla Convenzione per gli Stati contraenti e per gli interessati» (GAT, punto 30). Nondimeno, tali norme processuali si applicano all’accertamento della validità di brevetti nazionali, di talché la Corte avrebbe potuto affermare che, quando hanno a oggetto un brevetto europeo convalidato in un altro Stato membro, siffatte valutazioni incidentali hanno effetti solo limitatamente al procedimento di contraffazione (Gonzáles Beilfuss, p. 277; Ancel, p. 36).  

In terzo luogo, la risoluzione incidentale di una questione di validità avrebbe pregiudicato «la natura vincolante dell’art. 16(4)» della convenzione di Bruxelles del 1968, consentendo all’attore, «con la semplice formulazione delle conclusioni della sua domanda, di eludere il carattere imperativo della norma sulla competenza sancita da tale articolo» (GAT, punti 26 e 27). Sennonché, l’art. 16(4) della convenzione e l’attuale art. 24(4) del regolamento non impongono al giudice dell’azione di contraffazione di declinare la competenza: la funzione di disciplinare tale declinatoria è stata precipuamente affidata prima all’art. 19 della convenzione e, poi, all’art. 27 del regolamento, i quali, tuttavia, prevedono che ciò avvenga solo ove tale giudice sia investito della questione di validità «a titolo principale» («à titre principal», nella versione francese, «a título principal», nelle versioni spagnola e portoghese). Pertanto, una lettura sistematica delle due disposizioni (artt. 24 e 27 Bruxelles I-bis) avrebbe imposto di riconoscere al giudice competente per la contraffazione il potere di risolvere la questione di validità in via meramente incidentale e, dunque, con effetti inter partes (v. Bariatti, p. 520; Gonzáles Beilfuss, p. 276; Vicente, p. 400). L’interpretazione della Corte si deve forse alla diversa formulazione linguistica della norma nelle versioni, ad esempio, inglese («principally concerned») e tedesca («wenn es wegen einer Streitigkeit angerufen wird»), la quale ultima non prevede alcun limite sulla modalità di proposizione della questione.

Ad ogni modo, anche alla luce della distinzione tra eccezione e domanda riconvenzionale, chiarita dalla Corte nella sentenza Danværn (punti 13-14), risulta difficile comprendere come una mera eccezione processuale possa introdurre nel giudizio una questione come oggetto principale dello stesso. La Corte, inoltre, ha chiarito in più occasioni che i mezzi difensivi del convenuto non incidono sulla determinazione della competenza ai sensi del regolamento (cfr. Gantner, punti 25-26; BVG, punti 37-38; cfr. anche Duijnstee, punto 25). In tal senso, solo con la proposizione di una domanda riconvenzionale, sulla quale il giudice sarebbe tenuto a pronunciarsi con effetti erga omnes, la strategia processuale del convenuto condurrebbe alla declinatoria di competenza ex artt. 24(4) e 27 Bruxelles I-bis (Pertegás Sender, para. 4.55 ss.; Ancel, p. 30). Una mera eccezione, al contrario, non permette alla questione pregiudiziale di trasformarsi in causa pregiudiziale, con la conseguenza che il giudicato investirà solo la decisione sulla contraffazione e non quella sulla validità del brevetto (Fumagalli, p. 742 s.; nello stesso senso Pertegás Sender,  par. 4.52 ss. e nota 49).

Con la pronuncia BSH, la Corte valorizza criteri interpretativi lasciati in secondo piano dalla sentenza GAT: da un lato, l’interpretazione restrittiva dell’art. 24(4), qualificato come eccezione al criterio generale del domicilio del convenuto (BSH, punto 43; Duijnstee, punto 23; IRnova, punto 39); dall’altro lato, la necessità di non privare l’attore della possibilità di agire presso il foro del domicilio del presunto contraffattore, poiché altrimenti al convenuto basterebbe eccepire l’invalidità del brevetto straniero per porre fine a un procedimento di contraffazione regolarmente instaurato (BSH, punti 46-47). Un approccio, dunque, diametralmente opposto a quello della sentenza GAT.

Nondimeno, anche in questa occasione la Corte sembra trascurare la lettera dell’art. 27 e omette di rilevare il contrasto – oggi codificato – tra tale disposizione e l’art. 24(4). Anzi, come si vedrà subito, prospettando la facoltà di sospensione del procedimento di contraffazione, propone una soluzione che, pur soddisfacente nell’esito pratico, risulta priva di un’espressa disciplina nel regolamento e, al tempo stesso, incompleta.

2.2. Coordinamento tra la competenza del giudice della contraffazione e la competenza del giudice della validità

Con riguardo agli effetti pratici della biforcazione del procedimento di contraffazione, nelle conclusioni del 22 febbraio 2024 l’AG Emiliou aveva suggerito che, nel sospendere il giudizio a seguito di un’eccezione di validità ragionevolmente fondata, il giudice debba assegnare al presunto contraffattore un termine per intentare l’azione di nullità. Sempre secondo l’AG, decorso inutilmente tale termine, o nel caso in cui l’eccezione di invalidità sia ritenuta ab origine pretestuosa, il giudice dovrebbe presumere la validità del brevetto (punto 93).  

La formulazione adottata dalla Corte è più problematica, nella misura in cui si afferma che la biforcazione del procedimento «non comporta che il giudice dello Stato membro del domicilio del convenuto investito dell’azione per contraffazione debba ignorare il fatto che un’azione di nullità del brevetto rilasciato in un altro Stato membro è stata debitamente proposta da tale convenuto in tale altro Stato membro»; in tal caso, secondo la Corte, il giudice della contraffazione può decidere di sospendere il procedimento «qualora lo ritenga giustificato, in particolare se ritiene che esista una possibilità ragionevole e non trascurabile che tale brevetto sia annullato dal giudice competente» ex art. 24(4) Bruxelles I-bis (BSH, punto 51). Dalla lettera del punto 51 della sentenza, sopra richiamato, non è chiaro se la Corte affermi che il giudice adito ex art. 4 possa sospendere il procedimento di contraffazione solo nel caso in cui un procedimento di nullità sia stato instaurato dinanzi al giudice di cui all’art. 24(4) prima dell’inizio del procedimento di contraffazione, ovvero anche laddove il procedimento di nullità non sia stato instaurato o sia stato instaurato dopo l’inizio del procedimento di contraffazione.

Assumendo, come sembra corretto, che la Corte abbia inteso che il punto 51 vada interpretato nel secondo senso indicato, si pone il problema di individuare la base giuridica del potere del giudice della contraffazione di sospendere il giudizio, anche al di fuori dei casi in cui non sia previamente pendente un’azione di nullità del brevetto oggetto di contraffazione. A ben vedere, sebbene la Corte non abbia specificato quale sia la base giuridica del potere del giudice adito in contraffazione di sospendere la causa, essa potrebbe rinvenirsi proprio nell’art. 24(4), nell’interpretazione che ne ha dato la sentenza BSH: poiché (i) solo il giudice dello Stato membro di convalida è competente a esaminare ogni questione di validità del brevetto – così dispone testualmente l’art. 24(4) – e (ii) il giudice del domicilio del convenuto rimane competente a decidere la domanda di contraffazione anche laddove il presunto contraffattore sollevi un’eccezione di invalidità, ne consegue che è lo stesso art. 24(4) a imporre al giudice di sospendere il procedimento di contraffazione, in attesa che il giudice dello Stato membro di convalida decida la questione di validità del brevetto, sempre che il primo giudice ritenga sussistere una possibilità ragionevole che il brevetto sia annullato nello Stato membro di convalida. Pertanto, ove ritenesse sussistere tale possibilità, dalle considerazioni che precedono potrebbe ricavarsi che il giudice adito in contraffazione non solo possa, bensì debba disporre la sospensione del procedimento, ai sensi dell’art. 24(4), come interpretato dalla Corte nella sentenza in esame.

Con specifico riguardo all’ipotesi in cui il procedimento di nullità non sia ancora stato instaurato, peraltro, la Corte non ha precisato la necessità di fissare un termine per la proposizione dell’azione di nullità, lasciando aperta la possibilità di una sospensione sine die. Ci si chiede, poi, cosa accada nell’ipotesi in cui il giudice non ritenga giustificata la sospensione poiché l’eccezione è manifestamente infondata o sollevata in mala fede.

È dunque utile trattare separatamente le diverse fattispecie.

Il caso in cui il presunto contraffattore abbia preventivamente instaurato un procedimento di nullità dinanzi al giudice di cui all’art. 24(4) parrebbe a prima vista poco problematico: poiché tale ipotesi realizzerebbe una fattispecie di cause connesse, il giudice competente per l’azione di contraffazione potrebbe esercitare la discrezionalità concessagli dall’art. 30 Bruxelles I-bis e sospendere il procedimento di contraffazione fino al termine del procedimento di nullità. Infatti, il conflitto di decisioni richiesto da tale disposizione, nell’ampia nozione fornita dalla sentenza Tatry (punto 53), potrebbe realizzarsi laddove, da un lato, il giudice adito ex art. 4 Bruxelles I-bis, risolvendo in senso positivo la questione pregiudiziale di validità del brevetto, condanni il presunto contraffattore alla cessazione dell’illecito e al risarcimento del danno, e, dall’altro lato, il giudice adito ex art. 24(4) dichiari l’invalidità del brevetto con effetti erga omnes.

Peraltro, se, come dimostrato sopra, dall’art. 24(4), così come interpretato dalla sentenza BSH, è ricavabile un vero e proprio dovere di sospensione laddove il convenuto sollevi un’eccezione di invalidità e il giudice della contraffazione ritenga sussistere una possibilità ragionevole di annullamento da parte del giudice competente, allora si potrebbe ipotizzare che, in tal caso, non residui più spazio per l’applicazione dell’art. 30,  che rimette la decisione di sospendere la causa alla discrezionalità del giudice.

Laddove il procedimento di nullità non sia stato instaurato o sia stato instaurato successivamente a quello di contraffazione, l’art. 30 non potrebbe comunque trovare applicazione e, in tale ipotesi, non si rinviene nel regolamento una disposizione che disciplini il coordinamento tra i due procedimenti. In tale contesto, alla luce dell’interpretazione dell’art. 24(4) fornita dalla Corte, si prospettano due differenti scenari processuali, a seconda del grado di probabilità che il brevetto venga annullato dal giudice dello Stato membro di convalida.

Allorché il convenuto sollevi una eccezione di invalidità e sussista una ragionevole probabilità che il brevetto sia annullato dal giudice di cui all’art. 24(4), la soluzione indicata dalla Corte di concedere al giudice adito ex art. 4 il potere – rectius:dovere – di sospendere il procedimento di contraffazione ci sembra opportuna. Ora, come visto sopra, potrebbe ritenersi che la base giuridica della sospensione debba rinvenirsi nello stesso art. 24(4), come interpretato dalla Corte nella pronuncia in commento. Tuttavia, con riguardo al concreto funzionamento del meccanismo di sospensione e, in particolare, per il caso in cui il presunto contraffattore non abbia ancora promosso un apposito procedimento di nullità, la Corte non ha fornito indicazioni. Inoltre, il diritto processuale di alcuni Stati membri, come quello italiano, potrebbe non disciplinare tale ipotesi, diversamente dall’art. 61, comma secondo, della legge sui brevetti svedese, preso in considerazione dal giudice del rinvio, che stabilisce che, a seguito di una eccezione di invalidità, il giudice del procedimento di contraffazione «deve ordinare alla persona che rivendica la nullità del brevetto di intentare tale azione entro un certo periodo». Quale possibile soluzione, si potrebbe ritenere che, alla luce del principio di economia processuale e del diritto di difesa delle parti, il coordinamento tra gli artt. 4 e 24(4) Bruxelles I-bis e, dunque, tra il procedimento di contraffazione e il procedimento di nullità, richieda che tali disposizioni debbano essere interpretate nel senso che il giudice possa fissare un termine per la proposizione dell’azione di invalidità o di accertamento della validità, al fine di evitare una sospensione sine die. Così, nel caso in cui nessuna delle parti promuova siffatta azione nel termine concesso, il giudice della contraffazione dovrebbe poter assumere che l’eccezione di invalidità non sia mai stata proposta, presumere la validità del brevetto (conclusioni del 22 febbraio 2024, punto 93) e proseguire il procedimento di contraffazione (cfr., in applicazione della convenzione di Lugano del 1988, Handelsgericht Zürich, 23 ottobre 2006, HG050410, come riportato da  Torremans 2024, p. 345 s., e Hess-Blumer, “Cross-border litigation – und sie lebt doch!â€, in Sic!, 2006, p. 882 ss.; conf. Bundesgericht, 4 aprile 2007, 4C.439/2006; v. anche Wilderspin, “La compétence juridictionnelle en matière de litiges concernant la violation des droit de propriété intellectuelle – Les arrêts de la Cour de justice dans les affaires C-04/03, GAT c. LUK et C-539/03, Roche Nederland c. Primus et Goldbergâ€, in Rev. crit. DIP, 2006, p. 778 ss., p. 796). In questo senso depone anche la soluzione adottata dall’art. 128(7) del regolamento (UE) n. 2017/1001 in materia di marchi dell’Unione europea, per l’ipotesi di proposizione di una domanda riconvenzionale di nullità nel corso di un procedimento di contraffazione.

Nel caso in cui non sussista una ragionevole probabilità che il brevetto sia annullato dal giudice di cui all’art. 24(4) o laddove l’eccezione di invalidità sia sollevata in mala fede, alla luce della sentenza BSH si dovrebbe ritenere che, non realizzandosi l’ipotesi precedente (i.e. se «[non] lo ritenga giustificato»), il giudice della contraffazione non sia tenuto a sospendere il procedimento; in tal caso, egli non può che conoscere e definire incidenter tantum la questione pregiudiziale di validità del brevetto, poiché altrimenti non si spiegherebbe il riferimento, nella stessa sentenza, al potere – rectius: dovere – di sospendere il procedimento solo qualora vi sia una «possibilità ragionevole e non trascurabile» che il brevetto sia annullato dal giudice competente ex art. 24(4). Prendendo a esempio il diritto processuale italiano, la manifesta infondatezza o la pretestuosità dell’eccezione, infatti, non esclude l’esame della stessa, al più potendo integrare la responsabilità aggravata per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ. Pertanto, la soluzione adottata dalla Corte comporta necessariamente che il giudice adito ex art. 4 Bruxelles I-bis mantenga la competenza non solo a giudicare dell’azione di contraffazione, ma anche a conoscere incidentalmente la questione di validità ove la relativa eccezione sia manifestamente infondata o prima facie pretestuosa. Ciò, evidentemente, ove tale risoluzione incidenter tantum sia consentita dal diritto processuale del foro, poiché in caso contrario il giudice dovrà necessariamente sospendere il procedimento di contraffazione (cfr. Vicente, p. 404).

Infine, giova segnalare che il problema del coordinamento tra il procedimento di contraffazione e quello di invalidità ha ricevuto una differente soluzione nell’ambito dell’Accordo su un Tribunale unificato dei brevetti (ATUB), che dal 1° giugno 2023 ha istituito una giurisdizione unitaria per 24 Stati membri con competenza esclusiva rispetto, inter alia, alle questioni di contraffazione e validità di brevetti europei e di brevetti europei con effetto unitario (su cui v. Véron, p. 526 ss.; Tilmann e Grabinski, p. 580 ss.; Torremans 2023, p. 186 ss.). L’art. 33(3)(a) ATUB, in particolare, prevede che in caso di domanda riconvenzionale di revoca, la divisione locale o regionale (ad esempio, dello Sato membro contraente del domicilio del convenuto) adita con un’azione di contraffazione ha la facoltà di «procedere sia con l’azione per violazione sia con la domanda riconvenzionale di revoca». Ad ogni modo, il regolamento Bruxelles I-bis rimarrà applicabile a tutte le controversie aventi a oggetto brevetti nazionali e a quelle riguardanti i brevetti europei convalidati nel territorio degli Stati non partecipanti all’ATUB, i.e. Spagna, Polonia e Croazia. In tal senso, il Tribunale ha già avuto modo di applicare l’art. 24(4) Bruxelles I-bis come interpretato dalla sentenza BSH, nel caso IMC Créations (divisione locale di Parigi, 21 marzo 2025), riguardante la contraffazione di un brevetto europeo convalidato in Spagna, in Svizzera e nel Regno Unito, i.e. Stati non contraenti dell’ATUB, e nel caso Alpinestars (divisione locale di Milano, 8 aprile 2025), riguardante la contraffazione di un brevetto europeo convalidato in alcuni Stati contraenti dell’ATUB e in Spagna.

3. Terza questione: risvolti pratici e sviluppi futuri

Con la terza questione, il giudice del rinvio domandava se l’art. 24(4) Bruxelles I-bis debba essere interpretato nel senso che esso «si applica a un giudice di uno Stato terzo e, di conseguenza, conferisce una competenza esclusiva a tale giudice per quanto riguarda la valutazione della validità di un brevetto rilasciato o convalidato in tale Stato».

Occorre chiarire sin d’ora che la questione sottoposta alla Corte non riguardava l’estensione della giurisdizione con riferimento ai danni da contraffazione localizzati in Stati terzi, rispetto ai quali il giudice del luogo del domicilio del convenuto è certamente competente ex art. 4 Bruxelles I-bis (BSH, punto 61; v. anche TUB, divisione locale di Düsseldorf, 28 gennaio 2025, Fujifilm, pp. 21-23).

Né tale questione, nonostante l’infelice formulazione, poteva avere a oggetto l’attribuzione di competenza esclusiva a un giudice di uno Stato terzo, in casu il giudice turco, poiché il regolamento Bruxelles I-bis è un «regime di competenza interna all’Unione europea», sicché l’art. 24(4) non può conferire a un giudice di uno Stato terzo il potere di giudicare una controversia (BSH, punti 55-56; IRnova, punto 35).

La questione verteva, invece, sulla competenza del giudice di uno Stato membro adito ex art. 4 Bruxelles I-bis di conoscere incidentalmente un’eccezione di invalidità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo (in casu la Turchia).

Secondo la Corte, l’art. 4 Bruxelles I-bis conferisce al giudice adito tale competenza, a meno che il caso di specie non rientri nelle ipotesi di deroga espressamente previste nel regolamento (BSH, punti 61-66). Tali deroghe sono contenute, in particolare, negli artt. 33 e 34 Bruxelles I-bis, che disciplinano l’ipotesi di litispendenza e connessione relativamente a un procedimento previamente instaurato in uno Stato terzo, e nell’art. 73(1) e (3), che fa salva l’applicazione della convenzione di Lugano e delle convenzioni bilaterali tra Stati membri e Stati terzi concluse prima dell’entrata in vigore del regolamento (CE) n. 44/2001 (Bruxelles I). Nessuna di tali ipotesi ricorreva nel caso di specie.

La Corte, inoltre, valuta se la competenza a conoscere incidentalmente la questione di validità di una frazione di brevetto europeo convalidata in uno Stato terzo sia limitata dal diritto internazionale generale. Sul punto, la Corte, accogliendo l’ipotesi della c.d. «terza via» elaborata dall’AG Emiliou nelle conclusioni del 5 settembre 2024 (punti 42 ss.), evidenzia che la competenza ex art. 4 Bruxelles I-bis deve esercitarsi nel rispetto del principio di non ingerenza, che la Corte rinviene nel diritto internazionale generale, «in forza del quale uno Stato non può interferire nelle cause che rientrano essenzialmente nella competenza nazionale di un altro Stato» (BSH, punto 71). In particolare, nell’ambito delle privative industriali, il rilascio di un brevetto nazionale integra un esercizio di sovranità in quanto implica l’intervento dell’amministrazione nazionale (Jenard, p. 36). Così, secondo la Corte, poiché l’annullamento di un brevetto incide sulla esistenza della privativa e comporta la modifica del registro nazionale dello Stato di registrazione o convalida, dal principio di non ingerenza discenderebbe che solo i giudici di tale Stato possono dichiarare la nullità del brevetto con efficacia erga omnes (BSH, punto 73).

Afferma la Corte che, al contrario, la definizione di una questione di validità con effetti inter partes non può integrare una ingerenza nella sovranità dello Stato terzo, poiché tale valutazione è suscettibile di produrre effetti solamente tra le parti del giudizio nel quale è stata resa. Infatti, diversamente da una domanda di nullità in via principale o riconvenzionale, un’eccezione di invalidità «mira solo ad ottenere il rigetto di tale azione [di contraffazione], e non è diretta a ottenere una decisione che comporti l’annullamento totale o parziale di detto brevetto» (BSH, punti 74-75).

La decisione della Corte sulla terza questione permette di esprimere alcune riflessioni, in particolare, sulla (corretta) negazione del c.d. effet réflexe [3.1] e sui rapporti tra il principio di non ingerenza e la giurisdizione sulla domanda di nullità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo [3.2].  

3.1 La corretta interpretazione dell’art. 24(4) Bruxelles I-bis nei rapporti con gli Stati terzi (no effet réflexe)

Con la risposta alla terza questione, contrariamente a quanto suggerito sul punto dall’AG Emiliou (conclusioni del 22 febbraio 2024, punti 95 ss.; conclusioni del 5 settembre 2024, punti 33-41), la Corte nega che l’art. 24(4) Bruxelles I-bis possa avere “effetti riflessi†nell’ipotesi in cui il convenuto opponga una eccezione di invalidità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo.

Con questa espressione si indica la possibilità che le norme del regolamento Bruxelles I-bis in materia di competenze esclusive, proroga esclusiva di competenza e procedimenti paralleli – criteri che impongono al giudice adito di spogliarsi di una competenza generale o speciale – trovino applicazione anche nel caso in cui il fattore di collegamento sia localizzato nel territorio di uno Stato terzo. Nella presente analisi limiteremo l’esame della teoria dell’effet réflexe al caso in cui un giudice di uno Stato membro sia adito ex art. 4 Bruxelles I-bis, caso che rappresenta l’ipotesi più frequente nelle controversie aventi a oggetto la contraffazione di più frazioni nazionali di un brevetto europeo.

Ora, secondo una prima concezione dell’effetto riflesso delle competenze esclusive, che potrebbe dirsi effet réflexe indiretto, il giudice adito ex art. 4 Bruxelles I-bis potrebbe declinare la giurisdizione ove il fattore di collegamento indicato dall’art. 24 (ad esempio, la convalida della frazione turca di un brevetto europeo) si trovi nel territorio di uno Stato terzo, a condizione che le norme della propria lex fori glielo consentano (v. Droz, Compétence judiciaire et effets des jugements dans le Marché commun (Étude de la Convention de Bruxelles du 27 septembre 1968), Parigi, 1972, pp. 108 ss.; de Lima Pinheiro, “Article 24â€, in Magnus/Mankowski, p. 560 s.).

Ai sensi di una seconda versione della teoria dell’effetto riflesso, che potrebbe dirsi effet réflexe diretto, le norme sulle competenze esclusive dovrebbero trovare applicazione come se lo Stato terzo fosse uno Stato membro, non richiedendosi l’applicazione delle norme di diritto internazionale privato del foro, salva la verifica che il giudice dello Stato terzo non declinerà a sua volta la giurisdizione (in questo senso Gaudemet-Tallon, “Le frontières extérieures de l’espace judiciaire européen: quelque repèresâ€, in Borrás et al., p. 96; Heuzé et al., p. 252).

Con la sentenza IRnova (punto 35), la Corte aveva già rigettato la teoria del c.d. effet réflexe diretto dell’art. 24(4) Bruxelles I-bis, affermando che tale disposizione non poteva essere applicata direttamente, in quanto non prende in considerazione l’ipotesi di brevetti registrati in Stati terzi (sul punto, Rivoire, p. 483).

Con la pronuncia in commento, affermando che la competenza ex art. 4 Bruxelles I-bis è derogabile solo nei casi espressamente previsti nel regolamento e che, dunque, tale giudice è competente a risolvere incidentalmente una questione di validità di un brevetto sollevata in via di eccezione, la Corte esclude che, in tale ipotesi, l’art. 24(4) Bruxelles I-bis possa avere qualsivoglia effet réflexe, sia esso diretto o indiretto.

In tal senso, la soluzione della Corte pare condivisibile.

Infatti, la sentenza Owusu, che verteva sull’applicabilità della teoria del forum non conveniens in favore di un giudice giamaicano, aveva già chiarito che l’art. 4 Bruxelles I-bis è norma di «carattere imperativo», e che essa, in ragione dei principi di prevedibilità e certezza del diritto, è derogabile solo nelle ipotesi espressamente previste dal regolamento (punto 37). Tali deroghe sono attualmente previste, per quanto riguarda i rapporti con gli Stati terzi, solo in presenza di un caso di litispendenza o connessione (artt. 33 e 34) o di un accordo bilaterale o multilaterale con lo Stato terzo interessato (art. 73). Non, dunque, nel caso di competenze esclusive (cfr. Jenard/Möller, par. 54; Salerno, p. 193;  Van Calster 2025). La Corte non fornisce ulteriori argomenti per negare l’effet réflexe, nonostante ve ne siano molteplici.

In particolare, quale ulteriore ragione a sostegno della negazione dell’effetto riflesso delle competenze esclusive, si consideri che, mentre la teoria dell’effet réflexe fu sviluppata con riferimento alle competenze esclusive, alla proroga di competenza esclusiva e alle ipotesi di litispendenza e connessione (Droz, op. cit.; Gaudemet-Tallon, op. cit.), e nonostante l’esigenza, evidenziata dal Green Paper sulla revisione del regolamento Bruxelles I, di introdurre specifiche soluzioni normative sul punto, il legislatore ha introdotto disposizioni specifiche solo con riguardo a quest’ultima fattispecie (artt. 33 e 34): ubi lex voluit, dixit... Né rileva che il considerando 24 del regolamento permetta, nell’esercizio della discrezionalità ex artt. 33 e 34, di «esaminare» l’ipotesi in cui il giudice dello Stato terzo sia dotato di giurisdizione esclusiva secondo i criteri del regolamento; al contrario, il considerando 24 conferma che tale circostanza non è sufficiente a determinare una declinatoria di giurisdizione senza la previa pendenza di un procedimento in uno Stato terzo (Mills 2018, p. 139).  

Inoltre, la Corte si era invero già pronunciata sulla questione nel noto parere n. 1/03 in materia di competenza della Comunità europea a concludere la nuova convenzione di Lugano: secondo la Corte, nelle ipotesi in cui gli artt. 22 e 23 della nuova convenzione indichino come competente un giudice di uno Stato terzo contraente della convenzione, nonostante il convenuto sia domiciliato in uno Stato membro, «in assenza della convenzione, quest’ultimo Stato sarebbe il foro competente, mentre con la convenzione è competente lo Stato terzo» (par. 153).

Infine, l’applicazione riflessiva delle competenze esclusive richiederebbe un certo grado di discrezionalità (de Lima Pinheiro, “Article 24â€, in Magnus/Mankowski, p. 561; AG Emiliou, conclusioni del 22 febbraio 2024, punto 152, e conclusioni del 5 settembre 2024, punti 33 ss.; Mills, p. 233), svincolata dalle norme del regolamento. Innanzitutto, quantomeno nella versione dell’effet réflexe che permette al giudice adito di declinare la giurisdizione solo ove le norme del proprio diritto nazionale glielo consentano, tale giudice dovrebbe accertare che il proprio diritto nazionale preveda ipotesi di giurisdizione esclusiva analoghe a quelle previste dall’art. 24, come avviene ai sensi dell’art. 5 l. 218/1995 per le controversie aventi a oggetto diritti reali su beni immobili situati all’estero. In seguito, dovrebbe decidere se sospendere il giudizio in attesa che il giudice straniero venga adito e si sia pronunciato sulla questione. A differenza di un caso interamente intra-europeo, tuttavia, nell’assumere tale decisione il giudice dovrebbe accertare l’esistenza di una norma straniera che attribuisca giurisdizione esclusiva al giudice dello Stato terzo di registrazione. Sul punto, assume rilievo la recente sentenza nel caso Società Italiana Lastre (v. i commenti di Cuniberti e Marshall), ove la Corte ha affermato che un accordo di scelta del foro asimmetrico è contrario all’art. 25 Bruxelles I-bis nel caso in cui, per la parte che beneficia dell’asimmetria dell’accordo, affidi la determinazione del giudice competente alle norme di diritto processuale civile internazionale di uno Stato terzo (attraverso la dizione «un altro giudice competente (…) all’estero»), poiché ciò sarebbe contrario agli obiettivi di prevedibilità, trasparenza e certezza del diritto (punto 60). Infine, il giudice dello Stato membro adito dovrebbe altresì verificare che l’attore non vada incontro a un diniego di giustizia, magari effettuando un controllo preventivo di conformità dell’ordinamento straniero con l’ordine pubblico processuale della lex fori, per accertarsi che alla futura pronuncia non sia negato il riconoscimento nello Stato membro del foro. In assenza di una disposizione specifica che disciplini l’applicazione di tali condizioni, tuttavia, ciascun giudice dovrebbe applicare una (propria) diversa versione dell’art. 24 con riferimento a situazioni localizzate in Stati terzi, in violazione del principio di prevedibilità che ispira l’intera struttura del regolamento.

Nonostante l’esile motivazione della Corte (punti 59-66), dunque, l’esclusione dell’effet réflexe, e così l’impossibilità per il giudice adito di spogliarsi della giurisdizione sull’eccezione di invalidità, ci sembra giustificata.

3.2. Principio di non ingerenza ed esercizio della giurisdizione sulla domanda di nullità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo

Come affermato nella relazione Jenard (p. 36), il rilascio di un brevetto implica l’esercizio della sovranità statale. Su tale presupposto, la Corte chiarisce che una valutazione resa incidenter tantum (avente necessariamente effetti solo tra le parti del giudizio) sulla validità del brevetto convalidato in uno Stato terzo non viola il principio di non ingerenza. In tal senso, la competenza del giudice ex art. 4 Bruxelles I-bis a compiere tale valutazione incidentale non è limitata dal diritto internazionale generale.

Del tutto diverso, secondo la Corte, è il caso in cui nel giudizio avviato in uno Stato membro in forza dell’art. 4, venga proposta, in via principale o riconvenzionale, una domanda di nullità del brevetto. In tal caso, il principio di non ingerenza impedirebbe al giudice dello Stato membro di statuire su tale domanda, poiché solo i giudici dello Stato terzo di registrazione o convalida sarebbero competenti a decidere una domanda di nullità e pronunciarsi sulla validità del brevetto con effetti erga omnes (BSH, punti 71-73).

Il ragionamento della Corte, che ricalca la «terza via» esposta dall’AG nelle conclusioni del 5 settembre 2024 e, in questo senso, permette di aggirare le difficoltà derivanti dalla incompatibilità della teoria dell’effet réflexe con il regime di Bruxelles, si fonda sull’assunto – non ulteriormente approfondito dalla Corte nella pronuncia in commento – dell’esistenza di limiti posti dal diritto internazionale generale all’esercizio della c.d. adjudicatory jurisdiction in materia civile. Si tratta, in verità, di questione ampiamente controversa e priva di consenso nel panorama internazionale. Pur potendo solo accennare al tema in questa sede, giova evidenziare che, mentre alcuni autori sostengono l’esistenza, derivante dalla prassi degli Stati, di restrizioni di diritto internazionale generale all’esercizio della giurisdizione in materia civile (Mann, p. 73 ss.; Mills, p. 200 ss.; Parrish), o ne ammettono la potenziale configurabilità (Michaels; Boschiero, p. 673 ss.; Roorda e Ryngaert, p. 81 ss.), altri rilevano che, come affermato nel Restatement of the Law Fourth pubblicato dalla American Law Association, con l’eccezione derivante dall’applicazione delle regole di immunità, nel contesto internazionale non si rinvengono una prassi e una opinio iuris sufficienti per affermare il principio per cui l’esercizio della giurisdizionein materia civile debba compiersi nel rispetto di specifiche norme di diritto internazionale generale (Childress III; Dodge et al.; sulla inesistenza di detti limiti, si vedano anche Luzzatto, Stati stranieri e giurisdizionale nazionale, Milano, 1972, p. 65 ss., e Akehurst, Jurisdiction in International Law, in British Yearbook of International Law, 1973, p. 176 s.). 

Ad ogni modo, se tale principio dovesse ritenersi esistente – ciò che, alla luce di quanto sopra, non sembra pacifico – la sua applicazione alle materie contemplate dall’art. 24 Bruxelles I-bis permetterebbe di adottare soluzioni diverse a seconda del titolo di competenza esclusiva preso in considerazione da tale disposizione. In particolare, l’interesse al rispetto della sovranità dello Stato terzo potrebbe venire in rilievo nel caso di controversie aventi ad oggetto un diritto reale immobiliare (art. 24(1)), la validità delle trascrizioni e iscrizioni nei pubblici registri (art. 24(3)), la validità di una privativa industriale per la quale è prescritto il deposito o la registrazione (art. 24(4)), e l’esecuzione delle decisioni (art. 24(5)), ma non per le controversie riguardanti la locazione di un immobile (art. 24(1)), che non incidono sull’esercizio della sovranità dello Stato terzo. Maggiori incertezze sussistono, invece, con riguardo all’applicazione di tale principio alle controversie riguardanti la costituzione, la nullità o lo scioglimento di una società o di una persona giuridica o la validità delle decisioni dei suoi organi (art. 24(2)) (cfr. conclusioni del 5 settembre 2024, nota 16).

Infine, la Corte non si è occupata dell’applicazione degli eventuali limiti posti dal diritto internazionale consuetudinario all’esercizio della competenza ex art. 4 Bruxelles I-bis sulle domande di nullità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo nelle ipotesi in cui non sia possibile instaurare un giudizio nello Stato terzo o l’ordinamento di tale Stato non garantisca i principi dell’equo processo quanto, ad esempio, alla indipendenza dei giudici, al diritto al contraddittorio e alla durata del giudizio. In queste ipotesi, laddove si dovesse ritenere che il diritto internazionale generale impedisca al giudice adito ex art. 4 Bruxelles I-bis di pronunciarsi su tali domande di nullità, alla luce della soluzione delineata dalla sentenza BSH il concorrente del titolare del brevetto non sarebbe del tutto privato di una tutela giurisdizionale, poiché potrebbe pur sempre ottenere una pronuncia di rigetto della domanda di contraffazione nei suoi confronti attraverso una eccezione di invalidità, che il giudice dello Stato membro sarebbe competente (e tenuto) a esaminare (conclusioni del 5 settembre 2024, punto 53); nondimeno, in tal caso la risoluzione della questione di validità avrebbe effetti unicamente nell’ambito del procedimento di contraffazione, senza porre il convenuto al riparo da ulteriori azioni di contraffazione fondate su un titolo brevettuale potenzialmente invalido.  

4. Conclusioni

Con la sentenza BSH la Corte ha sciolto alcuni dubbi fondamentali relativi al contenzioso transfrontaliero in materia brevettuale, rivitalizzando la competenza del giudice del domicilio del convenuto sulla domanda di contraffazione ed estendendola alla cognizione incidentale sulle eccezioni di invalidità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo. Tuttavia, la pronuncia fornisce soluzioni incomplete con riguardo, da un lato, al coordinamento tra il procedimento di contraffazione nello Stato membro del domicilio del convenuto e il procedimento di nullità nello Stato membro di convalida e, dall’altro lato, alla esistenza e alle modalità di applicazione di un ipotizzato principio di diritto internazionale generale che impedisca al giudice adito ex art. 4 Bruxelles I-bis di pronunciarsi con efficacia erga omnes sulla validità di un brevetto europeo convalidato in uno Stato terzo. Nell’attesa che la Corte sia invitata a chiarire la sua posizione su tali questioni, l’evoluzione dei principi espressi nella sentenza in commento dipenderà, in larga misura, dall’interpretazione e dalla prassi applicativa dei giudici nazionali e del Tribunale unificato dei brevetti.

Data articolo:Mon, 12 May 2025 06:00:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Monica Spatti
Come proteggere la Corte penale internazionale dalle sanzioni statunitensi: la possibilità per l’Unione europea di ricorrere al regolamento di blocco 

Monica Spatti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)

1. Introduzione

Lo scorso 6 febbraio, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha firmato un ordine esecutivo che impone sanzioni a carico della Corte penale internazionale (CPI), dei suoi giudici e funzionari, dei loro stretti familiari, nonché di tutti coloro i quali con essa collaborano. Le sanzioni vanno dal divieto di ingresso nel territorio statunitense, al blocco dei beni delle persone indicate dallo stesso Presidente (l’Allegato menziona l’attuale Procuratore della Corte, Karim Khan) e che potranno essere in futuro individuate dal Segretario di Stato. 

Come spesso accade, le sanzioni statunitensi hanno la capacità di imporsi non solo sui soggetti stabiliti negli Stati Uniti (cd. sanzioni primarie), ma anche sui soggetti situati in altri Paesi (cd. sanzioni secondarie), finendo così per avere effetti extraterritoriali (sul punto v. Viterbo, p. 371 ss.). Le sanzioni secondarie, la cui legittimità sul piano internazionale è fortemente dubbia (v. Sossai, p. 70 s.; Beaucillon, p. 23; Ruys e Ryngaert, p. 16 ss.), hanno il chiaro obiettivo di forzare gli operatori commerciali stabiliti al di fuori degli USA a scegliere tra interrompere le relazioni commerciali con i soggetti colpiti dalle sanzioni o rinunciare ad accedere al mercato statunitense. Per tale ragione, volendo esemplificare, le istituzioni finanziarie potrebbero rifiutarsi di collaborare con la CPI per timore di ritorsioni da parte degli Stati Uniti, impedendone così l’accesso ai servizi bancari essenziali. Analogamente, le aziende che forniscono servizi informatici e tecnologici fondamentali per la raccolta e la gestione delle prove potrebbero decidere di interrompere ogni rapporto con la Corte, privandola di strumenti essenziali per il suo operato. Le sanzioni statunitensi hanno, dunque, la capacità di compromettere gravemente il funzionamento della Corte. 

Le sanzioni sono una risposta alle indagini della CPI su presunti crimini che coinvolgono personale statunitense e organi di vertice di alcuni paesi alleati, tra cui Israele; indagini che l’amministrazione Trump considera prive di una base legittima. Non è la prima volta che gli Stati Uniti adottano sanzioni nei confronti della Corte. Già durante la precedente amministrazione, nel giugno 2020, il Presidente Trump aveva adottato un analogo ordine esecutivo che imponeva sanzioni economiche e restrizioni di viaggio nei confronti della Procuratrice, Fatou Bensouda, e di altri funzionari della Corte. Allora il provvedimento era stato adottato in reazione all’apertura delle indagini della procuratrice per i gravi crimini commessi in Afghanistan, che potevano coinvolgere anche militari statunitensi e agenti della CIA (in argomento v. Meloni).

La recente decisione ha suscitato un’ondata di dissenso a livello globale. In particolare, 79 Stati parti dello Statuto di Roma hanno rilasciato una dichiarazione congiunta riaffermando il loro «continued and unwavering support for the independence, impartiality, and integrity of the ICC», evidenziando come le sanzioni siano in grado di paralizzare l’attività della Corte, aumentando il rischio di impunità per crimini gravi, minando lo stato di diritto e compromettendo la sicurezza globale. Anche sul versante europeo le reazioni non si sono fatte attendere: la Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, l’Alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Kaja Kallas, così come il Presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, hanno prontamente rilasciato dichiarazioni di sostegno all’attività della Corte (v. quiqui e qui). 

C’è da chiedersi cosa concretamente l’Unione europea possa fare per dare consistenza a queste parole. La Presidente della Corte penale internazionale, la giudice Tomoko Akane, in visita a Bruxelles – insieme al primo Vice-Presidente, il giudice Rosario Salvatore Aitala –, dopo aver espresso apprezzamento per il supporto dell’Unione europea alla Corte, ha esortato l’Unione a prendere misure concrete e rapide per proteggere la Corte; tra queste, è stato invocato il cd. regolamento di blocco (v. qui). Analogamente, anche alcuni euro-parlamentari hanno sollecitato la Commissione a verificare la possibilità di estendere l’applicazione di questo regolamento a salvaguardia della Corte (v. qui).

Il presente contributo mira, dunque, a verificare se lo strumento di blocco, introdotto con il regolamento del Consiglio (CE) n. 2271/96, per arginare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni secondarie imposte da Stati terzi, possa rivelarsi uno strumento efficace per preservare l’attività della Corte, proteggere i suoi funzionari e gli operatori europei che con essa collaborano. A tal fine si intende anzitutto individuare sommariamente gli aspetti chiave del regolamento (par. 2), per poi appurare le sfide dell’eventuale applicazione dello strumento al caso di specie (par. 3).

2. Ratio e contenuto del regolamento di blocco

Il regolamento n. 2271/96 è stato adottato in risposta alle disposizioni statunitensi che nel 1996 avevano imposto sanzioni nei confronti di Cuba, Iran e Libia, impedendo di effettuare transazioni commerciali da e verso quei Paesi, pena il pagamento di sanzioni pecuniare elevatissime o, addirittura, la privazione della libertà personale. L’atto è stato poi modificato una prima volta con il regolamento (UE) n. 37/2014 al fine di adeguare alcune disposizioni al nuovo quadro di diritto primario introdotto con il Trattato di Lisbona, e una seconda volta con il regolamento delegato (UE) 2018/1100 della Commissione, con cui, in particolare, è stato aggiornato l’Allegato, al fine di tenere conto delle sanzioni adottate dagli USA contro l’Iran nel 2012. L’Allegato elenca gli atti legislativi e i regolamenti statunitensi nei confronti dei quali trova applicazione il regolamento di blocco, precisando per ciascuno i potenziali pregiudizi per gli interessi dell’Unione.

Il regolamento di blocco è motivato dal fatto che l’Unione europea considera le sanzioni aventi effetti extraterritoriali come contrarie al diritto internazionale (v. considerando 3 del regolamento in oggetto; relazione della Commissione relativa all’art. 7, lett. a, del regolamento) e come ostacoli alla realizzazione degli obiettivi che la Comunità, ora Unione, si pone. Esso menziona, in particolare: lo sviluppo armonioso del commercio internazionale, la graduale soppressione alle restrizioni agli scambi internazionali, nonché la circolazione di capitali tra Stati membri e paesi terzi e l’eliminazione delle restrizioni agli investimenti. Al fine di mitigare gli effetti extraterritoriali delle sanzioni USA, il regolamento di blocco impone, dunque, alle persone fisiche e giuridiche stabilite nell’Unione di non dare seguito agli atti normativi extraterritoriali statunitensi elencati nell’Allegato, così come a decisioni, sentenze o lodi arbitrali su questi fondati (artt. 5, comma 1 e 11). 

Il regolamento di blocco mira al contempo a proteggere gli operatori economici europei, prevedendo delle forme di tutela a loro favore: anzitutto, un diritto al risarcimento del danno per chi, nel dare attuazione al regolamento europeo, subisca un pregiudizio (art. 6); nonché la possibilità di ottenere un’esenzione nel caso in cui l’inosservanza delle sanzioni statunitensi provochi un danno grave agli interessi dell’operatore economico o dell’Unione stessa (art. 5, comma 2). È prevista anche la possibilità di sanzionare chi non dovesse ad esso adeguarsi. Spetta agli Stati membri il compito di determinare se vi è stata una violazione del regolamento di blocco e che tipo di sanzione eventualmente applicare; il regolamento si limita a stabilire che deve trattarsi di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 9). Gli Stati membri hanno un ruolo fondamentale nel concedere eventuali autorizzazioni di deroga al regolamento di blocco: per quanto la decisione spetti alla Commissione, essa deve prima ottenere l’approvazione degli Stati membri rappresentati in un apposito Comitato che assiste la Commissione (art. 7, lett. b, e art. 8).

3. Gli ostacoli all’uso del regolamento di blocco per mitigare gli effetti delle sanzioni contro la CPI

Allo stato attuale il regolamento di blocco non può essere applicato nei confronti delle sanzioni USA contro la Corte penale internazionale. Perché ciò avvenga Ã¨ necessaria una modifica dell’Allegato del regolamento, finalizzata ad aggiungervi le disposizioni statunitensi che sanzionano la Corte. L’art. 1, comma 2, attribuisce questo potere alla Commissione secondo le condizioni di cui all’art. 11 bis. In particolare, la Commissione può adottare un atto delegato, che deve essere contestualmente notificato al Parlamento europeo e al Consiglio (par. 4). Esso entra in vigore entro due mesi dalla notifica, a meno che uno dei due suddetti organi sollevi un’obiezione (par. 5). Non è scontato che tale modifica possa effettivamente essere introdotta, dal momento che il Consiglio potrebbe avvalersi del proprio potere di opposizione: più di uno Stato membro, infatti, non sembra intenzionato a sostenere la Corte come ci si aspetterebbe. È indicativo, in tal senso, che non tutti gli Stati membri dell’Unione europea abbiano sottoscritto la dichiarazione congiunta di sostegno alla CPI adottata all’indomani dell’introduzione delle sanzioni statunitensi: Italia, Repubblica Ceca e Ungheria non figurano tra i firmatari. Quest’ultima, in particolare, ha assunto una posizione apertamente critica nei confronti della Corte: il Primo Ministro ungherese, Viktor Orbán ha infatti affermato che «it is time for Hungary to reassess its position in an international organization that is under US sanctions», paventando così – e non è la prima volta – la possibilità che l’Ungheria lasci la Corte (v. qui).

Aldilà del dibattito sugli ostacoli politici, occorre segnalare come finora l’applicazione del regolamento di blocco abbia fatto emergere alcuni problemi strutturali, di cui anche la Commissione è pienamente consapevole, tanto che nel 2021 aveva iniziato un processo di revisione dello strumento (v. Commission staff working document, SWD(2021) 371 final, p. 6) prospettando una proposta di modifica nella seconda metà del 2022, che però non è stata presentata.

Uno dei principali problemi del regolamento risiede nella limitata capacità di proteggere gli operatori economici europei. La stessa comunità imprenditoriale europea, che ha risposto alla consultazione della Commissione nell’ambito della procedura di revisione dell’atto, ha denunciato la mancanza di protezione per le aziende europee che si sono trovate nel mezzo del fuoco incrociato tra USA e UE (v. Summary report of the open public consultation on the review of the Blocking Statute, p. 2), soprattutto per quanto riguarda il settore bancario che pare essere quello più colpito. Il principale strumento che il regolamento ha concepito per proteggere gli operatori europei, ossia la possibilità di ottenere una riparazione dei danni subiti, non ha funzionato adeguatamente (v. Svetlicinii, p. 604). L’art. 6 prevede che il risarcimento debba essere ottenuto dalla persona o dall’ente che ha causato il danno, e può avvenire anche attraverso il sequestro e la vendita dei beni di tale soggetto. Chiaramente ciò può funzionare se si tratta di un partner commerciale contro cui è possibile promuovere un’azione giudiziaria davanti a un tribunale per ottenere le suddette forme di riparazione. Questo meccanismo di riparazione non può invece funzionare rispetto alle autorità statunitensi che non possono essere chiamate in giudizio, stante il principio di immunità dello Stato (v. Cellerino, p. 566; Ruys e Ryngaert, p. 95 ss.).

L’evidenza empirica mostra che, in numerosi casi, le aziende europee hanno preferito dare seguito alle sanzioni USA, interrompendo le relazioni commerciali con i soggetti destinatari delle sanzioni. Tale comportamento sembra riflettere un timore maggiore per le possibili ritorsioni da parte degli Stati Uniti rispetto a quelle europee, verosimilmente in ragione del carattere più stringente e incisivo delle sanzioni americane (v. Lionello, p. 496 ss.; Ruys e Ryngaert, p. 92). A questo riguardo si segnala, infatti, la scarsa attitudine degli Stati membri a penalizzare le loro imprese che non si adeguano al regolamento (v. K. Meloni, p. 504; Svetlicinii, p. 600 ss.). Tanto che alcuni non si sono neppure dotati di una legislazione volta a stabilire penalità per le violazioni del regolamento di blocco (v. Jennison, p. 185).

Un ulteriore profilo del regolamento che sembra non operare in modo pienamente efficace riguarda l’obbligo di notifica previsto dall’art. 2. Il meccanismo attuale prevede che siano gli stessi operatori economici, qualora ritengano di essere lesi da una sanzione statunitense, a doverne dare comunicazione alla Commissione. Tuttavia, a seguito di tale notifica gli l’operatori non ricevono alcuna indicazione circa l’eventuale riconducibilità della propria situazione all’ambito di applicazione delle sanzioni statunitensi. La Commissione ha, infatti, chiarito che la segnalazione non deve servire a ottenere un parere (v. nota di orientamento, punto 16). L’unica conseguenza della notifica è che la Commissione a sua volta informerà le autorità statali competenti che potranno così inserire l’operatore economico nella lista di controllo nazionale. Con questa auto-segnalazione l’operatore si espone dunque a un maggior controllo (v. Ruys e Ryngaert, p. 82 s.), senza peraltro avere la sicurezza di un adeguato meccanismo di risarcimento del danno. Come rilevato dallo Special Rapporteur on the negative impact of unilateral coercive measures on the enjoyment of human rightsdell’ONU, le imprese europee hanno più spesso preferito non ricorrere al sistema di rimedi predisposti dal regolamento di blocco, optando più frequentemente per un accordo transattivo con le autorità statunitensi (v. qui, par. 54).

4. Considerazioni conclusive

Non è dato sapere se il ricorso al regolamento di blocco sia effettivamente al vaglio delle istituzioni europee. È probabile che lo sia perché il governo olandese ne ha chiesto l’attivazione (v. qui). Sulla base dell’Accordo di sede i Paesi Bassi hanno la responsabilità di garantire l’indipendenza operativa della Corte e dunque, l’obbligo di collaborare con essa a tal fine. Pertanto, non possono permettere che le banche olandesi interrompano la collaborazione con la CPI. Il ministro della giustizia olandese a questo proposito ha dichiarato che i Paesi Bassi non sono in grado di proteggere da soli le banche, ed è dunque necessario un intervento a livello europeo.

La Commissione europea, sollecitata in merito dell’applicazione del regolamento di blocco da alcuni europarlamentari – per mezzo di un’interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta –, ha dato seguito alla richiesta attraverso l’Alta rappresentante per gli affari esteri. Lo scorso 10 febbraio Kaja Kallas, dopo aver espresso la preoccupazione della Commissione per gli effetti che le sanzioni statunitensi potrebbero avere sul lavoro della CPI, ha ribadito la volontà di difendere l’azione della Corte; l’Alta rappresentante non ha però fatto menzione del regolamento di blocco, limitandosi a dire che la Commissione «is therefore carefully assessing the situation and preparing for all scenarios» (v. qui). La Commissione ha dunque optato per un atteggiamento attendista. Probabilmente si attende di vedere se oltre al Procuratore, Karim Khan, alla lista verranno aggiunti altri nomi o, forse, il tema è entrato nel calderone delle tensioni UE-USA, insieme alle questioni dei dazi e del sostegno all’Ucraina.

Si consideri che il regolamento di blocco è stato adottato con un chiaro intento deterrente: si riteneva, infatti, che potesse favorire una maggiore moderazione da parte statunitense nell’approvazione di nuove sanzioni e nell’applicazione di quelle esistenti (v. Davidson, p. 1435; Ruys e Ryngaert, p. 82 s.). Tuttavia, nell’attuale fase geopolitica risulta meno evidente che il regolamento possa ancora esercitare un’effettiva capacità deterrente. Qualora si decidesse di attivare il regolamento di blocco, sarebbe quantomeno necessario individuare forme aggiuntive di tutela per gli operatori che collaborano con la Corte. Contestualmente, potrebbe risultare opportuno limitare il numero degli operatori coinvolti; ad esempio, in ambito bancario, l’esposizione finanziaria potrebbe essere concentrata in un unico istituto. Ciò permetterebbe alla Corte di sopravvivere in attesa di tempi migliori.

Data articolo:Wed, 16 Apr 2025 17:00:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Luigi Sammartino
“Tanks, a lot!â€: la proposta European Defence Readiness 2030 alla luce del diritto internazionale

Luigi Sammartino, Università degli Studi di Milano

Era nell’aria da tempo, e alla fine si è concretizzato: lo scorso 28 marzo, la Commissione Europea ha pubblicato il Libro Bianco sulla spesa militare, denominato European Defence Readiness 2030 (in precedenza ReArm Europe). Nel documento, di appena 22 pagine, vengono indicati gli obiettivi della military expenditure comune ai 27 Stati membri per i prossimi 5 anni.

Molti dubbi sono stati sollevati da questo documento, non solo a livello economico e politico, ma anche giuridico (per una prima disamina, si veda Paul Dermine, Funding Europe’s Defence. A first Take on Commission’s ReArm Europe Plan, Verfassungsblog, 5 March 2025; Alberto Vecchio, The White Paper Within the Institutional Constraints: The EU Short-Term Defence Policy “Readiness 2030â€, Verfassungsblog, 28 March 2025). Infatti, accanto all’assicurazione che l’aumento della spesa militare (fino al 4% del PIL) potrà beneficiare di una clausola di salvaguardia per lo sforamento del deficit di bilancio (come prevista dall’art. 26 del reg. (UE) 2024/1263), la questione diviene rilevante principalmente alla luce degli obblighi internazionali che verrebbero incisi da una simile misura, ed in particolare i principi sulla sostenibilità economica, attuale e per le future generazioni, su cui l’UE ha puntato nella precedente legislatura (qui una raccolta degli atti giuridici adottati). Inoltre, c’è da considerare se e in che misura tali misure possano incidere i limiti delineati nel diritto internazionale sulla spesa e la trasparenza sull’acquisto di armamenti.

***

All’interno del Libro Bianco, molte delle questioni giuridiche rilevanti si pongono nel par. 7 del documento. Vengono qui descritti i cinque pilastri su cui si baserà l’iniziativa:

1) La creazione di un nuovo strumento finanziario dedicato. L’iniziativa è quella di proporre, in base all’art. 122 TFUE, un regolamento che disciplini l’allocazione, il prestito e la disciplina generale dei fondi reperibili tramite un nuovo strumento finanziario, il Security and Action For Europe (SAFE), che va ad affiancare altra disciplina derivata (in particolare, quelle contenuta ne reg. (UE) 2021/697 sul Fondo europeo per la difesa). Tale strumento sarà dedicato principalmente al procurement (appalto) comune per l’acquisizione e lo sviluppo di materiali d’armamento e di difesa. La condizione per poter usufruire di tale strumento è che il progetto sia predisposto tra due Stati: uno membro UE (che riceverà la dotazione finanziaria) e uno Stato eligibile tra Stati appartenenti all’European Free Trade Area (EFTA) o l’Ucraina, sulla base delle esigenze militari individuate dal Consiglio UE con deliberazione del 6 marzo 2025.

2) La possibilità di ricorrere a clausole di salvaguardia circa il deficit di bilancio. L’accesso a un simile strumento finanziario, con una dotazione di circa 150 miliardi di euro da investire ogni anno, potrebbe avere ripercussioni anche sugli obblighi inclusi nel Patto europeo di Stabilità e Crescita, relativamente al tetto massimo di deficit che uno Stato membro possa fare. In tal senso, la proposta della Commissione prevede di ricorrere alle clausole di salvaguardia per le spese militari considerevoli. Questo aspetto era stato temuto di più, dato che l’obbligo del Patto di stabilità non sembra ammettere deroghe per spese militari, e al contempo non sembra essere chiaro quali implicazioni tale sforamento possa avere sulle economie nazionali.

3) Modifiche, da parte della Banca Europea per gli Investimenti, ai criteri di eleggibilità dei programmi da finanziare. È previsto che la BEI possa allocare ulteriori risorse prevedendo un’estensione dell’ammissibilità al finanziamento per progetti concernenti la difesa comune, tramite il supporto del Piano d’Azione industriale per la sicurezza e la difesa.

4) Mobilitazione del capitale privato per supportare il finanziamento dei progetti della difesa. Questo aspetto diviene rilevante soprattutto per evitare di dipendere dagli investimenti nel settore della difesa da parte delle grandi industrie statunitensi (che finanziano per circa il 60% i vari programmi, e che ora si trovano in difficoltà sul piano della supply chain a causa dei dazi reciproci imposti dall’amministrazione Trump e dalla Commissione UE) e di quelle britanniche (la cui disciplina è sempre soggetta a quanto stabilito nell’Accordo Brexit). In tal senso, la Commissione propone una riforma anche del reg. 2019/2088 del Parlamento e Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (c.d. SFDR), dove si prevede un generico chiarimento circa la necessaria correlazione tra l’informativa societaria degli investimenti della difesa e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile che devono essere perseguiti.

5) Prevedibilità finanziaria. La proposta, ovviamente, cercherà di considerare anche le future esigenze di finanziamento dei progetti.

***

Spazio nel Libro Bianco è dedicato anche alla cooperazione internazionale. In particolare, emergono considerazioni circa la cooperazione militare e di difesa con diversi alleati, tra cui la NATO (in cui sono presenti 23 Stati membri UE), la quale ha progressivamente invitato ad aumentare la spesa militare fino al 4% del PIL (a partire dal Summit di Cardiff del 2014).

A livello bilaterale, la cooperazione interessa diversi partner commerciali e strategici dell’UE (Regno Unito, Turchia, Norvegia, gli Stati parte della European Economic Area – EEA e i candidati all’adesione all’UE, tra cui Georgia, Moldavia e Ucraina e ora anche Armenia), oltre a partner extracontinentali come Canada, Australia, Nuova Zelanda, India, Giappone e Corea del Sud. In tutti questi casi, l’impegno è quello di rafforzare il dialogo strategico e di permettere sia la partecipazione a progetti finanziati col SAFE (soprattutto nel caso di Islanda, Norvegia, Canada, Giappone e Corea del Sud), sia di aprire e rafforzare nuovi canali di commercio e investimento nel settore della difesa (aprendo quindi il mercato interno anche a concorrenti stranieri).

Diverso discorso riguarda gli USA, partner strategici tradizionali e fondamentali nel settore della difesa (come riconosciuto anche da alcuni Stati membri UE e NATO). In tale contesto, l’intenzione statunitense è stata quella di sopperire sempre meno alle esigenze militari degli Stati NATO (già palesata al Summit NATO di Bruxelles del 2018 e ribadita anche recentemente). Tuttavia, tale situazione non sembra aver minato il rinnovo e l’esecuzione dei Memoranda of Understandings in materia di reciprocal defence procurement, volti ad aprire canali di mercato bilaterali per le industrie della difesa degli Stati Uniti e degli Stati parte (tra cui anche l’Italia). In particolare, in questi accordi (e segnatamente quelli con Stati membri UE), viene comunque assicurato il rispetto della normativa comunitaria in materia di appalti della difesa (si veda l’art. II.D del MoU USA-Italia). Ciò implicherebbe che, oltre alla dir. 2009/81/UE in materia di appalti della difesa nel Mercato Interno, anche il futuro regolamento sul SAFE diverrà prevalente rispetto alla disciplina del MoU. Ma dato che non è prevista dal Libro Bianco la possibilità di accedere a simili forme di finanziamento per le imprese statunitensi, le nuove opportunità del mercato della difesa europeo rimarrebbero sostanzialmente precluse alle stesse, provocando anche un possibile effetto discriminatorio. Rimarrebbero invariati (e il Libro Bianco li menziona) il rapporto di cooperazione sulla cybersecurity, la sicurezza marittima e spaziale e le “procurement issues†da discutere, verosimilmente legate non alla fornitura di armamenti in sé, ma di parti e componenti per gli armamenti già acquisiti.

***

Alla luce delle prime considerazioni, sembrano emergere alcune implicazioni dal punto di vista del diritto internazionale. Pur essendo un documento programmatico, il Libro Bianco sembra comunque invitare ad agire considerando solo alcuni obblighi giuridici internazionali, non menzionandone altri o solo implicitamente considerandoli (come nel caso dei principi sullo sviluppo sostenibile). Detto della questione degli accordi bilaterali di cooperazione sul mercato della difesa, qui è necessario comprendere anche se vi siano limiti giuridici internazionali sulla military expenditure stessa.

La questione è stata ciclicamente dibattuta a partire dai primi lavori della Società delle Nazioni. Se in un primo momento (coinciso col periodo di maggiore elaborazione normativa che ha portato, fra le altre, alla stipulazione del Protocollo sulle armi chimiche del 1925) l’idea di policy era il disarmo totale stabilita con regole internazionali (J. T. Shotwell and M. Salvin, Lessons on Security and Disarmament from the History of the League of Nations, 1949, p. 10 ss.), in un secondo momento tale impostazione è stata abbandonata in favore di un maggiore controllo sugli armamenti da parte degli Stati stessi (ribadita prima durante i lavori della Commissione sul Disarmo, poi dalla Conferenza del 1932-1937; Shotwell and Salvin, p. 31 ss.). Al contempo, la regolazione della military expenditure è stata prima vagliata come necessaria, poi lasciata alle considerazioni degli Stati in quanto espressione del domain reservé.

Successivamente, nell’ambito delle Nazioni Unite la questione è stata sollevata più volte nell’ambito dell’Assemblea Generale e durante le Sessioni speciali sul disarmo e la non proliferazione. Nella risoluzione 37/95A del 13 dicembre 1982, l’Assemblea ha ribadito la ferma convinzione di voler raggiungere la definizione di un quadro di principi relativi alla riduzione e congelamento dei budget militari degli Stati (par. 1, 3 ss.); al contempo, nella stessa risoluzione afferma la possibilità (e per converso, sottolinea il problema) di allocare diversamente le risorse per la spesa militare a misure di implementazione della tutela dei diritti fondamentali e dello sviluppo economico (par. 2).

Un nuovo capitolo si è aperto, poi, nel contesto della trasparenza sulla spesa militare. Con la creazione del Registro ONU delle armi convenzionali (1991), allo scopo di rendere trasparenti gli acquisti e le cessioni di armamenti tra gli Stati, il dibattito pubblico si è focalizzato maggiormente sul conoscere come l’impiego delle risorse finanziarie di uno Stato venivano impiegate e quanto era effettivamente speso nel settore della difesa. L’idea di base del registro è quella del reporting volontario (già maturato nella ris. 37/95B), basato soprattutto sulla rilevazione di tipi e unità di armamenti costruiti e venduti, quantità degli stessi e costo complessivo, allo scopo di tracciare un quadro statistico ed economico della military expenditure e cercare di prevenire la corsa agli armamenti indiscriminata.

Tuttavia, il Registro trova ancora difficoltà attuative, sia in ragione della mera natura volontaria dello stesso, sia a causa del mancato recepimento frequente di quei report sulle spese militari che costituiscono la base per applicare il principio di trasparenza.

Accanto ad iniziative a carattere universale volontario, si sono aggiunte iniziative più convincenti a carattere regionale pattizio. Nel 1999 è stata stipulata la Convenzione Interamericana sulla trasparenza nelle acquisizioni militari. Ne sono parte 17 Stati americani, tra cui Canada e Messico. Gli Stati Uniti ne risultano solo firmatari. Riprendendo l’idea del Registro ONU, la Convenzione Interamericana si pone i medesimi obiettivi (art. II); la chiave di volta è rimessa alla cooperazione degli Stati nello scambio di informazioni, sia a livello di reporting sui quantitativi e i costi degli armamenti acquistati e venduti (art. III), sia sul numero e entità di esportazioni perfezionate (art. IV).

Rispetto ad iniziative istituzionali sovranazionali, rimangono solo le iniziative sporadiche dei singoli Stati (come nel caso delle pubblicazioni dei contratti della difesa conclusi dagli Stati Uniti) e di istituti di ricerca del settore (come lo Stockholm International Peace Research Institute – SIPRI, e l’International Institute for Strategic Studies – IISS). In entrambi questi casi, sono resi disponibili database che indicano i flussi di armamenti tra Stati, il quantitativo di spesa militare che ogni Stato ha sostenuto in un anno e i tipi di armamento trasferito. Non vi è, quindi, una prassi diffusa e uniforme che possa permettere la ricostruzione di una regola a carattere consuetudinario, se non nel senso di applicare la trasparenza alle modalità di spesa dei fondi pubblici da parte degli Stati.

Pertanto, data la scarna disciplina specificatamente applicabile alla military expenditure, bisogna considerare se vi siano obblighi internazionali generali e relativi all’ambito del disarmo che possano applicarsi ulteriormente.

***

Una delle prime considerazioni qui da svolgere è relativa al divieto di uso della forza, come enucleato all’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite. In questo senso c’è da chiedersi se “armarsi†comporti una possibile violazione di tale obbligo.

Sebbene non vi sia unicità per una definizione di attacco armato (ricomprendendo anche la guerra al terrorismo e gli attacchi cibernetici), si potrebbe pensare che il riarmo, la corsa agli armamenti o ogni attività volta ad incrementare le proprie forze armate potrebbe essere prodromico all’uso della forza, ad esempio intesa a “minare l’integrità territoriale di uno Stato†(C. Dörr, Use of Force, Prohibition of, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, par. 12 ss.). Tuttavia, se non può essere dimostrato che l’intento di spendere per armarsi sia prodromico ad un attacco armato, viene a mancare il possibile nesso causale tra la spesa militare e l’attacco armato vero e proprio. Ciononostante, la casistica internazionale sembra non mancare, come nel caso delle spese militari sostenute dall’Arabia Saudita nel 2016 in vista dell’operazione multiforze in Yemen, o l’incremento della spesa militare egiziana tra il 1967 e il 1971 che portò alla Guerra dello Yom Kippur. Tuttavia, non vi è uniformità e prassi decisiva che lasci intendere che la spesa militare possa portare ad agire contrariamente al divieto di uso della forza, né che l’acquisizione di armamenti costituisca automaticamente parte di un attacco armato.

Diverso il discorso relativo alla legittima difesa degli Stati. Anche in questo caso, la norma che trova conferma nell’art. 51 della Carta ONU prevede come requisito quello dell’attualità dell’attacco armato sferrato nei propri confronti. Vi è di più che la difesa anticipatoria e quella preventiva non sono considerate come legittime secondo il diritto internazionale contemporaneo. Al contempo, le (ormai) numerose norme pattizie sul controllo dei trasferimenti di vari tipi di armi convenzionali includono un richiamo al principio della legittima difesa quale regolatore dell’acquisizione di armi convenzionali (si veda, ad es., quello dell’Arms Trade Treaty).

In questo senso (e anche il Readiness 2030 sembra confermare ciò), la legittima difesa sembra includere il sostenimento della spesa militare, ma solo se tale spesa venga effettuata proprio allo scopo di garantire la legittima difesa nei confronti di un possibile attacco armato (e sempre che tale attacco sia incluso nella definizione di “uso della forzaâ€: C. Gray, International Law and the Use of Force, 4th, 2018, p. 5). Questa situazione, peraltro, sembra emergere dalla prassi più recente (ad esempio, le acquisizioni da parte israeliana in vista della Guerra dello Yom Kippur del 1973 e quella dell’Ucraina a seguito dell’invasione russa di Crimea, Donbas e dell’invasione su vasta scala del 2022). Dubbi, invece, sussistono circa il legittimo ricorso alla spesa militare durante un conflitto armato (sul punto, si veda N. Zugliani, The Supply of Weapons to a Victim of Aggression: The Law of Neutrality in Light of the Conflict in Ukraine, in EJIL, vol. 35, 2024, 389 ss.).

Da un contesto meramente bellico si passa ad uno di natura più economica e sociale. Quanto evidenziato anche recentemente da studi di esperti e già paventato dall’Assemblea Generale, il commercio di armamenti e, per riflesso, la military expenditure possono incidere sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Questa è anche la maggiore preoccupazione di coloro che sostengono le ragioni contrarie al riarmo da parte dell’UE, ovvero che l’aumento della spesa militare non solo possa comportare la sottrazione di fondi per l’implementazione dei diritti economici e sociali, ma anche che il ricorso a strumenti finanziari come il SAFE possa aggravare la situazione pro futuro.

Nel caso della spesa militare, soprattutto gli Stati in via di sviluppo e le economie industriali poco sviluppate hanno assistito a ripetuti tagli ai servizi pubblici essenziali, ai fondi per l’implementazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e per la modernizzazione industriale e delle infrastrutture. Questa considerazione, puramente di previsione macroeconomica, può essere indirizzata solo attraverso il perfetto bilanciamento dei fondi pubblici, preservando le risorse necessarie al raggiungimento di tali obiettivi.

Nel contesto della Readiness 2030, il Libro Bianco menziona la creazione del SAFE appositamente per permettere di finanziare l’aumento per la spesa militare e il ricorso alle clausole di salvaguardia come espediente per superare il tetto di deficit di bilancio imposto dal Patto di stabilità. Tuttavia, non è chiaro né come questo strumento possa incidere sulle economie nazionali, né quali saranno le condizioni per il finanziamento e se sia prevista una restituzione o addirittura l’attuazione di politiche economiche nazionali molto rigorose, come accade per il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Questa situazione di incertezza alimenta il timore che tale strumento possa incidere sensibilmente su quelle economie che non abbiano sufficiente capacità politico-economica per gestire un simile aumento della spesa e programmarla nel periodo medio-lungo.

Sotto un profilo di cooperazione giuridica, poi, la military expenditure potrebbe mettere alla prova anche l’applicazione di obblighi internazionali in materia di controllo degli armamenti convenzionali. In particolare, nel Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa – CFE (stipulato a Parigi nel 1990 tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica e l’ex URSS; la Russia non ne fa più parte dal 2009, mentre gli Stati Baltici, Svezia e Finlandia non hanno mai firmato il Trattato) sono previsti (artt. III e ss.) alcuni obblighi circa la limitazione numerica di vari tipi di armamento che siano acquisiti e messi a disposizione delle forze armate dei vari Stati. In particolare, si stabilisce che le limitazioni saranno di natura quantitativa, secondo i limiti numerici fissati dall’art. IV, par. 1, per i veicoli armati (carri armati e veicoli di assalto), pezzi di artiglieria, aerei caccia ed elicotteri d’assalto. Queste limitazioni sono stabilite per diverse aree geografiche (se ne contano 4), dove per ognuna sono fissati i limiti massimo di disposizione delle unità (art. IV, par. 2 ss.)

Essendo un accordo atto a limitare il numero di forze armate presenti su un territorio, la base giuridica si rinviene nel sistema di notifiche tra Stati parti (art. VII). Con queste, gli altri Stati possono conoscere il numero di armamenti posseduti, quello di armamenti che verranno acquisiti oltre il limite e quello degli armamenti che verranno dismessi o ceduti. Ciò al fine di effettuare una “compensazione interna†sulle proprie forze armate entro i termini prescritti. Al contrario, le suddette limitazioni non possono permettere una “compensazione per area†tra gli Stati territorialmente inclusi, in modo che alle limitazioni di uno corrispondano gli aumenti degli altri e viceversa (art. VII, par. 6).  

Tuttavia, non è chiaro se il Readiness 2030 comporti acquisti per la difesa nazionale che possano andare oltre i limiti previsti dal Trattato CFE. In tale caso, il problema in concreto che si pone è se lo Stato parte della Convenzione e richiedente il finanziamento SAFE stia acquisendo armamenti al fine di aumentare il proprio comparto bellico, o se stia facendo ciò al solo scopo di aggiornare i propri sistemi difensivi, rimpiazzando quindi quelli obsoleti (la cui pratica, in base agli artt. VIII e ss. del Trattato, può portare anche alla conversione dei precedenti veicoli militari in veicoli civili, o allo smantellamento per recupero di parti e componenti, oppure al trasferimento verso altro Stato, applicando quindi i limiti normativi previsti per i trasferimenti di armi convenzionali).

In quest’ottica, la prima ipotesi è sicuramente in violazione del Trattato, laddove le nuove acquisizioni siano fatte senza considerare l’applicazione dell’obbligo in sé, o senza aver notificato entro i termini prescritti il numero di armamenti ridotti e acquisiti, oltre ad aggirare i limiti sulle compensazioni numeriche previste dall’accordo medesimo.

***

In definitiva, il piano europeo Readiness 2030 presenta la bivalenza tipica di una situazione di emergenza. Al di là dei possibili “benefici†circa lo sviluppo di una difesa comune, sono diversi i profili che destano preoccupazione. Da un lato, la principale preoccupazione riguarda i limiti di spesa e di investimento pubblico che gli Stati membri cercheranno di attuare, in considerazione di possibili impatti negativi sul raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Dall’altro, le preoccupazioni sono rivolte alla compatibilità tra quanto verrà prescritto dagli strumenti normativi previsti dal Libro Bianco e i possibili (seppur limitati) impegni normativi internazionali sulla trasparenza, la cooperazione internazionale e le limitazioni di armamenti.

Data articolo:Mon, 14 Apr 2025 15:41:28 +0000

News su Gazzetta ufficiale dello Stato, Corte costituzionale, Corte dei Conti, Cassazione, TAR