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News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

News dal blog della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea

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diritto dell'Unione europea a cura di Davide Vaira
Trick or T(h)reat: disinformazione online e minacce ibride nel panorama europeo. Alcune considerazioni alla luce dell’annullamento delle elezioni in Romania.

Davide Vaira (Università di Cagliari)

1. Il giorno 6 dicembre 2024 la Corte costituzionale rumena ha annullato i risultati delle elezioni presidenziali per sospette ingerenze da parte della Russia durante la campagna elettorale.

Per comprendere la portata di tale annullamento e inquadrare le connesse problematiche giuridiche, appare opportuno ripercorrere gli accadimenti principali.

Il 2024 è stato un anno fondamentale per la politica internazionale, in quanto ha ospitato un numero di elezioni democratiche insolitamente alto, che hanno coinvolto anche attori di rilievo quali gli Stati Uniti e l’Unione Europea e hanno ridefinito gli equilibri globali (per un approfondimento sull’argomento, in questo blog, si veda Ruotolo, 2024a).

Nei mesi di novembre e dicembre il focus si è concentrato sulle elezioni presidenziali in Romania.

Le primarie si sono concluse con l’indicazione di tre diversi candidati: Ion-Marcel Ciolacu, già Primo Ministro del Paese e membro del Partito Social Democratico, Elena Lasconi di estrazione centrista, Călin Giorgescu, indipendente, di orientamento filo-russo e contrario all’erogazione di aiuti all’Ucraina.

Nonostante la maggioranza relativa raggiunta al primo turno dal Partito Social Democratico di Ciolacu, i risultati delle coalizioni di centro e di destra hanno consentito ai rispettivi candidati di giungere al ballottaggio, originariamente previsto per l’8 dicembre.

Al riguardo, particolare interesse ha suscitato il risultato raggiunto dalla coalizione dei tre partiti di estrema destra, sostenitrice di Giorgescu, che ha superato il 31% dei voti, nella misura del triplo rispetto alle precedenti elezioni tenutesi nel 2020.

L’inatteso risultato raggiunto al primo turno dalla coalizione di Giorgescu ha determinato numerose proteste nel Paese e, in data 4 dicembre, la diffusione, da parte del Ministero dell’Interno, di documenti classificati provenienti dal Servizio di Intelligence estero, dal Servizio di Intelligence rumeno e dal Servizio Speciale di Telecomunicazioni, a dimostrazione di ingerenze di uno Stato terzo sull’esito delle elezioni. 

La diffusione dei documenti classificati ha determinato l’intervento della Corte costituzionale rumena, quale garante della correttezza del processo elettorale ai sensi dell’art. 146 lett. f) della Costituzione, che, con la decisione 32/2024 del 6 dicembre 2024 (qui tradotta), ha annullato l’intero procedimento elettorale per sospette ingerenze da parte della Russia e, in applicazione dell’art. 83 par. 2 della Costituzione, ha confermato il mantenimento in carica del Presidente uscente fino all’elezione del successivo.

Nella sentenza la Corte ha motivato la decisione affermando che «assicurare il rispetto del procedimento per l’elezione del Presidente» non deve essere inteso in senso restrittivo, ma, al contrario, consente finanche l’annullamento tout court delle elezioni in caso di sospette irregolarità.

Il sospetto di un’indebita ingerenza da parte della Russia è dipeso dalla circostanza che, a differenza della campagna elettorale condotta dai candidati Ciolacu e Lasconi in modo tradizionale, diversamente, quella di Giorgescu si è svolta quasi completamente attraverso piattaforme online e, in particolare, TikTok.

La scelta, che ha consentito a Giorgescu di dichiarare una spesa elettorale pari a zero, ha suscitato diversi interrogativi in quanto, contemporaneamente, proprio sulla piattaforma TikTok, era divenuta virale una campagna filorussa contro gli aiuti a Kiev, che si basava principalmente sul risentimento della popolazione rumena per il trattamento preferenziale riservato ai rifugiati ucraini e sul timore di un’espansione del conflitto anche in territorio rumeno in caso di mantenimento del supporto all’Ucraina, attesa la rilevanza strategica della Romania dovuta alla vicinanza geografica a quest’ultima.

Alla campagna filorussa si è affiancata la campagna elettorale di Giorgescu, i cui contenuti sono stati più difficilmente verificabili dagli algoritmi, in quanto i video spesso erano inseriti nella categoria ‘intrattenimento’, invece che nella categoria ‘politica’. 

La Corte costituzionale, ribadendo il diritto alle libere elezioni come uno degli elementi fondamentali delle democrazie occidentali, ha focalizzato due particolari aspetti. 

Per un verso ha affermato la violazione di norme di legge sul finanziamento delle campagne elettorali, evidenziando che «[…] una campagna elettorale comporta costi e spese rilevanti, e la situazione analizzata rivela un’evidente incongruenza tra la portata della campagna svolta e l’inesistenza assunta dal candidato in merito alle spese sostenute», da cui il sospetto di finanziamenti illeciti; per altro verso ha sottolineato il sospetto di una campagna di disinformazione e di uso non trasparente di tecnologie digitali, con le quali sono state «distort[e] la natura libera e corretta dell’esperienza di voto espressa dai cittadini e le pari opportunità dei concorrenti elettorali».

La Corte ha così evidenziato, quali requisiti necessari delle elezioni democratiche, la libertà di opinione ed espressione, legate al diritto all’informazione, il diritto di voto, come libero da ingerenze illecite di Paesi terzi, e la trasparenza e pari opportunità tra i candidati.

Il caso in esame presta il fianco a riflessioni sotto diversi profili. 

Al di là della questione relativa alla trasparenza dei finanziamenti in periodo elettorale e all’interesse manifestato dalla Commissione Europea in merito agli obblighi di sorveglianza disposti dal Digital Services Act (DSA) in capo alle Piattaforme online di dimensioni molto grandi (Very Large Online Platforms – VLOPs) – tra le quali rientra anche TikTok – sui contenuti caricati dagli utenti, sui quali, per esigenze di concisione non è possibile soffermarsi, l’attenzione verrà focalizzata sugli spunti offerti dalla pronuncia della Corte costituzionale in tema di indebita ingerenza di Stati terzi e di strumenti attraverso i quali gli Stati target possono difendersi ed esercitare la resilienza democratica, problematiche che verranno affrontate con riferimento al diritto dell’Unione Europea, non tralasciando alcuni richiami al diritto internazionale. 

Così ricostruiti gli avvenimenti del caso in esame, si procede ad analizzare la possibilità di inquadrare la disinformazione online, già utilizzata dalla Russia in passato, come minaccia ibrida (2).

Successivamente, l’attenzione si focalizzerà sul target delle minacce ibride e sulla definizione e tutela dei valori democratici e dei diritti fondamentali a questi collegati (3).

Infine, si tenterà una riflessione sugli strumenti di cui dispongono gli Stati per contrastare la disinformazione online e tutelare i principi democratici, in particolare sul Democracy Shield (4).

2. La definizione di minaccia ibrida, intesa in senso generico, non è agevole in quanto ricomprende un ampio ed eterogeneo ventaglio di comportamenti che possono essere esercitati da uno Stato – o da attori privati – al fine di indebolire un altro Paese (per una ricostruzione approfondita si veda Giannopoulos et al.). 

Il concetto di minaccia ibrida è in parte ricollegabile anche a quello di guerra ibrida, che ha avuto la sua maggiore diffusione nel 2014, a seguito dell’annessione della Crimea al territorio russo. 

In merito alla minaccia ibrida, la NATO ha ripreso la definizione già utilizzata dall’Unione Europea, secondo cui «le minacce ibride combinano attività convenzionali e non convenzionali, militari e non militari, che possono essere usate in modo coordinato dagli Stati o da attori non statali per raggiungere specifici obiettivi politici […] [e che] prendono di mira le vulnerabilità critiche e cercano di creare confusione che impedirebbe un processo decisionale rapido ed efficace».

Successivamente, nel 2022, il The Hague Centre for Strategic Studies (HCSS) e, nel 2023, l’European Centre of Excellence for Countering Hybrid Threats (Hybrid Coe) hanno definito la nozione di minaccia ibrida sottolineando l’idea che il target possa essere rappresentato sia dagli Stati che dalle Istituzioni democratiche.

Nel concetto di minaccia ibrida è possibile far rientrare la disinformazione, non solo perchè così espressamente definita dalle istituzioni europee (si veda ad esempio il par. 63 della comunicazione della Commissione C/2024/3014), ma anche perchè la stessa, negli anni, si è rivelata come strumento utile alla destabilizzazione dei Paesi.

Quanto all’uso di minacce ibride durante le campagne elettorali, occorre operare una distinzione tra misinformazione, disinformazione e propaganda.

La misinformazione ricomprende informazioni false o fuorvianti che, tuttavia, non sono state diffuse con l’intento di nuocere, sicchè, pur rientrando tra i fattori di rischio per i procedimenti democratici (si vedano al riguardo i punti 27 a) e 40 a) della comunicazione della commissione), non è generalmente ritenuta minaccia ibrida, in quanto non cagionata volontariamente.

La disinformazione, invece, riguarda informazioni false o manipolate, diffuse al preciso scopo di cagionare un danno e può essere considerata come una derivazione della propaganda (Jones, p. 7, si veda inoltre anche Castellaneta) che, a sua volta, originariamente nata con una connotazione neutrale (in tal senso l’art. 20 par. 1 del Patto internazionale sui diritti civili e politici – ICCPR), ha assunto poi una connotazione negativa (Ivancìk, p. 44; Whitton, p. 550).

Il discrimen tra misinformazione e disinformazione, pertanto, attiene all’intenzionalità di quest’ultima, che la eleva al rango di minaccia ibrida. 

Appare utile precisare che, nel presente elaborato, con la definizione di disinformazione si intendono non solo le informazioni false tout court, ma anche la manipolazione di informazioni, ritenuta altrettanto grave.

Per quel che qui rileva, in periodo elettorale la disinformazione rappresenta una minaccia soprattutto quando le notizie false o fuorvianti vengono diffuse da Paesi stranieri, poichè in tal caso, oltre alla violazione del diritto all’informazione e alla libertà di espressione, si configurano anche violazioni del principio di non ingerenza che permea il diritto internazionale.

Il divieto di ingerenza di Paesi stranieri negli affari interni di un altro Stato si è ampliato, da un punto di vista pratico, in quanto le piattaforme digitali, che consentono la diffusione globale e immediata delle informazioni grazie all’ubiquità dei dati, rappresentano un veicolo attraverso il quale operare “da remoto†anche in territori esteri; da un punto di vista concettuale, in quanto l’ingerenza non è più riferibile solo all’uso della forza, ma a qualsiasi strumento che impedisca a uno Stato di agire liberamente (sull’argomento, su questo blog, si veda Ruotolo, 2024a).

Ne deriva che, in periodo elettorale, il libero e ininterrotto flusso di informazioni costituisce, per un verso, un aspetto fondamentale per la corretta partecipazione dei cittadini ai dibattiti, per altro verso uno dei principali strumenti attraverso i quali manipolare le opinioni (in tal senso Bradshaw e Howard hanno parlato di «minaccia critica»).

L’ingerenza e la manipolazione delle informazioni sono strumenti che la Russia ha utilizzato per rafforzare la propria posizione nel conflitto con l’Ucraina, anche mediante l’Internet Research Agency (IRA), agenzia che, grazie a finanziamenti statali, ha il preciso compito di diffondere disinformazione e manipolare l’opinione pubblica online, con lo scopo di indebolire i Paesi terzi (al riguardo si veda DiResta et al.).

Sospetti di ingerenza, non sempre provati, da parte della Russia nei confronti delle democrazie occidentali, si sono alimentati in occasione di eventi sensibili, quali la Brexit, il referendum sull’indipendenza della Catalogna, le elezioni statunitensi del 2016. 

In generale, in merito alla guerra in Ucraina, sospetti di manipolazione delle informazioni da parte della Russia hanno avuto portata globale (ad esempio, in America Latina).

3. In periodo elettorale, la disinformazione tende a influenzare il dibattito pubblico e a coinvolgere la libertà di espressione, di opinione e di informazione, che rappresentano il bagaglio di diritti fondamentali riconosciuti agli individui a livello sia internazionale (si pensi all’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o all’art. 19 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici), sia europeo.

Negli Stati Uniti l’operatività degli strumenti di contrasto alla disinformazione è limitata dal primo emendamento, che garantisce l’assolutezza della libertà di espressione e dall’approccio multi-stakeholder che lascia ampio margine di manovra alle piattaforme online (sul punto Pollicino). 

Diversamente, nell’Unione Europea, la tutela del fondamentale diritto del singolo a una corretta informazione consente agli Stati maggiori e più incisive possibilità di intervento.

Invero, l’art. 6 TUE recepisce i diritti, le libertà e i principi sia della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale all’articolo 11 prevede la «libertà di opinione e la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza che vi possano essere ingerenze da parte di autorità pubbliche e senza limiti di frontiera», sia della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che, pur richiamando anch’essa il diritto alla libertà di espressione, opinione e informazione, tuttavia, all’art. 10 ne prevede possibili restrizioni qualora necessarie alla tutela della società democratica e, all’art. 17, individua limiti agli abusi del diritto stesso.

Si tratta di forme di tutela che si configurano anche come divieto di manipolazione fraudolenta delle opinioni durante le elezioni. 

Nonostante a livello europeo la problematica della disinformazione attraverso le VLOPs sia recente e la tutela di tali diritti online sia poco discussa, si può ritenere che, quanto a quest’ultima, operi il principio di neutralità tecnologica, introdotto alla fine dello scorso millennio dalla Commissione Europea, secondo cui i diritti offline degli individui e il loro corrispettivo online sono equiparabili (sul punto, Ruotolo, 2024b). 

In genere, in materia di informazione, i social network e le VLOPs sono sempre stati considerati neutrali, in quanto, pur potendo rappresentare un veicolo di disinformazione, sono uno strumento fondamentale per la tutela dei diritti umani e della democraticità e, in periodo elettorale, per la tutela del libero scambio di idee tra candidati e cittadini.

Da ciò, consegue la necessità di rafforzare il fact-checking, vale a dire l’utilizzo, da parte delle piattaforme, di strumenti utili a discernere i contenuti informativi da quelli disinformativi, così da garantire una risposta rapida ed efficace alle minacce ibride, strumenti che, ad oggi, vengono principalmente adoperati sia tramite algoritmi e Intelligenza artificiale (sul punto, in questo blog, si veda Ruotolo, 2023), sia tramite la componente umana, con l’auspicio, per il futuro, della realizzazione di board indipendenti e di un maggiore coinvolgimento degli Stati mediante un enforcement pubblico.

Sotto altro profilo è necessario che, nel bilanciamento tra il contrasto alla disinformazione e la tutela della libertà di espressione online, sia rispettato il principio di proporzionalità, come già evidenziato nel 2017 a livello internazionale da una dichiarazione congiunta tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), l’organizzazione degli Stati Americani (OAS) e la Commissione Africana sui Diritti Umani e dei Popoli (ACHPR) e, prima ancora, da considerazioni sull’art. 19 dell’ICCPR, espresse dal Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

In ambito europeo, l’operazione di bilanciamento tra la libertà di espressione e il contrasto alla disinformazione trova il suo fondamento nei già richiamati art. 10 e 17 della CEDU. 

Da un punto di vista teorico, la libertà di espressione, diritto fondamentale dell’individuo, si configura come abuso ai sensi dell’art. 17 CEDU o soccombe nell’operazione di bilanciamento di cui all’art. 10 CEDU solo nel caso in cui la veridicità dell’informazione sia manifestamente esclusa.

Tuttavia, sotto un profilo pratico, l’attuale orientamento è quello di contrastare in via preventiva la disinformazione attraverso l’individuazione di restrizioni anche in ipotesi di mero ‘sospetto’, di cui la sentenza della Corte costituzionale rumena rappresenta un esempio (sul punto, in questo blog, seppur con riferimento alla diversa ipotesi di incitamento all’odio, si vedano De Sena e Castellaneta).

Di qui, tuttavia il rischio di eccedere nelle restrizioni, arrivando a configurare una «collateral censorship» che, in periodo elettorale, finirebbe con il rappresentare un’eventualità ancora maggiore dovuta alla difficoltà di distinguere tra disinformazione e semplice diffusione di materiale o opinioni di parte.

4. A livello europeo, si riscontra un sempre maggiore impegno nella lotta alla disinformazione come minaccia ibrida da parte delle Istituzioni e degli Stati. 

Infatti, mentre fino al 2020 i tentativi di contrasto alla disinformazione hanno avuto un taglio prevalentemente volontario, in epoca successiva la maggiore attenzione al problema ha determinato l’individuazione di strumenti di soft law e normative.

Di recente, a livello europeo, ha assunto rilevanza il Democracy Shield, iniziativa che, proposta in via informale nel dicembre 2023, ha poi assunto veste ufficiale nel luglio 2024, con l’inserimento da parte della Commissione Europea nelle proprie linee guida 2024-2029. Successivamente, nel dicembre 2024, la stessa è stata recepita dal Parlamento europeo, andando ad arricchire il Democracy Action Plan europeo, volto a promuovere, contrastando la disinformazione e le ingerenze di Stati terzi nei processi democratici, elezioni libere e corrette.

Il Democracy Shield, a seguito della circostanza che, nell’ambito del report sui rischi redatto dal World Economic Forum 2024, le minacce ibride in materia di informazione sono state indicate come il principale rischio che incombe sulle democrazie occidentali, ha suscitato un interesse, ulteriormente aumentato dal recente annullamento delle elezioni in Romania.

In particolare, il Democracy Shield si sviluppa in cinque ambiti, riorganizzando idee e proposte avanzate talora in precedenza.

Il primo ambito riguarda il monitoraggio, rispetto al quale si è evidenziata la necessità di combattere la disinformazione in maniera preventiva e proattiva, auspicando l’individuazione di un sistema di monitoraggio dei contenuti caricati online dagli utenti, indipendente dalle piattaforme e più facilmente gestibile dagli Stati membri. A tal fine si mira a incrementare le risorse per i fact-checkers, in modo da migliorare l’efficacia del loro operato e a uniformare le modalità di monitoraggio attraverso la creazione di apposite task forces composte da soggetti pubblici e privati, quali ad esempio il Counter Disinformation Network.

L’idea di creare task forces per uniformare il monitoraggio delle minacce ibride e, in particolare, della disinformazione, non è recente.

Infatti, già nel 2015, era stata istituita, da parte dell’European External Action Service (EEAS), l’East Stratcom, cui il Consiglio Europeo aveva dato mandato di contrastare le campagne di disinformazione russe.

L’operato dell’East Stratcom è poi proseguito con l’istituzione, nel 2023, del Foreign Information Manipulation and Interference – Information Sharing and Analysis Centre (FIMI-ISAC), da parte dello stesso EEAS. 

Un secondo ambito attiene agli strumenti con i quali contrastare in concreto la disinformazione.

La maggiore innovazione in materia è costituita dall’Intelligenza Artificiale, utile ad accelerare e semplificare l’individuazione di contenuti di disinformazione sulle piattaforme online. 

Secondo il progetto del Democracy Shield, l’IA, già utilizzata in alcune piattaforme, sarà utile non solo a distinguere i contenuti di disinformazione da quelli legittimamente rientranti nella libertà di espressione, ma anche a identificare gli attori e i canali della disinformazione e a distinguere quest’ultima dalla misinformazione, così da consentire agli Stati di assumere i provvedimenti del caso.

Altri strumenti utili per il contrasto alla disinformazione sono quelli volti alla condivisione delle informazioni tra i Paesi, tra i quali il Rapid Alert System (RAS) del 2018, che consente di creare una rete di informazioni condivisa non solo tra gli Stati membri dell’Unione Europea, ma anche tra questi e gli attori privati, così facilitando una risposta coordinata alle minacce ibride.

Non ultimi, tra gli strumenti di contrasto alle minacce ibride, sono le sanzioni che l’Unione Europea applica al fine di eliminare, o quantomeno ostacolare, ingerenze negli affari interni degli Stati membri (ex multis, nel mese di ottobre 2024 è stato approvato il regolamento (UE) 2024/2642 che riprende la decisione PESC 2024/2643 in tema di misure restrittive destinate ad arginare l’attività di destabilizzazione da parte della Russia).

Il terzo ambito in cui il Democracy Shield intende operare è relativo alla governance.

Si auspica, infatti, un aggiornamento della normativa europea e degli strumenti di soft law al fine di ricomprendere al loro interno previsioni volte a contrastare la disinformazione online.

Sull’argomento, oltre all’intento di orientare il Digital Markets Act, il Digital Services Act e l’AI Act verso un più efficace contrasto alla disinformazione, numerose iniziative e previsioni si sono sviluppate nel corso degli anni.

Mentre inizialmente i codici di condotta prevedevano una sorta di autoregolamentazione volontaria in capo alle piattaforme, successivamente, alla self-regulation si sono affiancati alcuni obblighi imposti a livello normativo, che hanno consentito di imporne il rispetto a livello europeo, con conseguenti limiti alla discrezionalità dei service providers.

In ambito europeo, oltre alle nuove norme, tra le quali ad esempio il regolamento (UE) 2024/900 relativo alla trasparenza e al targeting della pubblicità politica e il regolamento (UE) 2024/1083 sulla libertà dei media, sono stati elaborati anche codici di condotta e di buone pratiche, pacchetti di misure (sia sulla protezione dell’integrità delle elezioni che, più in generale, sulla difesa della democrazia), orientamenti che hanno chiarito le modalità applicative delle previsioni in materia di processi elettorali, così rafforzando il contrasto alla disinformazione online nel settore.

Il quarto ambito riguarda il pluralismo e la cooperazione tra Istituzioni, Stati e attori non statali.

Al fine di contrastare la disinformazione, infatti, è stata ritenuta necessaria una cooperazione volta a permettere ai cittadini di acquisire maggiore consapevolezza in materia e a rafforzare la diffusione delle informazioni veritiere, attraverso la chiusura di account falsi e la promozione di fonti affidabili, quali quelle giornalistiche. 

Nel settore, iniziative sono state assunte da Organizzazioni non governative (si pensi, ad esempio, alla Journalism Trust Initiative), da Stati (come la proposta di un’Agenzia Europea per la Protezione delle Democrazie effettuata dalla Francia) o, ancora, dalle stesse Istituzioni europee (ad esempio il Joint Action Plan on Disinformation proposto dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante o, ancora, le risoluzioni del Parlamento europeo del 2022 e del 2023 in materia di tutela dei processi democratici dalle ingerenze straniere).

Accanto a tali iniziative, la promozione delle fonti affidabili e della veridicità delle informazioni è stata auspicata anche da una risoluzione con la quale, nel 2021, il Parlamento Europeo ha invitato la Commissione Europea a proporre un pacchetto di misure, vincolanti e non, per contrastare il fenomeno degli SLAPPs.

Per SLAPPs (Strategic Lawsuit Against Public Participation) si intendono quelle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica, avviate da soggetti influenti o finanziariamente forti – tra cui esponenti russi â€“, che pongano il destinatario in una condizione di svantaggio tale da indurlo all’autocensura o a impedire la partecipazione pubblica dello stesso, attraverso la promozione di procedimenti giudiziari abusivi che vanno a incidere negativamente sulle finanze o sulla reputazione del convenuto.

Sul tema, di particolare interesse, è la Direttiva 2024/1069, definita anche direttiva ‘anti-SLAPPs’, volta a garantire la partecipazione pubblica, intesa come comprensiva delle libertà di espressione e di informazione, e a tutelare la questione pubblica, inclusiva della lotta alla disinformazione e alle ingerenze illecite nei processi democratici da parte di Paesi terzi, nel rispetto del valore di democrazia, di cui all’art. 2 TUE e del diritto di partecipazione alla vita democratica dell’Unione, stabilito dall’art. 10 par. 3 TUE.

La direttiva riconosce l’esigenza di garantire – a giornalisti, Organizzazioni non governative, accademici e società civile in generale – uno spazio che consenta un «dibattito aperto, libero ed equo per contrastare la disinformazione, la manipolazione delle informazioni e le ingerenze […]», nel quale è ricompresa anche l’informazione via internet (Considerando 8 e ss. della direttiva).

A tal fine, la direttiva invita gli Stati ad adottare nei processi civili validi ed efficaci strumenti, idonei ad evitare procedimenti multipli, a consentire il rigetto anticipato di domande manifestamente infondate, a imporre cauzioni a garanzia della copertura delle spese legali da parte dell’attore che intenda ostacolare la pubblicazione di contenuti informativi o, ancora, a tutelare il convenuto in caso di procedimenti proposti dinanzi all’organo giudiziario di un Paese extra-europeo.

Il pluralismo ora evidenziato si ricollega poi al quinto e ultimo ambito, che si concentra sulla necessità di favorire la partecipazione dei cittadini su larga scala, al fine di adeguare le misure di contrasto alla disinformazione alle esigenze realmente percepite dagli individui.

In conclusione, alla luce dei recenti avvenimenti accaduti in Romania, se per un verso la disinformazione si è confermata come un mezzo efficace per la destabilizzazione delle democrazie, per altro verso gli strumenti che i Paesi target e le Organizzazioni Internazionali hanno per difendersi si sono dimostrati ancora in fase embrionale, anche in ragione della difficoltà di definire in maniera esatta cosa si intenda per minaccia ibrida.

Sulla scia delle iniziative intraprese si inserisce il Democracy Shield che, da un lato mira alla razionalizzazione, al fine di aumentarne l’efficacia, degli strumenti volti a contrastare la disinformazione e, dall’altro lato, evidenzia come sia gli Stati, sia le Organizzazioni Internazionali stiano cercando di adeguare il proprio operato al nuovo panorama, quello digitale, divenuto il principale campo sul quale vengono condotte attività di fondamentale importanza per le democrazie, come le campagne elettorali.

Il presente contributo è stato realizzato grazie al finanziamento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) per il progetto di ricerca PRIN 2022 PNRR F53D23011940001 intitolato «Minacce ibride e resilienza democratica: un pacchetto di strumenti analitici e pratici (HYDRA)»

Data articolo:Sun, 29 Dec 2024 18:30:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Giovanni Zaccaroni
Le fondamenta del primato e la tempesta perfetta 

Giovanni Zaccaroni (Università di Milano-Bicocca)

Il primato del diritto dell’Unione europea è una delle vittime della progressiva crisi cui è soggetta la globalizzazione, che, nell’ambito giuridico, ha contribuito in maniera notevole a spostare le competenze dal livello locale e nazionale a quello sovranazionale. MacCormick scriveva, nel 1993, che il principio di sovranità dello Stato, che vuole lo Stato pienamente sovrano di tutto quanto succede al suo interno ed esterno, era ormai superato dai fatti (MacCormick, 1993). E, già allora, individuava due vie d’uscita principali: una, andare verso un ordinamento decentralizzato dove ogni articolazione istituzionale sarebbe stata sovrana all’interno delle proprie competenze e un’altra che andava verso il ritorno dei poteri e delle competenze al livello nazionale (MacCormick, pp. 16-17). 

Dopo vent’anni, forse trenta, nei quali l’Unione europea ha tentato di percorrere avanti e indietro la prima strada, attraverso il trasferimento di maggiori competenze e poteri nei suoi confronti (riuscendoci in gran parte, ma comunque solo in parte), ci troviamo invece di fronte alla tentazione di perseguire di nuovo la seconda, il ritorno verso Stati europei che siano individualmente e pienamente sovrani. Il progressivo ma costante conflitto con il primato è il prodotto di questa tentazione, perché questo principio, sulle cui fondamenta è basato il diritto dell’Unione europea (cfr. Rossi e Tovo, 2023), rappresenta uno degli ostacoli principali sulla via di un possibile ritorno alla piena sovranità giuridica, politica ed economica.

In questo contributo metterò in evidenza tre esempi nei quali si possono vedere i segni lasciati sulle fondamenta del primato dal processo in atto di inversione della globalizzazione del diritto e di trasferimento della sovranità descritto da MacCormick. Il primo esempio è pienamente europeo. Il secondo e il terzo esempio riguardano soprattutto l’esperienza italiana, ma sono certamente replicabili e validi per altri Stati dell’Unione europea.

1. Il primato dell’Unione e il giudicato nazionale: la sentenza Energotehnica

Il 24 settembre 2024 la Corte di giustizia dell’Unione europea si è nuovamente pronunciata sul primato (causa C-792/22, Energotehnica). Questa volta, però, la Corte di giustizia ha fatto qualcosa di più di affermare la disapplicazione della disciplina nazionale contrastante con il diritto dell’Unione. La Corte ha affermato infatti che una corte nazionale può disattendere, qualora sia contraria al diritto dell’Unione, anche la sentenza di una Corte costituzionale nazionale (punto già sollevato nella precedente causa C‑430/21, RS) che definisce un fatto come infortunio sul lavoro, necessaria per il risultato di un processo penale. 

È noto che il diritto penale sostanziale, ed il particolare quello di parte generale, sia soggetto ad un’armonizzazione minima e che dunque in questo settore sia più difficile per il diritto dell’Unione esprimere la sua influenza (cfr. F. Rossi, 2015, pp. 112 e 113). 

La Corte di giustizia ha ritenuto di dovere dare in ogni caso una risposta al quesito posto dal giudice nazionale. Tale quesito chiedeva infatti se il principio della protezione dei lavoratori e il principio della responsabilità del datore di lavoro, sanciti dall’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, in combinato disposto con l’articolo 31 della Carta, si oppongono a una normativa nazionale che impedisce di qualificare un evento come infortunio sul lavoro (Energotehnica, punto 33). 

Un primo elemento interessante è quello della ricevibilità della questione pregiudiziale. In effetti, la Corte avrebbe potuto scegliere di non rispondere alla domanda del giudice nazionale perché tale domanda non rientra necessariamente all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea (sulle condizioni di ricevibilità del rinvio pregiudiziale v. Iannone, 2018 e in generale, Ferraro e Iannone, 2024). 

Questo perché, da un lato, come evidenziato dal governo rumeno (Energotehnica, punto 35), la direttiva 89/351 si applica soltanto al datore di lavoro, mentre dall’altro lato la questione riguarda in maniera principale, ma non esclusiva, un procedimento giurisdizionale interno che influisce su di un processo penale, materia che ricadrebbe soltanto in parte all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. La Corte avrebbe dunque potuto pronunciarsi anche in senso opposto, senza dubbio lasciando molti insoddisfatti per la mancata occasione. 

Invece la Corte, facendo leva su due dei suoi ‘superpoteri’, decide di ricevere il rinvio e sfruttare l’opportunità e di dare una risposta al giudice nazionale. Questi ‘superpoteri’ sono la presunzione di rilevanza della questione pregiudiziale (Energotehnica, punto 37) e la possibilità di riformulare il quesito. 

Rimane sullo sfondo la complessa questione del coinvolgimento del datore di lavoro e della conseguente applicazione della direttiva 89/351, già richiamata sopra. La Corte, infatti, ritiene che la qualifica dell’evento come infortunio sul lavoro abbia poi una ricaduta sulla possibilità di risarcire il danno sostenuto dagli aventi causa della vittima, che sarebbe dunque cagionato dal datore di lavoro. Il fatto che il quesito posto dalla corte nazionale ricada all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione crea poi le condizioni per l’applicazione della Carta. Questo dà l’opportunità alla Corte di utilizzare il secondo dei suoi ‘superpoteri’ legati alla ricevibilità del rinvio pregiudiziale, e cioè la possibilità di riformulare il quesito al fine di poter dare una risposta utile alla soluzione della causa (Å adl e Wallerman, 2019).

Tale quesito viene riformulato, in questo caso, al fine di analizzare la compatibilità della disciplina nazionale (come interpretata dalla Corte costituzionale) non con l’articolo 31, bensì con il più importante articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Tale scelta ha, probabilmente, un duplice motivo. Da un lato, quello di evitare di invocare un articolo che ha un contenuto, come quello a «condizioni di lavoro giuste ed eque» che potrebbe non rispettare i criteri di chiarezza, precisione ed incondizionalità necessari all’effetto diretto. Tale articolo, poi, è parte di un titolo della Carta, il Titolo IV, che contiene i diritti sociali, tradizionalmente limitati ad una portata programmatica. Diverso è, invece, il caso dell’articolo 47 che contiene il diritto «ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale», più volte invocato davanti alla Corte di giustizia ed ai giudici nazionali, da ultimo nella causa C-715/20, K.L. v X (cfr. Cecchetti, 2024; Van Reempts, 2024). 

Tale articolo, infatti, oltre ad essere invocato nelle controversie verticali, come quella di cui si tratta qui, può esserlo anche nelle controversie orizzontali. Dunque, la Corte afferma che l’articolo 47 della Carta può essere invocato anche in una controversia di natura penale, ed avere ricadute anche sulla responsabilità civile, quale quella che può insorgere in capo al datore di lavoro qualora il fatto venga inquadrato come incidente sul lavoro.

Tuttavia, la Corte non dice che il diritto dell’Unione obbliga a qualificare la morte del lavoratore come incidente sul lavoro, ma soltanto che la direttiva 89/391/CEE e l’articolo 47 della Carta impongono che un processo amministrativo debba necessariamente prevedere che siano sentiti gli aventi causa della vittima prima di prendere una decisione. La soluzione finale proposta dalla corte nazionale, dunque, non sembra essere messa in dubbio, salvo il diverso avviso del giudice nazionale investito della causa. Il primato del diritto dell’Unione, dunque, non viene invocato per ribadire una gerarchia tout court tra fonti, bensì per affermare che, nel caso in cui vi sia un conflitto tra la disciplina dell’Unione e quella interna, quest’ultima deve essere disapplicata, indipendentemente dalla corte nazionale coinvolta. 

La questione è tuttavia controversa e, come a volte avviene in casi simili, l’avvocato generale, nelle sue conclusioni, argomenta in favore di un’altra soluzione. La soluzione proposta dall’avvocato generale, infatti, non fa leva sul primato dell’Unione bensì sull’effettività dei rimedi previsti, per ammettere che comunque il processo amministrativo deve prevedere che siano sentiti gli aventi causa.  Tuttavia, la Corte di giustizia, facendo riferimento all’importante precedente in RS (causa C-430/21, il cui giudice relatore è lo stesso della causa che qui si commenta) decide di utilizzare lo strumento del primato e non quello del principio di effettività. Dunque, la Corte di giustizia adotta una soluzione forse poco deferente ma comunque coerente con la sua giurisprudenza e con il principio del primato. 

Anche alla luce del numero di volte in cui negli ultimi anni la Corte di giustizia ha dovuto pronunciarsi per riaffermare un principio così importante come quello del primato, è difficile negare che le sue fondamenta siano messe alla prova e che, nell’attuale tempesta dell’inversione della globalizzazione, possano essere sottoposte a sollecitazioni molto maggiori di quelle sopportate sino ad ora.

2. L’applicazione delle sentenze della Corte di giustizia sulla nozione di paese terzo ‘sicuro’

Il rapporto tra il governo italiano e le istituzioni dell’Unione europea è – quantomeno in questo momento storico – piuttosto ambiguo: solido quando si tratta di offrire sostegno ad una maggioranza parlamentare per approvare una Commissione a trazione ‘popolare’, più fragile, invece, su aspetti controversi, tra i quali senza dubbio la gestione dell’immigrazione. Tale gestione è entrata in conflitto più volte con le limitate competenze che l’Unione esprime nell’ambito, anche se, a partire dalla fine del primo e l’inizio del secondo mandato della Commissione von der Leyen, l’intesa sembra essersi rafforzata. 

Il manifesto fondamentale della politica migratoria del governo italiano è infatti l’esternalizzazione della gestione di parte dei flussi migratori, con la conclusione già nel 2023 di un accordo con il governo albanese per lo stabilimento di un centro per la gestione delle richieste di asilo indirizzate all’Italia su territorio albanese (Ramat, 2024). 

Tuttavia, a partire dall’inizio di novembre 2024, quando il governo italiano ha cominciato a trasferire i primi richiedenti asilo dal territorio italiano alla struttura per la gestione ed il trattenimento delle persone che hanno avanzato richiesta di protezione internazionale localizzata in territorio albanese, molte opposizioni ai provvedimenti che ordinavano il trasferimento dei richiedenti asilo sono state accolte da diversi giudici italiani. Diversi giudici italiani, infatti, hanno sospeso i trasferimenti dei richiedenti asilo giudicandoli in contrasto con il diritto dell’Unione ed hanno sollevato questione pregiudiziale alla Corte di giustizia (Ferri, 2024). Tali rinvii saranno decisi nei prossimi mesi, sulla base della loro qualifica come procedimento pregiudiziale accelerato o urgente (Iannuccelli, 2024). 

La giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, ha recentemente confermato (con sentenza del 4 ottobre 2024, CV, causa C‑406/22) che il diritto dell’Unione «non consente agli Stati membri di designare come paese di origine sicuro un paese terzo nel quale talune parti del suo territorio non soddisfano le condizioni sostanziali di una siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva» (CV, punto 77).

Dunque, a differenza di quanto sembra ritenere il governo italiano, l’analisi della domanda di protezione internazionale (ed il conseguente rigetto, in questo caso) non può essere automatizzata sulla base del fatto che il richiedente proverrebbe da un paese terzo ‘sicuro’, ma deve essere fatta caso per caso. L’impossibilità di presumere che le richieste di asilo che provengono da determinati Stati terzi siano sempre sicure ha messo dunque in crisi il meccanismo alla base del trasferimento dei richiedenti asilo secondo l’accordo tra il governo italiano e quello albanese, che al momento sembra essere congelato. 

Poiché tale problema trova la sua origine nel diritto dell’Unione e nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che avrebbe imposto, tramite il primato, la disapplicazione del diritto interno confliggente e visto che, come risaputo, le fondamenta del primato sono (certo non esclusivamente ma comunque principalmente) giurisprudenziali, alcuni politici italiani di maggioranza hanno ritenuto di proporre una modifica alla Costituzione italiana per modificarne l’articolo 11 e 117. Tale modifica, che ha più le caratteristiche della boutade o della provocazione politica, ci ricorda però che le fondamenta del primato necessitano di essere rinforzate o comunque riconosciute senza alcuna ambiguità all’interno dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, pena la loro costante messa in dubbio. 

3. La Corte costituzionale italiana ritorna sul primato del diritto dell’Unione

Non si può però ignorare che la questione delle fondamenta del primato e dei tentativi di codificazione sia già stata affrontata e sia ben presente tra gli studiosi (Anrò e Alberti, 2022, p. 64 e ss.). Sono particolarmente convincenti le riflessioni che mettono al centro la questione del primato come parte di una rete strutturata di principi (v. causa C-284/16, Achmea, punto 33) e come una ‘regola di coesione’ che si regge su un processo di condivisione tra corti ancora prima che legislativo o di revisione dei Trattati (Rossi, 2024, p. 19). Una prova importante dell’esistenza di una tale condivisione dell’importanza del primato si può trovare in una recente sentenza della Corte costituzionale, il cui giudice redattore, fino a non molto tempo fa, rivestiva l’incarico di avvocato generale presso la Corte di giustizia dell’Unione europea. 

Nella sentenza n. 181 del 2024, la Corte costituzionale è tornata sull’importanza fondamentale del primato e del sistema di controllo di costituzionalità diffuso dell’Unione, basato sul rinvio pregiudiziale, e la sua complementarità con il controllo accentrato di costituzionalità che caratterizza l’ordinamento italiano. Tale sentenza ricorda che il primato del diritto dell’Unione su quello nazionale è «uno dei capisaldi dell’integrazione europea, riconosciuto fin dalle prime pronunce della Corte di giustizia e poi dalla giurisprudenza di questa Corte» (punto 6.2). La Corte costituzionale ha anche ribadito che non vi è antitesi e neppure un ordine di priorità fra rinvio pregiudiziale e questione di legittimità costituzionale, e che spetta sempre al giudice nazionale, sulla base delle esigenze della causa, decidere se intraprendere la strada del rinvio pregiudiziale o quella della questione di legittimità costituzionale. 

Questa visione, dunque, contribuirà certamente a dissipare le restanti ambiguità che erano il risultato della lettura di una precedente linea giurisprudenziale basata sulla sentenza sulla c.d. doppia pregiudizialità (sentenza n. 269 del 2017), nella quale sembrava apparire una sorta di gerarchia tra la questione di legittimità costituzionale e quella pregiudiziale, peraltro già smentita dalla giurisprudenza successiva (cf. Rossi e Tovo, p. 102). Tale giurisprudenza, tuttavia, anche se sembra mettere il primato al riparo da un’eventuale regressione da parte del legislatore nazionale, non protegge l’ordinamento dell’Unione da future sentenze più ambigue che provengano magari da altri Stati membri nei quali l’indipendenza degli organi giurisdizionali potrebbe, nel tempo, indebolirsi. Le fondamenta del primato rimangono dunque solide e fragili allo stesso tempo, e rendono evidente come tale principio possa essere messo alla prova in modalità inattese ed inaspettate. 

Le vicende del primato finora esposte, infatti, hanno le caratteristiche di una tempesta perfetta…nel ‘bicchiere’ del diritto dell’Unione, o al massimo nella più ampia ‘vasca da bagno’ delle relazioni tra il diritto dell’Unione e gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. 

Cosa succederebbe se la tempesta perfetta ‘tracimasse’ e, in uno Stato membro, una modifica legislativa, magari di rango costituzionale, magari sostenuta da un referendum confermativo (laddove previsto o permesso), lo mettesse in dubbio? Certo, si possono invocare i tradizionali rimedi delle procedure di infrazione e nei casi più gravi, a tutela dello Stato di diritto, ma i tempi che richiedono sono molto più lunghi di quelli di una decisione politica. Si potrebbe rendere necessario dunque riflettere su soluzioni alternative, tra cui, per esempio, l’inclusione tra le fonti del diritto dell’Unione nei Trattati dei principi che si possono ricavare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nei Trattati è, infatti, menzionato soprattutto nelle dichiarazioni (tra cui l’importantissima Dichiarazione n. 17 relativa al primato) allegate al Trattato di Lisbona, con l’eccezione del Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Un’altra alternativa potrebbe invece essere il riconoscimento esplicito del ruolo del primato nei Trattati, strada che però è stata tentata altre volte in passato senza successo. 

Le istanze che chiedono di invertire il processo di globalizzazione e di trasferimento della sovranità che – quando MacCormick scriveva – era quasi irrevocabile, sembrano essere qui per restare. Fintanto che tali istanze rimarranno politicamente appetibili, le Corti costituzionali degli Stati membri continueranno ad essere, insieme alla Corte di giustizia, gli unici soggetti istituzionali a custodire saldamente il primato. Finora, tale posizione di garanzia è stata sufficiente a garantire la tenuta delle fondamenta del primato, ma, per il futuro, non possiamo esserne altrettanti certi.

Data articolo:Sat, 28 Dec 2024 18:30:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Paolo Turrini
It Pops Up Everywhere: il diritto internazionale da ogni lato

Paolo Turrini (Università di Trento)

La redazione di SIDIBlog ha ricevuto un’audiocassetta anonima [non è vero, questa introduzione è pura finzione (N.d.R.)]. L’involucro conteneva un foglietto artigianale con una tracklist, apparentemente quella di un LP dei Kalibas, benché il titolo, Enthusiastic Corruption of the Common Good, sia stato storpiato in modo da leggersi Common Goods â€“ un ammiccamento ai giuristi. Nei titoli delle tracce è sottolineata la parola ‘Towers’, cui è premesso un ‘LITTLE’ in stampatello e quindi la frase ‘(THE MIND’S I)’. Poco oltre, ‘World Bank’ è pure enfatizzato con furiosi tratti di penna. Lasciamo al lettore ogni speculazione sul significato di tutto ciò. Gli è che un membro della redazione ha introdotto il misterioso oggetto in un mangianastri recuperato a casa di una vecchia zia. Ebbene, niente disco dei Kalibas, solo suoni indistinti (o è quello il disco?). Un altro membro ha quindi suggerito di riprodurre la registrazione al contrario, conformemente a un topos della musica maledetta, ed è così che è emerso lo sproloquio – la definizione è di un terzo membro – che, diviso in dieci brevi brani, sembrerebbe appartenere a un collega appassionato di heavy metal. Poiché SIDIBlog ha già pubblicato un intervento in subiecta materia, la redazione si è espressa per la pubblicazione.

1. Se è vero che, com’è stato rilevato, nella letteratura scientifica «è quasi del tutto assente uno studio dei profili giuridici» della musica heavy metal, che pure è indagata sotto altri aspetti («sociologici, psicologici, culturali, etno-musicologici o più strettamente musicologici»), lo studioso del diritto deve chiedersi se ciò non abbia una ragionevole motivazione.

2. Per deformazione professionale, il giurista vede diritto dappertutto. Ma il diritto non è dappertutto. Il fatto che viviamo in un mondo governato – tra l’altro – da norme giuridiche non rende queste ultime interessanti per tutti e in ogni circostanza. La musica se ne occupa a stento ed è difficile che lo faccia in modo illuminante per uno studioso del diritto. Incontrare oggetti noti in situazioni atipiche ha un effetto straniante, un po’ come udire parlare l’italiano in uno sperduto villaggio nipponico o sentire pronunciare il proprio nome ascoltando il telegiornale. Ma la sorpresa non giustifica necessariamente un approfondimento. In una canzone sul disarmo (Armageddon X 7) i leggendari Napalm Death citano i «peace treaties». Dunque, quel che facciamo è importante! Anzi no, a giudicare dal tenore del brano. O importa solo credere che i nostri idoli ci abbiano in nota?

3. Dobbiamo perciò evitare di entusiasmarci per ogni inaspettato riferimento a concetti a noi familiari. Il più delle volte da essi non sarà possibile trarre alcun valido insegnamento, alcuna suggestione. Un po’ come da ripetuti – e simultanei? – ascolti di Territory (Sepultura), We Are the People (Rebellion, che citano la Dichiarazione Schuman!), Sovereigns(Enthroned) e Last Stand for Independence (Testament) non si potrà addivenire a un superiore livello di comprensione del concetto di statualità.

4. Questo non vuol dire che si debba essere indifferenti allo ius in musica (inclusa quella estrema: diabol-ius in musica). Bisogna però chiarire bene lo scopo dell’indagine e delimitarne con cura l’oggetto. E tentare di resistere agli automatismi del mestiere, abbandonando se il caso strade già note al giurista. Questi è solito criticare l’uti possidetis Â«per aver perpetuato confini artificiali, che non riflettono le realtà sociali e culturali dei popoli», ma non pare essere questo il fine (retorico e traslato) che ne fanno i Tamuya Thrash Tribe. Il problema che denunciano non è che il popolo dei Guarani si trova ripartito su più Stati, frammentato dalle frontiere di questi, bensì che è stato dispossessato delle proprie terre. Coerentemente, essi sembrano dirci che il soggetto di possidetis non può essere lo Stato, perché solamente la comunità che insiste su un territorio lo possiede: ma solo temporaneamente, non potendo alienarlo e dovendo donarlo alla generazione successiva uti possidet («this land was given to us and freely we shall give to our heirs»). Difficile rimanere insensibili a simili rimostranze! Tranne per i componenti degli Arghoslent, che infatti hanno intitolato Terra Nullius una propria canzone: per loro gli aborigeni australiani denotavano «absence of law, sovereignty, and cultivation», ciò che rendeva le «declarations of war a wasted custom» e i «treaties inconceivable». Storie vecchie, a riprova di come non basti un prezioso latinismo a giustificare il nostro interessamento…

5. Se la menzione di concetti giuridici non è garanzia di rilevanza per lo studioso di ‘diritto e musica’, l’esistenza di un nesso puramente tematico lo è ancor meno. Iron Maiden e Sabaton cantano laceranti storie di conflitti armati e perciò ‘parlano’ a noi internazionalisti? Ma allora anche le nonne che ci hanno narrato gli orrori della guerra meritano una citazione nel Grande libro del diritto internazionale. Tutto, indistintamente, discorre di diritto internazionale: dai panzer dei Marduk e i Manowar (entrambi compresi nel perimetro dell’Articolo 2 del Trattato sul commercio delle armi) ai libri che lo storico più pop del momento, Alessandro Barbero, ha dedicato alle grandi battaglie del passato. E che dire di tassisti e baristi che blaterano di politica internazionale (non però i barbieri, che sono hair metal e s’occupano d’altro)? I racconti mitizzati che lo zio fanfarone fa delle sue incursioni pescherecce nelle Valli di Comacchio ci invitano a riflettere sulle zone umide protette dalla Convenzione di Ramsar? La Signora in giallo in trasferta a Scotland Yard fornisce spunti sulla cooperazione giudiziaria internazionale? Se così è, allora il diritto del mare è coperto dagli Ahab e dagli Alestorm per la musica, da Love Boat per la tv, da One Piece per i fumetti, e dai racconti del cugino arruolato in marina per la vita vera. E così via.

6. Se ci fossero cento canzoni sull’Amazzonia, il fatto che questa è protetta dal diritto internazionale non renderebbe tale produzione interessante per il giurista. Ma se ci fossero cento canzoni che trattano di diritto ex professo, forse sarebbe il caso di mettersi in ascolto. Che i Judas Priest celebrino la rottura delle regole (Breaking the Law) in sé non è che un fun fact. Qualora però si dimostrasse che l’anticonformismo di cui spesso si fanno portavoce gli artisti prende forme diverse secondo il genere musicale – per esempio, rifiuto della legge nel metal e una più blanda critica della morale convenzionale nella musica leggera Ã  la Madonna – si sarebbe aggiunto un piccolo tassello al vasto mosaico degli studi sociali. Resta l’onere (sociologico) di interrogarsi sulla sensatezza delle proprie domande ed eventualmente di dispiegare strumentari statistici nella ricerca di una risposta. Ma quali conclusioni si possono trarre (oltre al solito censimento di fun fact) dalla circostanza che alcuni artisti celebrano i diritti umani (come la Doro di Freiheit) mentre altri li criticano come instrumentum regni (per esempio i Kalmah di Heroes to Us: «A declaration of human rights, a pretext for maintenance of a new world order […] Human rights activists political pawn in a game, nothing can they do without state subsidies»)? A che pro notare che gli Unleashed, in una discografia costellata da inni a Odino e Thor e protesa verso il Ragnarok, in un paio di canzoni si ‘secolarizzano’ e citano l’Unione Europea e le Nazioni Unite? E che rilievo attribuire al fatto che il grindcore, i cui testi nel migliore dei casi traggono ispirazione dai manuali di anatomia patologica, si scaglino occasionalmente contro i capitalisti «controlling the rules of unequal trade», come fa l’omonimo brano dei Sublime Cadaveric Decomposition? Che senso avrebbe, per un sociologo del diritto, notare che le parole «all treaties failed thru time», che compaiono in All That Remains dei Malevolent Creation, esprimono lo stesso concetto su cui Albert Einstein e Ashley Montagu concordavano mentre discutevano delle garanzie di un uso pacifico dell’energia atomica?

7. I singoli casi, insomma, lasciano il tempo che trovano. Nelle centinaia di migliaia di album pubblicati nell’arco di qualche decennio sarebbe facile rinvenire qualunque cosa, compresa una menzione della suddetta Love Boat. Tra l’altro, gran parte di questa produzione è oscura ai più, tanto che sarebbe lecito domandarsi se sia tutta ascrivibile al pop, cioè popular: l’offesa peggiore nel metal, quella di essersi ‘venduti’, ha colpito gruppi quasi sconosciuti a chi non frequenta il genere. Ciò non vuol dire che non esista un underground realmente tale, da tenere distinto da un underground legato al mainstream, un po’ come [qui il tono della voce si fa didascalico (N.d.R.)] alcuni acquiferi sotterranei sono oggetto del progetto di codificazione licenziato dalla Commissione del diritto internazionale nel 2008, mentre altri, connessi a un più ampio sistema idrologico, sono governati dalla Convenzione sui corsi d’acqua del 1997. Peraltro, il rapporto tra l’estensione della comunità dei creatori di un certo tipo di musica e quella della comunità dei suoi fruitori è variabile e ciò può tradursi in un diverso grado di (dis)allineamento tra creatori e fruitori, per cui non sempre «il modo in cui un fenomeno viene descritto attraverso [il pop] può dirci molto sul modo in cui lo stesso viene letto dai [suoi] fruitori». A sapere, poi, cosa passa per la testa di chi compone e di chi ascolta… Se solo gli album esibissero l’etichetta Â«professorial warning: legal content»! Tipper Gore, dove sei?

8. Il giurista potrebbe provare un approccio dottrinale invece di sottoporsi al supplizio di estese indagini sociologiche, che rischiano peraltro di essere fatali in sede di ASN. In tal caso, un uso rigoroso delle indicazioni ex art. 31(1) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sembrerebbe imporsi. Le copertine degli album potrebbero in linea di principio offrire un ausilio interpretativo contestuale, ma non pare che immagini di foreste e fiordi siano sufficienti per legare il black metal al diritto internazionale dell’ambiente (per dire: il fatto che Fenriz sia amico dei boschi e degli amici dei boschi, come Mikael Ohlson, il naturalista che ha firmato la copertina di Arctic Thunder dei Darkthrone, non dice del black metal più di quanto il veganesimo di Angela Gossow, ex vocalist degli Arch Enemy, riveli del death metal). La matrice culturale del genere è – anche limitandosi alla scena scandinava degli anni ’90 – variegata: la celebrazione della natura potente e incontaminata sembra muoversi tra un ripiegamento misantropico e nichilista (fiat mundus et pereant homines) e un identitarismo nazionalista, ruraleggiante e trascendentale come rimedio alla decadenza spirituale della civiltà cristiana. A occhio e croce (rovesciata), più che a Greta Thunberg siamo vicini a Wilhelm Heinrich Riehl e al suo amalgama di conservazionismo e conservatorismo: «Una nazione senza un cospicuo patrimonio forestale merita la stessa considerazione di una nazione senza una costa adeguata. Dobbiamo preservare la foresta, non solo perché le nostre stufe non restino fredde in inverno, ma anche perché le pulsazioni della vita popolare continuino calorosamente e allegramente, affinché la Germania rimanga tedesca». Non proprio un discorso da porre in epigrafe al rapporto tedesco sugli impegni REDD+!  La prima frase, per inciso, suona vagamente come un capovolgimento della celebre massima di Vattel sull’eguale umanità di nani e giganti. Del resto, per Riehl la deplorevole situazione era conseguenza della Guerra dei trent’anni, quella della Pace di Vestfalia… aiuto, il diritto internazionale spunta proprio dappertutto!

9. Tenere accademicamente insieme diritto internazionale e musica non è per niente semplice. O si tratta solo di un divertissement? Se è così, allora vai coi trivia! In quale occasione l’hard rock fu usato per evitare di violare un principio cardine delle relazioni diplomatiche? Durante l’operazione Nifty Package, nel corso della quale gli USA costrinsero alla resa Manuel Noriega nel rispetto dell’inviolabilità della nunziatura apostolica in cui s’era rifugiato. Quale celebre internazionalista – noto più come diplomatico che come docente – è citato in una canzone di un gruppo prog-metalsvedese? Hans Blix (cfr. America dei Pain of Salvation). Quale proto-internazionalista underground (ma non troppo) è citata da una band underground (ma non troppo) avente la stessa nazionalità (ma non troppo)? [Qui il nastro è danneggiato, non è possibile comprendere la risposta (N.d.R.)] Il figlio di quale celebre internazionalista è stato chitarrista di alcune band metal? Martti Koskenniemi, padre di Lauri. Il gioco riesce bene in tutte le manifestazioni della pop culture.

10. C’è, forse, un senso più profondo nel fatto che l’internazionalista giunge a rispecchiarsi nella cultura pop. Quel che vi nota potrebbe essere indicativo di ciò che il suo Sistema 1 – per dirla con Hanneman… pardon… Khaneman! – ritiene rilevante nella sfera del diritto internazionale. I brani che ci colpiscono sono quelli che parlano di guerre, trattati, organizzazioni internazionali, tutela dell’ambiente e dei diritti umani. Ma il diritto internazionale non è solo questo. Perché, per esempio, non interessarsi anche del rap che esalta il possesso e l’uso delle armi di piccolo calibro? Dopotutto, in materia esistono un programma d’azione dell’UNODA e un protocollo. Il punto è che anche nel diritto internazionale c’è il pop – i temi che troviamo in tutti i manuali – e c’è l’underground (quel che sfugge al radar dei non specialisti o si è rincantucciato in un angolino dei nostri cervelli). Che non sia questo un possibile tema di ricerca?

Fuori bobina: il merito del titolo (e non solo) è da riconoscersi a un ‘high ranking extropian’.

Data articolo:Mon, 23 Dec 2024 18:00:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Tommaso Ferrario
Qualificazione e circolazione dei divorzi privati nello spazio giudiziario europeo

Tommaso Ferrario (Università di Pavia)*

1. La degiurisdizionalizzazione della materia familiare negli ordinamenti nazionali

La risoluzione stragiudiziale delle controversie, inizialmente promossa dal legislatore europeo nella materia civile e commerciale (vedasi la direttiva 2008/52/CE), nell’ultimo decennio è stata gradualmente estesa dagli ordinamenti nazionali anche alla materia familiare quale «terreno privilegiato e d’elezione» (Honorati, Bernasconi, p. 27).

L’art. 12 del d. l. n. 132/2014 (convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) ha introdotto nell’ordinamento italiano la possibilità di presentarsi innanzi all’ufficiale dello stato civile per la separazione, la richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Lo stesso decreto-legge disciplina, all’art. 6, la convenzione di negoziazione assistita da avvocati.

Dal 2015, il Código civil spagnolo prevede la possibilità per i coniugi di regolare gli effetti del proprio divorzio sottoscrivendo un accordo innanzi al secretario judicial o al notaio (anche rispetto a  questo istituto peraltro era stata proposta domanda di rinvio pregiudiziale, poi cancellata dal ruolo con ordinanza della Corte).

Con la loi n. 2016-1547, una forma di divorzio consensuale che prevede l’intervento degli avvocati di ciascuna parte ed il deposito di un accordo presso un notaio è stata introdotta nel Code civil francese (art. 229-1 – 229-4).

In Portogallo è invece previsto il divórcio por mútuo consentimento da formalizzarsi innanzi alla conservatória do registo civil secondo quanto disposto dall’art. 1773 del Código civil.

La risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia familiare è stata introdotta anche in Danimarca, Grecia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania e Slovenia.

Diversamente, nell’ordinamento tedesco, lo scioglimento del vincolo matrimoniale è rimasto di competenza dell’autorità giudiziaria e la giurisprudenza si è anche pronunciata in senso negativo rispetto al riconoscimento dei divorzi privati (da ultimo si veda KG Berlin, Beschluss vom 14.05.2024 relativa allo scioglimento del vincolo matrimoniale definito innanzi a un tribunale rabbinico con la consegna, da parte del marito e con accettazione della moglie, di un certificato di divorzio).

Le procedure extragiudiziali di divorzio menzionate si differenziano per il tipo di autorità coinvolte e per il ruolo di queste nella formalizzazione dell’accordo, per la possibilità che l’accordo stesso venga concluso con l’assistenza di un legale, per la facoltà di sottoscriverli in presenza di figli minori e per le condizioni da soddisfare affinché gli accordi raggiunti possano poi essere considerati vincolanti (per una ricognizione comparatistica Bianchi et. al., p. 112 ss.; Lazić, Pretelli, p. 160 ss.; Corneloupin Corneloup et al.,p. 589 ss.; nonché le informazioni ricavabili da questo portale).

Tali procedure devono essere tenute ben distinte dai divorzi pronunciati secondo norme religiose senza l’intervento o il controllo di un’autorità pubblica, che la Corte di giustizia ha escluso dall’ambito di applicazione del regolamento Bruxelles II-bis (sentenza Sahyouni, Causa C-372/16, punto 42).

Anche il regolamento Bruxelles II-ter, con il considerando 14, preclude la libera circolazione dei divorzi «meramente privati» ossia risultanti dal semplice accordo dei coniugi senza la partecipazione di alcuna autorità o da decisioni rese da tribunali religiosi non equiparati alle corti statali.

2. L’inclusione dei divorzi privati nell’ambito di applicazione del regolamento Bruxelles II-ter …

È in tale contesto che il legislatore europeo ha preso atto del fenomeno della degiurisdizionalizzazione della materia familiare novellando il regolamento Bruxelles II-bis e includendo, in occasione della sua rifusione, i divorzi privati.

Il già menzionato considerando 14 specifica che deve essere qualificato come decisione «qualsiasi accordo approvato dall’autorità giurisdizionale a seguito di un esame di merito effettuato conformemente al diritto e alle procedure nazionali». Lo stesso considerando 14 precisa che sono sottoposti alle apposite disposizioni previste dal regolamento per gli atti pubblici e gli accordi «gli altri accordi che producono effetti giuridici vincolanti nello Stato membro d’origine a seguito dell’intervento formale di un’autorità pubblica o di un’altra autorità a tal fine comunicata alla Commissione da uno Stato membro». Vengono infine in rilievo «gli accordi che non sono né una decisione né un atto pubblico, ma che sono stati registrati da un’autorità pubblica a tal fine competente».

Ne consegue che, se considerati «decisioni» i divorzi privati circolano secondo il regime ordinario delle sentenze previsto dagli art. 30 ss.; se considerati, invece, come «atti pubblici» saranno soggetti alla specifica disciplina degli atti pubblici di cui agli art. 64 e ss., regime esteso anche a quei documenti qualificabili come «accordi».

Si è così segnato il passaggio dal metodo conflittuale, in virtù del quale i divorzi privati circolano in quanto validi per la legge applicabile individuata dalle pertinenti norme di conflitto (Corneloupin Corneloup et al., p. 596), al metodo del riconoscimento che, salvo condizioni ostative (ad esempio il limite dell’ordine pubblico), implica il recepimento automatico nell’ordinamento del foro del provvedimento straniero (Marchioro, p. 4).

Tale cambiamento ha contribuito, anche con riferimento alle vicende patologiche dei rapporti matrimoniali, alla soddisfazione delle esigenze di certezza e continuità che la circolazione degli status personali e familiari pone (su cui, Salerno).

3. … e del regolamento Bruxelles II-bis

La Corte di giustizia in Senatsverwaltung für Inneres und Sport (Causa C-646/20), ha poi ricompreso i divorzi privati anche nell’ambito di applicazione del regolamento Bruxelles II-bis.

In tale caso, il giudice del rinvio domandava se lo scioglimento del vincolo matrimoniale formalizzato ai sensi dell’art. 12 d. l. n. 132/2014 costituisse «una decisione di divorzio» o se esso dovesse considerarsi un atto pubblico o un accordo sottoposto all’art. 46.

Ribadita la necessità di un’interpretazione autonoma e uniforme e richiamandosi a quanto già statuito in Sahyouni, la Corte di giustizia si è soffermata sul grado di controllo che l’ufficiale di stato civile deve poter esercitare affinché un atto di divorzio possa essere qualificato come decisione.

L’elemento «caratteristico» della nozione di decisione è stato quindi rinvenuto nella circostanza che l’autorità pubblica esamini tanto «le condizioni del divorzio alla luce del diritto nazionale» quanto «l’effettività [e la] validità del consenso dei coniugi a divorziare» (punto 54).

Questi stessi elementi costituiscono il criterio dell’«esame di merito» che il legislatore ha voluto – «in un’ottica di continuità» –  inserire nel considerando 14 del regolamento Bruxelles II-ter (punti 58-60).

In particolare, la Corte di giustizia ha rilevato che l’ufficiale dello stato civile italiano riceve «personalmente e per due volte, in un intervallo di almeno trenta giorni, le dichiarazioni di ciascun coniuge», verifica che l’«accordo riguardi unicamente lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio» e non autorizza a pronunciare il divorzio nel caso in cui le condizioni dell’art. 12 d. l. 132/2014 non siano soddisfatte (punti 64, 65 e 66).

Sussistendo tali caratteristiche i divorzi pronunciati dall’ufficiale di stato civile sono stati ricondotti nella nozione di decisione ai fini dell’art. 21 par. 1 regolamento Bruxelles II-bis (punto 67).

4. La qualificazione dei divorzi privati secondo il criterio dell’«esame di merito» …

L’efficacia transfrontaliera dei divorzi privati pone quindi un problema di qualificazione di che cosa rientri nella nozione di decisione  (Lazić, Pretelli, p. 164; Honorati, Bernasconi, p. 33; Mantovani).  

La rilevanza pratica di tale problema riguarda soprattutto il regolamento Bruxelles II-ter, posto che ai sensi dell’art. 46 regolamento Bruxelles II-bis, il riconoscimento e l’esecuzione degli atti pubblici e degli accordi «aventi efficacia esecutiva» avviene alle «stesse condizioni previste per le decisioni».

Lungi dall’essere meramente formale, rispetto al regolamento Bruxelles II-ter, tale questione è funzionale alla selezione delle pertinenti norme sul riconoscimento come emerge da un esame dello specifico regime di circolazione volutamente introdotto dal legislatore agli art. 64 – 68 per gli atti pubblici e gli accordi.

Pur trattandosi di regole che solo in parte si discostano dal regime previsto per la circolazione delle decisioni agli art. 30 e ss., sussistono comunque alcune differenze, tra cui quelle relative ai certificati che devono accompagnare gli atti pubblici e gli accordi suscettibili di riconoscimento (art. 66 e 67).

Oltre all’utilizzo di formulari diversi da quelli previsti per le decisioni, l’art. 66 prescrive che l’autorità designata al rilascio del certificato – la cui mancata produzione, si noti, non permette il riconoscimento o l’esecuzione in un altro Stato membro – effettui un controllo (i) sulla sussistenza della competenza, ai sensi del capo II, dello «Stato membro che ha autorizzato l’autorità pubblica o altra autorità a redigere formalmente o registrare l’atto pubblico o a registrare l’accordo», (ii) sul fatto che lo stesso accordo o atto produca «effetti giuridici vincolanti», (iii) sul fatto che, nel caso in cui esso coinvolga la materia della responsabilità genitoriale, l’accordo o atto abbia efficacia esecutiva nello Stato membro di origine e (iv) il suo contenuto sia conforme all’interesse del minore.

Lo stesso certificato può, ai sensi dell’art. 67, essere oggetto non soltanto di una «rettifica», come già previsto per le decisioni in caso di errori materiali, ma anche di «revoca» da parte dell’autorità designata al suo rilascio e quindi sottoposto a una forma di controllo successivo sulla effettiva sussistenza delle condizioni poste dall’art. 66.

Tutto ciò non è previsto per i certificati relativi alle decisioni il cui rilascio ha luogo, ai sensi dell’art. 36 e 37, senza alcun esame né preventivo né successivo.

Il legislatore ha quindi voluto derogare al regime generale sul riconoscimento delle decisioni, prevedendo requisiti specifici per il rilascio dei certificati affinché venga esercitato, nello stato di origine, un controllo sulle garanzie necessarie alla fiducia reciproca (Corneloup,in Corneloup et al., p. 621 e 622) esul rispetto delle «condizioni minime» per la circolazione dei divorzi privati come atti pubblici o come accordi (Honorati, Bernasconi, p. 45). E ciò anche nella prospettiva del possibile coinvolgimento di soggetti minori.

È dunque evidente l’importanza di una quanto più precisa delimitazione tra i divorzi privati riconducibili alla categoria delle decisioni da una parte o a quella degli atti pubblici e degli accordi dall’altra.

Tale esigenza non può dirsi soddisfatta dal criterio dell’«esame di merito» di cui al considerando 14, se applicato come in Senatsverwaltung für Inneres und Sport, e cioè senza tenere conto delle caratteristiche che connotano i procedimenti di divorzio nelle legislazioni nazionali.

La decisione della Corte resa in Senatsverwaltung für Inneres und Sport implica che divorzi privati definiti nell’ambito di procedure nelle quali i poteri delle autorità coinvolte sono significativamente diversi siano in ogni caso riconosciuti e circolino come decisioni (Bargelli, p. 48; Budzikiewicz et al., pp. 77, 78).

Si pensi, ad esempio, all’ordinamento portoghese dove l’autorità competente deve verificare che l’accordo non pregiudichi gli interessi di una delle parti e quelli di eventuali minori coinvolti, disponendo, in caso contrario, il rigetto dell’istanza con rimessione al tribunale competente (art. 1773, 1776 e 1778 Código civil).

Un’ ipotesi simile di esercizio di «poteri (quasi) giudiziari» è prevista per il divorzio privato spagnolo ai sensi dell’art. 87 e 90, Código civil (Gandía Sellens et. al, in Viarengo, Villata, p. 170).

Tale impostazione, invece, non trova riscontro nell’art. 12 del nostro d. l. 132/2014.

La Corte di giustizia nell’interpretare il criterio dell’esame di merito ha infatti avallato una nozione piuttosto ampia di decisione facendovi rientrare provvedimenti risultanti da una procedura che, contrariamente a quanto dalla stessa rilevato, non prevede un momento in cui l’ufficiale di stato civile italiano valuti effettivamente la capacità di discernimento e l’assenza di vizi sul consenso o il contenuto dell’accordo (Bargelli, p. 46 ss.; Bernasconi, p. 340).

Una qualificazione in questi termini esclude l’operatività della specifica disciplina prevista dal legislatore europeo per la certificazione e la circolazione dei divorzi privati come atti pubblici o accordi.

Tale più rigoroso regime è quindi reso inoperante, posto che, ad eccezione delle procedure come quella portoghese e spagnola, forme di intervento con poteri perlomeno dichiarativi ed equiparabili a quelli dell’ufficiale di stato civile italiano sono riscontrabili in tutti procedimenti extragiudiziali di divorzio comunque celebrati innanzi ad una autorità pubblica (Bargelli, p. 48; Budzikiewicz et al., pp. 77, 78).

Nel quadro descritto, nemmeno la qualificazione della nozione – strettamente correlata a quella di decisione –  di autorità giurisdizionale aiuta a fare chiarezza.  

Pur rilevante per altri strumenti di diritto internazionale privato uniforme ed essendo stata oggetto di diversi interventi da parte della Corte di giustizia (tra cui Causa C-80/19, EE, punto 51) si riscontra sul punto una certa discordanza che ne rende difficile un’interpretazione oltre l’ambito di applicazione dei singoli regolamenti.

Il problema si pone in particolare per quei divorzi conclusi innanzi ai notai che intervengono in molte delle procedure tra cui quella francese, spagnola, romena, greca e slovena.

Benché il considerando 14 prospetti una qualificazione come «autorità giurisdizionali», il regolamento Bruxelles II-ter non prevede espressamente ipotesi in cui i notai possano esercitare funzioni giudiziarie.

Allo stesso tempo, è sempre il considerando 14 a proporne una qualificazione come «autorità pubbliche» quando, «nell’esercizio della libera professione», siano chiamati a registrare un accordo (come messo in luce da Wilderspin, p. 405).

La questione della delimitazione tra la categoria delle decisioni e quella degli atti pubblici e degli accordi è quindi sostanzialmente rimessa al criterio dell’«esame di merito».

5. … e il coordinamento con altri strumenti di diritto internazionale privato uniforme

La qualificazione dei divorzi privati va considerata anche nella prospettiva del coordinamento con altri regolamenti in materia di diritto internazionale privato che disciplinano le questioni diverse dallo scioglimento del vincolo matrimoniale e che possono essere oggetto degli accordi di divorzio.

La materia matrimoniale nonché la circolazione dei provvedimenti relativi a tale ambito, si caratterizzano per l’applicazione di una pluralità di disposizioni recate da strumenti di diritto internazionale privato diversi.  

Ad esempio, l’esclusione dai regolamenti Bruxelles II-bis e II-ter della materia delle obbligazioni alimentari implica che il riconoscimento della parte di accordo contenente le determinazioni su tali questioni sia sottoposta al regolamento n. 4/2009.

La dottrina ha rilevato che, se formalizzato innanzi all’ufficiale di stato civile (un pubblico ufficiale), l’accordo sugli obblighi alimentari è qualificabile come «atto pubblico» ai sensi dell’art. 48, regolamento n. 4/2009 (Bargelli, p. 47).

Ma la riconduzione alla categoria delle decisioni delle questioni relative al vincolo matrimoniale comporta che la qualificazione del medesimo accordo di divorzio possa divergere a seconda che venga considerato dalla prospettiva del regolamento Bruxelles II-bis e/o II-ter o da quella del regolamento n. 4/2009 (Bargelli, p. 47, 48).

Considerazioni analoghe potrebbero valere anche per le determinazioni riferibili all’ambito di applicazione del regolamento n. 2016/1103 in materia di regimi patrimoniali tra coniugi (Wilderspin, p. 402).

Nell’adottare la nozione di decisione la Corte di giustizia non ha quindi tenuto conto delle potenziali incoerenze derivanti dalla frammentazione che caratterizza la disciplina internazionalprivatistica del divorzio. 

6. L’applicazione del criterio dell’«esame di merito» alla proposta di regolamento in materia di filiazione

Sempre in una prospettiva sistematica, ci si potrebbe quindi chiedere se il criterio del «controllo di merito» possa essere esteso ad altri ambiti.

La questione è stata discussa rispetto alla proposta di regolamento in materia di filiazione che qui interessa stante la sua rilevanza per la tematica della circolazione degli status (Biagioni, p. 96).

L’applicazione del criterio in esame parrebbe essere legittimata dall’interpretazione autonoma e uniforme del diritto internazionale privato europeo: ciò, a fronte del controllo esercitato dagli ufficiali di stato civile prima di registrare e rilasciare documenti di attestazione dello status filiationis, ne implicherebbe il riconoscimento come «decisioni giudiziarie di filiazione» ai sensi degli art. 24 ss. della proposta (Budzikiewicz et al., p. 16).

Tale esito rischia di creare incertezze e, come per i divorzi privati, attenuare le distinzioni introdotte dal legislatore nella proposta di regolamento quanto al riconoscimento delle decisioni e degli «atti pubblici aventi effetti giuridici vincolanti», all’accettazione degli atti pubblici «privi di effetti giuridici vincolanti» o alla circolazione in virtù del certificato europeo di filiazione (Budzikiewicz et al., pp. 77, 78).

7. Conclusioni

 In conclusione,è possibile osservare come dinanzi al fenomeno della degiurisdizionalizzazione della materia familiare il legislatore dell’Unione e la Corte di giustizia abbiano voluto – in linea con le decisioni rese in Coman (C‑673/16) ePancharevo (C-490/20)rafforzare la continuità e l’unità degli status del cittadino dell’Unione nello spazio giudiziario europeo (Jiménez Blanco, p. 563).

In questa prospettiva, dunque, gli interventi in materia di divorzi privati devono essere valutati positivamente.

Altrettanto non può dirsi rispetto alla scelta di attribuire portata dirimente nella qualificazione dei divorzi privati al criterio dell’«esame di merito» come interpretato dalla Corte di giustizia.

In particolare, l’assenza di una regola in base al quale distinguere con più precisione, anche alla luce delle peculiarità delle legislazioni interne, la categoria delle decisioni da quella degli atti pubblici e degli accordi mal si concilia con le innovazioni introdotte dal legislatore nel regolamento Bruxelles II-ter.

Nel coordinamento con altri strumenti di diritto internazionale privato, tale assenza enfatizza le incoerenze conseguenti alla già di per sé settoriale e frammentata regolamentazione delle diverse questioni oggetto di disciplina nei divorzi privati.

Infine, l’applicazione alla proposta di regolamento sulla filiazione del criterio dell’«esame di merito», conferma l’esigenza di una delimitazione più nitida tra le diverse categorie di provvedimenti a fronte della pluralità di regimi previsti per la circolazione delle decisioni e degli atti pubblici.

*The contribution presents part of the research undertaken under the PRIN 2022 project “Fluidity in family structures – International and EU law challenges on parentage matters†(prot. n. 2022FR5NNJ), financed by the Ministry of University and Research of the Italian Republic and by the European Union – Next Generation EU.

Data articolo:Fri, 13 Dec 2024 10:22:47 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Anna Oriolo
The Right to Food, Crimes and Justice: The “Deliberate†Starvation of the Palestinian People before International Courts

Anna Oriolo (Università degli Studi di Salerno)

Introduction

On 21 November 2024, Pre-Trial Chamber I of the International criminal Court (ICC) issued arrest warrants for war crimes and crimes against humanity allegedly committed on the territory of the State of Palestine, specifically in the Gaza Strip. The warrants name Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu and former Defense Minister Yoav Gallant, for, inter alia, starving civilians as a method of warfare, which constitutes a war crime under Article 8(2)(b)(xxv) of the ICC Statute.

The arrest warrants were kept confidential to protect the identities of victims and witnesses, but in the applications filed on 20 May 2024, the ICC Prosecutor sought to indict Netanyahu and Gallant as “two of those most responsible†for the alleged crimes, both as co-perpetrators and superiors under Articles 25 and 28 of the Rome Statute.

The Israeli-Palestinian crisis has also posed significant challenges to the International Court of Justice (ICJ), both in a contentious case concerning the Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide in the Gaza Strip (South Africa v. Israel), which resulted in the issuance of three orders (on 26 January 2024, 28 March 2024, and 24 May 2024) imposing provisional measures, and in the Advisory Opinion of 19 July 2024, requested by the UN General Assembly on the Legal consequences of Israel’s policies and practices in the Occupied Palestinian Territories, including East Jerusalem.

The political and scholarly responses to the intervention of these two leading international courts have been remarkable inconsistent, raising significant concerns and prompting several reflections on the international protection of the right to food and the responsibility of States and individuals involved in the starvation of civilians, which are worth sharing.

Starvation of the Palestinian People as a “Manmade†Catastrophe

“On 9 October 2023, Israel announced its starvation campaign against Gazaâ€. This statement opens the Report of Michael Fakhri, United Nations Special Rapporteur on the Right to Food, presented to the UN General Assembly on 24 July 2024. The Report establishes the relationship between the right to food and the prevention of hunger, emphasizes the importance of Palestinian food sovereignty, and underscores starvation as a profound human rights violation. The Special Rapporteur also remarked, “Never in post-war history had a population been made to go hungry so quickly and so completely as was the case for the 2.3 million Palestinians living in Gazaâ€.

According to the Integrated Food Security Phase Classification (IPC) – a multilateral global initiative aimed at improving food security and analyzing global nutrition – the level of hunger reached in Gaza has reached phase 5, the highest level, signifying a catastrophe.

This worrying state of affairs was also underlined on 15 March 2024 by UN Secretary-General António Guterres, who warned, “1.1 million people in Gaza are facing catastrophic hunger – the highest number of people ever recorded – anywhere, anytime. This is an entirely manmade disasterâ€. EU High Representative Josep Borrell also addressed the disaster and famine in a statement on 24 March 2024, remarking “Gaza is already facing famine … Hunger cannot be used as a weapon of war. What we are seeing is not a natural hazard but a manmade disaster … The situation has gone beyond catastrophicâ€.

These considerations underscore that armed conflict, whether national or international, is one of the greatest threats to the enjoyment of the right to food, along with health emergencies and environmental hazards. However, unlike the latter two risk factors, armed conflicts are characterized by the fact that the starvation of civilians is not only a “physiological†consequence of hostilities, but is also “deliberately†and increasingly used as a method of warfare by warring parties. The Israeli-Palestinian conflict exemplifies this troubling dynamic and illustrates the intersection between the right of civilians to food, the use of starvation as a weapon of war, and the corresponding accountability of States and individuals for violations of human rights and international humanitarian law which, as noted above, has recently led to calls for both the ICJ and the ICC to address responsibility for violations of the right to food and other crimes committed in Gaza.

3. Individual Criminal Responsibility for Starvation of Civilians under ICC Arrest Warrants

The legal basis for the ICC’s jurisdiction over the situation in Palestine began with a declaration made on 1 January 2015, when the State of Palestine accepted the Court’s jurisdiction over crimes committed on Palestinian territory pursuant to Article 12(3) of the Rome Statute. On 22 May 2018, Palestine referred the situation to the ICC Prosecutor, requesting an investigation into crimes committed since 13 June 2014, with no fixed end date. In its decision on the territorial scope of its jurisdiction, Pre-Trial Chamber I ruled by a majority on 5 February 2021 that the ICC’s jurisdiction extends to the territories occupied by Israel since 1967, namely Gaza, the West Bank, and East Jerusalem.

As to the applicable law, international humanitarian law, particularly the 1977 Additional Protocols to the 1949 Geneva Conventions, explicitly prohibits the use of starvation as a method of warfare. Article 54 of Protocol I (for international armed conflicts) and Article 14 of Protocol II (for non-international armed conflicts) proscribe the deliberate destruction of food, crops, livestock, drinking water, and other essential goods necessary for the survival of the civilian population.

Similarly, Article 8(2)(b)(xxv) of the ICC Statute explicitly criminalizes the act of “intentionally using starvation of civilians as a method of warfare by depriving them of objects indispensable to their survivalâ€, including food, water, fuel, and medicine, as well as intentionally obstructing humanitarian relief efforts as defined in the Geneva Conventions.

In addition, such acts may constitute crimes against humanity if they are part of a widespread or systematic attack directed against a civilian population (Article 7 of the ICC Statute), or even genocide if they are committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial, or religious group (Article 6 of the ICC Statute and Article II of the 1948 Genocide Convention).

As to starvation as a war crime outlined in the ICC arrest warrants of 21 November 2024, a potential issue could arise from the fact that Article 8(2) of the ICC Statute specifies that war crimes include “violations of the laws and customs applicable in international armed conflict†(i.e., between two or more States).

However, international criminal tribunals have attempted to address this issue through judicial interpretation, such as the Tadic test of the internationalization of conflicts, which treats internal armed conflicts as international if a State intervenes or controls one of the warring parties.

In order to overcome the limitation imposed by Article 8(2) of the ICC Statute, the ICC Office of the Prosecutor (OTP) argued that the alleged war crimes occurred within the context of both an international armed conflict between Israel and Palestine, and a non-international armed conflict between Israel and Hamas (along with other Palestinian armed groups), “running in parallelâ€. 

The OTP presented evidence, including interviews with survivors, eyewitness testimony, authenticated videos, photographs, satellite imagery, and statements by the alleged perpetrator group, to show that Israel deliberately and systematically deprived the civilian population in Gaza of indispensable goods for survival, thereby also highlighting the potential constitutive elements of genocide (the specific intent to destroy, or dolus specialis) and crimes against humanity (the systematic targeting of civilians).

Turning to the acts by which this war crime was committed, the Panel of Experts on International Law, convened to assist in the review of evidence and legal analysis for the requested arrest warrants, identified a number of actions that constitute starvation under Article 8(2) of the ICC Statute, including: the siege of Gaza and the closure of border crossings; arbitrary restrictions on the entry and distribution of essential goods; disruption of electricity and water supplies; severe restrictions on access to food, medicine, and fuel; attacks on facilities that produce food and clean water; attacks on civilians attempting to obtain relief supplies; and attacks on humanitarian workers and convoys delivering aid. Based on the Panel Report, the OTP argued that these actions were part of a coordinated plan to use starvation as a method of warfare in order to: (i) eliminate Hamas, (ii) secure the release of hostages held by Hamas, and (iii) collectively punish the civilian population of Gaza, which Israel “perceived as a threatâ€.

According to the Prosecutor, the effects of the use of starvation as a method of warfare, in combination with other attacks and collective punishment against the civilian population of Gaza, are “acute, visible, and widely knownâ€. These effects have been confirmed by numerous witnesses interviewed by the OTP, including local and international medical professionals, and have resulted in malnutrition, dehydration, profound suffering, and an increasing number of deaths among the Palestinian population, particularly infants, children, and women.

The element of specific intent emphasized by the Prosecutor is crucial to the commission of the crime of genocide, as set forth in Article II(c) of the 1948 Genocide Convention, which prohibits “deliberately inflicting on the [protected] group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in partâ€. Nevertheless, while genocide is not explicitly listed in the ICC Prosecutor’s application for arrest warrants in the case concerning the Palestinian situation, the notion of genocide appears directly in ICJ’s advisory and precautionary rulings concerning the Occupied Palestinian Territories, as discussed below.

4. ICJ Rulings on Israeli Responsibility for Starvation as Genocide

In its Application instituting proceedings against Israel, South Africa contended that at least some, if not all, of the acts committed by Israel in Gaza in the aftermath of the attack of 7 October 2023 fall within the provisions of the 1948 Genocide Convention and asked the ICJ to take urgent interim measures to prevent an acute worsening of the already “catastrophic†levels of hunger affecting Palestinians in Gaza (para. 142).

First, the Court concluded that it had prima facie jurisdiction to hear the case under Article IX of the Genocide Convention, which provides that all disputes between the parties concerning the interpretation, application, or fulfillment of the Convention shall be submitted to the ICJ.

Turning to the issue of starvation, the ICJ found a “plausible†risk of genocide against the Palestinian population in Gaza (Order of 26 January 2024, paras. 54, 66, 74) and deemed the adoption of provisional measures necessary to avoid “irreparable prejudice†(id., para. 74). Specifically, the ICJ’s orders required Israel, inter alia, to comply with its obligation to prevent genocide under the 1948 Convention, to ensure the provision of basic services and humanitarian assistance, including food, water and electricity, and to report to the ICJ on the measures taken.

In determining whether it had jurisdiction under Article 96 of the UN Charter and Article 65 of the ICJ Statute to issue an Advisory Opinion on Israel’s presence in the Occupied Palestinian Territories, the ICJ found that the question on which it is was requested to render an opinion was a “legal question†and that there were no compelling reasons for refusing the General Assembly’s request (paras. 22-50). In its Opinion, the ICJ found that all of Israel’s policies and practices, as well as its continued presence in the Occupied Palestinian Territory, are contrary to international law (paras. 103-243).

However, the Opinion does not explicitly refer to the right to food of the affected civilian population. Nevertheless, it is particularly relevant to our current analysis for two reasons.

First, the Advisory Opinion contains an interesting reference to the food sovereignty of the Palestinian people through its ruling on the exploitation of natural resources by the occupying power. Specifically, the Court found that Israel’s exploitation of natural resources in the Occupied Palestinian Territory violated its obligation to respect the Palestinian people’s right to permanent sovereignty over those resources (para. 133).

Second, the Advisory Opinion addressed the legal consequences of Israel’s internationally wrongful acts with respect to UN member States (paras. 280-283) and other nations (paras. 273-279). In particular, in view of the illegality of Israel’s continued presence in the Occupied Palestinian Territory and the nature and significance of the rights and obligations involved, the Court emphasized that “all States†are under an obligation to refrain from recognizing as legal the situation resulting from Israel’s unlawful presence (para. 279). States must also refrain from engaging in economic or commercial transactions with Israel in relation to the Occupied Palestinian Territory or parts thereof, as such activities could entrench its unlawful presence. Furthermore, States are required to avoid actions that imply recognition of Israel’s illegal presence, such as establishing or maintaining diplomatic missions in a manner that supports its claims, and to take measures to prevent trade or investment relations that contribute to the maintenance of this illegal situation (para. 278). Furthermore, in the Court’s Opinion, all States parties to the Fourth Geneva Convention have an obligation, in accordance with the Charter of the United Nations and international law, to ensure Israel’s compliance with international humanitarian law as set forth in the Convention (para. 279). This includes, as mentioned above, the prohibition to attack, destroy, remove or render useless objects and goods essential for the enjoyment of the right to food and, more generally, for the survival of the civilian population.

Concluding Remarks: International Courts as the “Conscience of Humanityâ€

States have reacted differently to the ICJ and ICC rulings, sometimes even changing their initial positions over time. The EU is a clear example of this dissonance in the international community.

In particular, on 18 September 2024, 12 out of 27 EU member states abstained and 2 even voted against the UN General Assembly resolution, which was generally in line with the ICJ’s Advisory Opinion.

Regarding the ICJ’s precautionary measures, in the European Council conclusions of 17 October 2024, EU leaders reaffirmed Israel’s right to defend itself and the EU’s commitment to Israel’s security and regional stability (para. 18), while deploring the unacceptable number of civilian casualties in Gaza and the West Bank, as well as the catastrophic levels of hunger and imminent risk of famine caused by the insufficient flow of aid to Gaza, recalling “the need to fully implement the International Court of Justice orders†(para. 22).

On the ICC arrest warrants, despite Josep Borrell’s declaration that ICC decisions “have to be respected and implemented†by member States, European leaders showed mixed reactions. These include Hungary’s explicit opposition to the Court’s decision, Germany’s dilemma over the appropriate response, Belgium’s “full†support of the ICC statutes, Italy’s “formal†respect of the obligation to cooperate with the Court while considering its decision “wrongâ€, and France’s initial position “in line with the ICC’s statutes†that was later undermined by its offer of immunity to Netanyahu from the ICC arrest warrant.

However, the ICC cannot proceed in absentia and requires the cooperation of States in arresting and surrendering suspects. To date, most of these suspects are heads of State or Government at large, including Russian President Vladimir Vladimirovich Putin, against whom the ICC issued an arrest warrant  on 7 March 2023.

In light of these considerations, what is the actual outcome of these international judicial decisions regarding starvation and other violations in Gaza?

In our view, the role of international judges in stigmatizing the crime of starvation is crucial to ensuring that war crimes and other catastrophic abuses that offend the “human conscience†are not justified in the name of raison d’État.

The legal obligation to enforce international rulings undoubtedly exerts pressure on most States, which may feel “legitimately†entitled to withdraw, reduce, or even “barter†their political support for the States involved (whether as the State responsible for the violations or as the State of nationality of the accused). This trend seems to be reflected, for example, in France’s backtracking on Netanyahu’s arrest warrant, which some commentators have suggested was aimed at securing a ceasefire between Israel and Lebanon. As a result, the risk of losing political consensus could become a motivating factor for the States involved not only to implement the judicial decisions, but also to address the underlying causes by putting an end to the violations complained of or, in some cases, by “directly†prosecuting the suspects in a fair and impartial manner. This approach is consistent with the principle of complementarity, which allows the ICC to exercise its jurisdiction only when national legal systems are unwilling or unable to “genuinely†conduct proceedings.

Therefore, despite the lack of unanimous consensus on the ICJ and ICC pronouncements examined, which risks undermining the effectiveness of international justice, we believe that these judicial decisions can contribute to the consolidation of the prosecution of intentional starvation as an international crime and, more broadly, to the fight against immunity for jus cogens violations. Indeed, the “legal†assessments entrusted to the world’s two highest courts are an indispensable tool to help States calibrate their “political†positions (and alliances) with regard to international crises, serious violations of international humanitarian law and human rights committed during armed conflicts against civilians, in this case, the Palestinian people in Gaza. From this perspective, by calling on States to respect international law and bring criminals to justice, the ICJ and ICC position themselves as the “conscience†of all humanity, affirming the “primacy of the raison d’humanité over raison d’État†(see Cancado Trindade, 2010), thereby legitimizing the removal of political and procedural barriers to the enforcement of international law.

Data articolo:Thu, 12 Dec 2024 08:21:20 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Gianpaolo Maria Ruotolo
Un racconto del diritto internazionale nella musica pop. B side: heavy metal

Gianpaolo Maria Ruotolo (Università di Foggia)*

(segue)

3. Il diritto internazionale nel contesto heavy metal: una breve introduzione

Le rappresentazioni culturali del diritto, e del diritto internazionale in particolare, sono innumerevoli e variegate. Vanno da quelle scritte, pensate e fruite dai professionisti, come manuali, lavori scientifici, sentenze, a quelle che raccontano del diritto internazionale nei più diversi contesti culturali, come musica, fumetti, letteratura (va detto che i romanzi scritti da Philippe Sands sono del tutto particolari, poiché il loro Autore, prima di essere uno scrittore, è un internazionalista, che in essi narra storie familiari profondamente legate ad eventi storici in cui il diritto internazionale gioca un ruolo centrale), cinema (su quest’ultimo, anche per alcune considerazioni metodologiche più generali e anche molto critiche, v. Gradoni), e così via.

Ciò che cercherò di fare ora è capire se l’heavy metal, come genere musicale complessivamente inteso, prevede una rappresentazione del diritto internazionale in qualche modo “orientataâ€, cioè se ricostruisce quel fenomeno giuridico (o, più precisamente, alcuni dei suoi elementi fattuali) con l’intento di metterne in luce solo alcuni aspetti, positivi o negativi che siano.

Questa, lo so, non è certo una peculiarità della rappresentazione del fenomeno in ambito musicale, poiché approcci simili vengono utilizzati nei contesti più diversi: si pensi al caso della politica, con narrazioni parziali volte a promuovere il cambiamento di un certo contesto di potere o il suo mantenimento, come nel caso dei sovranismi.

Proverò quindi a capire se e soprattutto come un determinato approccio musicale possa influenzare il modo in cui certe questioni regolate dal diritto internazionale – e quindi indirettamente il diritto internazionale stesso – sono “narrate†nel contesto della musica estrema.

Ovviamente, il contesto sociale, culturale ed economico in cui un fenomeno nasce, cresce e si sviluppa ne influenzano in modo significativo le caratteristiche di fondo: qui basti ricordare che l’heavy metal nasce nel mondo occidentale, in particolare in quello anglosassone, e si caratterizza per la volontà di reagire all’autorità costituita (si ascoltino i britannici Judas Priest, Breaking the law, 1980), di esprimere il disagio di determinate classi sociali, in particolare quelle appartenenti alla classe operaia bianca, o di enfatizzare il potere, anche a fini parodistici o critici (si ascoltino i newyorkesi Anthrax, I am the law, 1986, brano ispirato al personaggio dei fumetti del Giudice Dredd).

Però, quando il genere si diffonde su tutto il pianeta e quindi diventa “globale†(e questo accade a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso), e soprattutto quando arriva in aree socialmente e culturalmente molto diverse da quelle di origine, come l’Europa dell’Est, l’Africa, l’Asia o il Sud America, assume caratteristiche altre, che, sfruttandone l’atteggiamento di protesta, gli fanno assumere una funzione sociale alquanto diversa da quella dei contesti di origine.

Queste caratteristiche influenzeranno, come vedremo, il modo in cui vengono raccontati fatti giuridicamente rilevanti, e in particolare quelli di rilevanza internazionale.

Inoltre, il maggiore o minore successo di un genere musicale in un determinato ambito geopolitico è molto significativo: l’enorme popolarità dell’heavy metal – che è invece sempre rimasto un genere di nicchia in Occidente – in Paesi in via di sviluppo come India, Polonia, Bielorussia, Estonia e Lituania e in tutte le ex-repubbliche sovietiche, ma anche in molti Paesi del Medio Oriente (dove è peraltro spesso vietato), indica un desiderio di cambiamento sociale, di occidentalizzazione o una risposta/reazione alla globalizzazione (quest’ultimo, come vedremo, è un tema ricorrente di certo heavy metal brasiliano).

Devo ribadire che il mio approccio sarà casistico e trasversale ai “sottogeneri†del metal, poiché i limiti di questo lavoro non mi consentono di effettuare una suddivisione specifica basata su questi ultimi.

4. Il diritto internazionale nell’heavy metal: alcuni casi dal Global North

Ogni strumento sociale che miri a mantenere l’ordine e valorizzare lo status quo, come l’ordinamento internazionale, si caratterizza per una tendenza a reprimere il disordine: ciò diviene particolarmente evidente, nel caso del diritto internazionale, con il divieto generalizzato della minaccia e dell’uso della forza.

La musica heavy metal porta invece proprio il disordine in primo piano, rinvigorendolo e celebrandolo attraverso il suo suono. Contrariamente alle canzoni non-metal di cui ho parlato nella A Side, le quali in genere rifiutano la violenza associata alla guerra, molte band heavy metal, anche a causa delle caratteristiche musicali del genere, compongono infatti tracce che descrivono vividamente azioni militari: queste spesso ritraggono soldati impegnati in combattimenti, i quali mostrano coraggio e resilienza mentre operano dietro le linee nemiche o partecipano a contrattacchi, assedi militari, bombardamenti e manovre (Hill, Spracklen (eds), Heavy Fundametalisms: Music, Metal and Politic). Ora, mentre le rappresentazioni della guerra da parte di alcune band heavy metal, appunto, appaiono come tentativi di rappresentare e anche celebrare il caos e la distruzione senza esprimere al riguardo scetticismo o muovere critiche, altre adottano un approccio differente.

Gli Iron Maiden, band britannica tra i fondatori della c.d. New wave of british heavy metal, aprono sempre i loro concerti riproducendo la registrazione del discorso di Churchill del 4 giugno 1940:

We shall go on to the end, we shall fight in France, we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and growing strength in the air, we shall defend our Island, whatever the cost may be, we shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills; we shall never surrender!

per poi eseguire diversi brani che affrontano temi legati al diritto internazionale, in particolare nel contesto dei conflitti armati e dei diritti umani, spesso esplorati attraverso narrazioni storiche.

Aces High (1984), ad esempio, narra le esperienze dei piloti della RAF durante la seconda guerra mondiale, sottolineando il costo psicologico e fisico della guerra e concentrandosi sul combattimento aereo, consapevole delle implicazioni giuridiche dei bombardamenti aerei e della necessità di protezione dei non combattenti.

There goes the siren that warns of the air raid

Then comes the sound of the guns sending flak

Out for the scramble, we’ve got to get airborne

Got to get up for the coming attack

Jump in the cockpit and start up the engines

Remove all the wheelblocks, there’s no time to waste

Gathering speed as we head down the runway

Got to get airborne before it’s too late

The Trooper (1983), ancora, trae ispirazione dalla Battaglia di Balaklava, un’azione militare intrapresa il 25 ottobre 1854 dalla cavalleria leggera britannica contro le forze russe durante la guerra di Crimea, che causò numerose vittime tra la cavalleria, e che fu celebrata anche nel poema di Alfred Tennyson The Charge of the Light Brigade (1854), pubblicato appena sei settimane dopo l’evento.

La canzone solleva interrogativi sulla condotta delle forze armate e sul rispetto dei principi di distinzione e di proporzionalità in guerra, che sono poi divenuti centrali grazie alle Convenzioni di Ginevra.

You’ll take my life, but I’ll take yours too
You’ll fire your musket, but I’ll run you through
So when you’re waiting for the next attack
You’d better stand, there’s no turning back

The bugle sounds, the charge begins
But on this battlefield, no one wins
The smell of acrid smoke and horses’ breath
As I plunge on into certain death

Run to the Hills (1982) affronta poi il tema dell’occupazione del Nord America e delle sue conseguenze sui nativi americani, con un approccio critico alla colonizzazione e alle violazioni dei diritti umani che l’hanno accompagnata.

White man came across the sea
He brought us pain and misery
He killed our tribes, he killed our creed
He took our game for his own need

We fought him hard, we fought him well
Out on the plains we gave him hell
But many came, too much for Cree
Oh, will we ever be set free?

Il diritto internazionale, come noto, si occupa dei diritti delle popolazioni indigene in documenti come la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni; la narrazione di Run to the Hills ci aiuta a ricordare gli obblighi che gli Stati hanno oggi nei confronti delle comunità indigene, in particolare in termini di autodeterminazione e preservazione culturale.

Ancora più legata al diritto internazionale, in particolare al contesto dei conflitti armati e al diritto internazionale umanitario, è la musica della band svedese Sabaton, che tratta esclusivamente di temi storici e militari, al punto da aver aperto un canale YouTube, che narra proprio il contesto storico di ogni loro canzone. Ebbene, le canzoni dei Sabaton, che riflettono sulle esperienze dei soldati e sulle complessità giuridiche della guerra, possono fungere da lente attraverso cui esaminare le implicazioni del diritto internazionale umanitario (DIU).

Gli esempi potrebbero essere molti.

Per citarne uno, Christmas Truce (2021) è un toccante omaggio alla nota “tregua di Nataleâ€, una serie di cessate il fuoco non ufficiali che si verificarono nei giorni intorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della prima guerra mondiale. Già la settimana prima di Natale, alcuni soldati delle truppe tedesche e britanniche di stanza su lati opposti del fronte iniziarono, andando contro la volontà dei rispettivi comandi e quindi degli Stati, a scambiarsi saluti e canti natalizi e attraversare le linee per portare regali ai soldati di stanza dall’altra parte. La vigilia di Natale e il giorno di Natale stesso, poi, un gran numero di soldati delle unità tedesche e britanniche (e, in misura minore, francesi) lasciarono spontaneamente le trincee per incontrarsi nella terra di nessuno per fraternizzare, scambiarsi cibo e doni, oltre a celebrare cerimonie religiose e funebri comuni per i caduti, e improvvisare addirittura partite di calcio.

Silence

Oh, I remember the silence

On a cold winter day

After many months on the battlefield

And we were used to the violence

Then all the cannons went silent

And the snow fell

Voices sang to me from no man’s land

And today we’re all brothers

Tonight we’re all friends

A moment of peace in a war that never ends

Today we’re all brothers

We drink and unite

Now Christmas has arrived and the snow turns the ground white

Hear carols from the trenches, we sing O holy night

Our guns laid to rest among snowflakes

A Christmas in the trenches, a Christmas on the front far from home

Come noto, il DIU è l’insieme di norme di diritto internazionale che mirano a limitare gli effetti dei conflitti armati; esso protegge principalmente le persone che non partecipano o non partecipano più alle ostilità e limita i mezzi e i metodi di guerra. Una sua parte importante è contenuta nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 che sono state sviluppate e integrate da due ulteriori accordi: i Protocolli aggiuntivi del 1977 relativi alla protezione delle vittime dei conflitti armati. Molte disposizioni del diritto internazionale umanitario sono ora accettate come diritto internazionale generale.

Anche la canzone Angel of Death (1986) degli Slayer, band di Los Angeles tra i fondatori del thrash-metal, contiene una provocatoria descrizione di questioni profondamente collegate al diritto internazionale umanitario e non solo, poiché narra con dovizia di dettagli le atrocità commesse dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, con attenzione particolare agli esperimenti disumani condotti sui prigionieri da Josef Mengele ad Auschwitz, illustrandone vividamente i crimini di guerra e contro l’umanità:

Auschwitz, the meaning of pain

The way that I want you to die

Slow death, immense decay

Showers that cleanse you of your life

Forced in like cattle, you run

Stripped of your life’s worth

Human mice, for the Angel of Death

Four hundred thousand more to die

Pumped with fluid, inside your brain

Pressure in your skull begins pushing through your eyes

Burning flesh, drips away

Test of heat burns your skin, your mind starts to boil

Frigid cold, cracks your limbs

I crimini contro l’umanità e i crimini di guerra sono oggi entrambi contemplati nello Statuto della Corte Penale Internazionale (CPI), che definisce chiaramente entrambe le categorie agli art. 7 e 8. La differenza principale tra i due risiede nella loro natura e nelle circostanze in cui vengono commessi: mentre i primi, che non sono necessariamente legati a un conflitto armato, sono costituiti da attacchi estesi o sistematici contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco, e possono includere atti come l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione, la prigionia o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale, la tortura, lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata o qualunque altra forma di violenza sessuale di analoga gravità, la persecuzione contro un gruppo o una collettività, la sparizione forzata di persone, l’apartheid, i secondi sono rappresentati da infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, che si sostanzino in omicidio volontario, tortura o trattamenti inumani, compresi gli esperimenti biologici, il cagionare volontariamente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute, la vasta distruzione e appropriazione di beni non giustificata da necessità militari e compiuta illegalmente ed arbitrariamente, il costringere un prigioniero di guerra o altra persona protetta a prestare servizio nelle forze armate di una potenza nemica, il privare volontariamente un prigioniero di guerra o altra persona protetta del suo diritto ad un equo e regolare processo, la deportazione, il trasferimento o la detenzione illegali, la presa di ostaggi. Nella categoria rientrano poi anche le violazioni di altri obblighi, di diritto internazionale generale (l’elenco qui).

I Metallica, probabilmente la band heavy metal più famosa al mondo, nella loro One(1988, ispirata ad un romanzo del 1938, Johnny Got His Gun di Dalton Trumbo), raccontano la storia di un soldato della prima guerra mondiale che, ferito da una mina, perde gli arti e i sensi, rimanendo intrappolato nel suo corpo. Non solo i testi, ma anche la musica racconta il dramma di questo soldato, passando da una cupa riflessione sulla sua condizione a un potente crescendo che, mostrando non solo le ferite fisiche subite ma anche le cicatrici psicologiche che le accompagnano, trasmette all’ascoltatore l’intensità della angoscia del militare, sottolineando la brutalità della guerra, senza alcuna glorificazione del combattimento.

Darkness imprisoning me

All that I see

Absolute horror

I cannot live

I cannot die

Trapped in myself

Body my holding cell

Landmine has taken my sight

Taken my speech

Taken my hearing

Taken my arms

Taken my legs

Taken my soul

Left me with life in hell

Il diritto internazionale proibisce l’uso delle mine antiuomo attraverso la Convenzione sulla proibizione dell’uso, dello stoccaggio, della produzione e del trasferimento delle mine antiuomo e sulla loro distruzione, firmata a Ottawa nel 1997. La Convenzione, ad oggi ratificata da 156 Stati, impone una serie di obblighi volti a limitare le gravi conseguenze umanitarie e ambientali delle mine antiuomo, che continuano a causare vittime civili anche anni dopo la fine dei conflitti. Le mine antiuomo producono, infatti, un impatto indiscriminato, colpendo non solo i soldati ma anche i civili, in particolare donne e bambini, e ostacolano la ricostruzione delle società colpite dalla guerra. Tuttavia, non tutti i Paesi hanno aderito al trattato: ad esempio, gli Stati Uniti, pur avendo adottato politiche per limitare l’uso delle mine antiuomo, non hanno ratificato la Convenzione, mantenendo una posizione ambivalente riguardo all’uso delle mine in contesti specifici.

Anche Holy Wars… The Punishment Due (1990) dei Megadeth rappresenta un commento sulle complessità della guerra, qui nel contesto dei conflitti religiosi e, già nel titolo, racchiude l’ambivalenza della guerra santa e le conseguenze che derivano da tali conflitti. La canzone riflette le dimensioni storiche e psicologiche della guerra, in particolare il modo in cui la religione può essere manipolata per giustificare un atto di aggressione (qui la definizione adottata dall’Assemblea generale; il relativo crimine è punito dall’art. 5 dello Statuto della CPI). Come noto, il concetto di guerra santa è stato storicamente letto come una sanzione divina, come una forma di punizione o protezione. La narrazione contenuta nella canzone può essere utilizzate per illustrare le conseguenze devastanti che le ideologie religiose possono avere, riecheggiando i sentimenti sulle implicazioni umanitarie della guerra, dove la giustificazione degli interventi militari spesso porta ad abusi.

Brother will kill brother, spilling blood across the land
Killing for religion, something I don’t understand
Fools like me who cross the sea and come to foreign lands
Ask the sheep for their beliefs, ‘Do you kill on God’s command?’

A country that’s divided, surely will not stand
My past erased, no more disgrace, no foolish naïve stand
The end is near, it’s crystal clear, part of the master plan
Don’t look now to Israel, it might be your homeland

Holy wars

La canzone solleva anche la questione del rapporto tra libertà religiosa e sicurezza internazionale. Va detto che la prassi recente del Consiglio di sicurezza, almeno nel contesto del terrorismo internazionale, sembra leggere sempre più di frequente la religione, o almeno alcune sue visioni radicali – anche se non apertamente, e anzi spesso con una serie di clausole relative alla non attribuzione del terrorismo a nessuna religione o cultura, che, bisogna dirlo, suonano spesso come excusationes non petitae – come un elemento di rischio per la sicurezza internazionale, e quindi di minaccia alla pace (per un’analisi mi permetto di rinviare qui).

Mentre la libera espressione delle convinzioni rientra senza dubbio nel contesto della libertà religiosa internazionalmente tutelata, il fanatismo religioso, soprattutto nelle sue forme più radicali, potrebbe infatti non essere compatibile nemmeno con un’interpretazione ampia dei diritti fondamentali tutelati dal diritto internazionale: se, da un lato, la prassi più recente del Consiglio di sicurezza non legittima in alcun modo il legame tra terrorismo e religioni, dall’altro, ciò non pare valere per alcune forme estreme di espressione religiosa, che implicano la totale soppressione dei diritti altrui, in particolare del diritto alla vita. Va chiarito ciò non è applicabile sic et simplicter a una religione che limiti i diritti fondamentali così come sono concepiti nel contesto occidentale (si pensi, ad esempio, al rapporto di alcune religioni con la libertà delle donne), ma solo quando le forme di espressione, organizzazione e imposizione di un dato sentimento religioso abbiano un impatto negativo sul nocciolo duro dei diritti fondamentali, e in particolare sul diritto alla vita. In tali casi, è probabile che ci si trovi di fronte ad un esercizio abusivo della libertà religiosa, che, come è noto, si verifica quando un diritto viene esercitato dal suo titolare in modo manifestamente incompatibile o contrario allo scopo per cui è stato concepito e riconosciuto.

Passando al black metal, un sottogenere emerso in Norvegia nei primi anni ‘90 e tristemente famoso per i sanguinosi eventi che si sono verificati nel c.d. inner circle, esso è caratterizzato da ritmi veloci, uno stile vocale stridente, chitarre fortemente distorte suonate con la tecnica del c.d. tremolo picking, registrazioni lo-fi, strutture di canzoni non convenzionali, temi trasgressivi, sentimenti anti-establishment e un rapporto profondo con la natura e l’ambiente.

I fondamenti estetici e ideologici di questo genere possono essere giustapposti al diritto internazionale ambientale, e al più ampio impatto delle espressioni culturali sulla coscienza ambientale: uno dei dischi più influenti del genere è intitolato A blaze in the northern sky (Darkthrone, 1991), un’altra band norvegese porta il nome di Carpathian Forest, sulle copertine degli album black metal sono spesso raffigurati paesaggi idealizzati, con fotografie granulose scattate di notte che mostrano alberi e neve, come in Under a Funeral Moon dei Darkthrone (1993) o foto naturalistiche, come quella per l’album Frost degli Enslaved (1994), che mostra un fiordo avvolto nella nebbia.

L’approccio ultraconservatore del genere alla natura, rappresentato nei testi e nella sua iconografia, riflette un profondo legame con l’ambiente che è anche al centro delle attenzioni del diritto internazionale dell’ambiente, che adotta un approccio precauzionale volto a bilanciare gli interessi economici con la sostenibilità ecologica. Il genere può quindi servire come piattaforma per aumentare la consapevolezza sulle questioni ecologiche e la sua attenzione tematica sulla natura e la ribellione fornisce una lente unica attraverso cui esaminare la relazione tra espressioni culturali e diritto internazionale ambientale.

Più di recente, forti preoccupazioni ambientali ispirano la musica dei Gojira, band death metal francese che di recente ha raggiunto livelli di fama planetaria per aver suonato in occasione dell’apertura dei giochi olimpici parigini del 2024. In Amazonia (2021):

Burn

Another Gold mine is unveiled

The source of our sorrow

Learn

Embedded in these walls of green

Is the curse that we follow

There’s fire in the sky

You’re in the Amazon

The greatest miracle

Is burning to the ground

Ciò riflette anche una tendenza più ampia nel diritto internazionale ambientale, in cui le narrazioni culturali, ivi comprese quelle musicali, possono influenzare la percezione pubblica e l’elaborazione delle politiche sulle questioni ambientali.

Nel caso degli Orphaned Land, band israeliana, poi il delicatissimo e oggi particolarmente drammatico tema della convivenza israelo-palestinese viene affrontato, prima ancora che nei testi, anche e forse soprattutto nella musica: la band propone infatti un death metal con forti influenze orientali e folk sia arabe sia israeliane (elementi musicali mizrahi e maghrebini, arabi, turchi e altri mediorientali e nordafricani, con particolare influenza della musica ebraica yemenita e, nei loro primi anni, di quella marocchina, oltre che della musica sefardita e di altre sonorità mediterranee. Hanno inserito anche versioni metalizzate di vari piyyutim in tutti i loro album).

Nel videoclip di Like Orpehus la band racconta la convivenza israelo-palestinese attraverso la comune passione dei giovani di entrambi gli Stati per l’heavy metal:

And this life is the pain of being born

Man, child and woman all are one

I sing before you all

5. (segue): alcuni casi dal Global South

Come ho già detto, la musica heavy metal si è ormai evoluta in un fenomeno globale, con scene distinte che emergono in varie regioni, tra cui il Sud del mondo, dove l’approccio riflette i contesti culturali, sociali e politici locali, che differiscono significativamente da quelli delle zone di origine del genere, gli Stati occidentali.

Come vedremo da alcuni esempi, nel Global South l’heavy metal è infatti spesso servito come strumento di resistenza a regimi politici oppressivi e ingiustizie sociali: in Paesi come la Turchia, ad esempio, è stato un veicolo per esprimere dissenso contro l’autoritarismo e si è intrecciato con la ricerca di identità portata dalle sfide della democratizzazione, contribuendo all’articolazione di punti di vista culturali che hanno sfidato le narrazioni religiose e nazionaliste prevalenti.

È appena il caso di ribadire, poi, come l’espressione musicale sia condizionata dall’effettività dei diritti fondamentali: in questo senso la storia degli Acrassiscauda, la prima band metal irachena, è paradigmatica. Formatasi a Baghdad nel 2001, la band emerge come un significativo fenomeno culturale sullo sfondo della guerra e dei disordini sociali ed è protagonista del documentario Heavy Metal in Baghdad che ne ha raccontato lotte e aspirazioni e ha evidenziato la posizione unica dei musicisti metal iracheni all’interno della più ampia comunità heavy metal. Le esperienze della band riflettono infatti un più ampio ruolo della musica nelle zone di conflitto, in particolare quella medio-orientale, con riguardo alla quale è forse il caso di ricordare come, i talebani, durante il loro primo periodo al potere in Afghanistan (1996-2001) avessero proibito strumenti come il pianoforte, il flauto e il liuto, e l’ISIS, in Siria e Libia, abbia analogamente cercato di eradicare strumenti come il sassofono, la batteria e la tastiera, considerati “non islamiciâ€.

Anche la band brasiliana Sepultura ha spesso affrontato temi di competenza del diritto internazionale, in particolare nel contesto della decolonizzazione, dei diritti dei popoli indigeni, dei diritti umani, delle preoccupazioni ambientali.

Ad esempio, il loro album Roots (1996) esplora le lotte dei popoli indigeni del Brasile e l’impatto del colonialismo.

Kaiowas (1993), poi,è un brano strumentale ispirato da una tribù indiana brasiliana che viveva nella foresta pluviale e, che stando alle note di copertina dell’album, “committed mass suicide as a protest against the Brazilian government… who took away their land and beliefsâ€. Il realtà la tribù, in una lettera inviata al Governo brasiliano per protestare contro l’adozione di un’ordinanza giurisdizionale che le imponeva di abbandonare le terre sulle quali era da sempre stanziata, dichiarava solo di esser pronta ad accettare la propria estinzione (la storia è anche narrata in un film del 2020, “My blood is redâ€).

L’impegno dei Sepultura verso le questioni ambientali è evidente anche in altri brani, come Territory (1993), che critica lo sfruttamento delle risorse naturali, il fenomeno dell’accaparramento del territorio e le conseguenze di tali azioni sulle comunità locali.

Unknown man
Speaks to the world
Sucking in your trust
A trap in every word

War for territory
War for territory

Il diritto internazionale affronta il fenomeno del land grabbing attraverso vari strumenti e meccanismi (v. Nino) volti a regolamentare l’acquisizione di terreni, proteggere i diritti umani e promuovere lo sviluppo sostenibile. Il fenomeno, spesso caratterizzato da acquisizioni di terreni su larga scala da parte di entità straniere o élite locali, ha sollevato infatti preoccupazioni in merito alle violazioni dei diritti umani e alla sostenibilità ambientale: l’accaparramento di terre spesso porta anche a pratiche agricole non sostenibili, con conseguente degrado ambientale e perdita di biodiversità.

Il diritto internazionale riconosce quindi la terra come una risorsa critica, che deve essere gestita in modo responsabile. Le Nazioni Unite hanno istituito meccanismi per monitorare e affrontare le violazioni dei diritti umani associate alle acquisizioni di terreni su larga scala e i treaty bodies documentato numerosi casi di violazioni dei diritti umani associate all’accaparramento di terreni, evidenziando la necessità di strumenti di protezione delle popolazioni vulnerabili.

Tuttavia le differenze di regolamentazione interna delle transazioni fondiarie possono facilitare o ostacolare l’accaparramento di terre. In molti Paesi in via di sviluppo, ad esempio, la scarsa tutela prevista per i piccoli proprietari terrieri, unita alla corruzione degli organi dello Stato, crea un ambiente favorevole all’accaparramento e allo sfruttamento.

Il tema del rapporto tra popolazione e territorio viene affrontato anche da un altro gruppo thrash metal brasiliano, i Tamuya Thrash Tribe, che addirittura intitolano uno dei loro brani con un principio di diritto internazionale come l’Uti Possidetis (2016).

Leave these lands

They still refuse

They want to die

With stupid pride

This war for territory

Will have to end

The kings agreed

To exchange our lands

We’ve been living here

For so many years

While they drink their wines

In golden glasses

But this is where we want to be

This is the land of the Guaranys

They should know this land was given to us

And freely we shall give to our heirs

Leave these lands

We still refuse

If we have to die

We’ll die with pride

Come noto, il principio dell’uti possidetis, chenasce nel contesto della decolonizzazione per la definizione dei confini statali, originariamente in America Latina, stabilisce che i gli Stati di nuova indipendenza ereditano i confini territoriali già fissati dalla madrepatria. Il principio, che mira a evitare conflitti e ad assicurare stabilità nelle relazioni tra nuovi Stati, è stato anche fortemente criticato per aver perpetuato confini artificiali, che non riflettono le realtà sociali e culturali dei popoli.

In Biotech is Godzilla (1993) i Sepultura affrontano ancora questioni ambientali facendo riferimento al Vertice di Rio del 1992:

Rio Summit, ‘92

Street people kidnapped, hid from view

‘To save the Earth’, our rulers met

Some had other secret plans

Strip-mine the Amazon

Of cells of life itself

Gold rush for genes is on

Natives get nothing

Come noto, il Summit di Rio, la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, si è tenuto a Rio de Janeiro (Brasile) nel giugno 1992 e ha rappresentato una delle tappe fondamentali del processo di cooperazione ambientale internazionale. Ha coinvolto 172 governi, 108 capi di Stato e numerose organizzazioni non governative, e ha prodotto la Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, con la quale sono stati stabiliti alcuni principi chiave del diritto internazionale ambientale. Secondo la Dichiarazione, l’unico modo per raggiungere una crescita economica a lungo termine è garantire che essa sia indissolubilmente legata alla tutela ambientale. In particolare, il Principio 7 sottolinea come gli Stati abbiano responsabilità “comuni ma differenziate†nel processo di cooperazione verso la tutela e il ripristino degli ecosistemi, e il Principio 15 richiede l’uso di un approccio precauzionale nella tutela dell’ambiente.

L’Africa, come per ogni altro contesto, è troppo grande e frammentata per essere affrontata in maniera unitaria, anche quando si parla di heavy metal; quindi mi limiterò qui a qualche esempio: c’è da dire che proprio i brasiliani Sepultura sono una delle influenze più notevoli nella scena heavy metal africana, sotto la quale si è evoluta la scena locale.

La scena metal nigeriana ha visto l’ascesa di band come Blood Covenant e The Toads, che incorporano lingue e temi locali nella loro musica, affrontando temi come la corruzione, la disuguaglianza sociale e l’impatto del colonialismo.

Meritano qualche parola in più gli Arka’n Asrafokor, band del Togo che ha ottenuto riconoscimenti per la sua miscela unica di musica tradizionale togolese e metal. Il nome della band, che si traduce in “Il suono del popoloâ€, riflette il suo impegno nell’affrontare problemi sociali e di identità culturale attraverso la musica; anche il contenuto dei loro testi spesso ruota attorno a temi come la giustizia sociale, le lotte politiche e soprattutto l’importanza del patrimonio culturale tradizionale, come in Tears of the dead.

Passando velocemente al continente asiatico, e lasciando da parte Cina e Giappone, troviamo The Hu, un gruppo folk metal mongolo formatosi nel 2016 a Ulan Bator, che ha recentemente raggiunto fama mondiale e che fonde sonorità metal con quelle tradizionali mongole, di cui utilizza anche gli strumenti e la lingua: nei suoi brani (si ascolti ad esempio la loro Yuve Yuve Yu,“Il canto dell’eternoâ€, del 2019) il gruppo esprime con forza l’orgoglio delle proprie origini e la necessità di non subire passivamente l’influenza occidentale quindi focalizzando l’attenzione dell’ascoltatore sulla necessità di tutelare il patrimonio culturale delle popolazioni indigene.

6. Una (piccola) conclusione

L’indagine che sto conducendo mi pare suggerire come la musica heavy metal dimostri una frequentazione molto più assidua con le questioni di diritto internazionale rispetto alla musica pop non-metal, probabilmente a causa delle caratteristiche musicali del genere e del suo approccio cosmopolita.

Inoltre, credo che si possa evidenziare una differenza di approccio tra gli artisti del metallo di origine occidentale e gli altri. Si tratta, ovviamente, di una linea di tendenza, della quale possono essere tracciate eccezioni.

I primi, ad ogni modo, sembrano adottare, se complessivamente intesi, approcci in linea con interpretazioni “tradizionali†del diritto internazionale, visto come un insieme di regole sostanzialmente cristallizzate che dovrebbero essere essenzialmente applicate, piuttosto che modificate (Hegemonic International Law); le posizioni critiche espresse anche in questo contesto paiono però paiono mosse da intenti anch’essi egemoni, in qualche modo (v., ad es., i Megadeth di United Abominations del 2007).

Le band provenienti dai Paesi del Global South, invece, propongono una narrazione di reazione alle strutture di potere esistenti nel diritto internazionale, viste come volte a perpetuare le disuguaglianze storiche e contemporanee tra il Nord e il Sud del mondo. Per loro, quindi, il diritto internazionale non è un sistema neutrale di regole per la coesistenza tra Stati sovrani, in quanto storicamente plasmato da dinamiche coloniali che persistono ancora oggi.

Questa interpretazione mi pare più simile alle prospettive avanzate dalla dottrina contemporanea nota come Third World approaches to international law (TWAIL).

Questa scuola di pensiero critica, pur non essendo del tutto omogenea, costituisce, come noto, un movimento sia intellettuale che politico che interpreta il diritto internazionale come un meccanismo che perpetua lo sfruttamento del Terzo Mondo mantenendo la sua subordinazione alle potenze occidentali: gli studiosi affiliati al TWAIL, spesso indicati come TWAILers, mirano ad affrontare e riformare ciò che percepiscono come una dimensione oppressiva del diritto internazionale, rivisitandone i fondamenti coloniali.

È stato pure notato, però, che il movimento TWAIL stesso è stato significativamente influenzato da studiosi provenienti da Europa e Nord America, e che una parte sostanziale della dottrina con questo approccio origina e viene diffusa all’interno del Nord globale. In questo credo che si possa individuare una somiglianza con le correnti heavy metal provenienti dal Sud del mondo, che, come abbiamo visto, utilizzando un genere nato nel Nord del mondo, anglosassone, ma che poi si è diffuso nel Sud, recependone le istanze.

* Alcuni passaggi di questo lavoro sono stati esposti nel corso di due seminari che ho tenuto il 18 novembre 2024 nell’Università Roma Tre (ringrazio Giulio Bartolini per l’invito) e il 27 novembre 2024 nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (ringrazio Francesca Benatti e Giuseppe Portonera). Per l’idea di suddividere il testo in due “facciateâ€, come se fosse un vinile, sono debitore a Diego Mauri.

Data articolo:Tue, 03 Dec 2024 18:45:00 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Gianpaolo Maria Ruotolo
Un racconto del diritto internazionale nella musica pop. A Side: afrobeat, hip-hop, rock

Gianpaolo Maria Ruotolo (Università di Foggia)*

1. Una premessa metodologica

Questa riflessione fa parte di una ricerca più ampia che sto conducendo sulle modalità con cui la cultura popolare (“pop cultureâ€) narra il fenomeno giuridico, e il diritto internazionale in particolare. Il modo in cui un fenomeno viene raccontato nelle canzoni, nei fumetti, nelle serie televisive, nel cinema commerciale, coincide con quello in cui esso è visto dalla stragrande maggioranza delle persone, cioè come esso entra e rimane nell’immaginario collettivo. Il fenomeno giuridico, nei suoi molteplici aspetti, non ne è certo escluso: il modo in cui il diritto e i suoi operatori – Stati e loro organi, organizzazioni internazionali, ma anche professori universitari, studenti delle facoltà di giurisprudenza, avvocati, magistrati, forze di polizia – sono riflessi e illuminati dall’immaginario collettivo della pop culture coincide, infatti, con il modo in cui essi vengono percepiti dai non addetti ai lavori. E gli addetti ai lavori, dal canto loro, farebbero bene a esserne consapevoli.

Quanto a me, ho iniziato esaminando i modi in cui il diritto internazionale è narrato nei fumetti.

Poi mi sono in qualche modo reso conto che alcuni di questi modi presentano delle peculiarità anche per quanto riguarda alcuni generi musicali estremi, che conosco come ascoltatore e appassionato: sono quindi passato a indagare il modo in cui il diritto internazionale viene utilizzato nella musica heavy metal.

Pertanto, nella “A Side†di questo lavoro proverò ad evidenziare alcuni elementi del rapporto tra sottogeneri non-metal della musica pop e diritto internazionale, elementi che saranno poi utili per tracciare alcune peculiarità degli approcci heavy metal, per poi passare, nella “B Sideâ€, a studiare il caso specifico dell’heavy metal con riferimento a gruppi che, per tematiche e modalità espressive, risultano di particolare interesse, perché trattano esplicitamente aspetti della vita degli Stati e degli individui regolati dal diritto internazionale.

Va detto pure che nell’ambito dell’analisi scientifica e accademica della musica heavy metal, i c.d. heavy metal studies (si vedano, tra gli altri, Wallach, Berger e Greene, o Brown e Spracklen), è quasi del tutto assente uno studio dei profili giuridici (per un’eccezione v. Hiebaum, “Law and Its Cultural Representations (with a Focus on Heavy Metal Studies)â€), dal momento che i medesimi adottano generalmente approcci sociologici, psicologici, culturali, etno-musicologici o più strettamente musicologici. Con questo contributo cercherò quindi di offrire alcuni primi elementi per iniziare a colmare questa lacuna, soprattutto dal punto del diritto internazionale, e ovviamente in modo assolutamente parziale.

Va pure chiarito che un lavoro come quello che sto provando a condurre richiede l’ascolto di una enorme mole di materiale, che deve essere catalogato: l’approccio che ho seguito è stato quello di ascoltare il maggior numero possibile di brani, per raggiungere numeri che fossero idonei a provare a tracciare, qualora ve ne fosse, qualche trend. È impossibile in questo contesto, quindi, descrivere tutto il materiale che ho raccolto e classificato: mi limiterò a utilizzare i brani che mi sono sembrati particolarmente rappresentativi di alcuni approcci che band provenienti da specifici contesti geografico-culturali hanno adottato su questioni legate al diritto internazionale. Spero di poter fornire in futuro un resoconto completo del materiale che sto catalogando.

Infine chiarisco che ho deciso di limitare i miei riferimenti agli artisti che hanno avuto un minimo riscontro di pubblico, per evitare di dovermi addentrare in contesto troppo vasto e sfaccettato come quello underground.

2. Il diritto internazionale nella musica pop: alcuni esempi dall’afrobeat, dall’hip-hop, dal rock

A causa della sempre maggiore irrilevanza dei confini statali – e quindi dell’incapacità del diritto interno di regolare le relative fattispecie – il diritto internazionale (sia “pubblico†sia privato) è chiamato a disciplinare casi transnazionali di rilevanza musicale sotto innumerevoli profili.

Inoltre, come vedremo, il suo contenuto può essere descritto e a volte persino influenzato dalla musica.

In sintesi, potremmo parlare di diritto internazionale della musica e di diritto internazionale nella musica.

Per quanto riguarda il primo, di cui qui non mi occuperò, mi limito a ricordare che il diritto internazionale regola molti aspetti della musica. Per citarne solo alcuni, si pensi alla libertà di espressione che consente la creazione, al plagio, ai diritti degli autori, ai diritti degli sfruttatori e degli utilizzatori, soprattutto nel contesto delle cosiddette nuove tecnologie, alle questioni antitrust legate al rapporto tra operatori commerciali, a quelle legate alla musica dal vivo, in termini di circolazione e sicurezza.

Anche le organizzazioni internazionali hanno riconosciuto il ruolo fondamentale della musica pop anche nella prospettiva culturale: nel 2011 l’UNESCO ha proclamato il 30 aprile Giornata internazionale del jazz, sottolineandone la funzione di promozione di scambio interculturale e comprensione tra culture allo scopo di reciproca tolleranza; ha iscritto nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità, nel 2018, la musica reggae della Giamaica per “its contribution to the international discourse on issues of injustice, resistance, love and humanity†e, nel 2021, la rumba congolese per la sua capacità “to transmit the social and cultural values of the region and to promote intergenerational and social cohesion and solidarityâ€.

Per quanto riguarda il diritto internazionale nella musica, bisogna ricordare che il modo in cui un fenomeno viene descritto attraverso un medium popolare (“popâ€), può dirci molto sul modo in cui lo stesso viene letto dai fruitori di quello specifico medium; inoltre, l’uso dei media pop può aiutare a descrivere alcuni fenomeni regolati dal diritto internazionale e a renderli comprensibili anche a chi non ha specifiche conoscenze, contribuendo così alla diffusione di concetti giuridici sia da una prospettiva didattica che da una più ampiamente divulgativa (la famigerata “terza missioneâ€).

Inoltre, poiché la musica tocca profondamente l’essere umano, essa può rappresentare uno stimolo a riflettere sui temi di cui tratta e, quindi, accrescere la consapevolezza dell’ascoltatore nei loro confronti.

È (solo) in questo senso che in questo scritto ho fatto generalmente seguire all’esempio musicale una brevissima descrizione delle questioni di diritto internazionale che vi sono trattate.

E di esempi del genere ce ne sono a centinaia, in tutti i generi, specialmente in quelli che usano la forma canzone, o almeno hanno testi. Qui mi limiterò ad alcuni esempi non metal, con un approccio casistico, prima di passare al contesto heavy metal, nella B Side.

Fela Kuti (1938-1997) è stato un famoso e prolifico musicista nigeriano che, tra le altre cose, è stato il padre dell’afrobeat, un genere che fonde varie espressioni della musica tradizionale africana e afroamericana come funk, R&B e highlife, ed è diventato noto anche per il suo attivismo politico per i diritti umani e le lotte politiche contro il governo nigeriano.

In Beasts of no nation (1989), ha fortemente criticato il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, definendolo “animal senseâ€:

Dem call the place United Nations

East West Block versus West Block East

No be there dem dey oh United Nations

Disunited United Nations

One veto vote is equal to 92…or more, or more

What kind sense be dat

‘Na animal sense

E, come è ben noto, composizione e tecniche di voto del Consiglio di sicurezza, in particolare l’art. 27 della Carta delle Nazioni Unite, sono un tema ancora molto dibattuto tra i Membri dell’ONU e nella letteratura scientifica, anche in prospettiva di riforme.

Il figlio più giovane di Fela, Seun Kuti (1983-), come attivista politico ha promosso un movimento “for African people all over the world to rediscover themselves. To remember that the only thing that unites black people globally, the only thing we all have in common, is that we are from Africaâ€. Come musicista, nel 2014, nella sua canzone IMF, critica le istituzioni di Bretton Woods per la loro responsabilità nei confronti dei Paesi in via di sviluppo e dell’intero Sud del mondo:

You bring pain

You bring tears

You bring suffering

To my people

International Mother Fucker eh You bring pain

So much lying from the IMF

So much stealing from the IMF

So much killing from the IMF

Manipulation from the IMF

Intimidation from the IMF

Dem and their World Bank brothers

Anche nel diritto delle organizzazioni internazionali poteri, competenze e attività del FMI (cfr. Adinolfi) e della Banca Mondiale (cfr. Cafaro) sono criticati da parte della dottrina per discrezionalità e modalità di esercizio: “interactions with States in the Global South claim that the Fund remains quite captured by the politics of the Washington Consensus, and thus continues to play favorites while promoting or enforcing policies centered on fiscal consolidation on others†(C. Kennedy-Hernandez, in B. Momani, M. Hibben (a cura di), Oxford Handbook of the International Monetary Fund (OUP, Oxford, 2024, 658).

In Here comes the judge, il musicista reggae giamaicano Peter Tosh (1944-1987) immagina poi un processo in cui gli Stati coloniali e imperiali e i loro rappresentanti (Cristoforo Colombo, Francis Drake, Bartolomeo De Los Casos , Vasco De Gama, Alessandro Magno, John Hannon, James Grant, David Livingston, John Constantine, Henry Morgan, Marco Polo) vengono processati per le loro attività:

Silence in the court
The court is in session

You’re all brought here on

Count one: robbing and raping Africa
Count two: stealing black people out of Africa
Count three: brainwashing black people
Count four: holding black people in captivity for more than 300 years
Count five: killing over 50 million black people without a cause
Count six: teaching black people to hate themselves

Come è noto, il diritto all’autodeterminazione, originariamente previsto esclusivamente da norme pattizie, è oggi una regola imperativa del diritto internazionale generale e uno dei cardini dell’ordinamento internazionale contemporaneo. Anche se tale diritto non può essere certamente concepito come il prodotto di una sola e autosufficiente norma, esso è certamente nato nel contesto della decolonizzazione. Nelle parole di Antonio Cassese, l’autodeterminazione era infatti “perceived and relied upon as a legal right to decolonizationâ€.

Nel brano Living like a refugee, i Refugee All-Stars of Sierra Leone, una band formata da un gruppo di rifugiati fuggiti in Guinea durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), attingono alle loro esperienze di vita per narrare le esperienze dei loro simili:

You left your country to seek refuge

In another man’s land

You will be confronted by strange dialects

And you will be fed with unusual diets

You’ve got to sleep in a tarpaulin house

Which is so hot

You’ve got to sleep on a tarpaulin mat

Which is so cold

Living like a refugee is not easy

Il diritto internazionale generale, come noto, non prevede un diritto soggettivo all’immigrazione, non obbliga cioè gli Stati a consentire l’ingresso di tutti gli stranieri sul proprio territorio, rimettendo la disciplina di tale materia alla competenza dell’ordinamento interno e, in assenza di particolari esigenze di protezione (si pensi, ad esempio, all’obbligo di tutela della vita umana in mare), richiede agli Stati di consentire l’attraversamento delle frontiere ai soli propri cittadini. Queste norme, che si limitano a prevedere il diritto dell’individuo di lasciare qualsiasi Paese ma di entrarvi solo in presenza di quel particolare link costituito dalla cittadinanza, riconoscono quindi solo il diritto di emigrazione e di rimpatrio, ma non un diritto di immigrazione, inteso come diritto di entrare in qualsiasi Paese straniero allo scopo di stabilirvisi. Un’eccezione è rappresentata dal caso dell’asilo, che può essere definito, in termini molto generali, come la protezione temporanea o permanente concessa da uno Stato allo straniero che ne faccia richiesta; tale protezione può essere accordata sia accogliendo lo straniero in una delle rappresentanze diplomatiche all’estero (c.d. asilo diplomatico), sia consentendogli di entrare nel territorio nazionale (c.d. asilo territoriale).

Ma se, per quanto riguarda le condizioni di concessione del diritto d’asilo, gli Stati appaiono sostanzialmente liberi da obblighi internazionali, è con riguardo alla categoria dei rifugiati che tali obblighi vengono in rilievo: in questa materia assume, come noto, primaria importanza la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato, il cui art. 1, par. 2 lo riconosce a coloro che abbiano un fondato timore di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le loro opinioni politiche, si trovano fuori del Paese di cui hanno la cittadinanza e non possono o non vogliono avvalersi della protezione di tale Paese (per una distinzione tra asilo e rifugio ai sensi del diritto interno mi permetto di rinviare qui).

Lo stesso drammatico contesto ha ispirato sia il titolo che il testo della canzone del 2005 Diamonds from Sierra Leone del rapper statunitense Kanye West (1977-), che si concentra su una delle circostanze chiave di quella guerra:

They pray for the death of our dynasty like ‘Amen’
Right here stands a man
With the power to make a diamond with his bare hands

Diamonds are forever (forever, forever)
Throw your diamonds in the sky if you feel the vibe

L’ordinamento internazionale contempla una definizione dei cosiddetti “blood diamondsâ€: secondo le Nazioni Unite sono tali tutti i diamanti estratti in regioni sotto il controllo di fazioni contrarie al governo legittimo di uno Stato, venduti per finanziare operazioni militari contro quel governo e per fornire armi e rifornimenti ai ribelli, alcuni dei quali possono intraprendere campagne estremamente violente con notevoli sofferenze delle popolazioni civili. Questa definizione è stata redatta negli anni ‘90, un periodo caratterizzato da gravi conflitti civili in varie parti dell’Africa occidentale e centrale, dove gruppi ribelli operavano appunto in regioni ricche di diamanti. Tre conflitti in particolare, in Angola, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone, hanno attirato l’attenzione della Comunità internazionale sugli effetti dannosi dei diamanti, sebbene problemi simili esistessero in altri Paesi e, nel 2022, le Nazioni Unite promuovono il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), per prevenire il commercio di diamanti insanguinati e per garantire che i diamanti venduti sul mercato internazionale non siano tali. Questa iniziativa, una di quelle catalogate da parte della dottrina come espressione del c.d. informal international lawmaking (v. Pauwelyn, Wessel, Wouters), prevede la collaborazione tra Stati, industria dei diamanti e società civile per creare un sistema che impedisca ai diamanti insanguinati di entrare nel mercato globale. Va detto che l’efficacia del KPCS è stata messa in discussione da alcuni studi che evidenziano come esso non avrebbe affrontato adeguatamente le complessità del commercio di diamanti e le questioni relative alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, da una prospettiva giuridica, è stato pure evidenziato come la definizione delle Nazioni Unite si concentri solo sui diamanti che finanziano le insurrezioni contro un governo, ignorando o sottovalutando situazioni in cui, come ad es. in Zimbabwe, i funzionari di governi pure legittimi usano però la loro autorità sulle operazioni di estrazione diamanti per arricchirsi, mantenere il potere o avvantaggiare i loro sodali, spesso a spese dei minatori e di altri lavoratori. Tuttavia, nel 2024 l’Assemblea generale ha adottato una risoluzione sul “The role of diamonds in fuelling conflict: breaking the link between the illicit transaction of rough diamonds and armed conflict as a contribution to the prevention and resolution of conflicts’â€, in cui si riconosce che il KPCS contribuisce comunque all’attuazione efficace delle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza che impongono sanzioni sul commercio di diamanti insanguinati.

Pure Tony Allen (1940-2020), batterista afrobeat nigeriano che ha suonato a lungo con Fela Kuti canta della precarietà delle migrazioni verso l’Europa in Boat Journey (2014):

Running away from misery

And you can find yourself in a double misery

You don’t decide to leave your misery behind

From the past it was shown in your country

Now you jump into the boat

To cross the ocean with all your family

Looking, looking for better situation across the ocean

But you never arrive

Don’t take the boat journey, my brothers!

Don’t take the boat journey, my sisters!

Anche in Italia, il gruppo alternative rock Consorzio suonatori indipendenti (CSI) cita l’ONU e la NATO in Cupe vampe, brano che narra della distruzione di Sarajevo e della sua biblioteca:

Cupe vampe, livide stanze
Occhio cecchino etnico assassino
Alto il sole, sete e sudore
Piena la luna, nessuna fortuna

Ci fotte la guerra che armi non ha
Ci fotte la pace che ammazza qua e là
Ci fottono i preti, i pope, i mullah
L’ONU, la NATO, la civiltà

Bella la vita dentro un catino
Bersaglio mobile di ogni cecchino
Bella la vita a Sarajevo città
Questa è la favola della viltà

Come è noto, la città di Sarajevo, oggi capitale della Bosnia ed Erzegovina, ha subito il più lungo assedio di una capitale nella storia della guerra moderna, un assedio durato 1.425 giorni (dall’aprile 1992 al febbraio 1996), durante la guerra in Bosnia, che faceva parte delle guerre jugoslave avvenute tra il 1991 e il 2001, dopo lo scioglimento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RFJ). Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha dichiarato che si trattava di un conflitto internazionale, in particolare tra l’esercito bosniaco e l’esercito della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, che mirava ad annettere l’intera Bosnia ed Erzegovina.

(continua)

* Alcuni passaggi di questo lavoro sono stati esposti nel corso di due seminari che ho tenuto il 18 novembre 2024 nell’Università Roma Tre (ringrazio Giulio Bartolini per l’invito) e il 27 novembre 2024 nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (ringrazio Francesca Benatti e Giuseppe Portonera). Per l’idea di suddividere il testo in due “facciateâ€, come se fosse un vinile, sono debitore a Diego Mauri.

Data articolo:Mon, 02 Dec 2024 18:55:36 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Daniele Mandrioli
Dieci anni di Quaderni di SIDIBlog

La Redazione

A un anno dal riconoscimento da parte di ANVUR della dignità di rivista scientifica di fascia A per l’Area 12, i Quaderni di SIDIBlog, giunti ormai al traguardo del X volume, si confermano quale sede deputata all’approfondimento dei principali temi che sono stati posti ‘sotto i riflettori’ di SIDIBlog nell’anno precedente. Si tratta di temi – di sicuro rilievo per il diritto internazionale e dell’Unione europea – che hanno costituito l’oggetto di interessanti dibattiti anche e soprattutto in ambito non accademico. Come da consuetudine, dunque, la gran parte degli studiosi intervenuti nello spazio virtuale di SIDIBlog, dopo aver lì illustrato a caldo e perlopiù allo scopo di meglio far comprendere alla società civile gli aspetti giuridici dei suddetti temi, ha voluto prendersi del tempo per tracciare, in maniera rigorosa e alla luce di ricerche attente, le coordinate giuridiche di riferimento delle questioni rapidamente esposte nei loro precedenti (e necessariamente brevi) post. In altri termini, nei contributi raccolti nel X volume dei Quaderni di SIDIBlog il carattere scientifico si affina rispetto al taglio prevalentemente e volutamente informativo che aveva contraddistinto i relativi post di SIDIBlog.

A questa consuetudine si affianca una novità. Il X volume dei Quaderni di SIDIBlog Ã¨ infatti lieto di ospitare una sezione speciale volta a raccogliere una serie di contributi che si prefiggono di indagare problemi di dirompente attualità per il diritto internazionale e dell’Unione europea a partire dall’approccio terzomondista e quindi dalla visione propria del Global South, spesso ingiustamente negletta nel panorama accademico italiano. È questa una sezione particolarmente ‘giovane’, atteso che mira a ‘raccogliere i frutti’ del XX Incontro annuale dei cultori delle discipline internazionalistiche, svoltosi nel dicembre 2023 presso l’Università Cattolica di Milano. Questa preziosa integrazione è stata resa possibile da Matteo Ceolotto, Luca Lionello, Matteo Manfredi e Omar Vanin, i quali, con l’impeccabile ed energico coordinamento di Mariangela La Manna, dopo aver organizzato il suddetto evento scientifico, hanno curato la raccolta dei contributi confluiti nella sezione speciale.

Il X volume dei Quaderni di SIDIBlog si compone dunque di sei sezioni â€˜ordinarie’ o ‘tradizionali’ e di una sezione speciale.

La prima sezione è dedicata alle implicazioni e reazioni collegate ai due più noti e complessi conflitti armati attualmente in corso, vale a dire quello combattuto tra Russia e Ucraina da ormai più di due anni e quello scatenato da Israele nella Striscia di Gaza, all’indomani degli attacchi terroristici compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023, e successivamente esteso anche alla Cisgiordania. Quanto al conflitto russo-ucraino, Ludovica di Lullo (Università di Parma) e Claudio di Turi (Università della Calabria) hanno scelto di trattare le implicazioni sul piano della sicurezza alimentare mondiale, finora non adeguatamente tenute in conto dagli studiosi del diritto internazionale, specialmente ove si consideri il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Ucraina nella produzione e nel commercio di grano. Con riferimento invece al ruolo di Israele nel conflitto nella Striscia di Gaza, nei lavori di Mauro Gatti (Università di Bologna) e di Luca Poltronieri Rossetti (Scuola Sant’Anna di Pisa) sono esaminate criticamente la reazione non sempre coerente e convincente dell’Unione europea nonché quella inaspettata e ‘in salita’ della Corte penale internazionale. 

La seconda sezione si concentra sull’analisi di alcune recenti politiche migratorie nazionali e sovranazionali e sugli interrogativi suscitati dagli strumenti predisposti allo scopo di realizzarle. Si parte dal contesto italiano con un contributo di Daniele Mandrioli (Università di Milano Statale) inerente all’accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati da parte delle autorità italiane alla luce degli obblighi previsti in proposito dal diritto internazionale. Si passa poi all’ambito euro-mediterraneo con l’inquadramento dei profili di criticità riguardanti il Memorandum d’intesa tra Unione europea e Tunisia da parte di Francesca Perrini (Università di Messina). Si chiude con la discussa questione delle migrazioni causate dal cambiamento climatico nell’area dell’Oceano Pacifico, affrontata da Martina Sardo (Università di Palermo) attraverso l’illustrazione dell’accordo tra Australia e Tuvalu relativo ai c.d. visti ‘climatici’.

La terza sezione si focalizza sugli sviluppi recenti in tema di immunità giurisdizionali sia dello Stato straniero sia dei funzionari internazionali. Sono qui raccolti due scritti. Nel primo, Alessandro Bufalini (Università della Tuscia) effettua una disamina dei problemi collegati al Fondo di ristoro per le vittime italiane dei crimini commessi dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale, recentemente istituito dal Governo italiano come risposta alla celebre sentenza della Corte internazionale di giustizia sulle Immunità giurisdizionali dello Stato del 2012. Nel secondo, Claudia Campese (Università della Campania Luigi Vanvitelli) parte dall’altrettanto celebre caso dell’omicidio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, avvenuto nel 2021 nella Repubblica Democratica del Congo, per proporre spunti ricostruttivi in materia di immunità giurisdizionale dei funzionari del Programma alimentare mondiale.

Nella quarta sezione ci si sofferma sulle evoluzioni e involuzioni che hanno recentemente caratterizzato l’ambito della tutela internazionale dei diritti umani. Aprono la sezione due contributi riguardanti la Convenzione europea dei diritti umani: Lorenzo Acconciamessa (Università di Palermo) propone una sintesi degli sviluppi riguardanti la definizione dello status di vittima ai sensi dell’art. 34 della Convenzione europea, mentre Claudia Morini (Università del Salento) pone l’accento sulla discutibilità dell’approccio adottato dalla Corte europea dei diritti umani rispetto alla violenza nei confronti delle donne nel caso Germano c. Italia. Seguono due contributi rilevanti dal punto di vista della tutela dei diritti umani nell’ordinamento italiano: alle critiche di Gianpaolo M. Ruotolo (Università di Foggia) avverso la ‘segretezza’ dei negoziati intavolati da Italia ed Egitto a margine del processo italiano intentato contro i rapitori egiziani di Giulio Regeni, si affiancano quelle mosse da Antonio Marchesi (Università di Teramo) nei confronti della configurazione progressivamente assunta dal reato di tortura nella legislazione italiana.

La quinta sezione concerne la tutela della persona nei rapporti tra privati connotati da elementi di internazionalità. Michele Grassi (Università di Milano Statale) si occupa della compatibilità con la Convenzione europea dei diritti umani dei limiti che l’ordinamento italiano pone all’iscrizione e trascrizione di rapporti di filiazione derivanti da tecniche di procreazione medicalmente assistita in tutto o in parte vietate in Italia. Partendo dalla sentenza Semenya c. Svizzera della Corte europea dei diritti umani, Anna Liebman (Università di Milano Statale) si interroga su quanto ampio possa essere il sindacato della stessa Corte europea sulla determinazione del contenuto della clausola di ordine pubblico effettuata dai giudici statali investiti della domanda di annullamento di un lodo reso nell’ambito dell’arbitrato sportivo. Infine, Pietro Franzina (Università Cattolica di Milano) fornisce una chiave di lettura delle due proposte concernenti la protezione degli adulti ‘vulnerabili’ nelle situazioni con elementi di internazionalità presentate dalla Commissione europea il 31 maggio 2023.

Nella sesta sezione convergono alcune questioni che hanno rappresentato, o tuttora rappresentano, dei banchi di prova per l’Unione europea. Si parte dalla vicenda del recesso coordinato di quest’ultima e dei suoi Stati membri dal Trattato sulla Carta dell’Energia, di cui si occupa Mattia Colli Vignarelli (Università di Torino), per proseguire con un ulteriore capitolo dell’ormai lunga saga della crisi della rule of law in Polonia, approfondita da Silvia Giudici (Università di Torino) con riguardo alla sentenza sulla c.d. ‘legge bavaglio’. Con Gianpaolo M. Ruotolo (Università di Foggia) l’attenzione si sposta invece su un ambito oggetto di recenti sforzi regolatori quale quello dell’intelligenza artificiale e della responsabilità per la diffusione online di informazioni. Infine, Diletta Danieli (Università di Verona) e Giacomo Biagioni (Università di Cagliari) si concentrano sulla proposta della Commissione europea di un regolamento in materia di giurisdizione, legge applicabile ed efficacia delle decisioni straniere in materia di filiazione, elaborando, rispettivamente, un quadro d’insieme della suddetta proposta e un’analisi degli aspetti critici del parere motivato con cui il Senato italiano ha ritenuto la stessa proposta contraria al principio di sussidiarietà.

La sezione speciale cui si è fatto cenno supra chiude questo X volume dei Quaderni di SIDIBlog. Essa si compone a sua volta di tre parti, precedute dall’introduzione dei curatori. La prima parte si prefigge di esaminare il rapporto tra il Global South e le regole di vita di relazione internazionale, ponendo in evidenza gli aspetti legati sia alla contestazione sia al rinnovamento di tali regole; sono qui raccolti i lavori di Irene Miano (Graduate Institute di Ginevra), Rachele Marconi (Università di Cagliari), Valeria Casillo (Università di Napoli Federico II), Edoardo A. Rossi (Università di Urbino) e Bernardo Mageste Castelar Campos (Università di Milano Bicocca). La seconda parte si incentra sull’analisi delle istanze del Global South nei rapporti economici internazionali, con particolare riguardo ai settori del commercio, degli investimenti e della gestione delle risorse naturali; questa parte si compone dei contributi di Ilaria Castagna (LUISS Guido Carli di Roma), Magdalena Greco (Università Bocconi di Milano), Antonio Attolico (LUISS Guido Carli di Roma) e Gabriele Redigonda (Università di Firenze). La terza e ultima parte concorre a ‘immergere’ gli attuali e noti problemi giuridici concernenti la tutela internazionale dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico nella prospettiva del Global South; sono qui confluiti gli scritti di Virginia Remondino (Università di Bologna), Francesca Neyroz (Università di Bologna), Giorgia Pane (Università di Palermo) e Anna Iermano (Università di Salerno). La sezione speciale beneficia del rapporto conclusivo di Lorenzo Gradoni (Luxembourg Centre for European Law), senz’altro idoneo a suscitare nei lettori non poche riflessioni inerenti anche e soprattutto a questioni di metodo e a problemi strutturali.

Data articolo:Tue, 12 Nov 2024 13:32:45 +0000
diritto internazionale pubblico a cura di Veronica Botticelli
Back to the Future? Early Insights Into the Gains and Gaps of the UN Pact for Future and Annexed Declaration on Future Generations 

Veronica Botticelli (Università degli Studi di Milano)

Introduction

On 22-23 September 2024, in the days preceding the 79th session of the General Assembly of the United Nations (UN), over one hundred and thirty heads of State and Government, as well as UN agencies, non-governmental organizations (NGOs), civil society organizations, academic institutions, actors of the private sector, and youth representatives have gathered at UN headquarters in New York for the much-awaited Summit of the Future: Multilateral Solutions for a Better Tomorrow (hereinafter, ‘Summit of the Future’, ‘the Summit’, ‘SoF’) (for an overview of the Summit’s main outcomes, see here, here, and here; for a recent critical assessment, see here). 

The idea of a Summit of the Future as a «once-in-a-generation» opportunity to strengthen the multilateral system while navigating twenty-first-century challenges was first put on the table in 2020, on the occasion of the Declaration on the Commemoration of the 75th anniversary of the United Nations. Amidst a UN General Assembly’s session whose agenda has been significantly shaped by the impact of the COVID-19 pandemic, Member States seized the opportunity to issue a universal appeal and pledged to enhance global governance, asking the UN Secretary-General to deliver recommendations on the matter. António Guterres promptly endorsed such ‘call to action’ with the adoption, in 2021, of Our Common Agenda (OCA), a soft law instrument released in the form of a blueprint document. This document calls for a new era of «networked and inclusive multilateralism» that would strengthen global solidarity between people, countries and generations to advance a reconsideration of the multilateral framework and to bolster the implementation of the existing international commitments. To provide assistance to Member States in these endeavours, the UN Secretary-General presented a series of proposals, articulated in 11 Policy Briefs, which served to further elaborate upon the initial ideas outlined in the OCA.

However all-encompassing and, in some respects, high-sounding, the term future as used in the title of the Summit primarily signifies the necessity «to forge a new global consensus on multilateral solutions to current and future problems». Put it otherwise, the Summit of the Future will serve the purpose of ‘adjusting the shot’ with respect to aspirations and obligations which have already been the subject of attention of several international instruments – both of hard law and soft law –, in the light of some recent global concerns and events. Indeed, while establishing the modalities for the Summit of the Future, Resolution A/RES/76/307 of the UN General Assembly recalls a number of documents which, building on milestone initiatives such as the Stockholm Declaration and the Rio Declaration, are forward-thinking in nature. These include the 2030 Agenda for Sustainable Development, the Addis Ababa Action Agenda of the Third International Conference on Financing for Development, the United Nations Framework Convention on Climate Change, and the Paris Agreement. Despite a strong focus on climate and environmental concerns, these documents encompass an intergenerational perspectives. The goal of the Summit of the Future is to consolidate the various dimensions of intergenerational justice within a single document, committing Member States to fifty-six actions, distributed in five different areas: advancing sustainable development and its financing; promoting international peace and security; supporting science, technology, and digital innovation; addressing the interests of youth and future generations; and transforming global governance.

Against this background, the principal objective of the Summit of the Future was to translate this ambitious vision into concrete measures. This was to be achieved through the adoption of an intergovernmental, action-oriented, Pact for the Future (hereinafter, ‘Pact’). The Pact, enclosed to the UN General Assembly’s Resolution A/RES/79/1, represents the Summit’s 42-page outcome document. It sets out an ambitious ‘to-do-list’ formulated by the UN Member States in accordance with the latest expression of consensus. 

The Summit approved the Pact and its two annexes – the Global Digital Compact and the Declaration on Future Generations (hereinafter, ‘Declaration’) after nearly nine months of arduous negotiations beginning earlier this year. A restricted group of seven countries failed to pass a last-minute amendment proposed by Russia and endorsed by its current allies (Belarus, Korea, Iran, Nicaragua, and Syria). Relying on the principle of non-interference in domestic affairs as set out in Article 2(7) of the UN Charter, the proposed amendment advocated for the Pact to be postponed and revised, underlining that many of the key issues addressed therein are matters of domestic jurisdiction in which the UN should abstain from intervening. 

The Summit of the Future: Glass Half-Empty or Half-Full?

The timing of the convening of the Summit of the Future could not have been more appropriate. As also emphasized by António Guterres at the beginning of the 79th session of the UN General Assembly, the Summit has been crucial because «the challenges we face are moving much faster than our ability to solve them». At present, humankind is thus confronted with a multitude of catastrophic and existential threats altering (and, in some cases, plaguing) the world, including climate change and artificial intelligence, as well as escalating international armed conflicts and increasing inequality and poverty. At a moment when the world is undergoing unprecedented transformation, the time is ripe for revamping international cooperation. 

In this sense, the good news is that, to paraphrase Mark Twain’s famous words, «the reports of the death of multilateralism have been (greatly) exaggerated». Indeed, despite the multifaceted and yet precarious geopolitical context, UN Member States still demonstrate a commitment to global cooperation. As the UN Secretary-General has observed, «multilateralism has been brought back from the brink».

However, as the following analysis will attempt to discuss, the bad news is that the Pact of the Future and the Declaration on Future Generations did not live up to expectations.

If it is indeed the case that States were ultimately able to achieve a consensus, it can be argued that such a consensus was the result of a series of compromises that were made regarding the terms of global cooperation. The most significant diplomatic fracture during the negotiating process does not follow the expected East-West axis. Instead, it runs along the North-South divide, creating a rift between the more influential countries of the Global North, which have historically been regarded as the primary architects of the international global order, and developing and post-colonial nations belonging to the Global South, who are beginning to make their voices heard and their needs expressed.

Consequently, the Pact and the Declaration suffer from several structural and substantive shortcomings. In terms of language, both the Pact and the Declaration have been shaped by the necessity to strike a balance between different perspectives, reflecting the need to accommodate the views of a diverse range of stakeholders. This approach has resulted in a certain degree of cautiousness and vagueness regarding the creation of new commitments or the reaffirmation of existing obligations on the part of States or other non-state actors, such as corporations. Instead of passing new legally binding agreements, the forms and methods of soft law have been preferred. Conversely, the Pact and the Declaration failed to adequately address some of the most pressing global concerns. These include international governance issues such as, inter alia, the much-discussed reform of the UN Security Council and the functioning of the international financial architecture, as well as general and all-encompassing issues, i.e. the fight against climate change, disarmament, arms control and non-proliferation of nuclear and chemical weapons, the need to address global democratic backsliding, the questions of the rights of future generations and the imperative to represent their interests in current decision-making processes.

The Pact for the Future: A Road Paved with High Expectations and Unavoidable Compromises

The journey towards the adoption of the Pact for the Future began over a year and a half ago, spearheaded by the appointed co-facilitators, the Permanent Representatives of Germany and Namibia. Their work, guided by UN General Assembly Resolution 76/307 and Decision 77/568, entailed a series of closed informal consultations with Member States, NGOs, civil society and academia, with the aim of gather inputs that would have provided concrete and action-oriented recommendations. Following the introduction of a 20-page Zero Draft in a co-facilitators’ letter of 26 January 2024, several revisions were made (Rev.1, issued on 14 May;  Rev.2 published on 17 July; Rev.3, released on 27 August). The final amended version (Rev.4) was made available on 13 September, in advance of the Summit. The almost forty-page definitive version of the Pact begins with an inspirational call to action, underscoring that the contemporary interlinked challenges are beyond the capacity of «any single State alone» to resolve. 

The revisions regarding sustainability highlight a focus on poverty eradication, climate finance, and international tax cooperation. Great attention is given to the 17 Sustainable Development Goals (SDGs), common but differentiated responsibilities (CBDR), and support for developing nations. The final text strengthens provisions on social protection, innovative financing, and gender equality, though some language, particularly on disaster risk management and tax avoidance, was softened for consensus. In terms of international peace and security, initial commitments around disarmament were progressively scaled back. Concrete actions were introduced for civilian protection, nuclear disarmament, and compliance with International Court of Justice (ICJ) judgments and orders, but Rev.3 removed restrictions on the ability of UN Security Council’s Permanent Members to exercise their veto power in cases of mass atrocities. By Rev.4, key commitments related to nuclear weapons, youth involvement, and climate-security connections were also reduced. Rev.1 expanded science, technology, and digital innovation (STI) policy to include social sciences, human rights, and gender equality, with a focus on North-South cooperation. Later revisions addressed technology transfer, particularly for developing nations, though Rev.4 removed references to intellectual property rights, reflecting a cautious approach to STI governance. Concerning youth and future generations, revisions reinforced youth participation and inclusivity, with an emphasis on removing legislative barriers and protecting marginalized groups. The text shifted from recognition to a more actionable framework, though the prescriptive tone may have weakened some protections. Finally, in global governance reform, already existing commitments to UN Security Council’s reform and transparent leadership selection were reinforced. Provisions on environmental cooperation, climate finance, and debt relief were accorded a significant degree of priority, whereas commitments to women’s representation, civil society participation, and human rights were diluted in subsequent drafts.

As anticipated, the achieved consensus conceals critical divergences of opinion lying beneath the surface, particularly with regard to the most recurrent questions. It is therefore worthwhile to unpack and further examine such chiaroscuros, with a specific focus on cross-cutting themes such as sustainable development, climate change and environmental protection, nuclear weapons, and institutional reforms of the UN.

First and foremost, sustainable development is, quite unsurprisingly, the most frequently used expression in both the Pact and its annexes, being cited on 147 occasion (for a comparison, the term ‘peace and security’ is mentioned only 39 times). The Pact reiterated the pivotal role of the Agenda 2030 in bolstering sustainable development, and showcased UN Member States’ commitment to the implementation of the SDGs. The Pact’s acknowledgment of the importance of «scaling up» financial resources for developing countries in STI represents a considerable advance. Furthermore, the Pact commits States to the ‘accelerate reform of the international financial architecture’ (Action 47). This remains one of the most significant challenges, with diametrically opposed positions between developed and developing countries. In rhetorical terms, all governments express support for the objective of a more inclusive, equitable, and representative system of global economic governance. In practice, wealthy members of the Organization for Economic Cooperation and Development (OECD), led by the United States, argue that the details of any reform of the International Financial Architecture (IFA) should not be discussed and determined within the context of the one-nation-one-vote UN General Assembly’s voting method. They contend that the debate should occur within other frameworks entrusted with the requested competence to address financial issues, such as the International Monetary Fund and the World Bank, where OECD nations benefit from weighted voting. As expected, this stance has fallen on deaf ears among governments from the Global South. The lack of progress on demands for a greater voice in international financial institutions and more generous access to development and climate finance, emergency credit lines and debt relief has led to widespread frustration and skepticism among low- and middle-income countries. Such States are convinced that a compromise that lacks details will ultimately prove ineffective. The co-facilitators from Germany and Namibia have striven to reach a compromise between the developing countries’ aspiration for more prescriptive language and the opposition of several industrialized countries that believe these elements would be better addressed in the context of a dialogue fostered in the international financial institutions whose functioning is perceived to accommodate Western States’ aspirations and needs. One positive aspect of this debate is the intention to convene a biennial summit at the level of Heads of State and Government with the aim of strengthening the links between these financial institutions and the UN. Nevertheless, it seems likely that a considerable number of these controversial issues will persist into 2025.

The so-called Zero Draft of the Pact endorsed the objective of transitioning away from fossil fuels. However, during the negotiations, a related provision was deleted as a result of the opposition from oil and gas producers. In response to an appeal raised by a group of scientists and experts in the field, as well as a number of former world leaders, the latest iteration of the text includes the language agreed at COP28 in Dubai last December. They reaffirmed the call for Member States to transition away from fossil fuels in a ‘just, orderly and equitable manner’, so as to achieve the goal of net zero global emissions by 2050 and to commit signatories to a doubling of energy efficiency and tripling of renewable energy (Action 9(c)). It also refers to the loss and damage fund, which is intended to provide compensation to nations that have suffered as a result  climate change (Action 9(j)). In addition, it calls for a significant «scaling up» of adaptation financing (Action 9(i)). With a view to accelerating global efforts to restore, protect, conserve and sustainably use the environment, UN Member States reaffirmed their commitment to address the pollution of air, land and soil, fresh water and the oceans, including the sound management of chemicals. Furthermore, they expressed their intention to carry out negotiations towards an international legally binding instrument on plastic pollution, including in the marine environment, with the ambition of adopting a treaty text by the end of 2024 (Action 10(d)).

Despite the Pact’s affirmation of the UN Security Council’s pivotal role in maintaining peace and security (Action 21), the question of its potential expansion continues to present significant challenges for the international community. This is because UN Member States are still unable to reach a consensus on the crucial aspects involved, resulting in an ongoing impasse. The most controversial issue includes the composition of a possible expanded UN Security Council and, specifically, whether it should include new permanent members or only elected members, and whether any new permanent ones should enjoy veto power. The final version of the Pact, as per last adopted; however, it does not begin to unravel the knot by acknowledging the need to make the UN Security Council ‘more representative, inclusive, transparent, efficient, democratic and accountable’ (Action 39). It advances a set of guiding principles for reform, including the proposition that any possible enlargement should «redress the historic injustice against Africa» (Action 39(a)) and other «underrepresented» regional groups (Action 39(c)), and strike a balance between the goal of representativeness and effectiveness (Action 39(b)). Furthermore, the Pact also calls for agreement on the categories of the UN’s Security Council’s memberships (Actions 39(d) and (e)), and on the scope and limits of the veto (Action 39(g)). It also includes a provision to review periodically whether the Security Council is «deliver[ing] on its mandate and remains fit for purpose» (Action 39(h)). In a procedural development worth noting, the Pact authorizes the negotiation’s co-facilitators to consolidate a unified framework based on the different models of enlargement proposed by UN Member States. Additionally, the Pact calls for the implementation of a UN Charter provision requiring countries involved in an armed conflict to refrain from voting on resolutions seeking the pacific settlement of that dispute. Ultimately, the Pact contains constructive language that endorses the UN General Assembly’s increasing activism on peace and security issues. This include instances when the UN Security Council’s activity is paralyzed by the veto, encouraging continued use of both the Uniting for Peace and Veto Initiative resolutions (Action 41).

The Pact contains strong language in support of nuclear non-proliferation and the non-use of nuclear weapons. This is exemplified by an explicit statement that ‘nuclear wars can never be won and must never be fought’ (Action 25). In this respect, several UN Member States have reaffirmed their commitment to the prohibition of nuclear weapons, in accordance with the obligations enshrined in the 2017 Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons (Ban Treaty). However, as known, all five recognized nuclear weapons States (the United States of America, Russia, China, France, and the United Kingdom) are not parties to the Ban Treaty, which raises questions about the credibility and efficacy of such commitment. Furthermore, States advanced the position that biological agents and toxins should be entirely excluded from any potential use of weapons, in a manner consistent with the obligations set forth in the 1971 Biological Weapons Convention, as annexed to the UN General Assembly’s  Resolution 2826 (XXVI). During the negotiations, a number of delegations have presented a joint proposal for a bridging text, which drew upon existing language agreed to in previous UN agreements. Nevertheless, a considerable number of non-nuclear weapons States have been reluctant to endorse this approach, advocating for more ambitious commitments.

The Declaration on Future Generations: Unresolved Questions of Law, Rights, and Representation 

Decision 77/568 of the UN General Assembly committed Member States to adopt a Declaration on Future Generations which, once approved – as eventually happened â€“, would be annexed to the Pact for the Future. The appointed co-facilitators of the Declaration, H.E. Mr. Brian Cristopher Manley Wallace of Jamaica and H.E. Ms. Yoka Brandt of the Netherlands, led virtual informal consultations with stakeholders in early 2024.

The Zero Draft of the Declaration on Future Generations, which was announced on 26 March 2024,  aimed to ensure a better future for generations to come by promoting peace, human rights, poverty eradication, and global cooperation. Member States emphasized the need for an action-oriented and inclusive approach, with a particular focus on economic issues, gender equality, intergenerational solidarity, and the role of the UN Charter and international law. Maintaining international peace, preserving a sustainable environment and upholding multilateralism have been envisaged as crucial priorities.

On 31 May 2024, the co-facilitators released the revised draft (Rev.1) accompanied by a brief explanatory notedelineating in details the transition process from the initial draft to the revised version. During a virtual briefing on 12 June 2024, stakeholders highlighted the need for youth engagement, harm reduction strategies, and combating discrimination. The discussion stressed safeguarding human rights, addressing inequalities, and enhancing youth participation in policymaking, with a focus on the precautionary principle and sustainable development.

Subsequent revisions (Rev.2announced on 2 July; Rev.3released on 13 August) refined the text, reaffirming commitments to the UN Charter, the Universal Declaration of Human Rights, and the 2030 Agenda for Sustainable Development. Rev.3 introduced stronger language on matters of safety, environmental stewardship, and the ethical governance of technology, while expanding commitments to vulnerable groups, gender equality, and indigenous people’s rights. Furthermore, it encourages a ‘whole-of-society’ approach facilitating broader collaboration, and articulates a clearer vision for effective multilateralism to address upcoming challenges. Ultimately, Rev.3 served to reinforce the principles of inclusivity and proactive strategies, while also highlighting the necessity for immediate action and collective responses to emerging global issues. The final version, Rev.4, reiterates international global governance, cultural restitution, and technological cooperation, providing a forward-thinking framework for the protection of future generations and their well-being.

A comprehensive and integrated reading of both the Pact for the Future and the Declaration on Future Generations, however, gives rise to a sense of disappointment at the apparent failure on the part of the United Nations and its Member States to meaningfully engage with the (human) rights of future generations (FGs). It is thus regrettable that the considerable opposition from some actors to putting rights at the heart of the «new international consensus on how we deliver a better present and safeguard the future» to be forged at the Summit appears to have been largely successful. Among other things, there has been a notable loss of language making explicit references to the right to the highest attainable standard of health for FGs in the text, despite its presence in previous iterations. Furthermore, no references have been made concerning the right to a clean, healthy and sustainable environment, despite recent developments in this regard at the UN level. In this context, it is worth mentioning the adoption, in 2022, of a landmark General Assembly’s resolution based on a similar declaration of the Human Rights Council, as well as the appointment of a UN Special Rapporteur entrusted with a specific mandate on this topic.

More generally, the Declaration makes reference to vague concepts such as «needs and interests», «prosperity» and «well-being» of FGs, carefully avoiding language pertaining to rights and obligations, as well as any suggestion of a burden of accountability on States. The furthest the Declaration goes in terms of acknowledging any role of States in protecting FGs is to recognize «the primary role and responsibility of governments, at all levels, in accordance with their respective constitutional frameworks, towards safeguarding the needs and interests of future generations» (Declaration for Future Generations, p. 60). It is noteworthy that the operative part of the Declaration, under the heading ‘Actions’, makes no mention of rights language whatsoever.

This appears to be in stark contrast with the Pact, which is thus replete with references to the concept of ‘human rights’ (although these are used with reference to youth and, thus, present generations). During the negotiating process, a number of authoritarian governments, with the support of the Group of 77 at the UN – a 134-member coalition of developing countries – have proposed a shift in language, focusing on sustainable development rather than on human rights. Several Western nations – particularly those within the European Union – have deemed previous drafts to be inadequate in their commitment to human rights, and have advocated for a more explicit inclusion of human rights language.

While the Declaration remains unambiguously silent on the rights of future generations, the Pact ultimately incorporates more extensive references to concepts such as «human rights» and «humanity» than many had anticipated. Nevertheless, these concept are deliberately confined to present generations.

Doubts remain as to whether a focus on the needs and interests of future generations will be sufficient to achieve meaningful intergenerational equity, justice and solidarity. In this regard, the accelerated developments on legal protection and enforcement of FGs rights at the national level â€“ which the Declaration refers to, albeit avoiding an explicit mention of ‘rights’ in this regard – may result in a rapid obsolescence of the Declaration.

Although this is definitely not good news for those arguing for an increased recognition of FGs rights, (see, inter aliaWewerinke-Singh, Garg and Agarwalla), the Declaration’s â€˜non-rights’ approach, while ostensibly contradictory, reflects the necessity to maintain a focus on current generations (as argued by Humpreys here and here). This is also consistent with the current international legal framework, as well as with recent judicial practice.

Several binding and non-binding legal instruments refer to the importance of considering the needs and interests of future generations through the development of general principles, such as those related to sustainable development and intergenerational equity (for a detailed examination of this topic, see Brown-Weiss and Gianelli). Biodiversity, climate, peace and security, nuclear safety, industrial safety and catastrophe prevention, health, education, cultural heritage, scientific and technological progress, values and traditions are some issues on the substantive side. On the other hand, with respect to the procedural dimension, future generations language can be identified in various instruments advocating for the establishment and mise en Å“uvre of dedicated institutions (for a tour d’horizon on the matter, see Anstee-WedderburnBeckman, and Schuessler and Gillerke). International treaties, declarations, and other instruments that mention future generations represent indeed a precursor to a much larger corpus of legal documents which refer to sustainable development as a concept that should be understood in terms of intergenerational equity or justice. For example, Dire Tladi observed that a considerable number of environmental agreements contain the expression ‘sustainable development’ either directly or in a circumscribed manner using other words that convey a similar meaning. Indeed, sustainable development «has been included in virtually every recent treaty and policy document on the environment». The problem with this rather fragile international legal commitment is that references to future generations are made mostly in the preambles, or in the main text body but in aspirational language (Tladi, Sustainable Development in International Law: An analysis of key enviro-economic instruments, pp. 42-43). In this regard, the ICJ consistently concluded that, while not binding, preambles may be ascribed (variable) influence on the way in which a treaty is interpreted, in accordance with Articles 31(2) and 32 of the 1969 Vienna Convention on the Law of Treaties (see South West Africa (Ethiopia v. South Africa; Liberia v. South Africa), Second Phase, Merits, paras. 49-50;  France v. The United States, Judgment, paras. 196-198; Nicaragua v. Colombia, Preliminary Objections, para. 106; Guinea-Bissau v. Senegal, Judgment, para. 56; on the function of preambles vis-à-vis treaty interpretation, see further Moïse MbengueKlabbers, and Hulme).

Furthermore, the extension of current rights to future generations has been called into question in the context of the recent caselaw of the European Court of Human Rights (ECtHR) pertaining to the three landmark climate change decisions (KlimaSeniorinnenCarêmeDuarte Agostino et al.; for a quick analysis of these decisions, see for example MilanovićPedersen, and Heri). The judgment issued in KlimaSeniorinnen â€“ the sole application which succeeded in reaching the merits phase – does not rely on future generations’ rights, even though there are several references to the intertemporal nature of the duties imposed upon States with regard to the protection of climate (KlimaSeniorinnen, para. 420; 548). In this context, to quote Netto’s catchy title, the ECtHR «resisted the allure» of future generationsadopting instead a duty-based approach rather than a rights-based approach. The Court’s reasoning was thus confined to the necessary changes within Switzerland’s domestic legal system to establish and reinforce States’ positive obligations with respect to climate action. In doing so, the ECtHR was able to strike a balance between right-based climate litigation and climate action as a legal obligation of States arising from the interpretation of the fundamental rights and freedoms set forth in the Convention.

While the majority of international legal instruments do not explicitly address the relationship between human rights and future generations, the rights of future generations have recently emerged as a topic of interest in several initiatives. To illustrate, the 2023 Maastricht Principles on the Human Rights of Future Generations provided a comprehensive elaboration on the this subject. Moreover, the UN Special Rapporteur on the Right to Development, Mr Surya Deva, has published a thematic report suggesting a number of policy shifts with the objective of establishing an ecosystem supportive of the human rights of future generations. Circumscribing our analysis to the main points concerning FGs, the UN Special Rapporteur first urged the importance of employing a rights-based approach, rather than framing discussions in terms of needs or interests, when addressing the concerns of future generations. Furthermore, the concept of future generations should be conceptualized as encompassing all organisms that will exist on Earth in the future, rather than solely human beings, understanding nature as a collective entity that includes both human and non-human beings. This approach echoes the recent caselaw of the Inter-American Court of Human Rights (IACtHR) concerning the right to a healthy environment (RHE), protected under Article 26 of the American Convention on Human Rights. Drawing from both its Advisory Opinion OC-23/17 and the judgment rendered in the Lhaka Honhat v. Argentina case, in La Oroya the IACtHR elucidated the distinction between the right to water, to be understood from an anthropocentric perspective, on the one hand, and the right to water free of pollution as a substantive aspect of the RHE and, as such, should be understood from an ecocentric perspective, on the other hand (La Oroya, para. 124; for a discussion on ecocentric approaches in international law, see De Vido and Cerulli).

Furthermore, the UN Special Rapporteur recommended that the protection of the human rights of future generations be integrated into the activities of all UN institutions and other international and regional organizations, advocating for enhanced representation of FGs within the institutional framework (for an exhaustive analysis of the matter of FGs representation, see González-Ricoy and Gosseries, especially Part 3). In this regard, it is noteworthy that several recent proposals to enhance the representation of FGs’ needs and interests (see, among others, Amoroso and Ciliberto’s suggestion to reinstate the UN Trusteeship Council, which has been divested of its original functions, to a central role in representing FGs in the context of the UN) have fallen to deaf ears of Member States, who have not yet reached a decision on this matter.

It thus seems likely that, at least for the time being, future generations will be unable to engage effectively in the political discourse and, more specifically, in the decision-making processes at the national and international levels. Although the Pact calls for a strengthening of «meaningful youth participation» (Actions 39 and 40), the Declaration merely â€˜takes note’ of the UN Secretary-General’s intention to appoint a Special Envoy for Future Generations. Notwithstanding the consensus among several governments that the UN should consider the intergenerational implications of its decisions, a significant number of States have instead been reluctant to establish a permanent institution for FGs, citing concerns regarding funding and organizational structure

The failure to provide a definitive response or, at the very least, some concrete suggestions to the question renders both the Pact and the Declaration rather anachronistic vis-à-vis the recent practice of a growing number of domestic legal systems, which have institutionalized the FGs’ representation via the appointment of a national Ombudsman (some virtuous examples are provided by Lawrence and Szabó).

In order to identify some of the positive aspects of the Declaration, it is encouraging to observe a convergence with the legal definition of ‘future generations’ as set out in some recent legal initiatives. The term «future generations» is now defined in a clear and unambiguous manner as «encompassing all those generations that do not yet exist, and who will inherit this planet» (Declaration for Future Generations, Preamble). This represents a promising development, particularly in light of the absence of a consensus on the definition of future generations in international law. For example, scholarship has on occasion referred to future generations as explicitly including the present generation and children. This is particularly evident in the field of climate change litigation, where the protection of the human rights of present-day children and young people (acting as ‘proxies’ for future generations) allows for the full enjoyment of the same rights at an adult age to be jeopardized (see, inter aliaNolan and Sulyok).

Conclusion: A Missed Opportunity to Shape Tomorrow’s Legal Commitments

Although the final outcome of the Summit of the Future and the aspirations set forth therein represent a laudable effort to promote multilateralism in an era characterized by fragmentation, conflict, and global crises, the ultimate result cannot be regarded as entirely satisfactory.

The contents and goals of the Pact for the Future and the Declaration for Future Generations appear to have been the result of a process of downward negotiation. This indicates that the extant multilateral framework, which was designed to promote cooperation, is currently struggling. The increasing polarization among global institutions has resulted in a weakening of the collective decision-making process. The inability to address pressing issues such as mounting debt, environmental degradation, and humanitarian crises is symptomatic of these systemic weaknesses.

The Summit’s call for a renewed commitment to multilateralism is undoubtedly ambitious. However, unless these purposes are supported by genuine political will and, above all, actionable strategies couched in terms of enforceable obligations, they are at risk of being undermined. In such scenario, repeatedly invoking aspirations that are not supported by any legal conviction might, at best, have no adverse effects and, at worst, significantly weaken the very multilateral system that they aim to bolster.

In conclusion, the Summit of the Future can be seen as a call to action without any intention of action whatsoever. The true test will be whether States demonstrate their willingness to move beyond rhetoric and translate the proposed framework into concrete and enduring solutions that encompass legal commitments and obligations. In the absence of such action, it seems highly probable that the Pact of the Future and its annexes will rapidly become an ineffective relic of the past. As the UN Secretary-General has emphasized, «the Summit of the Future sets a course for international cooperation that can meet expectations […] now, let’s get to work»: time is thus (more than) ripe for all stakeholders to embark upon the realization of this vision without delay. 

*This contribution presents some provisional findings of the research conducted under the PRIN 2022 Project entitled: ‘FUEL-IT: FUture gEnerations and international Law: boosting an ITalian response’.

Data articolo:Tue, 15 Oct 2024 09:50:00 +0000
diritto dell'Unione europea a cura di Roberta Greco
LA DIRETTIVA SUL DOVERE DI DILIGENZA DELLE IMPRESE AI FINI DELLA SOSTENIBILITÀ: QUALE PORTATA EXTRA UE?

Roberta Greco (Università di Teramo)

1. Premessa

In data 5 luglio 2024, dopo un lungo iter negoziale iniziato con la proposta della Commissione europea del febbraio 2022, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la Direttiva (UE) 2024/1760 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937 e il regolamento (UE) 2023/2859 (di seguito “Direttivaâ€). 

In breve, l’oggetto della direttiva è triplice. In primo luogo, impone agli Stati membri di stabilire obblighi di due diligence in materia di sostenibilità – sia in termini di tutela dei diritti umani che dell’ambiente – che incombano alle società non solo nell’ambito delle proprie attività, ma anche di quelle delle filiazioni (termine utilizzato dalla Direttiva per indicare le società sussidiarie o controllate) e dei partner commerciali nella catena di attività (art. 1, comma 1, lett. a). In breve, detti obblighi consistono nell’identificare, prevenire, attenuare, arrestare, minimizzarne l’entità e fornire riparazione per gli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente che potrebbero derivare dalle attività delle società, filiazioni e partner commerciali (art. 5). 

L’ambito di applicazione ratione materiae della Direttiva in relazione ai diritti umani è tuttavia limitato e sottoposto a una serie di condizioni che peccano per difetto di chiarezza (Meyer e Patz). Nello specifico, per impatto negativo sui diritti umani la Direttiva intende un impatto su persone causato da un abuso (termine quest’ultimo utilizzato dalla Direttiva in luogo di violazione) di un diritto umano elencato nell’allegato alla Direttiva (parte I, sezione 1; a titolo meramente esemplificativo divieto di lavoro minorile, di lavoro forzato, di schiavitù e tratta) e sancito dagli strumenti internazionali di cui al medesimo allegato (parte I, sezione 2) (art. 3, comma 1, lett. c.i). In alternativa, se un abuso di un diritto umano non è elencato nella parte I, sezione 1, di detto allegato, ma il diritto è sancito dagli strumenti elencati nella parte I, sezione 2, dello stesso, devono sussistere ulteriori condizioni perché possa darsi un ‘impatto negativo’: segnatamente, occorre che il diritto possa essere oggetto di abuso da parte di una società o una persona giuridica e che il rischio di abuso sia ragionevolmente prevedibile (art. 3, comma 1, lett. c.ii). 

L’impatto negativo sull’ambiente è determinato, invece, dalla violazione di divieti e obblighi elencati nel citato allegato alla Direttiva (parte I, sezione 1, punti 15 e 16, e parte II), quali ad esempio il divieto di causare qualsiasi degrado ambientale misurabile (art. 3, comma 1, lett. b) (vedi Rouas, Otten e Torán). 

In secondo luogo, la direttiva detta norme in materia di responsabilità per le violazioni degli obblighi di due diligence da parte delle imprese (art. 1, comma 1, lett. b). Tale responsabilità viene fatta valere attraverso un duplice regime complementare: uno di natura amministrativa, che si regge su autorità di controllo indipendenti dotate di poteri di supervisione, vigilanza e sanzionatori (artt. 25-28, Krajewski) e un regime di responsabilità civile volto a garantire alle vittime il pieno risarcimento del danno (art. 29).

Infine, la Direttiva stabilisce che sulle società devono incombere obblighi di adottare e mettere in pratica piani di transizione volti a mitigare i cambiamenti climatici assicurando, con il massimo impegno possibile (best efforts), la compatibilità del proprio modello e strategia aziendale con la transizione verso un’economia sostenibile, nel rispetto del limite del riscaldamento globale di 1,5 ÌŠC previsto dall’Accordo di Parigi (art. 1, comma 1, lett. c).

Gli obblighi sinora descritti sono rivolti agli Stati membri dell’Unione affinché questi li impongano alle società costituite in base al diritto interno di uno Stato membro dell’Unione, alle società di Stati costituite secondo la normativa di uno Stato terzo operanti nel mercato interno europeo, nonché alle società con accordi di franchising o di licenza nell’Unione, a condizione che raggiungano elevate soglie occupazionali e/o di fatturato (art. 2). Ciò, evidentemente, al fine assicurare che le società destinatarie dei nuovi obblighi siano capaci di sostenere gli investimenti necessari a rispettarli e a fornire assistenza ai partner commerciali di piccole e medie dimensioni.

Di particolare rilievo è l’ambito di applicazione soggettiva degli obblighi di cui alla Direttiva, i quali sono imposti anche alle grandi società di Stati terzi operanti nel mercato europeo e, indirettamente, ai partner commerciali operanti fuori dall’UE, per effetto del dovere che incombe sulle società destinatarie della Direttiva di adoperarsi per prevenire, limitare e porre termine agli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente causati lungo l’intera catena di attività (sia a monte, nella produzione di beni e prestazione di servizi, che a valle, nella distribuzione, trasporto e immagazzinamento dei prodotti) (Boskovic, “Extraterritoriality and the proposed directive on corporate sustainability due diligence: a recap”, in Journal of Private International law, 2024, p. 117 ss., p. 118). 

In breve, le società europee e quelle di Stati terzi operanti all’interno dell’Unione raggiunte dalla Direttiva sono chiamate ad adoperarsi, anche ricorrendo alla propria influenza nel mercato, affinché sia le filiazioni sia i partner commerciali stranieri rispettino gli obblighi di diligenza dovuta in materia di sostenibilità e offrano riparazione alle vittime laddove gli impatti negativi si siano verificati. 

Con queste misure l’Unione ha inteso esportare i propri standard di tutela dei diritti umani e dell’ambiente al di fuori del proprio territorio (Bueno, Bernaz, Holly e Martin-Ortega, “The EU Directive on Corporate Sustainability Due Diligence (CSDDD): The Final Political Compromiseâ€, in Business and Human Rights Journal, 2024, p. 1 ss, pp. 5-6), ma anche realizzare un level playing field, per arginare le distorsioni della concorrenza in un mercato sempre più globalizzato. 

Ci si domanda se questo sforzo sia sufficiente a perseguire l’obiettivo di fornire maggiore tutela alle vittime di violazioni degli obblighi di due diligence in materia di sostenibilità commesse al di fuori del territorio dell’Unione. In particolare, ci si interroga sulla portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione – specialmente nella forma del risarcimento fornito alle persone colpite dall’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente – quale ultima declinazione dell’obbligo di due diligence (cfr. considerando 58; art. 3, comma 1, lett. t; art. 5, comma 1, lett. d e art. 12) e sulla capacità delle vittime di far valere la responsabilità civile delle società responsabili di dette violazioni. 

Esulano dalla presente indagine le critiche sui possibili effetti negativi indiretti della Direttiva sugli Stati in via di sviluppo (Mares) e, più in generale, quelle di imperialismo giuridico da parte degli Stati occidentali (Palombo, “Transnational Business and Human Rights Litigation: An Imperialist Project?â€, in Human Rights Law Review, 2022, p. 1 ss).

2. Extraterritorialità e obbligo di riparazione dei danni causati dalla violazione dei doveri di due diligence

Per effetto della delocalizzazione e dell’esternalizzazione delle attività produttive al fuori dall’Unione, oltre che della costituzione di multinazionali con filiazioni in varie parti del mondo, è ragionevole ritenere che l’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente possa essere causato fuori dall’Unione da filiazioni di società destinatarie dalla Direttiva o da partner commerciali stranieri di dette società. 

La Direttiva stabilisce che sia compito degli Stati membri provvedere affinché la società (destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva) che abbia causato, o causato congiuntamente, un impatto negativo fornisca una riparazione (art. 12, comma 1). 

Diversamente, se l’impatto negativo effettivo è causato solo dal partner commerciale della società quest’ultima non è tenuta a fornire alcuna riparazione. Può decidere di provvedere in tal senso oppure di utilizzare la propria capacità di influenzare il partner commerciale affinché questi fornisca la riparazione dovuta (art. 12, comma 2). Trattasi di azioni lasciate alla libera volontà delle società leader. 

Si possono dunque verificare distinte situazioni in cui verrebbe in rilievo la necessità di considerare la portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione, segnatamente, quando la violazione è commessa: i) da una società dell’Unione destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva congiuntamente a una sua filiazione extra UE o ad un partner commerciale extra UE; ii) da una società di uno Stato terzo destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva; iii) da una società di uno Stato terzo destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva congiuntamente ad una sua filiazione extra UE o ad un suo partner commerciale extra UE; iv) solamente da una filiazione extraUE di una società destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva; v) solamente da un partner commerciale extra UE di una società destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva.

L’obbligo di riparazione sarebbe sempre imposto eccetto nell’ultimo caso, in cui il partner commerciale risulti unico responsabile dell’impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente.

È questa evidentemente l’ipotesi che solleva maggiori perplessità circa la coerenza complessiva del sistema, in quanto le società destinatarie della Direttiva potrebbero tentare di eludere i propri obblighi di riparazione richiamandosi, ad esempio, al mero rispetto formale degli obblighi di diligenza. Occorre quindi considerare in quali circostanze un danno sia ascrivibile unicamente ad un partner commerciale. In particolare, laddove la società attinta dalla Direttiva abbia omesso di adottare le misure richieste ai fini della due diligence, può essere ritenuta corresponsabile in solido?

Ad avviso di chi scrive è ragionevole ritenere che si possano leggere le disposizioni della Direttiva nel senso di ampliare le maglie dell’onere di riparazione in capo alle società leader nella catena di attività interessate dalla Direttiva che abbiamo omesso di rispettare gli obblighi di due diligence loro incombenti. 

In tal senso depone l’interpretazione letterale delle disposizioni della Direttiva, le quali stabiliscono che la società sia «tenuta» ad adottare misure adeguate in termini di prevenzione e arresto degli impatti negativi causati dai partner commerciali (art. 10, comma 2, lett. b; art. 11, comma 3, lett. c), nonché di verifica della loro conformità.

Del pari, l’interpretazione teleologica depone nella direzione di considerare l’effettività degli obblighi di diligenza e vigilanza e non il loro mero rispetto formale. Si pensi, ad esempio, al principio secondo cui «il semplice ricorso a garanzie contrattuali non può, di per sé, garantire l’adempimento delle norme relative al dovere di diligenza della presente direttiva» (considerando 66) e alla regola secondo cui le società non sono esonerate dalla responsabilità civile per i danni causati a persone fisiche o giuridiche per il solo fatto di «aver fatto ricorso ad una verifica da parte di terzi indipendenti o a clausole contrattuali» (cfr. art. 29, comma 4).

Infine, occorre interrogarsi sul regime di responsabilità civile applicabile nel caso patologico in cui la riparazione non venga spontaneamente fornita.

Come noto, l’interposizione soggettiva derivante dal frazionamento, internazionalizzazione ed esternalizzazione delle fasi del processo produttivo ha consentito, dapprima, alle società madri di ricorrere allo schermo societario e al c.d. forum shopping e, da ultimo, alle società leader nella catena globale di valore di avvantaggiarsi della separazione formale tra la capogruppo e i partner commerciali per eludere o vanificare la responsabilità civile loro incombente in forza di regimi più sofisticati quali quelli europei (Carella, “Art. 19 della risoluzione dell’Institut de Droit International su Human Rights and Private International Law: attuazione della responsabilità sociale d’impresa e diritto internazionale privatoâ€, in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2023, p. 169 ss, pp. 170-172). Questa interposizione, nel caso che ci occupa, rischierebbe di inficiare fortemente l’effettività della tutela fornita alle vittime degli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente derivanti dalla violazione degli obblighi di diligenza e vigilanza. La questione è quindi quella di comprendere se e quale sia la portata extraterritoriale del regime di responsabilità civile delineato dalla Direttiva.

In fase di approvazione della Direttiva da parte del Parlamento europeo autorevole dottrina ha sostenuto il rischio di un disallineamento tra la portata degli obblighi sostanziali di due diligence, imposti a tutte le società ricadenti nell’ambito di applicazione soggettiva della Direttiva, incluse le società terze operanti nel mercato interno, e quella degli obblighi di riparazione nascenti dal regime di responsabilità civile ivi disciplinato, che si rivolgerebbe invece solo alle società europee destinatarie della Direttiva (Boschiero, “L’extraterritorialità della futura direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, tra diritto internazionale pubblico e privatoâ€, in Diritti umani e diritto internazionale, p. 661 ss, p. 664). 

Di seguito si vuole verificare se il testo adottato della Direttiva confermi i timori di disallineamento tra la portata dell’obbligo di riparazione, che, come visto, incombe su tutte le società destinatarie della Direttiva, e l’effettività degli strumenti volti a fare valere coercitivamente detto obbligo. In altri termini si vuole valutare se le società di Stati terzi operanti all’interno dell’Unione e destinatarie degli obblighi di due diligence di cui alla Direttiva rispondano delle violazioni commesse all’interno o all’esterno del territorio europeo. Inoltre, ci si propone di verificare se e in che misura il regime di responsabilità civile introdotto dalla Direttiva tuteli le vittime di violazioni degli obblighi di due diligence nelle distinte ipotesi in cui dette violazioni siano commesse da filiazioni o partner commerciali di società europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva costituiti fuori dal territorio degli Stati membri dell’Unione europea ovvero da filiazioni o partner commerciali di società extra-europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva costituiti in Stati terzi.

3. Extraterritorialità e regime di responsabilità civile per i danni causati dalla violazione degli obblighi di due diligence

Come accennato, la Direttiva impone di considerare le società che ricadono nel suo ambito di applicazione responsabili civilmente per i danni causati da violazioni dei diritti umani e degli standard ambientali riconducibili alla mancata diligenza e vigilanza e, conseguentemente, di riconoscere alle persone fisiche o giuridiche danneggiate il diritto al pieno risarcimento in conformità al diritto nazionale (art. 29, commi 1 e 2).  

Affinché la società sia chiamata a risarcire il danno provocato a una persona fisica o giuridica occorre dimostrare la sussistenza di una serie di presupposti (Bueno e Oehm), in primis la violazione intenzionale o negligente di un obbligo di prevenire, attenuare, arrestarne e minimizzare l’entità degli impatti negativi su ambiente e diritti umani (di cui agli artt. 10 e 11) (art. 29, comma 1, lett. a).

Occorre, inoltre, che l’inosservanza di un diritto, divieto e obbligo elencato nell’allegato alla Direttiva sia inteso a tutelare una persona fisica o giuridica (art. 29, comma 1, lett. a) e non, quindi, posto a tutela di un interesse collettivo o dell’ambiente, come nel caso della maggior parte dei divieti e obblighi inclusi negli strumenti in materia ambientale. 

È necessario altresì dimostrare la sussistenza di un danno che abbia colpito gli interessi giuridici di persone fisiche o giuridiche tutelati dal diritto nazionale e il nesso di causalità tra l’inosservanza e il danno. Ciò significa che la responsabilità di una società non possa basarsi unicamente sull’inosservanza degli obblighi di diligenza e vigilanza (responsabilità oggettiva), ma occorra altresì che dalla violazione sia disceso un danno riconducibili a detta inosservanza. Pertanto, solo alcuni tipi di danni potranno far sorgere la responsabilità civile della società in quanto riconducibili causalmente alla violazione dell’obbligo di diligenza. Non è invece contemplato il danno indirettamente causato a terze persone in ragione di quello subito dalla vittima della violazione degli obblighi di cui all’allegato I della Direttiva (art. 29, comma 1, lett. b).

Infine, le società destinatarie degli obblighi di due diligence ai sensi della Direttiva non saranno responsabili dei danni che si verificano lungo l’intera catena di attività, a meno di non avervi contribuito. Stabilisce, infatti, la Direttiva che la responsabilità civile di una società è esclusa nel caso in cui il danno sia stato causato unicamente da un partner commerciale nella catena di attività cui partecipa detta società (art. 29, comma 1, ultimo periodo, considerando 79).

Si tratta di una modifica voluta dal Consiglio – nel contesto della rinegoziazione del testo della proposta di Direttiva della Commissione avvenuta tra febbraio e marzo 2024 (Ciacchi, “The newly-adopted Corporate Sistainability Due Diligence Directive: an overview of the lawmaking process and analysis of the final textâ€, in Era Forum, 2024, pp. 42-43) – tesa a restringere l’ambito di applicazione del regime di responsabilità civile ivi delineato. Come accennato, nelle suddette ipotesi di esclusione della responsabilità civile della società leader destinataria degli obblighi di cui alla Direttiva, è rimessa alla mera volontà della stessa la scelta di fornire una riparazione ovvero quella di avvalersi della sua capacità di influenzare il partner commerciale affinché quest’ultimo provveda a riparare i danni causati (art. 12).

Ne consegue che la responsabilità civile di cui sono gravate le società differisce in base alla circostanza che il danno derivi, unicamente o congiuntamente, da condotte delle società ricadenti nell’ambito di applicazione della Direttiva, da condotte di filiazioni di quest’ultime, ovvero dei loro partner commerciali. 

Se il danno è causato dalla società che ricade nell’ambito di applicazione della Direttiva, questa ne risponderà civilmente secondo le norme sulla responsabilità civile dello Stato membro in cui essa ha la sede legale (cfr. art. 2, comma 6).

Se il danno è causato dalla società destinataria della Direttiva congiuntamente alla sua filiazione e ad un partner commerciale diretto o indiretto, la prima è responsabile in solido con le seconde (secondo il principio della responsabilità condivisa di cui ai considerando 46 e 54), fatte salve le disposizioni di diritto nazionale relative alle condizioni della responsabilità in solido e ai diritti di regresso (art. 29, comma 5).

La Direttiva si premura di precisare, ove ve ne fosse stato bisogno, che rimane impregiudicata la responsabilità civile delle filiazioni e dei partner commerciali diretti e indiretti nella catena di attività delle società sottoposte al suo regime (art. 29, comma 5 e considerando 87). Pertanto, ove dette filiazioni o partner commerciali siano costituiti in conformità della normativa di uno Stato terzo, la responsabilità civile andrà fatta valere secondo le relative regole di tale Stato.

Procedimenti civili di risarcimento dei danni causati da società extra-europee destinatarie della Direttiva ovvero da filiazioni o partner commerciali di società destinatarie della Direttiva incorporati in Stati terzi rischiano, quindi, di avere esiti molti diversi a seconda delle regole che presiedono all’individuazione del foro competente o alla legge applicabile.  

Come noto, ostacoli all’accesso alla giustizia per lamentare abusi da parte di società possono sorgere sia da questioni legate alla giurisdizione – essendo verosimile che il giudice competente a dirimere la controversia per il risarcimento dei danni sia quello del foro della società extra-europea convenuta – che alla legge applicabile alla controversia, da individuare avendo riguardo alle norme di diritto internazionale privato dello Stato del foro o vincolanti lo stesso in forza di accordi internazionali (sul rapporto tra diritti umani e diritto internazionale privato vedi IIL, Resolution on Human Rights and Private International LawFawcett, Shúilleabháin e ShahAlvarez Rubio, Yiannibas (eds.)). 

Di queste problematiche la Direttiva non si fa che solo parzialmente carico, come si illustrerà nel prosieguo. 

3.1. La competenza giurisdizionale

La prima questione da affrontare attiene all’individuazione del foro dove le vittime di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente poste in essere da società di Stati terzi possano agire in giudizio. Dette persone, fisiche o giuridiche, potrebbero voler instaurare un procedimento dinanzi all’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, e segnatamente dinanzi al foro della società madre o leader di un gruppo su cui grava l’obbligo di diligenza e vigilanza, in ragione delle carenze dell’ordinamento giuridico di Stati terzi cui le norme di diritto internazionale privato attribuiscono la competenza giurisdizionale. Si pensi, a titolo esemplificativo, ad ipotesi di corruzione o assenza di indipendenza dei giudici. 

La Direttiva non affronta questioni attinenti alla giurisdizione, che sono disciplinate da altro strumento dell’Unione, salva la necessità di applicare, per convenuti domiciliati in Stati terzi, le norme nazionali ovvero, ove esistenti, gli strumenti internazionali in materia di riparto giurisdizionale. 

Infatti, se la società convenuta è domiciliata in uno Stato membro, si applica la disciplina dettata dal Regolamento (UE) n. 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, c.d. Regolamento I-bis. L’art. 4 di detto Regolamento detta la regola generale del foro dello Stato membro dove è domiciliato il convenuto (forum rei), laddove per domicilio di una società si intende il luogo in cui essa ha la sua sede statutaria, l’amministrazione centrale oppure il suo centro d’attività principale (art. 63, comma 1, salvo i casi particolari disciplinati dal medesimo articolo). 

Nel caso di illeciti civili dolosi o colposi vige la regola della competenza dell’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire (forum loci damni, art. 7, comma 2, Regolamento Bruxelles I-bis) per cui una società domiciliata in uno Stato membro ben potrebbe essere convenuta in un altro Stato membro. 

In materia ambientale, tale disposizione è stata interpretata (cfr. Corte di Giustizia, Handelskwekerij G. J. Bier BV v. Mines de potasse d’Alsace SA., sentenza del 30 novembre 1976, Case C-21/76) nel senso di consentire alle vittime di intentare la causa nel luogo in cui si è verificato il danno o in cui sono state svolte le attività dannose (forum commissi delicti), così da dare alla vittima una scelta più ampia tra i fori in cui poter agire avverso l’impresa asseritamente responsabile dell’impatto ambientale negativo.  

Se la società convenuta non è, invece, domiciliata in uno Stato membro, la competenza giurisdizionale degli Stati membri deve essere determinate secondo le norme interne di diritto internazionale privato degli stessi (art. 6, comma 1, Regolamento Bruxelles I-bis) o, ove possibile, secondo quelle degli strumenti internazionali vigenti in materia (ad esempio, la Convenzione concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, GUUE L 339, 21 dicembre 2007, pp. 3–41, c.d. Convenzione di Lugano 2007). 

Applicando le norme di diritto internazionale privato degli Stati membri ovvero le norme dettate da strumenti internazionali vincolanti per gli stessi, potrebbe non sussistere un titolo di giurisdizione in favore di un giudice di uno Stato membro e dunque l’autorità giurisdizionale competente a dirimere una controversia avverso una società non domiciliata in uno Stato membro ben potrebbe essere quella di uno Stato terzo, ad esempio quella del luogo in cui il danno si è verificato, con la conseguenza che le vittime potrebbero incontrare difficoltà ad accedere a rimedi effettivi dovute alle sue esposte carenze dell’ordinamento giuridico in cui la controversia deve essere incardinata. 

Più nello specifico, è stato sottolineato come questo si ponga in contrasto con la portata extraterritoriale dell’obbligo di riparazione che grava sulle società destinatarie degli obblighi imposti dalla Direttiva, in primis, le società extra-europee operanti nel mercato interno (Boschiero, cit., p. 664). Quest’ultime, infatti, potrebbero dover essere citate in giudizio dinanzi ad autorità giurisdizionali di fori diversi da quelli degli Stati membri dell’Unione, come quelle del foro del loro domicilio. Ciò che, a fortiori, sarebbe vero nel caso di impatti negativi sui diritti umani causati da filiazioni o partner commerciali stranieri di tali società extra-europee. 

Del pari, si ritiene che detta incoerenza riguardi anche le ipotesi in cui la violazione dei diritti umani o degli obblighi ambientali sia stata commessa da filiazioni o partner commerciali di società madri o leader europee destinatarie della Direttiva laddove dette filiazioni o partner siano domiciliati in Stati terzi ovvero l’evento dannoso sia avvenuto al di fuori dell’Unione. Anche in tali ipotesi, la competenza giurisdizionale potrebbe ben spettare ai giudici di Stati terzi, non essendo sufficiente il collegamento con la società madre o leader a radicare la competenza giurisdizionale dei giudici dell’Unione, con le conseguenze sopra esposte.

3.2. Il diritto applicabile alla controversia

La seconda questione rilevante ai fini della presente indagine attiene all’individuazione del diritto applicabile alle controversie transfrontaliere riguardanti violazioni del dovere di diligenza imputabili alle società destinatarie della Direttiva ovvero degli obblighi in materia di sostenibilità attribuibili alle loro filiazioni o partner commerciali.

Le differenze esistenti tra i diversi ordinamenti in materia di obblighi di diligenza delle imprese possono risultare in una compressione del diritto alla riparazione delle vittime di violazioni dei diritti umani e dell’ambiente, oltre ad incidere sulla leale concorrenza tra le imprese quando solo alcune sono chiamate a sopportare i relativi costi. 

In particolare, se l’impatto negativo sui diritti umani si verifica in uno Stato terzo ad opera di una filiazione di una società destinataria della Direttiva ovvero di un suo partner commerciale e le norme di diritto internazionale privato vigenti in tale Stato rimandano all’ordinamento dello stesso ovvero a quello di altro Stato terzo, la controversia deve essere decisa sulla base delle norme sostanziali in tema di diligenza aziendale e degli standard di sostenibilità vigenti in uno Stato non membro, i quali potrebbero essere carenti, così ledendo il diritto della vittima ad esercitare l’azione civile e, in definitiva, quello alla riparazione.

In tali circostanze, occorrerà caso per caso verificare se la vittima abbia la possibilità di invocare la legge di uno Stato membro dell’Unione quale legge applicabile alla controversia in modo da avere maggiori chances di ottenere un risarcimento per il danno subito. 

Ai sensi del Regolamento n. 864/2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, c.d. Regolamento Roma II (applicabile solo se la competenza giurisdizionale appartiene ad uno Stato membro), la legge applicabile alle obbligazioni derivanti da illeciti – come quelli che per lo più deriverebbero dalla violazione degli obblighi di diligenza e vigilanza –, è quella del paese in cui il danno si è verificato, a prescindere da dove si siano verificati gli eventi che hanno dato luogo al danno o da dove si siano avvertite le conseguenze indirette di tali eventi (ivi, art. 4, comma 1). 

Ne consegue che, nei casi in cui il danno si verifica in uno Stato terzo con bassi standard di tutela dei diritti umani, il diritto applicabile alla controversia non sarebbe quello della società madre, ma quello della filiazione o del partner commerciale, a meno che non si fornisca la prova che l’illecito sia manifestamente più strettamente connesso allo Stato di nazionalità della società madre (ivi, art. 4, comma 3), oppure che il diritto internazionale privato dello Stato dove il danno si è verificato stabilisca diversamente (laddove la competenza giurisdizionale si radicasse in tale Stato terzo).

Nelle ipotesi di danni ambientali transfrontalieri, l’art. 7 del Regolamento Roma II prevede un’eccezione alla regola su esposta. Segnatamente, consente all’attore di scegliere tra il diritto dello Stato in cui il danno si è verificato e quello dello Stato in cui gli eventi che hanno dato luogo al danno si sono verificati. Sulla scorta di una recente giurisprudenza (cfr. sentenza della Corte distrettuale dell’Aia del 26.05.2021), parte della dottrina ritiene che, nelle ipotesi oggetto di analisi, potrebbe essere considerato quale luogo degli eventi generatori del danno quello dello Stato membro di incorporazione della società madre o leader venuta meno agli obblighi di diligenza (Boskovic, cit., p. 128).

Un vuoto di tutela rimarrebbe in ogni caso nelle ipotesi di violazioni del dovere di diligenza in relazione ad impatti negativi sui diritti umani. Di questo problema la Direttiva non si fa carico. 

L’unica disposizione di diritto internazionale privato contenuta nella Direttiva, l’art. 29, comma 7, stabilisce che gli Stati membri debbano provvedere a che le disposizioni di diritto nazionale che recepiscono il regime di responsabilità civile previsto dalla Direttiva siano di applicazione necessaria nei casi in cui il diritto applicabile a tali azioni non sia il diritto nazionale di uno Stato membro (vedi anche considerando 90). 

Ebbene, il regime di responsabilità civile di cui all’art. 29 della Direttiva prevede una serie di tutele di carattere procedurale afferenti ai termini di prescrizione e alla loro decorrenza, alle spese processuali, alla possibilità di chiedere provvedimenti inibitori, alla rappresentanza in giudizio e alle prove (art. 29, comma 3, cfr. ZimmermannSilva de Freitas e Kramer) che vanno nel senso di recepire le critiche mosse avverso la versione originaria della disposizione in commento (ex art. 22), che nulla prescriveva al riguardo.

L’adozione della Direttiva, dunque, rafforza la tutela delle vittime di danni causati dal mancato rispetto di obblighi di due diligence e sostenibilità e, nondimeno, non è sufficiente a garantire che possano godere del diritto al risarcimento del danno qualora il diritto applicabile alla controversia sia quello di uno Stato terzo che nulla prevede al riguardo. Come detto, infatti, la Direttiva si limita a imporre l’applicazione necessaria del solo regime di responsabilità civile ivi delineato, come trasposto dagli Stati membri, allorquando la legge applicabile alla controversia non sia quella di uno Stato membro. In altre parole, solo il regime di responsabilità civile e non tutte le disposizioni della Direttiva prevalgono sulla legge applicabile alla controversia in base alle norme di diritto internazionale privato applicabili. 

4. Osservazioni conclusive

Tragedie quali quella del Rana Plaza hanno provato l’esigenza di imporre obblighi di diligenza e vigilanza in capo alle società al fine di tutelare i diritti umani e l’ambiente da attività economiche condotte irresponsabilmente. La Direttiva, tentando di muovere dei passi importanti in questa direzione rappresenta un’iniziativa lodevole. 

Tuttavia, mentre l’obbligo di riparazione per violazioni dei doveri di diligenza e vigilanza di cui alla Direttiva grava su tutte le società destinatarie della stessa, alcune limitazioni alla portata extraterritoriale del regime di responsabilità civile ivi delineato rischiano di inficiarne l’effettività.   

In particolare, nessuna disposizione della Direttiva si occupa di questioni attinenti alla individuazione del foro competente a conoscere delle controversie relative alla violazione degli obblighi di diligenza, con la conseguenza che le norme di diritto internazionale privato applicabili caso per caso ben potrebbero determinare la competenza giurisdizionale di tribunali extra-europei.

Del pari, la Direttiva non si occupa di indicare la legge applicabile alle controversie derivanti dalla violazione degli obblighi di diligenza e sostenibilità, che, ancora una volta, potrebbe essere una legge extra-europea. Ebbene, l’ordinamento dello Stato terzo competente ai sensi delle norme di diritto internazionale privato applicabili potrebbe non prevedere obblighi di diligenza e sostenibilità in capo alle società, con vanificazione degli effetti della Direttiva.

In loro assenza, infatti, sarebbe difficile attribuire la responsabilità per fatto illecito alle società, sicché verrebbe svuotata anche l’unica disposizione di diritto internazionale privato della Direttiva, ovvero l’art. 29, comma 7, secondo cui il regime di responsabilità civile ivi delineato è di applicazione necessaria. In sintesi, l’analisi condotta mostra come, in ultima istanza, rischiano di rimanere civilmente obbligate a risarcire i danni per la violazione degli obblighi di diligenza solo le società europee destinatarie degli obblighi di cui alla Direttiva per eventi lesivi verificatisi in uno Stato membro, mentre l’interposizione soggettiva potrebbe continuare a schermare sia dette società per le violazioni commesse da filiazioni e partner commerciali di Stati terzi, sia le società extra-europee destinatarie della Direttiva e le proprie filiazioni e partner commerciali, con conseguente frustrazione dei fini di sostenibilità che la Direttiva si propone di perseguire.

Data articolo:Fri, 20 Sep 2024 17:35:00 +0000

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