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L'altra faccia della guerra e l'altro volto di Zelensky - Ucraina e Libia: due facce della stessa guerra e la Profezia di Gheddafi - Libia 2011, i crimini impuniti della Nato - Il sanguinoso conflitto in Iraq che pone l'occidente sotto accusa - Pillole di storia dell'Ucraina
#news #Società #Italiana #Diritto #Internazionale #Unione #Europea
Ludovica Di Lullo (Università degli Studi di Parma)
1. Introduzione
Lo scorso 17 luglio, dopo giorni in cui la notizia era già stata anticipata dal Presidente Putin, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ufficializzato la decisione della Federazione Russa di non procedere al rinnovo della Initiative on the Safe Transportation of Grain and Foodstuffs from Ukrainian Ports (Black Sea Grain Initiative o Accordo sul grano).
L’Accordo sul grano, l’unico compromesso raggiunto finora su proposta del Segretario generale delle Nazioni Unite tra la Federazione Russa e l’Ucraina, è stato sottoscritto ed entrato in vigore il 27 luglio 2022, a Istanbul, tra Federazione Russa, Turchia e Ucraina. Le disposizioni dell’Accordo prevedevano la realizzazione di un corridoio umanitario marittimo, atto a garantire la navigazione sicura delle imbarcazioni impiegate per l’esportazione di grano, cereali, derrate alimentari e fertilizzanti in transito tra i porti ucraini di Odessa, Chernomorsk e Yuzhny (Pivdennyi) e il porto di Istanbul.
Aldilà dei rilievi formali sulla conformità del recesso russo alla disciplina internazionale del diritto dei trattati codificata nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (cfr. Di Turi su questo Blog), l’estinzione dell’Accordo è destinata ad avere severe ripercussioni internazionali, poiché incide sul già grave stato della sicurezza alimentare globale, fattore fattori decisivo per la stabilità socio-economica di numerosi Paesi.
Nel corso degli scorsi 12 mesi, l’Accordo sul grano e il meno noto Memorandum d’Intesa tra la Federazione Russa e il Segretario delle Nazioni Unite per la promozione dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti russi sui mercati internazionali, sottoscritti nella medesima occasione, hanno avuto un rilevante impatto sulla situazione socio-economica dei Paesi coinvolti. In questo periodo, è stato registrato un totale di esportazioni attraverso il Mar Nero pari a 33 milioni di tonnellate di prodotti alimentari, capaci di generare un decremento del 20% dei prezzi di tali beni, rendendo il cibo maggiormente accessibile. Considerando la somma delle esportazioni alimentari della Federazione Russa e dell’Ucraina rispetto al consumo mondiale di alcuni prodotti, gli effetti del mancato rinnovo dell’Accordo a livello internazionale sembrano già drammatici.
È perciò rilevante domandarsi se, sotto un profilo sostanziale, le conseguenze giuridiche derivanti dal mancato rinnovo dell’Accordo, lette attraverso la lente del diritto internazionale dei diritti umani, possano configurare la responsabilità internazionale della Federazione Russa per la violazione del diritto umano al cibo.
2. L’insicurezza alimentare globale
Sebbene sia stato più volte affermato dalla stampa che la centralità dell’esportazione di tali prodotti alimentari riguarda, principalmente, i mercati dei Paesi occidentali sviluppati, ben diverso è il contesto delineato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni intergovernative operanti nell’ambito della sicurezza alimentare. La Black Sea Grain Initiative ha, infatti, coinvolto molti altri Stati in quanto destinatari finali della maggior parte dei prodotti trasportati, per fini commerciali nonché umanitari. Nel novero di quest’ultimi rientrano sia Paesi c.d. ‘sviluppati’ – quali Cina, Francia, Italia, Israele, Paesi Bassi, Spagna, Turchia – sia Paesi in via di sviluppo o in gravi condizioni umanitarie – tra cui Afghanistan, Bangladesh, Etiopia, India, Iraq, Kenya, Yemen – supportati dal coordinamento umanitario della Food and Agriculture Organization (FAO) e dal World Food Programme (WFP).
L’estinzione dell’Accordo, dunque, aggrava una situazione internazionale, già estremamente fragile, ulteriormente indebolita dalla paralisi della supply chain causata dalla pandemia, come evidenziato dal Relatore speciale per il diritto al cibo. Accanto alla pandemia, ulteriori cause di aggravamento della sicurezza alimentare globale da considerare sono gli effetti dei cambiamenti climatici sulla produzione e la distruzione dei prodotti alimentari, nonché la stretta correlazione tra accesso al cibo e conflitti. Se è vero che le stime per il 2022 evidenziavano una possibile ripresa della riduzione della fame e dell’insicurezza alimentare verso i livelli pre-pandemici, la crisi causata dallo scoppio del conflitto in Ucraina ha esacerbato i principali mercati alimentari e agricoli globali, limitando l’accesso al cibo a livello economico e fisico.
Una definizione condivisa di sicurezza alimentare è stata fornita nel World Food Summit Plan of Action del 1996, nel quale si afferma che «food security exists when all people, at all times, have physical and economic access to sufficient, safe and nutritious food to meet their dietary needs and food preferences for an active and healthy life». Quando i livelli di insicurezza alimentare e di malnutrizione aumentano drasticamente, a livello locale o nazionale, con conseguente necessità di assistenza alimentare d’emergenza si verifica, invece, una crisi alimentare. Questa si distingue a sua volta dall’insicurezza alimentare cronica, che riguarda l’indebolimento per un determinato periodo di uno o più pilastri della sicurezza alimentare: disponibilità di cibo, accesso al cibo, utilizzo del cibo e stabilità alimentare. Le crisi alimentari sono più probabili tra le popolazioni che già soffrono di insicurezza alimentare e di malnutrizione prolungata e nelle aree in cui i fattori strutturali aumentano la vulnerabilità agli shock (FSIN and Global Network Against Food Crises, Global Report on Food Crisis, 2023).
In termini numerici, secondo le più recenti stime della FAO pubblicate nel 2022 nel rapporto annuale The State of Food Security and Nutrition in the World, tutte le macroregioni africane hanno registrato una prevalenza o un numero di persone denutrite ben al di sopra dei livelli pre-pandemici, con aumenti stimati di circa 1 milione di persone in Africa meridionale, 3 milioni di persone in Africa centrale e Africa orientale e 2 milioni nell’Africa occidentale. Diversamente, le stime dimostrano per l’Asia una decrescita del tasso di denutrizione, soprattutto nelle zone meridionali. Tuttavia, si tratta ancora di 58 milioni di persone in più rispetto ai livelli precedenti alla pandemia. Un’inversione di tendenza è stata registrata in America Latina e nei Caraibi, ma in alcune regioni di quest’ultima area si evidenzia, in realtà, un forte aumento rispetto al 2021. Medesime considerazioni riguardano, poi, il Sud America, dove la denutrizione è sì diminuita dal 7,0% al 6,1%, ma riguarda pur sempre 6 milioni di persone in più rispetto al 2019.
3. Il diritto umano al cibo
Mentre il problema della conformità del recesso russo alle norme del diritto internazionale dei trattati non pone problemi giuridici, in virtù della clausola di validità già illustrata, c’è da chiedersi se la Federazione Russa sia comunque responsabile per la violazione di ulteriori norme sostanziali vincolanti.
Nel valutare l’attuale situazione non è possibile non avanzare alcune considerazioni riguardanti il diritto internazionale dei diritti umani e, in particolare, il diritto al cibo.
Nonostante tale diritto fosse stato già inserito nella Dichiarazione Universale del 1948, all’articolo 25, quale parte integrante del diritto a un tenore di vita adeguato alla salute di ogni persona e famiglia, a partire dall’adozione del Patto sui diritti economici, sociali e culturali (il Patto o ICESCR), il diritto al cibo, previsto all’articolo 11, ha trovato una sua formulazione autonoma nell’ambito dei diritti umani. Secondo tale disposizione, il diritto al cibo, invero, si compone di una duplice dimensione: il diritto di accedere a un cibo adeguato, disponibile e accessibile, ma anche il diritto a essere liberi dalla fame, l’unico del Patto a cui viene anteposto l’aggettivo «fondamentale».
Corroborato dall’interpretazione autorevole fornita dal Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (il Comitato o CESCR), non solo nel commento generale sul diritto al cibo, ma anche nei commenti relativi ad altri diritti connessi a quest’ultimo, il suo contenuto è oggi consolidato nel diritto internazionale (cfr. Söllner). Oltre che nelle pertinenti fonti normative nell’ambito della food security e della food safety, il diritto al cibo è stato incluso all’interno di vari strumenti internazionali: dalla Dichiarazione sul nuovo ordine economico internazionale alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, dalla Peasant Charter, alla Convenzione sui diritti del fanciullo, dalle norme di diritto umanitario (cfr. Pejic), ai molteplici strumenti regionali per la tutela dei diritti umani. Si consideri, inoltre, che la riduzione della fame nel mondo è tra i principali obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite (Goal 2 Zero Hunger).
La Federazione Russa ha ratificato il Patto nel 1973 e, dalla partecipazione a tale strumento, come affermato dal Comitato nel General Comment No. 3 sulla natura degli obblighi delle Parti (GC3), discende, in primo luogo, l’obbligo di adottare ogni misura idonea a garantire la progressiva realizzazione e la non regressione dei diritti inclusi nel Patto. Nel caso in cui ciò fosse impossibile per mancanza di risorse, spetta alle Parti garantire in ogni caso il soddisfacimento dei livelli minimi essenziali di ogni diritto (cd. minimum core obligations) (GC3, par. 10). Tali obblighi di condotta e di risultato, che riguardano principalmente l’adozione interna di misure legislative in attuazione dei singoli diritti, non escludono il rispetto di ulteriori obblighi giuridici. Quanto al diritto al cibo, il pertinente General Comment No.12 (GC12) specifica che questo si estrinseca, a sua volta, nel dovere degli Stati parte di non adottare misure contrarie all’accesso al cibo (respect), di proteggere gli individui da possibili restrizioni (protect) e di promuovere attività che rafforzino le garanzie per la sicurezza alimentare (fulfill).
Il valore aggiunto del Patto risiede nella sua applicazione extraterritoriale, vale a dire la doverosità di garantire i diritti stabiliti nei confronti di ciascun individuo, non essendo previste clausole che ne delimitino l’applicazione alla sola giurisdizione territoriale del singolo Stato parte (cfr. Coomans, Milanovic).
Tale estensione della giurisdizione statale appare ancor più evidente in riferimento al diritto al cibo, laddove l’articolo 11(2)(b) stabilisce che, nell’adottare le misure di attuazione di tale diritto, gli Stati parte devono tenere in considerazione «the problems of both food importing and food exporting countries, to ensure an equitable distribution of world food supplies in relation to need». Inoltre, come chiarito dal CESCR, le Parti sono sottoposte all’obbligo di astenersi dal porre restrizioni ai prodotti alimentari, tali da mettere a rischio la produzione alimentare e l’accesso al cibo in altri Paesi (GC12, par. 37).
Ulteriori conferme sono fornite dal Comitato anche nel General Comment No. 15 sul diritto all’acqua (GC15), definito quale inestricabilmente connesso al diritto al cibo e al diritto alla salute (GC15, par.3). Nel commento si afferma, infatti, che gli Stati, nell’adempiere ai loro obblighi internazionali, devono rispettare il godimento di tale diritto in altri Paesi, anche astenendosi da azioni che vi interferiscano direttamente o indirettamente, e qualsiasi attività intrapresa all’interno della giurisdizione dello Stato parte non deve privare un altro Paese della capacità di realizzare tali diritti (GC15, par. 31). Spetta, inoltre, agli Stati il compito di facilitare la realizzazione di tali diritti in altri Paesi, anche attraverso la cooperazione internazionale e, conformemente al Patto e alle altre norme sui diritti umani, gli Stati parte economicamente sviluppati hanno una responsabilità particolare ad assistere gli Stati in via di sviluppo più poveri a questo proposito (GC15, par. 33-34).
Per dirla in altri termini, il Patto può considerarsi una garanzia del diritto internazionale posta al mantenimento della sicurezza alimentare globale, se rispettato.
È evidente, dunque, come la decisione russa di sospendere il trasporto sicuro delle derrate alimentari vada a ostacolare l’effettivo accesso al cibo per milioni di individui presenti sul territorio dei Paesi destinatari di tali prodotti, specie negli Stati più poveri. Allo stesso modo, gli attacchi mirati nei confronti di infrastrutture, porti e imbarcazioni registrati negli scorsi giorni si configurano come attività tutt’altro che a garanzia della sicurezza alimentare, causando anzi ingenti perdite di prodotti agricoli essenziali.
Il quadro normativo illustrato mette in luce la rilevanza di veri e propri obblighi erga omnes la cui violazione, secondo le norme consuetudinarie sulla responsabilità internazionale, permette a Stati diversi dallo Stato direttamente leso di invocare la responsabilità dello Stato responsabile, nonché di adottare misure lecite nei confronti di quest’ultimo (Articoli sulla responsabilità degli Stati per illeciti internazionali, art. 48 e 54). La Federazione Russa dunque, non sembra considerare, o quantomeno temere, le conseguenze internazionali che derivano dalla propria scelta e che non vanno a incentivare la revoca delle sanzioni, quanto, piuttosto, una più forte adozione di misure coercitive in reazione a tale decisione.
Preme notare in questa sede come invece, proprio a garanzia della sicurezza alimentare globale, le sanzioni economiche finora adottate unilateralmente da diversi Stati e, in primis, dall’Unione europea, hanno esplicitamente escluso l’imposizione di restrizioni alla Federazione Russa rispetto alle esportazioni di prodotti agricoli, alimentari e fertilizzanti. Specifiche eccezioni sono previste, inoltre, rispetto al sorvolo dello spazio aereo europeo e all’ingresso nei porti europei, il cui divieto è sospeso ai fini dell’importazione o del trasporto di prodotti agricoli, alimentari e dei fertilizzanti.
È rilevante evidenziare, infine, la possibilità di estendere le considerazioni sull’accesso al cibo anche all’ambito delle responsabilità penali, tenendo conto che, ai sensi dell’articolo 7(2)(b) dello Statuto della Corte penale internazionale, l’inflizione intenzionale di condizioni di vita, tra cui la privazione dell’accesso al cibo, rientra nella fattispecie dei crimini contro l’umanità (cfr. Marcus).
4. Sul futuro dell’Accordo e sulle responsabilità internazionali
Il destino dell’Accordo sul grano è al momento ancora molto incerto.
Da un lato, la Federazione Russa ha affermato che un nuovo compromesso sul grano sarà possibile solo quando le sue condizioni saranno accolte, ovvero nel caso in cui saranno sospese le sanzioni economiche nei suoi confronti, rigettando la controfferta avanzata dal Segretario delle Nazioni Unite Guterres di reinserire la Banca agricola russa nel circuito SWIFT. Inoltre, pur consapevole del grave impatto delle proprie azioni sulla sicurezza alimentare mondiale, la Federazione Russa sta realizzando quotidianamente attacchi mirati alle infrastrutture e alle imbarcazioni deputate alle esportazioni di cereali e prodotti alimentari, nonché ai mezzi utilizzati per il medesimo fine per trasporti terrestri e fluviali. Dall’altro lato, l’Ucraina ha già dichiarato che, a prescindere dal rinnovo dell’Accordo, essa continuerà a operare nel rispetto delle regole da esso stabilite. Tale volontà incontra il favore e il supporto della Turchia, così come di altri Stati, quali, ovviamente, i Membri dell’Unione Europea ma, forse, persino della Cina.
Quel che è certo è l’urgenza di trovare un nuovo Accordo o, quanto meno, nuove forme di tutela per il trasporto di prodotti necessari a garantire la sopravvivenza di milioni di persone in altri continenti.
Nella prospettiva giuridica, è plausibile affermare che la violazione del diritto umano al cibo è destinata ad aggiungersi alla lista delle responsabilità per gli illeciti già posti in essere dalla Federazione Russa da febbraio 2022, a seguito dell’aggressione dell’Ucraina.
Antonio Leandro e Alessandro Ranieri (Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’)
1. «Assalto» ai migranti
Il 18 luglio 2023, a circa 18 miglia nautiche dalle coste di Lampedusa, alcuni pescherecci battenti bandiera tunisina hanno assaltato dei barchini che trasportavano migranti diretti verso le coste italiane. Dopo averne interrotto la navigazione e sottratto i motori, gli assalitori sono fuggiti. Successivamente, uno dei pescherecci, l’Assyl Salah, ha fatto ritorno sul luogo dell’assalto e si è avvicinato ad uno dei barchini: i membri dell’equipaggio hanno proposto ai circa 40 migranti a bordo di trainarli verso le acque territoriali italiane in cambio di soldi e telefoni cellulari minacciando di lasciarli alla deriva in caso di rifiuto. Dopo un primo tentennamento, i migranti, impossibilitati a proseguire la navigazione, hanno consegnato quanto richiesto; il peschereccio ha effettivamente trainato il barchino, ma dopo alcuni minuti ha interrotto l’operazione e abbandonato i migranti alla deriva. Tutti questi fatti si sono verificati al di là del mare territoriale italiano, in uno spazio privo di sovranità statale.
Nonostante il tentativo di fuga, le forze di polizia italiane hanno intercettato l’Assyl Salah e condotto il comandante e i tre membri dell’equipaggio in territorio italiano. Ad essi è stato contestato il reato di pirateria marittima e nei loro confronti il Giudice per le indagini preliminari («GIP») di Agrigento ha disposto, con ordinanza del 27 luglio 2023, la convalida del fermo e la custodia cautelare in carcere. Il GIP ha dato atto dell’esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dei pescatori. Oltre alle testimonianze di alcuni dei migranti – definite plurime e convergenti – il GIP ha valorizzato la presenza dei pescatori a bordo dell’Assyl Salah «in un contesto spazio-temporale assolutamente prossimo a quello della tenuta delle condotte», nonché il rinvenimento della refurtiva e la circostanza che l’attrezzatura da pesca in dotazione al peschereccio fosse inutilizzata.
2. La contestazione del reato di pirateria marittima
Numerosi comportamenti posti in essere dall’equipaggio dell’Assyl Salah integrano la fattispecie di pirateria marittima: oltre alle esplicite minacce, attuate mostrando armi di vario genere, rileva particolarmente la sottrazione dei motori e l’interruzione volontaria della navigazione dei barchini effettuata di concerto con un altro peschereccio, il Mohamed. Indubitabile, infine, è il fine di lucro alla base di tali condotte.
Il GIP ha ritenuto sussistente la giurisdizione italiana in forza dell’art. 7 n. 5 c.p. ai sensi del quale, fra i reati commessi all’estero punibili secondo la legge italiana, rientrano quelli per i quali «speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana». Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 («CNUDM») e, più precisamente, al combinato disposto degli articoli 101 e 105 dal quale si ricava un principio di giurisdizione universale in materia di pirateria marittima e la facoltà dello Stato che ha disposto il sequestro di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi o dei beni.
È la prima volta che i tribunali italiani sono chiamati a pronunciarsi sull’accusa di pirateria marittima per fatti compiuti nel mar Mediterraneo. I più recenti procedimenti celebrati in territorio italiano hanno riguardato assalti compiuti a danno di navi battenti bandiera italiana impegnate nella navigazione dell’Oceano Indiano, al largo delle coste somale.
L’episodio del 18 luglio 2023 non è isolato, anzi, come lo stesso GIP sottolinea, le condotte dei fermati sono «coordinate e frutto di una prassi consolidata». Il grande numero di barche di migranti che partono dalle coste tunisine nel tentativo di raggiungere le coste italiane, le condizioni di pericolo nelle quali esse versano, nonché la reticenza ad allertare i soccorsi (determinata probabilmente dai timori di respingimento che affliggono i migranti), sono tutti fattori che favoriscono condotte volte a vessare i migranti nella traversata che intraprendono nel Mediterraneo. Tutto ciò rende ancor più pericolosa una rotta migratoria già altamente letale.
L’affermazione della giurisdizione italiana per fatti di pirateria privi di collegamenti ulteriori con l’ordinamento nazionale assume, dunque, particolare importanza perché riduce lo spettro di impunità sul quale i responsabili di simili condotte hanno finora confidato.
3. Estorsione o pirateria?
Il provvedimento in commento segue di poche ore una precedente ordinanza adottata nei confronti degli stessi soggetti. In tale ordinanza, lo stesso GIP aveva dichiarato il difetto di giurisdizione italiana e disposto la liberazione dei fermati.
Il GIP aveva risposto alla richiesta di misure cautelari formulata dal Pubblico Ministero con riguardo ai soli fatti verificatisi nella seconda fase dell’assalto, vale a dire la proposta di soccorso in cambio di soldi e telefoni avanzata dai pescatori tunisini ai migranti e il traino del barchino verso le coste italiane, volontariamente interrotto dopo alcuni minuti.
Dovendo valutare le richieste di misure cautelari sulla scorta dei soli elementi di fatto contestati, il GIP, pur riconoscendo l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dei pescatori (dei quali si è già detto), ha ritenuto che la condotta non integrasse il reato di pirateria marittima bensì quello di estorsione ex art. 629 c.p. Poiché, però, i fatti si erano verificati oltre il limite esterno del mare territoriale italiano, il GIP ha concluso per il difetto di giurisdizione, non avendo l’applicazione della legge penale italiana in caso di estorsione un ambito spaziale analogo a quello della pirateria marittima.
Il GIP avrebbe potuto giungere a diverse conclusioni. Egli osserva che l’art. 1135 c. nav. definisce come piratesco l’atto di depredazione compiuto in danno di una nave o del carico nonché gli atti di violenza commessi in danno di una persona imbarcata a scopo di depredazione. Ed afferma che i fatti contestati ai fermati «non rientrano in alcuna delle due condotte» giacché il barchino era già stato depredato in precedenza e il Pubblico ministero non ha contestato la commissione di atti di violenza in danno dei migranti a bordo. La minaccia di lasciare i migranti alla deriva avrebbe prospettato un male la cui ingiustizia «è già […] a monte ritenuta dal legislatore allorché ha introdotto il reato di omissione di soccorso». In conclusione, «[o]mettere di soccorrere chi si imbatte in pericolo integra omissione di soccorso; sfruttare la situazione per esercitare una pressione morale su chi si trovi in pericolo, costringendolo a privarsi dei propri beni per sperare di salvarsi, integra estorsione».
L’impressione che se ne trae è che, nonostante la gravità della situazione nella quale si trovavano i migranti, il giudice abbia attribuito loro una residua capacità di autodeterminazione e ravvisato nell’accaduto una sorta di base negoziale. Il GIP ritiene che i telefoni cellulari e i soldi rappresentassero il «corrispettivo per l’aiuto» e che la loro consegna costituisse un «atto dispositivo» necessario per ottenere il soccorso.
Invero, le circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolti gli eventi, e la considerazione che l’omesso soccorso avrebbe certamente messo in grave pericolo la vita dei migranti, hanno ridotto, fino ad azzerare, l’autodeterminazione dei migranti al momento di decidere se accettare o meno la proposta di soccorso verso corrispettivo dei pescatori tunisini.
Il giudice esclude l’applicazione dell’art. 1135 c. nav., ma poiché, come si è visto, egli avrebbe successivamente affermato la giurisdizione italiana sul combinato disposto degli articoli 7 n. 5 c.p. e 101-105 della CNUDM e muovendo dalla nozione di pirateria della Convenzione, un analogo percorso argomentativo sarebbe stato utile per stabilire compiutamente se la condotta dei pescatori tenuta al di là del mare territoriale italiano rappresentasse davvero semplice estorsione o costituisse piuttosto pirateria marittima ai sensi della Convenzione. L’art. 101, peraltro, non ha l’effetto di mettere fuori gioco il Codice penale o il Codice della navigazione visto che ad essi occorre rivolgersi per determinare la pena (argomentando ex art. 105 CNDUM) qualora la fattispecie contemplata dall’art. 101 ricada al loro interno secondo la normativa penale italiana.
Ciò detto, è noto che l’art. 101 CNUDM ha contorni decisamente ampi perché indica tre categorie di comportamenti, stabilendo quando essi possono qualificarsi come atti di pirateria. Le ragioni di tale scelta risiedono nella volontà di contemplare una vasta gamma di condotte che, seppure fortemente disomogenee, sono accomunate dal fatto di rappresentare una minaccia alla libertà e alla sicurezza della navigazione.
La prima e più importante categoria di comportamenti è quella contemplata alla lettera a) dell’art. 101 ai cui termini per pirateria si intende «any illegal acts of violence or detention, or any act of depredation, committed for private ends by the crew or the passengers of a private ship or a private aircraft». Come intuibile, ad essere considerato è l’insieme di condotte mediante le quali è concretamente effettuato l’attacco pirata e che rappresentano il nucleo minimo ed essenziale del crimine e per questo, oltre ad essere la più importante, tale categoria è anche quella disciplinata nel dettaglio: per intenderci, i requisiti del fine privato e della natura privata della nave pirata sono riferiti solo ad essa.
Gli atti contemplati alla lettera a) sono ulteriormente distinti nei sottoparagrafi i) e ii) in base al locus commissi delicti. Le fattispecie contemplate nel sottoparagrafo i) dipendono dall’ulteriore requisito della compresenza di almeno due imbarcazioni: dettaglio, questo, che richiama l’ipotesi «tradizionale» di atto piratesco e cioè l’assalto compiuto per impossessarsi del carico o dei beni di bordo o dei beni personali dell’equipaggio o dei passeggeri della nave assaltata. Tuttavia il catalogo delle situazioni riconducibili al sottoparagrafo i) è ben più ampio perché può comprendere l’omicidio di uno o più passeggeri o membri dell’equipaggio della nave assaltata, il rapimento di uno o più passeggeri o membri dell’equipaggio della nave assaltata, la distruzione o il mero danneggiamento del carico trasportato dalla nave assaltata o dei suoi beni di bordo o dei beni personali del suo equipaggio o dei suoi passeggeri, il sequestro della nave compiuto a fini di riscatto (come sovente accaduto al largo delle coste della Somalia).
Tornando alle espressioni « any illegal acts of violence or detention, or any act of depredation […]», è infine possibile osservare che al termine «violenza» si attribuisce un significato ampio, nel senso che, nel rispetto degli altri requisiti previsti dalla disposizione, può essere considerato piratesco un atto basato sulla sola minaccia contro la vita o l’incolumità delle vittime a prescindere dalla finalità di depredazione. D’altro canto, il «fine privato» richiesto dall’art. 101 CNUDM non si identifica necessariamente con il «fine di lucro», ma comprende anche atti di violenza compiuti con desiderio di vendetta o semplicemente di odio, purché non si rientri nella finalità politica, la quale notoriamente estromette la condotta dalla categoria della pirateria.
Ora, poiché si è visto che l’art. 101 distingue fra atti di violenza e atti di rapina, è da ritenere che i primi includono anche i casi di acquisizione di beni personali delle vittime o di beni di bordo senza effettiva coercizione, ma a seguito di minaccia di un male ingiusto.
Ne viene che, ai sensi dell’art. 101 CNUDM, costituiscono atti di pirateria una serie di condotte svincolate dalla violenza contro le persone, come, ad esempio, atti di violenza e distruzione commessi contro i beni di bordo oppure non attuati a scopo di depredazione oppure consistenti in minacce sganciate dall’intento di rapinare. In definitiva, la maggiore ampiezza della nozione internazionale di pirateria è in grado di accogliere le condotte dell’equipaggio dell’Assyl Salah che il GIP ha qualificato come estorsione.
4. Il traino interrotto
L’atto di «tagliare la corda», ossia interrompere il traino concordato come corrispettivo dei beni acquisiti dai migranti, offre un ultimo spunto di riflessione.
L’atto del traino, poi interrotto, rappresenterebbe, infatti, un atto di sequestro temporaneo del barchino. In effetti, il «tagliare la corda» rimuove ogni finalità satisfattiva della prestazione pattuita in cambio di beni. Rimarrebbe soltanto il fatto che, nella fase di traino, l’imbarcazione è stata sequestrata. Si rientra, dunque, nella detention, ovvero in una delle categorie di atto piratesco di cui all’art. 101.
Inoltre, l’atto di «tagliare la corda» potrebbe generare una situazione di distress o aggravare quella in corso. Immaginando che il traino sia interrotto mentre l’imbarcazione con i migranti si trova in zona SAR italiana e che i migranti versino in una situazione di pericolo, se essi contattassero le autorità italiane, o queste intervenissero nel corso di un’operazione di sorveglianza, il successivo eventuale ingresso dei migranti in territorio italiano sarebbe «facilitato» dal traino iniziale compiuto dal peschereccio tunisino. In altre parole, il traino, prima, e l’interruzione, successivamente, da cui derivi l’abbandono in mare in acque extraterritoriali su barchini inadatti alla navigazione, così come l’intervento SAR e l’accompagnamento dei migranti nel mare territoriale italiano da parte delle navi pubbliche dei soccorritori, sarebbero direttamente riconducibili ai pescatori/pirati senza soluzione di continuità nello stesso senso che, mutatis mutandis, ha indotto Cass. pen., sez. I, 28 febbraio/27 marzo 2014 n. 14510, ad applicare l’art. 6 c.p. per affermare la giurisdizione italiana sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
5. Conclusioni
Non è la prima volta che si assiste ad atti di pirateria nei corridoi marittimi attraversati da flussi di migranti e richiedenti protezione internazionale (numerosi assalti furono compiuti a partire dal 1979 nel golfo di Thailandia ai danni delle imbarcazioni con le quali i richiedenti asilo vietnamiti tentavano di raggiungere le coste malesi e thailandesi; sul punto si rinvia a V. Muntarbhorn, Asylum-Seekers at Sea and Piracy in the Gulf of Thailand, in Revue belge de droit International, 1981-1982, p. 482 ss.).
Questa rinnovata forma di pirateria marittima, vieppiù odiosa perché rivolta contro soggetti particolarmente vulnerabili in quanto reduci da un percorso migratorio terrestre già costellato, nella maggioranza dei casi, da gravi violazioni dei diritti umani, merita un contrasto efficace.
La via della sorveglianza marittima, individuale o collettiva, è senz’altro utile, soprattutto a fini di deterrenza.
Dal canto suo, la categoria contemplata nell’art. 101 CNUDM e il gancio giurisdizionale previsto dall’art. 105 offrono una base adeguata quando la condotta ha luogo al di là del mare territoriale, purché le autorità giudiziarie non si appiattiscano su «definizioni interne», ma ricerchino, nel rispetto del principio di legalità, quella più adatta al fine dell’esercizio della giurisdizione penale.
Giorgia Berrino (Università degli Studi di Ferrara)
1. Il 21 luglio scorso, la Corte costituzionale ha depositato una decisione destinata – per il noto contesto in cui si inserisce – a divenire storica ancora prima della sua adozione.
Si tratta della sentenza del 4 luglio 2023, n. 159 con cui la Corte ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso l’art. 43, c. 3, decreto-legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con legge 29 giugno 2022, n. 79, in forza del quale viene preclusa l’esecuzione forzata fondata su titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni subiti, per la lesione dei diritti inviolabili della persona, dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945.
2.La decisione dei giudici costituzionali trae origine da lontano, inserendosi nell’annosa controversia italo-tedesca sui risarcimenti nei confronti delle vittime della Seconda guerra mondiale, che involge le immunità giurisdizionali degli Stati esteri e dei loro beni. La questione è ben nota e non sarà oggetto di trattazione (per un recente ed efficace riassunto della “saga” si rinvia a Fazzini; cfr. anche il punto 9 del Considerato in diritto della pronuncia in commento).
In questa sede si consenta soltanto di ricordare le vicende legate al giudizio di esecuzione all’interno del quale è stato promosso il sindacato di costituzionalità dell’art. 43, che ha condotto alla sentenza della Consulta oggetto di odierna analisi.
3. Tra le azioni esecutive esperite al fine di eseguire le sentenze di condanna emesse nei confronti della Germania – a seguito del disconoscimento dell’immunità di tale Stato dalla giurisdizione civile di cognizione straniera – al risarcimento dei danni cagionati alle vittime dei crimini commessi dal Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale, si annovera anche il pignoramento di quattro immobili di proprietà della Repubblica federale tedesca siti a Roma (l’Istituto Archeologico Germanico; il Goethe Institut; l’Istituto Storico Germanico; la Scuola Germanica).
L’esecuzione è stata azionata dagli eredi di un cittadino italiano (Angelantonio Giorgio) – catturato in Italia e deportato nel campo di concentramento di Dachau – sulla base di una sentenza definitiva di condanna dello Stato tedesco. All’interno della procedura esecutiva è poi intervenuto anche il figlio di un altro cittadino italiano (Gualberto Cavallina) – anch’esso catturato in Italia e deportato in vari lager nazisti – in virtù di un’analoga sentenza.
A fronte dell’azione promossa, la Germania ha depositato un’istanza di sospensione dell’esecuzione forzata rivendicandola natura pubblicistica dei beni, e dunque la loro impignorabilità in forza delle norme di diritto internazionale che sanciscono l’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere. Il Tribunale di Roma, sez. IV civ., in composizione monocratica, ha rigettato la richiesta con l’ordinanza del 12 luglio 2021, applicando di fatto i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 238/2014 in sede di esecuzione.
Lo Stato tedesco ha presentato reclamo. L’impugnazione è stata rigettata dal Tribunale – questa volta in composizione collegiale – con l’ordinanza del 3 novembre 2021, sulla base però di una motivazione diversa rispetto a quella del giudice di prime cure, ovvero in virtù del mancato raggiungimento della prova circa la destinazione pubblicistica dei beni da parte del debitore, destinazione che se invece fosse stata provata avrebbe comportato – nell’opinione del Collegio – l’accoglimento della richiesta tedesca, in conformità a quanto disposto dalle norme di diritto internazionale in materia di immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, rispetto alle quali la 238/2014 non trova applicazione.
La situazione creatasi ha spinto la Repubblica federale tedesca a promuovere il 29 aprile 2022 un nuovoricorso contro lo Stato italiano alla CIG per violazione delle immunità giurisdizionali – il giudizio è attualmente pendente – e l’Italia ad adottare l’art. 43 d.l. 36/2022, poi convertito in l. 79/2022, come “risposta” al ricorso tedesco dinanzi alla CIG (su questi aspetti v. Franzina, Gradoni, Colacino 2022, Caroli 2022; Berrino 2022; Boggero 2022, Bufalini, Fazzini).
L’art. 43, al c. 1, istituisce presso il Ministero dell’economia e delle finanze un Fondo, assicurando continuità all’Accordo italo-tedesco di Bonn del 1961 reso esecutivo in Italia con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, per il «ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione dei diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945».
La dotazione del Fondo è attualmente pari a 20.000.000 euro per l’anno 2023 ed a 13.655.467 euro per ciascuno degli anni dal 2024 al 2026 (quest’ultima somma, originariamente di 11.808.000 euro, è stata successivamente implementata in forza dell’art. 8, comma 11-quater del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 poi convertito con L. 24 febbraio 2013, n. 14).
A tale Fondo, secondo il c. 2, hanno accesso coloro che siano titolari di una sentenza definitiva avente ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni suddetti, a seguito di azioni giudiziarie avviate alla data di entrata in vigore del decreto-legge o entro il termine decadenziale di cui al comma 6 (ovvero il 28 giugno 2023, termine così modificato, da ultimo, dall’art. 8, comma 11-ter del citato d.l. 198/2022), oppure coloro che pongano in essere una transazione, sentita l’Avvocatura di Stato, nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto o in quelli successivamente instaurati.
Inoltre, l’art. 43, al c. 3, prevede – come anticipato – sia la preclusione delle procedure esecutive fondate su tutti i titoli giudiziali di condanna della Germania al risarcimento dei danni nei confronti delle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità commessi dal Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale sia l’estinzione dei giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi, e statuisce che le sentenze aventi ad oggetto l’accertamento e la liquidazione dei danni di cui al c. 1 acquistino efficacia esecutiva esclusivamente al momento del passaggio in giudicato e siano eseguite esclusivamente a valere sul Fondo.
L’adozione dell’art. 43 da parte del circuito Governo-Parlamento ha sollevato diversi interrogativi tra gli interpreti.
In particolare, non risultava chiaro che cosa dovesse intendersi con il “ristoro” dei danni previsto dal Fondo: l’intero quantum liquidato in sede di cognizione oppure soltanto una somma forfettaria e parziale, rappresentativa di una “qualche” riparazione? Inoltre, nel caso in cui il ristoro fosse coinciso con il quantum individuato nelle pronunce di cognizione, sarebbe stato effettivamente possibile sulla base delle somme stanziate per il Fondo pagare l’intero a tutti i creditori o si sarebbe dovuto procedere ad una ripartizione di tali somme?
A fornire una risposta agli interrogativi sollevati sembrava deputato un decreto interministeriale, che – sulla base di quanto disposto dal c. 4 dell’art. 43 – avrebbe dovuto stabilire, entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge, la definizione della procedura di accesso al Fondo, le modalità di erogazione degli importi, detratte le somme eventualmente già ricevute dalla Repubblica italiana a titolo di benefici o indennizzi, nonché le ulteriori disposizioni per l’attuazione dell’articolo 43.
Il decreto è stato tuttavia adottato – come meglio diremo – dal Ministero dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministero degli esteri ed il Ministero della giustizia, soltanto il 28 giugno 2023.
Per lungo tempo, dunque, come affermato da Veronesi, «tutto [è parso essere] evanescente e a dir poco vago», mentre in un caso come questo «le certezze da comunicare al creditore [avrebbero dovuto] essere cristalline».
Il riflesso della normativa adottata dall’Italia nella procedura esecutiva richiamata, ed in particolare nel giudizio di esecuzione nelle more instaurato, è stato immediato. Ancor prima, infatti, che il decreto-legge fosse convertito, la Germania ha chiesto l’estinzione della procedura esecutiva; la medesima richiesta è stata inoltre presentata dall’Avvocatura di Stato intervenuta nel giudizio. I creditori hanno invece domandato la sospensione del procedimento esecutivo, ed in subordine il rigetto dell’istanza di estinzione, eccependo l’illegittimità costituzionale dell’art. 43.
Sempre prima della conversione dell’art. 43 in legge, è intervenuta nel procedimento, in qualità di creditrice, la Regione Sterea Ellada, in virtù di titoli costituiti da decisioni italiane di exequatur di sentenze greche che avevano condannato la Germania al risarcimento dei danni derivanti dai crimini nazisti commessi nei confronti di cittadini ellenici sul suolo greco. Tale creditrice ha sostenuto la tempestività del suo intervento, e ciò in quanto l’art. 43 prima della conversione in legge prevedeva che non potessero essere iniziate o proseguite soltanto le procedure esecutive basate su titoli aventi ad oggetto la liquidazione dei danni subiti dalle vittime di crimini compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich, e che gli eventuali giudizi di esecuzione intrapresi fossero estinti.
Tuttavia, con la conversione in legge dell’art. 43, la situazione è cambiata, in quanto l’impossibilità di procedere all’esecuzione forzata, così come l’estinzione dei giudizi di esecuzione, è stata estesa anche alle procedure fondate su sentenze straniere recanti la condanna della Germania per il risarcimento dei danni provocati dal Terzo Reich tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945.
Il Tribunale di Roma, nutrendo dei dubbi circa la legittimità costituzionale dell’art. 43, c. 3, ha promosso il sindacato di costituzionalità con l’ordinanza del 1° dicembre 2022, iscritta al n. 154 del reg. ord. della Corte costituzionale (v. Baiada 2022 e Caroli 2023).
Tre sono state le questioni di legittimità costituzionale promosse:
i) Anzitutto, è stata affermata la violazione degli artt. 2 e 24 Cost., in quanto l’art. 43, c. 3, priverebbe una specifica categoria di creditori – coloro che detengono un titolo esecutivo di condanna al risarcimento dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione dei diritti inviolabili della persona, compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich durante il Secondo conflitto mondiale – dell’esecuzione forzata, che rappresenta una componente essenziale del diritto costituzionalmente garantito di accesso alla giustizia. L’art. 43 renderebbe in questo modo ineseguibili i provvedimenti giurisdizionali di cognizione, con la conseguenza che i creditori, nei confronti dei quali è stato riconosciuto il diritto all’accertamento della lesione dei diritti umani fondamentali sulla base di quanto statuito dalla 238/2014, sarebbero privati del diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale in sede esecutiva ed al risarcimento del danno loro riconosciuto dai giudici della cognizione.
ii) In secondo luogo, è stata contestata la violazione degli artt. 3 e 111 Cost. in quanto l’art. 43, c. 3, creerebbe uno sbilanciamento processuale a favore della parte esecutata, senza che tale squilibrio sia controbilanciato dal Fondo, dal momento che i creditori verrebbero privati immediatamente ed irreversibilmente del loro diritto di procedere ad esecuzione forzata a fronte di un mero riconoscimento di accesso al Fondo, senza che sia prevista la disciplina del procedimento amministrativo, il quantum del ristoro nonché le sue modalità di erogazione.
Inoltre, il giudice rimettente, ha sottolineato che la finalità – dichiarata dal Legislatore dal c. 1 dell’art. 43 – di assicurare continuità all’Accordo italo-tedesco di Bonn del 1961 non potrebbe giustificare il sacrificio assoluto del diritto alla tutela giurisdizionale tramite l’esecuzione forzata, ben potendo peraltro tale finalità essere raggiunta dall’Italia ricorrendo all’istituto ordinario dell’adempimento del terzo.
iii) Infine, è stata sostenuta la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto l’art. 43 porrebbe in essere una discriminazione tra creditori circa la possibilità di procedere ad esecuzione forzata sulla base del criterio della nazionalità o del locus commissi delicti.
4. Il quadro all’interno del quale la Corte si sarebbe dovuta pronunciare pareva chiaro. Nel giudizio a quo, l’art. 43 avrebbe comportato l’estinzione immediata del giudizio di esecuzione (e l’impossibilità di promuovere nuove azioni esecutive), con una differenza tra i creditori parti della procedura:
i) ai creditori in forza di titoli derivanti dalla condanna della Germania per i crimini commessi dal Terzo Reich a danno di cittadini italiani e in parte sul territorio italiano, veniva riconosciuto un diritto di accesso al Fondo, senza che questo fosse effettivamente attuato e che si conoscesse il quantum che sarebbe stato irrogato.
ii) per la Regione Sterea Ellada – creditrice in forza di sentenze straniere, oggetto di exequatur in Italia, di condanna della Germania per i crimini commessi dal Terzo Reich nei confronti di cittadini greci sul territorio ellenico – nessun ristoro.
Ci si domandava dunque come mai il giudice rimettente, nella terza questione di legittimità costituzionale promossa, avesse sostenuto l’esistenza all’interno dell’art. 43 di una discriminazione tra categorie di creditori rispetto alla possibilità di procedere ad esecuzione forzata – essendo chiaramente previsto dalla norma, a seguito della conversione in legge, l’impossibilità per tutti i creditori di procedere ad esecuzione forzata – e non avesse invece denunciato la sussistenza di una discriminazione nell’accesso al Fondo, o, comunque, non avesse lamentato, nella prima questione di legittimità costituzionale, la violazione dell’effettività della tutela giurisdizionale anche nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere (sulle plausibili spiegazioni v. Berrino 2023a; Caroli 2023).
5. Sulla base dei presupposti descritti, la dottrina si è interrogata su quale avrebbe dovuto essere l’auspicabile esito del giudizio dinanzi alla Consulta(v. Brunelli et al.; Berrino 2023a; v. anche l’opinione amici curiae presentata dai sopravvissuti e dai familiari delle vittime della strage di Mommio (Fivizzano) ammessa il 23 maggio 2023 nel giudizio dinanzi ai giudici costituzionali).
Senonché a pochi giorni dalla data fissata per l’udienza di discussione dinanzi ai giudici costituzionali, il quadro è parzialmente mutato.
Come anticipato, il 28 giugno 2023 è stato adottato il decreto interministeriale che fino a quel momento aveva latitato. Tale decreto è parso chiarire il significato da attribuire al ‘ristoro’ previsto dal Fondo.
L’art. 2, c. 2, del decreto prevede, infatti, che: «È a carico del Fondo […] il pagamento dei danni liquidati nella sentenza […], e delle spese processuali eventualmente liquidate nella sentenza medesima, detratte le somme ricevute dall’avente diritto dalla Repubblica italiana a titolo di benefici o indennizzi».
L’esistenza di una corrispondenza tra il ristoro e i danni liquidati nelle sentenze – che è sembrata potersi rinvenire nel testo del decreto Giorgetti-Tajani-Nordio – è stata poi confermata dall’Avvocatura di Stato all’udienza di discussione dinanzi alla Consulta del 4 luglio 2023.
In tale sede, l’Avvocatura ha affermato, infatti, che l’art. 43 prevede «espressamente che il creditore procedente che accede al Fondo viene pagato e risarcito esattamente nella stessa misura stabilita dal tribunale nella sentenza di condanna, anche con il pagamento delle spese legali». Inoltre, l’Avvocatura ha sostenuto come il Fondo sia idoneo allo scopo per cui è stato istituito, e che, considerata la somma stanziata, non può essere considerato scarso, anche in considerazione del fatto che tale cifra è incrementabile nel corso degli anni, come peraltro risultava già essere stato fatto rispetto al momento della sua istituzione. Peraltro, a fronte della richiesta della Presidente Sciarra di esplicitare meglio quanto detto sulle somme già stanziate ed eventualmente incrementabili, l’Avvocatura ha anche specificato che: «Qualora non ci dovesse essere capienza sufficiente, anche considerati i notevoli importi che di volta in volta vengono liquidati dai tribunali italiani, il Legislatore provvederà ad incrementare ulteriormente il Fondo».
6. Fatte queste necessarie premesse, entriamo ora in medias res e passiamo ad analizzare il contenuto della sentenza n. 159/2023. Di seguito verranno ripercorsi i passaggi più significativi della decisione.
7. Sull’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura di Stato: la Corte “mette i puntini sulle i” in materia di immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere ma dichiara la questione dell’immunità non rilevante ai fini del giudizio
Secondo l’Avvocatura di Stato, premesso che nell’ordinanza di rimessione non era stato posto in rilievo la differenza tra immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile straniera e dalla giurisdizione esecutiva e che l’immunità dall’esecuzione riguarda i beni degli Stati esteri a destinazione pubblicistica, la mancata valutazione da parte del giudice rimettente della natura dei beni nel giudizio a quo avrebbe determinato il difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionali promosse.
L’Avvocatura sosteneva anche che la mancata valutazione rispetto alla natura dei beni pignorati avrebbe impedito la verifica circa la sussistenza della giurisdizione del giudice rimettente, che sarebbe stata carente in caso di natura pubblicistica dei beni, in forza dell’applicazione della norma di diritto internazionale consuetudinario che prevede l’immunità ristretta degli Stati dall’esecuzione forzata, rispetto alla quale non incidono i principi espressi dalla 238/2014 relativi alla sola cognizione.
Nel pronunciarsi sull’eccezione, i giudici costituzionali hanno quanto mai opportunamente voluto trattare il tema dell’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, con la finalità di “mettere ordine” nella materia e porre le basi per valorizzare le motivazioni utilizzate poi nella parte della decisione dedicata al merito.
Si deve, infatti, evidenziare come la giurisprudenza italiana sia sempre stata oscillante rispetto al modus operandi all’interno dei giudizi di esecuzione della norma di diritto internazionale consuetudinario sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, riconducendo talvolta l’effetto di tale norma alla giurisdizione del giudice dell’esecuzione ed in altri casi alla pignorabilità dei beni (sul punto cfr. per tutti Izzo).
La mancata chiarezza circa il modus operandi della norma nell’ordinamento italiano aveva peraltro creato confusione rispetto a quanto statuito dalla Corte di cassazione in merito alle ripercussioni dell’assetto normativo creato dalla 238/2014 (v. Corte di Cassazione, sez. III civ., sentenza del 25 giugno 2019, n. 21995, parr. 23-24).
Inoltre, come già ricordato, il giudice rimettente, nell’ordinanza con cui nella fase cautelare dello stesso giudizio all’interno del quale è stato promosso il sindacato di costituzionalità dell’art. 43, aveva motivato il rigetto della richiesta di sospensione dell’esecuzione forzata sulla base della (presunta) applicabilità dei principi della 238/2014 all’esecuzione.
L’impostazione seguita dal giudice era stata criticata in modo unanime dalla dottrina, la quale aveva sottolineato l’esigenza di un diverso percorso metodologico affinché eventualmente i principi della 238/2014 potessero trovare applicazione anche in sede di esecuzione, ovvero il promovimento di una questione di legittimità costituzionale ad hoc rispetto alla compatibilità con gli artt. 2 e 24 Cost. della norma consuetudinaria che sancisce l’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere (rectius la norma interna che, in forza dell’art. 10, c. 1, Cost., dovrebbe riprodurre nel nostro ordinamento la consuetudine internazionale), essendo quest’ultima una norma distinta da quella sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di cognizione straniera (Torretta, Salerno, Boggero 2022, Colacino 2022, Asprella, Berrino 2023a).
Nonostante poi il giudice a quo, nell’ordinanza di rimessione, non abbia più fatto diretto riferimento all’applicazione della 238/2014 in fase di esecuzione, parte della dottrina aveva sottolineato come in realtà la proposizione del sindacato di costituzionalità dell’art. 43 si fondasse proprio su tale presupposto (v. per tutti Torretta).
Ora, a prescindere dalle speculazioni su quanto sotteso dal giudice rimettente nell’ordinanza di rimessione (verosimilmente fondate della dottrina), la Corte ha deciso di fare chiarezza una volta per tutte sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, fornendo una sorta di ‘vademecum’ che impedisce nuove interpretazioni che si discostino dai dicta della Consulta.
In particolare, la Corte ha sostenuto che (v. punto 3.1 e 3.2. del Considerato in diritto):
i) l’immunità c.d. ristretta «opererebbe, di norma, con riguardo sia ai giudizi di cognizione, sia alle procedure esecutive, nella portata definita dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja nella sentenza del 3 febbraio 2012», ma che solo ed esclusivamente rispetto alla giurisdizione di cognizione si è affermata «una regola derogatoria» sulla base di quanto statuito dalla 238/2014, al fine di garantire il diritto alla tutela giurisdizionalenel caso dilesione dei diritti fondamentali;
ii) nel processo esecutivo, al quale non si riferisce la 238/2014, la prospettiva è diversa; ciò in quanto l’immunità ristretta non incide sulla giurisdizione del giudice ma si pone come limite alla pignorabilità dei beni, precludendo l’esecuzione su beni a destinazione pubblicistica degli Stati esteri.
In questo caso, dunque, il diritto alla tutela giurisdizionale, nella sua declinazione in executivis, viene garantito «anche se modulato» dall’operatività della consuetudine internazionale sull’immunità dall’esecuzione.
Di conseguenza, la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, come riconosciuta dalla CIG nella sentenza del 3 febbraio 2012, fa ingresso – in forza del trasformatore permanente di cui all’art. 10, c. 1, Cost. – nel nostro ordinamento «senza che a ciò sia di ostacolo alcun controlimite, né in particolare quello ritenuto dalla sentenza n. 238 del 2014 quanto al giudizio di cognizione».
Chiariti tali aspetti, la Consulta ha affermato che il presupposto interpretativo dell’Avvocatura di Stato – nella parte in cui ha sostenuto il riconoscimento dell’operatività della norma consuetudinaria di diritto internazionale sull’immunità ristretta nelle procedure esecutive – fosse corretto.
Tuttavia, la Corte ha ritenuto l’eccezione infondata, in quanto l’estinzione prevista dall’art. 43 troverebbe applicazione a prescindere dalla natura dei beni oggetto dell’azione esecutiva, facendo sì che la norma consuetudinaria internazionale sull’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere non assuma (più) rilevanza (a seguito dell’introduzione dell’art. 43) all’interno del giudizio di esecuzione (cfr. punto 3.3. del Considerato in diritto).
L’impostazione assunta dalla Corte, fondata sulla “pregiudizialità” dell’art. 43 rispetto alle norme sull’immunità dall’esecuzione, risulta convincente ed era già stata prospettata in dottrina (v. Berrino 2023b; Boggero 2023; Colacino 2023) come una delle possibili soluzioni per ovviare al problema del difetto di rilevanza.
L’interpretazione fornita dalla Consulta risulta, infatti, l’unica che possa considerarsi aderente al testo dell’art. 43, e ciò anche in quanto tale articolo – come detto – prevede non soltanto l’estinzione dei giudizi di esecuzione eventualmente intrapresi, ma anche l’impossibilità di iniziare ab origine delle procedure esecutive. Va da sé che l’articolo debba trovare necessariamente applicazione in un momento logicamente antecedente rispetto alla norma consuetudinaria sull’immunità dall’esecuzione; quest’ultima infatti richiede una valutazione circa la pignorabilità dei beni, al contrario invece dell’art. 43 che impedirebbe ex ante l’attivazione delle procedure esecutive in forza degli specifici titoli giudiziali a cui l’art. 43 fa riferimento nel precludere l’esecuzione forzata.
8. Il contesto in cui è stato adottato l’art. 43: dal ‘diritto soggettivo all’indennizzo’ al ‘diritto individuale al risarcimento del danno’
Prima di affrontare le questioni di legittimità costituzionale nel merito, la Corte si è addentrata in un lungo excursus dedicato al quadro normativo e giurisprudenziale in cui si è inserito l’art. 43, e all’interno del quale era necessario, agli occhi dei giudici, collocare, dunque, il giudizio di costituzionalità (cfr. punto 4-punto 11 del Considerato in diritto).
Anzitutto, i giudici hanno richiamato il tema delle riparazioni dei danni di guerra, evidenziando come, dopo il Secondo conflitto mondiale, l’Italia, a livello internazionale, abbia rinunciato a suo nome e a nome dei cittadini italiani, ai sensi dell’art. 77, c. 4 del Trattato di Pace di Parigi del 1947, a qualsiasi pretesa nei confronti della Germania e dei cittadini tedeschi, pendente alla data dell’8 maggio 1945, e come, a livello interno, abbia erogato degli indennizzi e contributi.
La Corte ha però poi statuito come rispetto al generale tema delle riparazioni di guerra, sia emersa ad un certo punto l’esigenza «peculiare e speciale […] di apprestare un ristoro alle vittime dei crimini di guerra nazisti».
Tale esigenza ha fatto sì che venissero stipulati gli Accordi italo-tedeschi di Bonn del 2 giugno del 1961, ovvero – come noto – l’Accordo relativo al regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale, economico e finanziario, reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962 n. 1263 e quello attinente agli indennizzi a favore di cittadini italiani che erano stati colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste, reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404.
La Corte si è soffermata in particolare sulla disciplina del secondo Accordo di Bonn menzionato, ovvero quello reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sostenendo come questo fosse maggiormente rilevante nel giudizio, ed evidenziando come tale Accordo preveda all’art. 3 una clausola liberatoria, essendo sancito che con il pagamento di 40 milioni di marchi da parte dello Stato tedesco vengono regolate in modo definitivo tutte le questioni tra Italia e Germania oggetto dell’accordo.
I giudici hanno poi ricostruito come la somma versata dallo Stato tedesco sia stata distribuita in Italia secondo quanto disposto dal d.P.R. 6 ottobre 1963, n. 2043 – che ha previsto, all’art. 6, un termine entro il quale presentare domanda per accedere alle somme versate dalla Germania e, all’art. 10, i criteri di distribuzione della somma tra i beneficiari – e come siano poi successivamente state adottate normative speciali volte ad incrementare la tutela apprestata.
Ciò detto, la Corte ha evidenziato come all’epoca degli Accordi di Bonn operasse l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di cognizione straniera anche per i delicta imperii, e dunque, gli individui potessero essere considerati titolari di un diritto soggettivo all’indennizzo.
Tuttavia, la Corte ha altresì evidenziato che a seguito dell’evoluzione giurisprudenziale verificatasi in Italia a partire dalla sentenza Ferrini e consolidatosi a seguito della 238/2014, la situazione fosse mutata e fosse sorto un vero e proprio diritto individuale al risarcimento.
L’emergere di un diritto individuale al risarcimento ha posto al legislatore il problema del rispetto della clausola liberatoria contenuta nel richiamato Accordo di Bonn.
Per questo motivo il legislatore ha adottato una norma ad hoc – l’art. 43 – volta a chiudere in modo definitivo ogni questione con lo Stato tedesco, al fine di garantire il mantenimento di buoni rapporti internazionali – anche in considerazione del nuovo ricorso instaurato dalla Germania dinanzi alla CIG – e dare, nel rispetto del vincolo costituzionale (art. 117, c. 1, Cost.) dell’osservanza dei trattati, continuità all’Accordo richiamato.
Citando le parole della Corte: «Proprio in continuità con tale Accordo, lo Stato si fa carico – con una norma virtuosa, anche se onerosa – del «ristoro» dei danni subìti dalle vittime di crimini di guerra, compiuti, dalle forze armate del Terzo Reich, sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani».
Peculiare è il fatto che la Corte abbia fatto specifico riferimento all’Accordo di Bonn reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sostenendo come questo rilevasse maggiormente nel giudizio. Come visto, infatti, l’art. 43 afferma invece di voler dare continuità all’Accordo di Bonn reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, tanto è vero che la dottrina, subito dopo l’adozione dell’art. 43, aveva evidenziato come sembrasse che l’Italia intendesse onorare l’impegno preso ai sensi dell’art. 2, c. 1, di tale Accordo, di tenere indenne la Germania e le persone fisiche o giuridiche tedesche – a fronte del pagamento da parte dello Stato tedesco di 40 milioni di marchi – da rivendicazione e richiesta dell’Italia o di persone fisiche o giuridiche italiane, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945, e come ciò costituisse un revirement rispetto alla posizione assunta in passato dall’Italia, che aveva sempre negato che con gli Accordi di Bonn fosse stata risolta – se non in maniera molto limitata – la questione dei risarcimenti per i crimini commessi dal Terzo Reich (v. Gradoni; Boggero 2022; Pavoni; Bufalini).
La decisione dei giudici costituzionali non sembra dunque porsi in perfetta armonia con quanto espressamente richiamato dall’art. 43.
Più che riferimento alla clausola liberatoria di cui all’art. 3 dell’Accordo di Bonn reso esecutivo con L. 6 febbraio 1963, n. 404, sarebbe stato allora forse più opportuno evidenziare l’esistenza di una continuità storico funzionale con, in generale, la finalità ultima perseguita da entrambi gli Accordi di Bonn e ricercata dall’art. 43 con il richiamo all’Accordo reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1962, n. 1263, ovvero la volontà di porre una pietra tombale sulla questioni relative ai fatti della Seconda guerra mondiale tra Italia-Germania (ed i loro cittadini), passando poi ad evidenziare (così come effettivamente fatto dalla Corte) come il sopraggiungere di un diritto al risarcimento – all’epoca degli Accordi di Bonn inesistente – in forza del venire meno dell’immunità per delicta imperii, abbia reso necessario conciliare due contrapposti interessi, quello della salvaguardia dei rapporti internazionali tra Germania e Italia, regolati dagli Accordi di Bonn, e quello della garanzia della tutela dei diritti sopravvenuti degli individui.
9. Sulla prima questione di legittimità costituzionale (ovvero il cuore della decisione): il Fondo fornisce una adeguata – ed anzi maggiore – tutela alternativa a quella conseguibile con l’esecuzione forzata
Chiarite le ‘radici’ dell’art. 43, la Corte ha affrontato la questione della legittimità costituzionale di tale articolo con riferimento agli artt. 2 e 24 Cost., dichiarandola infondata, in forza del «non irragionevole bilanciamento» operato dal legislatore, nel comporre l’art. 43, tra i principi – entrambi di rango costituzionale – della garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti, che comprende anche l’esecuzione forzata in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione delle sentenze di cognizione, tanto più quando è in gioco la lesione di un diritto fondamentale, e del rispetto degli obblighi internazionali, e quindi anche di quanto previsto dai trattati (v. punto 13 del Considerato in diritto).
I passaggi successivi della sentenza sono stati dedicati alle ragioni in virtù delle quali la Consulta ha riscontrato la bontà del bilanciamento.
Anzitutto, la Corte, richiamando la propria pregressa giurisprudenza, ha affermato come talvolta l’illegittimità di disposizioni processuali che determinavano l’estinzione dei giudizi di esecuzione sia stata esclusa, e ciò a fronte dell’esistenza di disposizioni a carattere sostanziale in grado di garantire, per una via diversa rispetto all’esecuzione forzata, «la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure esecutive» (v. punto 15 del Considerato in diritto).
La Corte ha così smentito di fatto l’impostazione assunta dal giudice rimettente, il quale aveva concepito l’esecuzione forzata come un diritto assoluto, insuscettibile di bilanciamento e, dunque, di compressione.
Tanto premesso, era necessario per la Corte chiarire che cosa dovesse intendersi con quel riferimento alla «sostanziale» realizzazione dei diritti oggetto delle procedure esecutive, ovvero quale dovesse essere il grado di tutela di tali diritti offerto da disposizioni a carattere sostanziale affinché l’esecuzione forzata potesse essere estinta; in altri termini, se il Fondo – per risultare una legittima forma di tutela alternativa all’esecuzione forzata – dovesse necessariamente erogare l’intero quantum individuato nelle sentenze di cognizione o potesse anche limitarsi ad elargire una parte di tale quantum.
La Corte, richiamando la propria sentenza del 22 marzo 1995, n. 103, ha individuato i parametri in forza dei quali operare il giudizio di congruità di un intervento legislativo che determini l’estinzione della tutela in executivis, sostenendo come in passato fosse stata esclusa l’illegittimità costituzionale dell’intervento del legislatore in casi in cui la legge superveniens aveva soddisfatto, anche se non integralmente, le ragioni fatte valere nei giudizi dei quali si imponeva l’estinzione, essendo necessario e sufficiente, per escludere l’illegittimità, riscontrare un arricchimento delle situazioni giuridiche dei creditori in forza della normativa sopravvenuta.
Attraverso il richiamo della propria decisione, la Consulta ha, dunque, ammesso la legittimità costituzionale dell’art. 43 non soltanto qualora il ristoro fornito dal Fondo fosse corrisposto all’intero quantum irrogato dalle sentenze di cognizione, ma – perlomeno potenzialmente – anche qualora fosse stata elargita una somma inferiore rispetto all’intero quantum liquidato.
Tuttavia, la possibilità di considerare eventualmente legittima l’estinzione delle procedure esecutive anche qualora il Fondo avesse erogato un pagamento non corrispondente all’intero quantum delle sentenze, non è stata infine rilevante ai fini della decisione, se non a fortiori.
I giudici costituzionali hanno, infatti, immediatamente evidenziato come l’art. 43 comporti sì l’estinzione della procedura esecutiva ma al tempo stesso offra ai creditori la tutela del Fondo, che istituisce «un meccanismo di traslazione dell’onere economico recato dall’obbligazione risarcitoria accertata con sentenza passata in giudicato» in grado di conciliare i principi costituzionali in gioco nella valutazione della legittimità costituzionale della norma: «al credito risarcitorio nei confronti della Germania è sostituito un diritto di analogo contenuto sul Fondo». (punto 16 del Considerato in diritto).
La Corte ha, dunque, sostenuto che, nel caso di specie, potessero dirsi integrati quei parametri previsti dalla propria giurisprudenza affinché l’estinzione dei giudizi potesse essere considerata legittima, in quanto l’estinzione è compensata dalla tutela approntata dal Fondo che non solo è di pari importo rispetto a quanto individuato in sede di cognizione, ma è addirittura in grado di soddisfare maggiormente le aspettative dei creditori, prevedendo il pagamento (in cui sono incluse anche le spese processuali) in un’unica soluzione entro 180 giorni dalla presentazione della domanda di accesso al Fondo – così come specificato dal decreto interministeriale attuativo all’art. 4, c. 3 – e non essendovi l’incertezza legata all’operatività dell’immunità dei beni degli Stati dalle misure coercitive straniere, la quale invece opererebbe qualora i creditori dovessero ricorrere allo strumento dell’esecuzione forzata per la soddisfazione dei loro diritti (punto 17 del Considerato in diritto).
La decisione dei giudici costituzionali è parsa – almeno in una certa misura – potersi dire ‘annunciata’.
Se è vero, infatti, che, nella prolungata incertezza circa il significato del ristoro previsto dal Fondo, la dottrina si era ‘scontrata’ sulla possibilità di salvaguardare o meno l’art. 43 qualora il Fondo avesse erogato soltanto una parte delle somme liquidate nelle sentenze di condanna (v. Brunelli et al.), questa era però sempre stata concorde nel ritenere che l’elisione dell’esecuzione forzata sarebbe stata legittima qualora, attraverso il Fondo, fosse stato pagato il pieno risarcimento individuato nei giudizi di cognizione.
Alla luce, dunque, del sopravvenire del decreto interministeriale attuativo e dei chiarimenti dell’Avvocatura di Stato all’udienza dinanzi alla Consulta, è sembrato potersi sostenere che il Fondo avrebbe erogato l’intero quantum previsto dalle sentenze di cognizione, andando così a configurare una sorta di adempimento da parte del terzo, per quanto in forma atipica rispetto a quella prevista dal codice di rito (o – come sostenuto dalla Corte sempre al punto 17 del Considerato in diritto – di «una sorta di espromissione ex lege, eccezionalmente a contenuto liberatorio»).
Quello invece che ha stupito della decisione della Corte è stato il fatto che questa abbia sostenuto che la piena esecuzione delle sentenze passate in giudicato potesse essere dedotta direttamente in forza del testo dell’art. 43 (sulla base del fatto che il c. 2 prevede per l’accesso al Fondo la titolarità di sentenze passate in giudicato e che il c. 3 stabilisce che le sentenze siano eseguite esclusivamente a valere sul Fondo), e non invece sulla base di quanto statuito nel decreto interministeriale attuativo, al quale – secondo i giudici costituzionali – erano state demandate soltanto le modalità di erogazione degli importi e non anche l’identificazione del quantum, con la conseguenza che tale decreto si sarebbe limitato ad apportare un ulteriore chiarimento circa la portata della tutela apprestata dal Fondo.
La spiegazione rispetto alla posizione assunta dalla Consulta può essere forse rinvenuta nella volontà della Corte di salvaguardare la norma, eludendo quelle problematiche di legittimità costituzionale che avrebbero potuto porsi qualora la Corte avesse riconosciuto che l’identificazione del quantum erogato dal Fondo fosse stato individuato da una fonte di rango secondario (Veronesi; Berrino 2023a).
Peraltro, se pare non esservi più alcun dubbio sulla possibilità che il Fondo eroghi l’intero quantum dei risarcimenti (sarebbe quanto mai inverosimile un revirement rispetto alle dichiarazioni dall’Avvocatura durante l’udienza dinanzi alla Consulta!), si potrebbe tuttavia anche sostenere che la decisione della Corte vincoli ora l’azione statale.
Attualmente infatti non è possibile sapere se gli importi finora stanziati per il Fondo saranno sufficienti a soddisfare tutte le pretese dei creditori (soprattutto considerato che il termine per la proposizione di nuove azioni è scaduto il 28 giugno 2023). Da questo punto di vista la decisione della Consulta è stata criticata, in quanto la Corte – nell’incertezza delle somme a cui i creditori avranno diritto – non avrebbe potuto ritenere sussistente un effettivo soddisfacimento integrale nei soli sessanta milioni di euro (finora) stanziati (Baiada 2023).
È anche vero che – come più volte sottolineato in dottrina (v. Boggero 2022 e Veronesi) – la nota di lettura al d.l. 36/2022 del Servizio del Bilancio del Senato ha affermato che le somme previste per il Fondo non sono configurati come limiti massimi di spesa; sono unicamente oggetto di una previsione, e non di un’autorizzazione di spesa vera e propria. Inoltre, come già ricordato, l’Avvocatura di Stato ha sostenuto all’udienza dinanzi alla Consulta che il Fondo potrà essere eventualmente rimpinguato (come effettivamente è stato tramite quanto disposto dal già richiamato art. 8, comma 11-quater della L. 24 febbraio 2023 n. 14).
Si potrebbe allora affermare che la Corte abbia consegnato una decisione che – a prescindere da quanto effettivamente chiarito dall’art. 43 o dal decreto interministeriale attuativo – non lasci (più) scelta allo Stato, avendo i giudici costituzionali preso le mosse dal presupposto che il ristoro equivalga al risarcimento del danno. Così, quindi, come la 238/2014 ha vincolato il circuito Governo-Parlamento nel ricercare una soluzione che non si ponesse in contrasto con la decisione dei giudici costituzionali (Rossi), anche la sentenza 159/2023 sembra ora in qualche modo impegnare nuovamente l’azione statale.
10. Sulla seconda questione di legittimità costituzionale: le motivazioni a fondamento della prima quaestio ‘allo specchio’
Rispetto alla seconda questione di legittimità costituzionale attinente alla violazione degli artt. 3 e 111 Cost., la Corte si è limitata a dichiarare la non fondatezza per ragioni analoghe a quelle già evidenziate con riferimento alla prima quaestio legitimitatis, sostenendo come «la disciplina differenziata ed eccezionale» prevista dall’art. 43 sia giustificata dalla «assoluta peculiarità della fattispecie» che richiede un bilanciamento tra i già richiamati principi supremi della Costituzione, e ribadendo come l’art. 43 rappresenti un «non irragionevole punto di equilibrio» (cfr. punto 18 del Considerato in diritto).
11. Sulla terza questione di legittimità costituzionale: un non liquet
Infine, la Consulta ha ritenuto non fondata anche la terza questione di legittimità costituzionale sollevata, ancora una volta, con riferimento all’art. 3 Cost. (cfr. punto 19 del Considerato in diritto).
Secondo la Corte, il giudice a quo avrebbe preso in considerazione il testo dell’art. 43 ante conversione in legge; se effettivamente il testo originario dell’articolo prevedeva la disparità di trattamento invocata dal rimettente, tale disparità è venuta meno con la conversione in legge della norma, che preclude l’esecuzione forzata fondata su tutti i titoli giudiziali di condanna della Germania per i danni cagionati alle vittime dei crimini commessi dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, con la conseguenza che il trattamento di miglior favore, ipotizzato dal rimettente nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere, non sussiste.
La Corte ha evidenziato poi come di ciò fosse ben consapevole anche la Regione Sterea Ellada, la quale, nella memoria depositata nel giudizio costituzionale, ha denunciato il trattamento di minor favore nei suoi confronti, dal momento che il venire meno della procedura esecutiva non viene compensata dal Fondo ristori.
Per questo motivo, la Regione Sterea Ellada ha chiesto alla Corte di sollevare di fronte a sé stessa la questione di legittimità costituzionale nei termini “corretti”. Tuttavia, la Consulta ha ritenuto che la questione si ponesse al di fuori del thema decidendum e che l’autorimessione non potesse essere giustificata in assenza del nesso di pregiudizialità.
Leggendo le motivazioni della decisione rispetto alla terza quaestio legitimitatis si ha l’impressione che la sentenza sia ‘dimezzata‘.
Ammettendo, infatti, l’esistenza di un trattamento di minor favore nei confronti di creditori in forza di titoli stranieri, i giudici sembrano aver implicitamente riconosciuto come potenzialmente possa sussistere una ‘frizione‘ – per quanto da verificare – tra alcuni principi costituzionali e l’art. 43 nella parte in cui prevede l’estinzione delle procedure esecutive (e l’impossibilità di promuovere nuove azioni) fondate su sentenze straniere, senza la possibilità per i creditori di ottenere soddisfazione tramite il Fondo.
Ora al di là dell’effettiva possibilità o meno per la Corte nel giudizio celebrato di pronunciarsi sulla questione nei termini ‘corretti’, quello che deve essere evidenziato è come la questione relativa alla disparità di trattamento (ed alla lesione dell’effettività della tutela giurisdizionale in executivis) nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere sembri ineluttabilmente destinata ad uscire dalla porta per rientrare – mutatis mutandis – dalla finestra.
All’interno, infatti, di un altro giudizio di esecuzione, instaurato a seguito di un pignoramento presso terzi operato dalla Regione Sterea Ellada – sulla base delle già ricordate decisioni di exequatur di sentenze straniere di condanna della Germania – sui crediti vantati da Deutsche Bahn AG nei confronti di Trenitalia s.p.a. e Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. (Mariottini) le Ferrovie tedesche hanno chiesto, in forza del sopraggiungere dell’art. 43 post conversione in legge, l’estinzione della procedura esecutiva.
Il Tribunale di Roma, sez. III civ., con ordinanza del 19 gennaio 2023, ha ritenuto – sulla base di una lettura coordinata dei vari commi dell’art. 43 – che la preclusione all’esecuzione forzata operi soltanto qualora sussista in capo ai creditori sia il requisito dell’accessibilità giuridico-esecutiva (ovvero i creditori siano titolari di un titolo giudiziale di condanna nei confronti dello Stato tedesco per i danni derivanti dai crimini commessi dal Terzo Reich) sia il requisito della continuità con lo Stato italiano (i crimini siano stati compiti sul territorio italiano o in danno di cittadini italiani); di conseguenza, il Tribunale ha rigettato la richiesta di estinzione, ritenendo che l’art. 43 non operi nei confronti della Regione Sterea Ellada, in quanto in capo alla creditrice mancherebbe uno dei due requisiti, ovvero quello della continuità con l’Italia.
A fronte della decisione, le Ferrovie tedesche hanno presentato reclamo. Il Collegio, invece che pronunciarsi sull’impugnazione, ha emesso un provvedimento interlocutorio. Con l’ordinanza del 21 giugno 2023, è stato osservato che, a seguito della conversione in legge dell’art. 43, quanto previsto dal c. 3, con riferimento alle ipotesi in cui sia azionata un’azione esecutiva in favore di cittadini non italiani per crimini commessi dal Terzo Reich al di fuori del territorio italiano, sarebbe suscettibile di diverse interpretazioni, a seconda che si prenda in considerazione il criterio sistematico oppure quello letterale.
Secondo il Collegio, se il criterio sistematico – utilizzato dal giudice di prime cure – consentirebbe un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 43, il criterio letterale condurrebbe invece ad un’interpretazione in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 24, 3 Cost. poiché «aderendo a quell’opzione interpretativa sarebbero escluse da ogni forma di tutela attuativa dei diritti […] alcune situazioni giuridiche soggettive (i) riconosciute da provvedimenti giurisdizionali ai quali in tutti gli altri casi è garantita quella tutela ovvero (ii) del tutto corrispondenti a quelle a cui la tutela attuativa è riconosciuta, in entrambe si realizzerebbe un’irragionevole disparità di trattamento, tale da precludere del tutto la soddisfazione, nello Stato, di un diritto pienamente riconosciuto».
Il Collegio, invece di individuare immediatamente il criterio da seguire, ha attribuito un termine alle parti (l’11 settembre 2023) per depositare una memoria in cui prendere posizione rispetto all’interpretazione da fornire dell’art. 43.
È evidente, allora, come la pronuncia della Consulta n. 159/2023, per quanto non abbia investito la legittimità costituzionale dell’art. 43 rispetto all’estinzione delle procedure esecutive fondate su sentenze straniere, abbia mutato il quadro in cui il Tribunale di Roma, sez. III civ., dovrà pronunciarsi. I giudici costituzionali hanno infatti chiarito quale interpretazione debba essere fornita dell’art. 43, escludendo così radicalmente la possibilità di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico.
Pertanto, sulla base di quanto affermato dal Collegio del Tribunale di Roma, sez. III civ., sembra inevitabile che verrà presto promossa una nuova questione di legittimità costituzionale, questa volta nei termini ‘corretti’, e, dunque, vi sarà una nuova – altrettanto storica – decisione della Consulta.
12. In conclusione, la valutazione sulla sentenza 159/2023 non può che essere positiva. La decisione, infatti, lungi dal rappresentare «una battuta di arresto negativa» – come invece affermato da Gallo e Baiada – nella lunga vicenda storico-giudiziaria che investe i risarcimenti nei confronti delle vittime della Seconda guerra mondiale, sembra piuttosto costituire un passo in avanti verso l’effettiva soddisfazione delle vittime e la chiusura della controversia internazionale tra Italia e Germania.
Questo passo in avanti è stato fatto dalla Corte in maniera particolarmente avveduta, in quanto la salvaguardia dell’art. 43 nella parte in cui preclude ai creditori – in forza di sentenze di cognizione relative ai danni derivanti dai crimini commessi dal Terzo Reich sul territorio italiano o comunque nei confronti di cittadini italiani – l’esecuzione forzata, è stata operata sulla base della presupposta – ed indiscussa da parte dei giudici della Corte – coincidenza tra ‘ristoro‘ e ‘risarcimento del danno‘ che verrà erogato tramite il Fondo, vincolando così l’azione dello Stato ad una soddisfazione integrale della predetta categoria di creditori (per quanto questa fosse già stata preannunciata dall’Avvocatura di Stato).
Peraltro, si deve anche segnalare come l’assenza – lamentata da parte degli avvocati dei creditori all’udienza dinanzi alla Consulta – di una soddisfazione attuale dei creditori da parte del Fondo, a fronte invece dell’estinzione immediata dell’esecuzione forzata (riprendendo quanto sostenuto dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, su cui la Corte non si è direttamente pronunciata se non nei limiti in cui ha ritenuto la situazione creata dall’art. 43 soddisfare maggiormente le pretese dei creditori), non possa già più dirsi fondata, dal momento che sul sito del MEF risultano oggi disponibili i vari modelli – menzionati dall’art. 3, c. 1, del decreto interministeriale del 28 giugno 2023 – che consentono ai creditori di presentare la domanda per accedere al Fondo, e ricevere – conformemente a quanto affermato dall’art. 4, c. 3 del citato decreto – il pagamento entro 180 giorni.
Ciò detto, non siamo – ancora una volta – però dinanzi alla fine dell’annosa vicenda italo-tedesca, e, anzi, la sensazione che si prova dopo aver letto la decisione è quella di essere in un eterno déjà-vu, fino alla verosimilmente prossima – decisiva – pronuncia della Consulta rispetto alla preclusione dell’esecuzione forzata nei confronti dei creditori in forza di sentenze straniere oggetto di exequatur in Italia, decisione che sembrerebbe (forse) destinata a chiudere il cerchio e a tessere anche il destino – attualmente ancora incerto – della controversia tra Italia e Germania dinanzi alla CIG, ove le parti parrebbero attendere – come sembrerebbero dimostrare le richieste delle parti alla Corte di proroghe per il deposito delle memorie (oltre al fatto che lo Stato tedesco, a seguito dell’adozione dell’art. 43, ha ritirato la domanda di misure provvisorie che era stata presentata con il nuovo ricorso alla CIG ) – la ‘stabilizzazione’ della soluzione attuata dall’Italia con l’art. 43.
Claudio Di Turi (Università della Calabria)
Tra gli effetti più devastanti del conflitto armato internazionale scoppiato nel febbraio 2022 a seguito dell’aggressione all’Ucraina (tra i maggiori esportatori mondiali di prodotti cerealicoli) da parte della Federazione russa, condannata con una risoluzione adottata a larghissima maggioranza dall’Assemblea generale dell’ONU, vi sono le ripercussioni sulla sicurezza alimentare internazionale: sin dalle prime fasi delle operazioni militari, essa è apparsa minacciata da specifici metodi di condotta delle ostilità attuati dalla Marina militare di Mosca, quali la posa di mine nelle acque antistanti i porti dell’Ucraina e il blocco delle sue coste. Ne derivava una drastica riduzione della quantità di grano disponibile per la popolazione ucraina, il crollo delle esportazioni di beni cerealicoli, l’aumento del prezzo sui mercati internazionali e continue interruzioni delle catene di approvvigionamento.
Al fine di scongiurare una crisi alimentare mondiale, su iniziativa delle Nazioni Unite il 22 luglio 2022 a Istanbul veniva firmata la c.d. Initiative on the Safe Transportation of Grain and Foodstuffs from Ukrainian ports (l’Initiative) di cui sono parti contraenti la Turchia, la Federazione russa e l’Ucraina (art. 1) e che si basa (art. 2) sugli obblighi esistenti per i firmatari in materia di tutela della navigazione del naviglio mercantile: la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare del 1974 e il Codice internazionale per la sicurezza delle navi e degli impianti portuali, che ne costituisce emendamento (entrambi adottati dall’Organizzazione marittima internazionale).
L’Initiative consta di due strumenti giuridici distinti ancorché funzionalmente connessi e che, in quanto tali, possono considerarsi un single package: il primo, firmato dal Segretario generale dell’ONU, dal Ministro della Difesa russo e dal Ministro della Difesa turco; il secondo, dal Segretario Guterres, dal Ministro della Difesa turco e dal Ministro delle Infrastrutture ucraino. Per agevolare la ripresa della navigazione sicura dai porti ucraini sul Mar Nero di grano, prodotti cerealicoli e fertilizzanti (art. 3), le Parti contraenti hanno istituito un Joint Coordination Centre composto da loro rappresentanti, cui è affidato il compito di coordinare l’Initiative, condurre ispezioni sul naviglio e autorizzarne il percorso lungo corridoi marittimi concordati tra le Parti: queste dovranno astenersi da attività militari al fine di evitare pericolosi incidenti (artt. A-G). Di centrale importanza è l’art. H del documento che, nel prevedere un termine di efficacia di 120 giorni dalla data della firma, ammette che esso possa essere prorogato «unless one of the Parties notifies the other of the intent to terminate the initiative, or to modify it».
Contemporaneamente all’Initiative, la Federazione russa firmava un Memorandum of Understanding (MoU) con il Segretariato ONU che impegnava le Nazioni Unite a facilitare l’accesso ai mercati internazionali di cibo e fertilizzanti provenienti dalla Russia (art. 2) esentando tali beni dal regime sanzionatorio imposto a Mosca in conseguenza dell’invasione; per parte sua, Mosca prometteva di non ostacolare l’esportazione di cibo e fertilizzanti dai porti ucraini (art. 1).
Nonostante le forti aspettative riposte dalla Comunità internazionale sull’Initiative e sul MoU quali strumenti fondamentali per il mantenimento della sicurezza alimentare, le vicende che ne hanno caratterizzato la fase operativa hanno rivelato l’intrinseca fragilità dei meccanismi in essi predisposti a causa della mancata previsione di procedimenti formali di soluzione delle controversie derivanti dall’ interpretazione e attuazione dei due accordi. Né, a riguardo, può riporsi eccessivo affidamento sull’attività di assistenza nell’attuazione dell’Initiative svolta dal Segretario generale ONU (art. 4 del documento), come pure sulle consultazioni tra ONU e Russia previste dall’art. 5 del MoU in caso di divergenze tra le Parti sulla sua interpretazione ed esecuzione. Come vedremo, (anche) la debolezza di tali procedure è stata all’origine di interpretazioni unilaterali da parte della Federazione russa che hanno condizionato fortemente la fase operativa dei due accordi.
Prima di affrontare queste problematiche, sembra tuttavia opportuno soffermarsi sulla natura giuridica degli strumenti sottoscritti a Istanbul. Con particolare riferimento all’Initiative, essacostituisce a mio avviso un vero e proprio trattato internazionale ex art. 2, par. 1, a della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (CVDT) e come tale è dotato di efficacia giuridica tra le Parti qualunque ne sia la denominazione poiché, come ha chiaramente affermato la Corte internazionale di giustizia nei casi South West Africa « Terminology is not a determinant factor as to the character of an international agreement or undertaking» (p. 331).Non osta all’assimilabilità a un vero e proprio accordo internazionale la sua mancata registrazione ex art. 102, par. 1 della Carta ONU e 80 CVDT presso il Segretariato delle Nazioni Unite poiché, secondo la Corte de l’Aja nell’affare Maritime Delimitation and Territorial Questions between Qatar and Bahrain, Jurisdiction and Admissibility (par. 29) a proposito di accordi internazionali non registrati, tale mancato adempimento «[…] does not have any consequence for the actual validity of the agreement, which remains no less binding upon the parties». Peraltro vi sono ulteriori elementi, di carattere testuale, che depongono nel senso dell’obbligatorietà giuridica dell’Initiative. Richiamando la sentenza Aegean Sea Continental Shelf (Greece v. Turkey), in cui la Corte internazionale di giustizia ha affermato che per determinare la natura giuridica di un atto è necessario avere riguardo «[…] above all to its actual terms and to the particular circumstances in which it was drawn up» (par. 96, corsivo mio), si può presumere che l’impiego nell’art. 5 dell’Initative della locuzione «[…] the Parties agree as follows» manifesti chiaramente la loro volontà di vincolarsi reciprocamente. Inoltre, al reiterato riferimento alle “Parti” (in luogo di “participanti”) contenuto nel documento, fa da contraltare la precisazione contenuta nell’art. 4 del MoU che esso «[…] is not an international treaty and does not establish any rights or obligations under the international law»: l’assenza di analoga disposizione nell’Initiative è un chiaro indice della sua natura giuridica obbligatoria.
La qualificazione giuridica dell’Initiative come accordo internazionale vincolante per le Parti ci consente di valutarne le vicende non solo alla luce del già cit. art. H, ma anche delle pertinenti disposizioni della CVDT: viene così in rilievo, anzitutto, la sospensione unilaterale effettuata dal Presidente Putin nell’ottobre 2022 giustificata alla luce di un presunto danneggiamento da parte dell’esercito di Kiev di infrastrutture civili russe, cui fece seguito una ripresa di efficacia dell’accordo nelle settimane successive. Se la condotta russa non appare giustificata dall’art. H dell’Initiative, che non disciplina ipotesi di sospensione, resta da verificare se essa possa eventualmente ammettersi alla luce degli articoli 57, b della CVDT (che prevede la sospensione nei confronti di tutte le parti o di una determinata parte in ogni momento con il consenso di tutte e previa loro consultazione) e 60, par. 2, b dello stesso strumento che disciplina la sospensione dell’accordo da parte del contraente specialmente danneggiato dalla violazione solo nelle relazioni fra esso e lo Stato autore dell’infrazione: norma che la Corte internazionale di giustizia nel parere consultivo relativo all’affare Namibia ha ritenuto « in many respects » codificativa del diritto internazionale generale in materia. Anche se fosse stata provata la violazione di una disposizione essenziale da parte dell’Ucraina dell’Initiative, la sospensione unilaterale operata da Mosca quale Parte avente un interesse particolare all’esecuzione dell’obbligo non è conforme agli adempimenti procedurali di cui agli art. 57 lett. b e 65, par. 1 della CVDT. In particolare quest’ultima disposizione, frutto dell’esigenza di assicurare adattabilità e stabilità nelle relazioni contrattuali tra Stati (A. Ciampi, Invalidity and Termination of Treaties and Rules of Procedure, in E. Cannizzaro (ed.), The Law of Treaties Beyond the Vienna Convention, Oxford, 2011, p. 360) obbliga la parte contraente a notificare alle altre la propria decisione di sospendere l’applicazione del trattato indicando il provvedimento previsto e le ragioni che l’hanno determinato: ma tale obbligo non risulta essere stato osservato dalla Federazione russa nei confronti delle altre parti contraenti. Se pure Ankara non ha ratificato la CVDT, in un noto passaggio della sentenza resa nell’affare relativo al progetto Gabčίkovo-Nagymaros (Ungheria c. Slovacchia), la Corte internazionale di giustizia ha affermato (par. 109) che l’articolo 65 della CVDT «[…] if not codifying customary law, at least generally reflect customary international law and contain certain procedural principles which are based on an obligation to act in good faith»: è possibile, pertanto, sostenere che l’obbligo ex art. 65, par. 1 ha natura consuetudinaria e in quanto tale s’impone alla Russia che lo violato.
Il contesto fattuale appena descritto è mutato radicalmente il 17 luglio 2023 giorno in cui l’Initiative, in mancanza di un rinnovo del termine di 120 giorni ivi previsto, ha cessato di produrre i propri effetti giuridici. Invocando genericamente il mancato rispetto del package negoziale, la portavoce del Ministero degli Esteri russo Zakharova comunicava che il proprio Governo aveva « notified » alle altre Parti contraenti, così come al Segretariato ONU, «its objections to the agreement extension»; per parte sua, il portavoce del Presidente Putin, Peskov, affermava che «the Black Sea agreements have ceased to be in force today», ma che «as soon as the Russian part of the agreements is fulfilled, the Russian side will return to the implementation of this agreement, immediately». Si tratta, evidentemente, di due prese di posizione contraddittorie che mescolano argomenti volti a giustificare sia l’estinzione dell’accordo, che la sua sospensione. Non meno incerte circa l’esatta qualificazione giuridica del punto di vista ufficiale russo risultavano le dichiarazioni diffuse lo stesso giorno da parte del Segretario generale ONU Guterres, che lo condannava come manifestazione della volontà di estinguere l’accordo, e del portavoce del Presidente dell’Assemblea generale, secondo cui esso evidenziava la determinazione di recedere dall’Initiative. L’ambiguità della nota ufficiale russa non veniva dissipata neanche da un successivo comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri di Mosca. In esso, si contesta la presunta violazione da parte ucraina e dei Paesi occidentali della lettera e dello spirito esclusivamente umanitari dell’Initiative, strumento che sarebbe stato finora utilizzato da tali soggetti per il commercio del grano a scopi puramente lucrativi, nonostante statistiche UNCTAD evidenzino come a trarre i maggiori benefici dalle esportazioni di cibo e grano siano stati i Paesi in via di sviluppo.
Per quanto riguarda il MoU, nel criticarne l’idoneità a conseguire gli obiettivi preposti, Mosca lamenta il mantenimento del sistema sanzionatorio riguardo a prodotti alimentari e fertilizzanti russi a dispetto degli impegni assunti dai Paesi occidentali e la mancata riconnessione della Russian Agricultural Bank al sistema SWIFT per i pagamenti internazionali. In conseguenza di ciò il Ministero degli Esteri della Federazione russa, richiamando l’articolo H dell’Initiative, informava di avere notificato al Segretariato ONU, all’Ucraina e alla Turchia la volontà di revocare le garanzie di navigazione nel Mar Nero interrompendo contestualmente la propria partecipazione al Joint Coordination Center, sì che l’Initiative «will cease to operate as of July 18». Si tratta, prima facie, di una dichiarazione con cui la Federazione russa considera estinto l’accordo in virtù di una violazione di più disposizioni di esso sia da parte ucraina che dei Paesi occidentali.
Lo Statement del Ministero degli Esteri russo si presta a più di un’osservazione critica. Anzitutto, esso imputa violazioni dell’intero pacchetto negoziale di Istanbul (anche) a soggetti (i Paesi occidentali) che non ne sono formalmente parti: è vero che secondo l’art. 2, par. del MoU il Segretariato ONU s’impegna «to engage relevant authorities» ad esentare cibo e fertilizzanti russi dalle sanzioni imposte a Mosca, ma ciò non vale a elevare i Paesi che sostengono l’Ucraina a rango di Parte contraente di tale impegno. La nota ufficiale della diplomazia russa, inoltre, non specifica se la notifica sia stata effettuata alle controparti in forma scritta come richiesto dall’art 67 della CVDT (il rispetto della forma scritta è da considerarsi obbligo di natura consuetudinaria secondo M. Buscemi, L. Marotti, Obblighi procedurali e conseguenze del recesso dai trattati: quale rilevanza della Convenzione di Vienna nella prassi recente? in Rivista di diritto internazionale, 2019, p. 943 ss., p. 946). Vero è che il documento indica la misura proposta e le ragioni di essa: ciò può lasciare presumere che la notifica sia stata effettivamente redatta nel rispetto della prescritta formalità. V’è però da domandarsi se le dichiarazioni contenute nello Statement non possano essere interpretate anche in senso diverso, ossia volte a sospendere temporaneamente l’efficacia dell’Initiative. Ciò perché nel documento si legge che «Russia will be ready to consider resuming the deal», se i Paesi occidentali eseguiranno in buona fede gli impegni assunti in tema di sanzioni sui prodotti alimentari e i fertilizzanti russi destinati all’esportazione. Anche in questo caso viene implicitamente attribuita in modo indebito la qualità di parte a soggetti estranei al pacchetto negoziale di Istanbul, laddove sarebbe stato giuridicamente più corretto imputare alla sola Ucraina la violazione di disposizioni essenziali dell’Initiative al fine d’invocare quale parte specialmente colpita la sospensione dell’applicazione dell’accordo ex art. 60, par. 2, b della CVDT nelle relazioni tra i due Stati.
Andando oltre la lettera dello Statement ciò che merita di essere evidenziata è, paradossalmente, la condotta delle altre Parti contraenti che – formulate le rituali critiche alla condotta russa manifestate dall’Ucraina – hanno rinunciato a esprimere obiezioni ex art. 65 par. 3 della CVDT attraverso cui pervenire alla ricerca di una soluzione ex art. 33 della Carta ONU (sui caratteri di tale procedura v., in generale, P. De Sena, M. Starita, Corso di diritto internazionale, Bologna, 2023 p. 84): la loro mancata formulazione è a mio avviso indice che esse ritengono l’Initiative sospesa nella speranza di un ritorno immediato di Mosca al tavolo negoziale. Tale aspettativa potrebbe risultare subito frustrata, ove si consideri che la Russia non ha comunque atteso i tre mesi stabiliti nell’art. 65 par. 2 per redigere con le forme prescritte dall’art. 67 CVDT lo strumento sospensivo, il cui testo non è stato diffuso. In questo contesto di forte incertezza, il banco di prova per saggiare la disponibilità della Federazione russa a rispettare il principio della buona fede può essere costituito dall’ art. 72, par. 2, della CVDT, secondo cui durante il periodo di sospensione dell’accordo le Parti devono astenersi da qualsiasi azione che tenda ad ostacolare la ripresa dell’applicazione del trattato. Di certo, la proclamata intenzione del Presidente Putin di fornire grano gratuitamente ai Paesi africani, durante il vertice tenutosi a San Pietroburgo del 27-29 luglio con i Capi di Stato e di governo di numerosi Paesi africani, non va in questa direzione
In conclusione, se non è agevole fornire un’interpretazione corretta della reale volontà della Federazione russa in ordine alla prosecuzione dell’impegno pattizio concordato a Istanbul, è da sperare in ogni caso in una sua ripresa di efficacia: tale auspicabile eventualità non attenua comunque la critica alla scelta di Mosca di ottenere quanto previsto negli accordi sul grano con scelte politico-diplomatiche fortemente unilateralistiche che rischiano di compromettere definitivamente la sicurezza alimentare della comunità internazionale, allontanando ulteriormente la prospettiva della cessazione delle ostilità con l’Ucraina.
Francesca Perrini (Università degli Studi di Messina)
Lo sforzo diplomatico messo in campo dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, dalla Premier italiana Giorgia Meloni e dal Premier neerlandese Mark Rutte (Team Europa) per la ricerca di un accordo con il Presidente tunisino Kaïs Saied si è concluso lo scorso 16 luglio con la firma a Tunisi del Memorandum d’intesa tra Unione europea e Tunisia, con il quale si dà seguito alla dichiarazione dell’11 giugno 2023 (su cui si rinvia al precedente contributo in questo blog).
A distanza di poco più di un mese si porta a compimento un dialogo che sembrava si fosse arenato. La firma dell’intesa era inizialmente prevista in occasione del Consiglio europeo del 29-30 giugno 2023 ed è stata poi rinviata con la motivazione ufficiale della concomitanza delle festività nazionali tunisine celebrative della “Festa del Sacrificio”. Nessun testo è stato portato, dunque, al Consiglio europeo, ciò nondimeno il Presidente Charles Michel, nelle sue Conclusioni sulla dimensione esterna della migrazione, ha ritenuto opportuno sottolineare che «La migrazione è una sfida europea che richiede una risposta europea. È stato effettuato un esame globale della situazione migratoria alle frontiere esterne dell’UE e all’interno dell’UE e si è preso atto dei lavori intrapresi finora nel quadro di una risposta europea. La presidenza del Consiglio e la Commissione hanno informato il Consiglio europeo in merito ai costanti progressi compiuti (…) con particolare attenzione agli aspetti esterni della migrazione e ai relativi meccanismi di finanziamento», facendo un più chiaro riferimento al negoziato con la Tunisia nelle dichiarazioni rese alla stampa a conclusione del vertice.
I contatti diplomatici riprendono, dunque, il 3 luglio per poi concludersi il 16 luglio con la firma del Memorandum da parte del Commissario europeo all’allargamento ed alla politica di vicinato (Oliver Várhelyi) e del Segretario di Stato del Ministro degli affari esteri, della migrazione e dei cittadini tunisini all’estero (Mounir Ben Rjiba).
Per quanto attiene al contenuto del Memorandum, non si registrano novità rispetto alla citata dichiarazione dell’11 giugno. È confermato l’obiettivo di istituire un partenariato strategico e globale tra l’Unione europea e la Tunisia in cinque settori di rilevante importanza per le relazioni tra le parti: la stabilità macro-economica, l’economia e il commercio, la transizione energetica verde, il riavvicinamento tra i popoli, la migrazione e la mobilità.
In particolare, l’Unione europea si impegna a sostenere lo sviluppo della Tunisia anche attraverso un supporto economico che faciliti le riforme necessarie; le parti intendono rafforzare la loro cooperazione economica e commerciale al fine di facilitare gli scambi di beni e servizi e favorire gli investimenti (specie nell’ambito del Fondo europeo di sviluppo sostenibile) nei settori dell’agricoltura, dell’economia circolare, della transizione digitale (soprattutto tramite il progetto Medusa relativo al cavo sottomarino di trasmissione della fibra ottica ad alta velocità nell’area del Mediterraneo), del trasporto aereo e degli investimenti mirati. Nell’interesse comune di realizzare un più sicuro approvvigionamento energetico, l’Unione e la Tunisia si impegnano a incentivare la produzione di fonti rinnovabili, sfruttando al meglio il progetto ELMED sulla realizzazione dell’elettrodotto (finanziato per la maggior parte dall’Unione europea) che unisce la Tunisia e l’Italia. Le parti dichiarano, inoltre, l’intenzione di continuare a cooperare per la promozione del dialogo tra i popoli e per il potenziamento degli scambi culturali, scientifici e tecnici in applicazione dei programmi europei esistenti; dal canto suo, l’Unione incentiverà l’armonizzazione delle pratiche statali di rilascio dei permessi di soggiorno di breve durata per i cittadini tunisini nell’ottica di avvantaggiare la loro partecipazione ai programmi europei come Horizon Europe, Europe Créative o Erasmus+, prevedendo per quest’ultimo delle risorse economiche aggiuntive.
Per tali settori la cooperazione tra Unione europea e Tunisia consiste in un potenziamento economico di iniziative per lo più già esistenti. Da questo punto di vista il Memorandum non fa che ribadire l’intenzione delle parti di continuare a cooperare in ambiti di comune interesse.
La parte dell’intesa che desta maggiori perplessità è quella riguardante la migrazione, al punto da far ragionevolmente ritenere che il sostegno finanziario messo in campo dall’Unione per i settori sopra indicati sia un modo per affidare al governo tunisino la difesa delle frontiere esterne (Camilli) nella nota ottica di esternalizzazione delle frontiere (Carella; Palladino; per il caso di Ceuta e Melilla come esempi di esternalizzazione si veda Fazzini) portata avanti dall’Unione utilizzando strumenti giuridici di vario tipo (Milano).
Le parti sottolineano il loro approccio olistico in materia di migrazione e dichiarano di avere come comune priorità la lotta contro l’immigrazione irregolare, al fine di evitare la perdita di vite umane. Da segnalare che la Tunisia dichiara espressamente di non voler essere «un pays d’installation de migrants en situation irrégulière», confermando la posizione già manifestata nel corso dei negoziati. Molto generico risulta il riferimento al rispetto dei diritti umani e da definire sono le modalità attraverso le quali sarà realizzata la lotta ai trafficanti di esseri umani ed alle reti criminali che organizzano le partenze dei migranti, così come il sistema di identificazione e rimpatrio dei migranti irregolari già presenti sul territorio tunisino.
Le parti, inoltre, si impegnano a migliorare il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio in mare e l’Unione europea fornirà un appoggio finanziario aggiuntivo per gli aspetti logistici e tecnici del controllo delle frontiere tunisine.
Decisamente vago risulta il richiamo al rispetto del diritto internazionale nella parte in cui si prevede il rimpatrio per i cittadini tunisini irregolarmente presenti nel territorio dell’Unione e la ricollocazione nei Paesi di origine dei migranti irregolarmente presenti nel territorio tunisino. Considerata la nota situazione tunisina in tema di rispetto dei diritti umani dei migranti, sarebbe stato opportuno che l’Unione europea avesse chiesto maggiori garanzie a salvaguardia della dignità umana, finanche subordinando gli aiuti finanziari al rispetto di diritti fondamentali dei migranti.
Anche per ciò che attiene alla forma giuridica il testo firmato il 16 luglio conferma quanto già annunciato nella dichiarazione dell’11 giugno, trattandosi appunto di un Memorandum di intesa. A tale riguardo occorre ribadire quanto già detto nel precedente contributo del 23 giugno scorso e cioè che l’intesa raggiunta si inserisce in un modello di cooperazione già utilizzato, basato su un approccio economico nella gestione del fenomeno migratorio nella forma (anch’essa già usata) del Memorandum di intesa, che inevitabilmente evoca il Memorandum Italia-Libia (Favilli) ed evoca altresì lo Statement UE-Turchia del 18 marzo 2016 (Roman).
Rispetto a quest’ultimo, però, è da evidenziare una differenza di non poco conto: lo Statement è, infatti, una dichiarazione adottata nell’ambito del Consiglio europeo (che il Tribunale prima e la Corte dopo non hanno ritenuto equiparabile ad un accordo internazionale stipulato dall’Unione, ma semmai ad un accordo informalmente concluso dagli Stati membri), laddove l’intesa del 16 luglio 2023 nasce da un processo negoziale avviato dall’Unione europea (riconosciuto dallo stesso Presidente del Consiglio europeo nelle sue citate dichiarazioni) ed è consacrata in un testo scritto firmato da un legittimo rappresentante dell’Unione europea da una parte e da un altrettanto legittimo rappresentante della Tunisia dall’altra.
Tale circostanza fa sì che i dubbi manifestati a proposito della discussa Dichiarazione UE-Turchia non abbiano ragion d’essere nel caso del Memorandum tra Unione europea e Tunisia sulla base del principio consolidato per il quale la qualificazione dell’atto non dipende dal suo nomen juris, ma dal suo contenuto e dalla volontà delle parti.
Ora, sebbene il contenuto dell’intesa dello scorso 16 luglio sia generico, non si può negare che in essa le parti abbiano convenuto di impegnarsi a cooperare, manifestando una chiara volontà in tal senso. E, dunque, da questo punto di vista non può negarsi la natura pattizia del Memorandum.
Resta il fatto che, ancora una volta, si è optato per uno strumento che non segue le procedure istituzionali previste, che, invece, andrebbero osservate proprio quando sono in gioco (e – considerata la situazione politica generale della Tunisia – a forte rischio) i diritti umani.
Il modello di controllo delle frontiere seguito dagli Stati maggiormente interessati al fenomeno migratorio (in primis l’Italia), e sempre di più anche dall’Unione europea, si basa su atti che (per gli Stati) garantiscono celerità e (per l’Unione) permettono di sfuggire all’ostruzionismo sovranista di alcuni Governi, anche a costo di porre in secondo piano il rispetto dei diritti umani e, più in generale, i principi e i valori dello stato diritto (si veda Villani, in cui si sottolinea che «(i)l ricorso a strumenti di gestione dell’asilo e dell’immigrazione anche all’esterno del sistema dell’Unione europea (…) determina, evidentemente, una totale esclusione delle competenze del Parlamento europeo, in una materia pur così politicamente sensibile, così come della Corte di giustizia, il cui controllo sul rispetto dei diritti umani (…) sarebbe invero indispensabile»).
Mattia Colli Vignarelli (Università degli Studi di Torino)
1. Introduzione
L’epopea del Trattato sulla Carta dell’Energia (TCE) è entrata in una nuova fase. Quanto durerà non è ancora dato stabilirlo: dipende in larga parte dalle scelte degli Stati e dalla creatività dei giuristi. Ma, di fatto, siamo giunti al crepuscolo.
Il 7 luglio 2023 la Commissione Europea ha pubblicato la propria proposta per il recesso ‘coordinato’ dell’Unione, dei suoi Stati Membri e dell’Euratom dall’accordo. Si badi bene, la vicenda non finirà affatto qui. Come nelle migliori storie, ogni capitolo svela nuovi dettagli, chiude alcuni filoni narrativi e ne apre di nuovi, stimola la curiosità e lascia spazio all’immaginazione del lettore. Così, anche la saga del TCE è destinata a protrarsi ancora a lungo, e altrettanto il vivace dibattito ad essa correlato (solo su questo blog, a commento di alcune delle ultime tappe, si vedano Munari e Cellerino; Zarra; Cellerino; Lampo; Bergamaschi).
Il ‘tramonto’ del TCE si spiega in primo luogo rilevando che esso costituisce «a formidable practical obstacle to the transition to greener energy» (Klabbers), un tassello fondamentale di un modello di governance dell’energia fondato sull’espansione dell’estrazione e del consumo di fonti fossili. La stessa Commissione europea, stante l’impossibilità di approvare il testo riformato dell’accordo (ritenuto comunque inadeguato da svariati Stati Membri: sulla questione sia permesso rinviare ad un nostro recente contributo), considera il recesso inevitabile, per via dell’incompatibilità del TCE vigente con la propria politica energetica e climatica.
Vi è chi contesta tale posizione facendo riferimento ai numerosi ricorsi proposti da imprese che operano nel settore delle rinnovabili (si veda per esempio qui), che dimostrerebbero il potenziale dell’arbitrato investitore-Stato nel promuovere la transizione energetica. A nostro avviso, si tratta di una posizione poco convincente, perché non mette in discussione la correlazione mai dimostrata fra arbitrato e aumento dei flussi di investimento (vd. ad es. Arcuri e Violi) e, peraltro, non considera gli effetti distorsivi dell’arbitrato proprio nella gestione degli incentivi alle rinnovabili (vd. Tienhaara e Downie).
Nel contesto qui richiamato, il post esaminerà brevemente la proposta della Commissione Europea, soffermandosi soprattutto su come essa (non) affronti le conseguenze giuridiche del recesso dal TCE. Infatti, per quanto l’UE e i suoi Stati Membri possano decidere di affrontare questo passo in maniera ‘coordinata’, ci troveremmo pur sempre di fronte all’avvio congiunto di procedure unilaterali, ai sensi dell’art. 47 TCE. Come è noto, il principale elemento problematico è la cd. sunset clause di cui all’47(3) TCE, la quale dispone che:
«The provisions of this Treaty shall continue to apply to Investments made in the Area of a Contracting Party by Investors of other Contracting Parties or in the Area of other Contracting Parties by Investors of that Contracting Party as of the date when that Contracting Party’s withdrawal from the Treaty takes effect for a period of 20 years from such date».
Indipendentemente dal dibattito sull’arbitrabilità delle controversie intra-UE (oggetto ex multis dei contributi sul questo blog sopra citati), una qualsiasi parte recedente dovrebbe considerare con attenzione tale clausola, che estende l’applicazione del trattato per ben vent’anni dall’entrata in vigore del recesso. Ciò è ben noto all’Italia, che ha esercitato il recesso dal TCE già nel 2016, ma che nel caso Rockhopper c. Italia è stata condannata a risarcire la ricorrente per un ammontare superiore ai 240 milioni di euro. L’investitore aveva potuto avviare la procedura di arbitrato nel 2017 – dopo l’acquisizione di una compagnia petrolifera britannica cui era stato negato il permesso di sfruttamento del sito Ombrina Mare – proprio grazie agli effetti della sunset clause (sul lodo si vedano ad es. Bohmer; Marzal; Mazzotti).
Il presente contributo intende dunque fare il punto sulla fragilità nell’approccio della Commissione alla questione del recesso dal TCE e individuare le possibili strade per un recesso coerente con l’ambizione di rimuovere ciò che l’Unione Europea afferma essere un ostacolo all’attuazione di misure di contrasto al cambiamento climatico e alla transizione energetica.
2. L’ultimo travagliato anno del TCE, in breve
L’accordo in principio sulla ‘modernizzazione’ del TCE fu annunciato in contemporanea dal Segretariato della Carta sull’Energia e dalla Commissione europea il 24 giugno 2022. La Commissione, in particolare, sottolineò di aver ottenuto «a coherent and up-to-date framework» in grado di fornire «legal certainty and […] a high level of investment protection while reflecting clean energy transition goals and contributing to the achievement of the objectives of the Paris Agreement».
Tale fiducioso entusiasmo, tuttavia, non servì a evitare lo strappo di alcuni Stati membri. Nelle settimane successive alla comunicazione sull’accordo, i governi di Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Germania e Lussemburgo, seguiti poi dalla Danimarca, annunciarono la decisione del recesso. Secondo alcune fonti dello scorso aprile, Austria, Irlanda e Portogallo sembravano in procinto di unirsi al gruppo, rimanendo forse in attesa di una decisione da parte della Commissione. Ad oggi, soltanto Germania, Polonia e Francia hanno inviato la notifica ufficiale al depositario del trattato ai sensi dell’art. 47(1) TCE. Ad esse, come detto sopra, va aggiunta l’Italia.
Intanto, la Conferenza delle parti del TCE – inizialmente fissata il 22 novembre 2022 – dovette essere rimandata all’aprile successivo, e poi a data da destinarsi, per via dell’opposizione a qualsiasi ipotesi di approvazione del testo riformato da parte del Parlamento europeo e di una minoranza di blocco in seno al Consiglio. A quel punto, la Commissione si vide costretta ad accettare la prospettiva del recesso, considerato ormai inevitabile (vd. il ‘non-paper’ diffuso in rete nel febbraio 2023). La proposta per effettuare tale passo in maniera ‘coordinata’ venne dunque divulgata lo scorso 7 luglio.
3. Il contenuto della proposta e i suoi problemi
La parte rilevante della proposta della Commissione, nella quale si prende in considerazione l’attivazione della sunset clause quale conseguenza giuridica del recesso, afferma:
«Article 47.3 of the ECT would have no impact on intra-EU relations, to which the ECT has never, does not and will never apply, including its Article 47.3. However, […] there is a risk of legal conflict that must be eliminated. The Commission remains of the view that the appropriate response is to adopt an instrument that is a ‘subsequent agreement between the parties regarding the interpretation of the treaty or the application of its provisions’ within the meaning of Article 31(3)(a) of the Vienna Convention on the Law of Treaties (VCLT), among the Member States, the Union and EURATOM. […] The interpretation of the EU and its Member States [should be codified] in a separate treaty (something that is possible because of the bilateral nature of the obligations).
La Commissione riconosce innanzitutto il rischio di «legal conflict» che deriva dal recesso unilaterale. Non è un mistero, infatti, che per quanto la Corte di Giustizia sia granitica nel sostenere l’incompatibilità dell’arbitrato intra-UE con il principio di autonomia del diritto dell’Unione Europea (e si vedano i già citati Munari e Cellerino; Cellerino), altrettanto ferma è la posizione dei tribunali arbitrali nel confermare la propria giurisdizione (sempre qui, Zarra), salvo il caso per ora isolato di Green Power v. Spain (commenti di Lampo e Bergamaschi). In altre parole, per via della sunset clause lo scontro è destinato a proseguire, vanificando in parte la portata concreta del recesso.
Tuttavia, la proposta della Commissione per affrontare questo problema è semplicemente impraticabile. Nel descrivere la stipula di una sorta di ‘accordo interpretativo inter se’, la Commissione sovrappone l’Art. 31(3)(a) e l’art. 41 CVDT. Il primo riguarda gli accordi interpretativi, il secondo gli accordi di modifica intercorrenti fra alcune parti di un trattato multilaterale. Tale fraintendimento si intuisce dalla precisazione secondo cui l’accordo interpretativo sarebbe possibile «because of the bilateral nature of the obligations». Così formulata, la proposta della Commissione non sembra avere fondamento giuridico. Gli accordi interpretativi operano ex tunc e richiedono l’unanimità delle parti del trattato. Al contrario, gli accordi modificativi operano ex nunc e la loro legittimità dipende dal rispetto delle condizioni dell’art. 41 CVDT. I due strumenti, semplicemente, non sono sovrapponibili (l’argomento non sembra richiedere ulteriore approfondimento, ed è stato esaurito da Morgandi e Bartels).
Proseguendo su questa strada, la Commissione non affronterebbe adeguatamente il problema della sunset clause, dando addirittura l’impressione di non voler fino in fondo porre rimedio alla questione.
4. I contorni di una strategia possibile
Per quanto al momento la proposta di recesso coordinato sia formulata in termini insoddisfacenti, essa contiene il nucleo di una possibile strategia. Ad avviso di chi scrive, infatti, una strada per eliminare ‘alla radice’ il problema della sunset clause (e, insieme, dell’arbitrato intra-UE) esiste, ma non può fondarsi sulla mera reiterazione della posizione secondo cui il diritto dell’Unione prevale sul diritto internazionale nei rapporti fra Stati membri, che i tribunali arbitrali hanno ripetutamente mostrato di ignorare.
La Commissione non dovrebbe promuovere un impraticabile accordo interpretativo, ma piuttosto un vero e proprio accordo inter se che estingua l’art. 47(3) TCE fra le parti del regime modificato. A seguito di tale accordo (a patto che, come si dirà sotto, esso sia legittimo ai sensi del diritto internazionale) il recesso potrebbe fare seguito senza ulteriori conseguenze. Naturalmente, la sunset clause continuerebbe ad operare nei rapporti con gli Stati terzi all’accordo inter se.
Si noti bene, un accordo in tal senso non dovrebbe essere a priori raggiunto solo dagli Stati membri dell’Unione, ma potrebbe al contrario essere aperto anche ad altre parti contraenti del TCE, indipendentemente dalla loro eventuale scelta di recedere dal trattato. Naturalmente, non si tratta di una scelta priva di rischi, come si vedrà fra poco. Tuttavia, quanto più la strategia sarà condivisa, tanto più è possibile che la strada del recesso porti all’esito sperato.
5. Brevi spunti sulla legittimità di una modifica inter se del TCE
Non è questa la sede in cui discutere approfonditamente la legittimità dell’accordo inter se sopra delineato. Ciononostante, si intende qui richiamare schematicamente il percorso argomentativo che porta a tale soluzione.
Innanzitutto, gli accordi inter se sono legittimi, ai sensi dell’art. 41 CVDT, se espressamente previsti ovvero non proibiti dal trattato. Il TCE non contiene alcun divieto esplicito di modifica inter se, dunque essa è ammissibile se rispetta le due ulteriori condizioni stabilite dallo stesso art. 41 CVDT, di cui si dirà sotto. Esistono però due possibili obiezioni da superare. Innanzitutto, la modifica potrebbe essere considerata un aggiramento del divieto di riserve di cui all’art. 46 TCE (Klabbers fa menzione di questa ipotesi). A tal proposito, occorre semplicemente ricordare che l’art. 41(1)(b) CVDT si riferisce esclusivamente ai divieti espliciti (cfr. ad es. Villiger). In secondo luogo, considerando l’accordo inter se quale caso particolare di accordo successivo relativo alla stessa materia del regime generale, si potrebbe affermare che la modifica sia proibita dall’art. 16 TCE. Tale disposizione, infatti, prevede la prevalenza del regime più favorevole agli investitori in caso di conflitto fra due trattati concernenti la protezione degli investimenti e la soluzione delle controversie a ciò relative (ad es. Morgandi e Bartels affrontano questo argomento). Tuttavia, si può sostenere che l’art. 41 CVDT risponde all’esigenza di prevenire l’insorgere di conflitti normativi. Da ciò deriva che l’art. 16 TCE, quale norma di soluzione dei conflitti, non ha rilevanza. Infatti, il rispetto o il mancato rispetto delle condizioni poste dall’art. 41 determinano nell’ordine l’applicazione del regime modificato fra le parti dell’accordo inter se o la sua disapplicazione nel caso concreto. Inoltre, un’interpretazione estensiva dell’art. 16 TCE determinerebbe nuovamente un divieto implicito, in contrasto con la ratio della disciplina degli accordi di modifica (ricostruita ad es. da Fitzmaurice e Merkouris).
Come si anticipava, per valutare la legittimità dell’accordo inter se occorre allora esaminare il rispetto delle due condizioni poste dall’art. 41.La prima condizione è che l’accordo inter se «does not affect the enjoyment by the other parties of their rights under the treaty or the performance of their obligations». Nel determinare se questa condizione è soddisfatta, la distinzione tra obblighi di natura reciproca e obblighi erga omnes partes sembra giocare un ruolo decisivo. La sunset clause chiaramente non determina obblighi il cui rispetto è interesse comune di tutte le parti del trattato, dunque ha natura reciproca. Pertanto, la prima condizione sembra essere soddisfatta.
La seconda condizione richiede che la modifica non riguardi «a provision, derogation from which is incompatible with the effective execution of the object and purpose of the treaty as a whole». Si può concordare che la sunset clause sia connessa all’oggetto e allo scopo del TCE, riassumibile nell’ampia formula espressa dall’art. 2 TCE («long term cooperation in the energy field»). Tuttavia, ciò non dimostra affatto che una deroga a tale disposizione fra alcune parti sia incompatibile con l’effettiva esecuzione dell’oggetto e dello scopo del trattato «as a whole». Il modo più fondato di interpretare tale condizione sembra quello di leggerla congiuntamente alla prima (cfr. Pauwelyn): se l’obbligo cui si intende derogare ha struttura reciproca, una sua modifica non solo non pregiudicherà la sfera dei diritti e degli obblighi delle altre parti ma, come logica conseguenza, non avrà effetti apprezzabili sull’effettiva esecuzione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme (vd. anche Dörr e Schmalenbach). Dunque, anche la seconda condizione è soddisfatta.
6. Conclusioni
Il breve itinerario argomentativo proposto riassume i punti in cui, al bivio fra due scelte, si è adottata quella più favorevole alle esigenze di flessibilità espresse dagli Stati che intendono escludere la sunset clause nei loro reciproci rapporti. Tuttavia, sono senz’altro possibili ricostruzioni diverse. La non modificabilità della sunset clause è stata sostenuta anche di recente (da Morgandi e Bartels), per giungere ad esaminare un argomento ancor più ‘radicale’, quello dell’attivazione della norma rebus sic stantibus, codificata dall’art. 62 CVDT. Le parti dovrebbero invocare un «fundamental change of circumstances» quale base giuridica per il recesso unilaterale dal trattato. In particolare, gli autori affermano che:
«the ‘circumstance’ that underpinned the ECT, […] was that promoting the production, trade, and use of fossil fuels did not undermine the goals of the UNFCCC. On the contrary, as can be seen from the reference to the UNFCCC in the ECT’s preamble, it was thought that the ECT would contribute to these goals by promoting more efficient techniques in the hydrocarbon life cycle. This circumstance has now radically changed».
Si tratta di una soluzione che ha l’indubbio pregio di tradurre nel linguaggio del diritto le ragioni materiali del recesso dal TCE, senza nasconderle dietro i tecnicismi degli accordi inter se. Tuttavia, su tale argomento si è già espresso con una preoccupata nota il segretariato della Carta sull’Energia, ricordando la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Gabčíkovo-Nagymaros Project. Può essere condivisibile, come sostengono gli autori, che il test effettuato dalla Corte nel caso in questione (vale a dire che la circostanza radicalmente mutata debba essere «completely unforeseen» per consentire l’applicazione della norma) sia eccessivamente rigido rispetto al dettato dell’art. 62 CVDT (che fa semplicemente riferimento al fatto che circostanze «which [were] not foreseen by the parties, may not be invoked», suggerendo un test di ragionevole probabilità), ma ciò non esclude che esso possa essere senza troppa difficoltà applicato dai tribunali arbitrali per negare la legittimità di un recesso fondato su questa disposizione.
Allo stesso modo, peraltro, è inevitabile notare che la giurisprudenza dei tribunali arbitrali (ampiamente citata per es. da Lampo, che esclude la modificabilità inter se delle disposizioni del TCE in materia di soluzione delle controversie) sembra mettere in discussione la ricostruzione qui proposta. Da essa, al contrario, si ricava un’interpretazione estensiva dell’art. 16 TCE, nonché per converso una lettura estremamente restrittiva del margine di modifica inter se del TCE.
Per questa ragione, la strada di un recesso ‘coordinato’, anche nella versione qui proposta, rimane impervia. I tribunali arbitrali potrebbero confermare la propria giurisdizione, sostenendo che l’accordo inter se sia illegittimo e determinandone la disapplicazione nel caso concreto, ritenendo la sunset clause ancora in vigore. Per utilizzare il linguaggio della Commissione nella sua proposta, ciò determinerebbe la ‘circolazione’ di lodi che contrastano con la volontà inequivocabilmente espressa dai masters of the treaty. L’estrema conseguenza, per gli Stati colpiti da tali pronunce, sarebbe quella di rifiutarsi di darvi attuazione, finanche invocando l’immunità dalla loro esecuzione in giurisdizioni straniere, con tutte le complicazioni che da ciò derivano (ad es., con riguardo all’art. 55 della Convenzione ICSID, Reinisch).
Jan Klabbers commenta laconico, con riguardo al recesso dal TCE:
«If there is one thing the episode demonstrates, it is that while international law may operate through states, it rarely turns those states themselves into winners and losers. Instead, the winners here are the investors; the losers are all of us, due to the urgent need for green transition, and if compensation must be paid, it will have to come from taxpayer’s money. A mere withdrawal by a number of states seems too facile, and it is difficult to justify in international law terms. The simple withdrawal from the ECT without affecting the sunset clause amounts to taking a moral holiday: grandstanding, without actually doing much and hoping that symbolic action will be politically effective, or else just hoping that the clock will tick the next twenty years away and the planet does not perish in the meantime».
Ci sembra ragionevole sostenere che l’Unione Europea e i suoi Stati Membri debbano adottare la strada di un accordo inter se e del successivo recesso dal TCE, in coerenza con gli obiettivi climatici e l’impellente esigenza di accelerare la transizione energetica. Come si è avuto modo di vedere, esistono argomenti convincenti a sostegno della legittimità di tale soluzione, per quanto non si possa negare l’esistenza di ostacoli concreti al loro accoglimento.
L’approccio dell’Unione Europea è stato definito in questo blog «una vera e propria crociata contro il meccanismo di arbitrato internazionale in materia di investimenti» (Zarra). A noi sembra che – se di crociata si deve parlare – finora essa sia stata condotta con un esercito sguarnito e con armi spuntate. Se l’obiettivo è davvero lasciarsi alle spalle un sistema ritenuto strutturalmente sbilanciato a favore degli interessi privati e drammaticamente inadeguato ad affrontare le sfide che derivano dalla crisi climatica, per raggiungere tale scopo l’Unione e i suoi Stati Membri dovrebbero essere pronti ad utilizzare tutti gli strumenti giuridici a loro disposizione. Tuttavia, a quel punto la crociata diventerebbe una cosa seria. Non è dato sapere se esista la volontà politica di spingersi a tanto.
Mirko Sossai (Università di Roma Tre)
Martedì 11 luglio 2023, al termine della prima giornata del summit dei Capi di Stato e di governo dei Paesi membri della NATO, tenutosi nella capitale della Lituania, Vilnius, è stata resa pubblica una dichiarazione finale che delinea le priorità e i principali impegni dell’organizzazione. L’attenzione degli analisti e dell’opinione pubblica era tutta rivolta al tema della possibile adesione dell’Ucraina alla NATO. Ma il Communiqué, adottato un anno dopo il nuovo concetto strategico, è in realtà un testo assai più articolato che riflette certo la “rivitalizzazione” dell’organizzazione nonché i nuovi scenari a cui in misura crescente gli Stati membri rivolgono la loro attenzione, ben oltre l’ambito geografico euroatlantico; un approccio “a 360 gradi”, per adempiere ai tre compiti fondamentali che sono stati affidati alla NATO: “deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa”.
Il comunicato finale di Vilnius è anche un documento che si presta a una lettura secondo una prospettiva giuridica, se non altro perché appare un tratto qualificante la NATO quello dell’adesione al diritto internazionale e ai fini e principi della Carta delle Nazioni Unite, accompagnato dall’impegno a sostenere “the rules-based international order”. Rimane pertanto un esercizio interessante quello di individuare in qual modo le regole del diritto internazionale siano invocate, interpretate e applicate dal Communiqué, a cominciare dalla reiterata condanna della “guerra di aggressione” della Federazione russa contro l’Ucraina, a cui si accompagnano i riferimenti alle responsabilità degli Stati “complici” (Bielorussia e Iran) che a diverso titolo prestano aiuto o assistenza all’aggressore, nonché alle responsabilità individuali sul piano della giustizia penale internazionale, per crimini di guerra, come “gli attacchi contro i civili e la distruzione delle infrastrutture civili che privano milioni di ucraini dei servizi di base”.
1. L’adesione alla NATO di nuovi membri: Svezia ma non Ucraina, almeno non subito
L’allargamento della NATO a nuovi membri è inevitabilmente il primo tema in esame. Per la prima volta la Finlandia ha partecipato in questa veste al summit ma l’incontro si è aperto con la notizia dell’accordo raggiunto rispetto all’ingresso della Svezia, superando dunque l’opposizione in precedenza espressa dal governo turco del Presidente Erdogan. L’opposizione di uno membri funziona, di fatto, come una sorta di diritto di veto, dal momento che l’art. 10 del Trattato del Nord Atlantico del 1949 stabilisce che per l’ammissione di nuovi membri sia necessario l’ “accordo unanime” dei membri.
Ciò che non si trova nel Communiqué è una tabella di marcia o un calendario per l’adesione dell’Ucraina: vi si riafferma invece l’impegno a far sì che il Paese divenga in futuro membro NATO, un impegno che gli Stati dell’Alleanza atlantica si erano assunti sin dal Summit di Bucarest del 2008, nel corso del quale aveva preso forma la politica della porta aperta. Secondo la open-door policy, le condizioni sono unicamente quelle di natura procedurale e sostanziale stabilite nell’art. 10 del Trattato di Washington (l’apertura a ogni “Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”): ne consegue che in tema di ammissione di nuovi membri nessun Paese terzo ha voce in capitolo.
Il Communiqué riconosce all’Ucraina una sorta di percorso agevolato, dal momento che non dovrà partecipare alla procedura stabilita nel c.d. Membership Action Plan (MAP), a cui si erano in precedenza sottoposti gli altri Paesi dell’Europa orientale, ma giunge alla chiara conclusione che l’ingresso di Kiev avverrà “quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte”. Si tratta di una formula capace di fare sintesi di posizioni diverse tra i membri della NATO, che esprime però la constatazione, espressa anche dal Segretario generale della NATO, che l’adesione dell’Ucraina alla NATO avverrà alla cessazione del conflitto in corso. Sarà interessante verificare se vi sarà accordo tra i membri sui tempi, soprattutto rispetto a quale situazione sia da considerarsi come “fine della guerra”: il cessate il fuoco, una soluzione di compromesso, oppure se sia necessario, ad esempio, il completo ritiro russo dal territorio oppure solo da una parte di esso.
In questa situazione di transizione, lo strumento istituzionale di dialogo politico e collaborazione è rappresentato dal nuovo Consiglio NATO-Ucraina, che sostituisce la precedente Commissione con il medesimo nome che aveva operato sin dal 1997 e la cui prima sessione si è tenuta alla presenza del Presidente ucraino Zelenskyj. Si tratta di un meccanismo di consultazione permanente che, a parere degli analisti, segue il modello del Consiglio NATO-Russia, che era stato creato nel 2002 in occasione del vertice NATO di Roma.
2. Che cosa sono le “garanzie di sicurezza” all’Ucraina?
Resta il fatto che il Summit di Vilnius segna una tappa significativa nel processo di progressiva integrazione dell’Ucraina: l’obiettivo dichiarato dell’interoperabilità tra le forze armate ucraine e quelle della NATO comporterà un ulteriore impegno in attività di addestramento e ammodernamento, con la fornitura a Kiev di mezzi e apparecchiature militari.
La questione se l’adesione dell’Ucraina alla NATO sia preferibile rispetto ad altre forme ad hoc di “garanzie di sicurezza” di tipo bilaterale si presta anche ad un apprezzamento sul piano politico: la membership, secondo alcuni, sarebbe da preferire come ancoraggio di lungo periodo del Paese al sistema democratico e farebbe gioco agli alleati europei, rispetto al rischio di una relazione bilaterale Ucraina-USA, sul modello di Israele. Si tratta di analisi che paiono presupporre nel futuro un’architettura (possibile?) di sicurezza comune in Europa senza la Russia.
Occorre tuttavia capire meglio che cosa si intende con l’espressione “garanzie di sicurezza”. In effetti, un tema che aveva segnato il dibattito politico nelle settimane precedenti il vertice NATO aveva riguardato le c.d. “garanzie di sicurezza” che gli Alleati avrebbero dovuto offrire all’Ucraina, fintantoché non sarebbe divenuta membro della NATO. Ciò aveva creato una certa confusione terminologica tra “security guarantees” e “security assurances”.
In effetti, con l’espressione “garanzie di sicurezza” (security assurances) si è soliti fare riferimento agli impegni che gli Stati militarmente nucleari si sono assunti dopo la conclusione del Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP) del 1968: si tratta di garanzie accordate agli Stati non dotati di armi nucleari aderenti al TNP a non usare contro di essi l’arma atomica (garanzie di sicurezza negative), oppure dell’impegno ad assistere quegli stessi Stati se vittime di un aggressione con l’impiego di armi nucleari (garanzie di sicurezza positive). Il problema giuridico è quello della natura giuridica delle c.d. garanzie di sicurezza, in quanto atti unilaterali, ossia se esse contengano un impegno giuridicamente vincolante per gli Stati che le hanno effettuate o se siano delle semplici dichiarazioni di natura politica (N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, 7^ ed., Torino, 2021, p. 422).
Gli organi di stampa internazionali hanno utilizzato l’espressione “security guarantees”, riferendosi ad una serie di iniziative annunciate dai Paesi aderenti al G7 al termine di un incontro tenutosi a lato del vertice NATO di Vilnius il 12 luglio. È utile, allora, soffermarsi, sulla dichiarazione congiunta di sostegno all’Ucraina, nella quale si prevede l’avvio di negoziati con Kiev per la definizione di “impegni e accordi di sicurezza specifici, bilaterali e a lungo termine” in tre diversi ambiti: a) la fornitura di armamenti e il sostegno allo sviluppo industriale ucraino nel settore della difesa; b) il rafforzamento della stabilità e della resilienza economica dell’Ucraina, anche attraverso sforzi di ricostruzione e recupero; c) il sostegno tecnico e finanziario per le necessità immediate dell’Ucraina derivanti dalla guerra contro la Russia.
Quanto all’eventualità di futuri attacchi armati da parte russa, l’impegno dei Paesi del G7 è a lavorare con l’Ucraina “su un pacchetto rafforzato di impegni e accordi di sicurezza, per consentire all’Ucraina di difendere il suo territorio e la sua sovranità”. Non è chiaro se l’espressione “impegni e accordi” si riferisca a atti unilaterali oppure a intese di natura meramente politica o ad accordi disciplinati dal diritto internazionale. Sarà poi interessante capire in quale direzione si muoveranno i negoziati su questo terreno e in qual modo le soluzioni raggiunte si armonizzeranno rispetto al modello delle clausole di mutua difesa in caso di aggressione.
Meritevole di attenzione è en passant il passaggio della dichiarazione congiunta dei Paesi del G7, che crea un legame tra il regime di misure sanzionatorie contro la Russia e la ricostruzione ucraina, laddove si ribadisce che “gli asset sovrani della Russia nelle nostre giurisdizioni rimarranno immobilizzati fino a quando la Russia non pagherà per i danni causati all’Ucraina”, riconoscendo inoltre “la necessità di istituire un meccanismo internazionale per la riparazione dei danni”. Si impone nuovamente il tema, assai delicato, dell’impiego di risorse congelate – una misura, dunque, di carattere transitorio e reversibile – per le finalità di riparazione e ricostruzione.
3. Il futuro del controllo degli armamenti, della non-proliferazione e del disarmo
La minaccia nucleare rimane sullo sfondo della complessa crisi innescata dal conflitto in Ucraina. Sono numerosi i paragrafi che il Communiqué adottato a Vilnius dedica al tema della non-proliferazione e del disarmo. Non cambia l’approccio sulla deterrenza nucleare: fintantoché vi sono armi atomiche, la NATO rimane una alleanza nucleare. Pertanto, il TNP rimane “il baluardo essenziale contro la diffusione delle armi nucleari”, nonché “la pietra angolare del regime globale di non proliferazione”, mentre si denuncia la responsabilità russa per il fallimento della decima Conferenza di riesame nel raggiungere un accordo sulla dichiarazione finale. Ferma rimane la contrarietà della NATO al Trattato sulla proibizione di armi nucleari (TPNW) in quanto incompatibile “con la politica di deterrenza nucleare dell’Alleanza” e perché rischierebbe di mettere a repentaglio il TNP. Pertanto, il TPNW né modifica “gli obblighi giuridici dei nostri Paesi in materia di armi nucleari”, né contribuisce in qualche modo allo sviluppo del diritto internazionale consuetudinario. È una posizione che non sorprende ma che sancisce ulteriormente la spaccatura esistente con alcuni Paesi membri dell’UE, grandi sostenitori del Trattato, e con diversi altri Stati riconducibili al c.d. Global South.
I Paesi della NATO insistono, invece, sulla necessità di un “immediato avvio e la rapida conclusione dei negoziati per un trattato che vieti la produzione di materiale fissile da utilizzare per armi nucleari o altri ordigni esplosivi”. È questo un passaggio chiave in materia di non-proliferazione, che segnerebbe il superamento della prolungata crisi della Conferenza sul disarmo.
Una crisi in cui certo versa l’architettura normativa in materia di controllo degli armamenti, costituita da una rete di accordi internazionali di naturale bilaterale e multilaterale, conclusi all’epoca della fine della guerra fredda. Il Communiqué menziona la decisione russa sia di recedere dal trattato sulle forze armate convenzionali in Europa sia di sospendere il trattato new START del 2010, l’ultimo accordo bilaterale rimasto di controllo degli armamenti nucleari, invocando quali cause sia il principio rebus sic stantibus sia l’inadempimento per “violazione sostanziale” da parte degli Stati Uniti.
Sono sviluppi che destano preoccupazione per gli effetti che questo clima di sfiducia e totale incomunicabilità tra NATO e Russia potrebbe generare rispetto ad un nuovo dispiegamento di armi atomiche, in controtendenza rispetto agli auspici di un avvio di negoziati verso un completo disarmo nucleare, in base all’art. VI del TNP. Non si potrà non tener in debito conto la posizione assunta dalla Cina, la quale – osserva il Communiqué – “sta rapidamente espandendo e diversificando il suo arsenale nucleare con più testate e un maggior numero di sofisticati sistemi di lancio […] senza impegnarsi in una significativa trasparenza o in sforzi in buona fede per raggiungere il controllo degli armamenti nucleari o la riduzione dei rischi”.
4. Attacchi ibridi, cyber e da, verso o nello spazio extra-atmosferico
In linea con quanto già espresso nel Concetto strategico del 2022, il Communiqué si sofferma su quei teatri operativi dai quali derivano minacce crescenti alla sicurezza della NATO: lo spazio cibernetico e lo spazio extra-atmosferico. I Paesi dell’Alleanza atlantica riconoscono che quest’ultimo è “un’area di crescente rivalità, dove concorrenti strategici e potenziali avversari della NATO si comportano in modo irresponsabile, si impegnano in attività dannose e sviluppano capacità di superiorità spaziale”. Quanto al cyberspazio, esso è “un teatro di contesa costante”, che rende necessario “contrastare le minacce informatiche sostanziali, continue e crescenti ai nostri sistemi democratici e alle infrastrutture critiche, anche quando fanno parte di campagne ibride”.
È dalla prospettiva della legittima difesa, in base all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, che si riconosce una posizione oramai consolidata dei Paesi della Alleanza atlantica circa il contenuto della nozione di “attacco armato” in questi contesti. Il Communiqué precisa quali condotte potrebbero raggiungere la soglia di un attacco armato e portare il Consiglio del Nord Atlantico a decidere, caso per caso, di invocare l’art. 5 del Trattato di Washington, contiene la clausola di mutua difesa collettiva: operazioni ibride contro uno dei membri, mediante la combinazione di mezzi militari e non- militari (disinformazione, attacchi informatici, pressioni economiche, dispiegamento di gruppi armati irregolari o uso di forze regolari); oppure “un atto isolato di cyber-malware o una serie di tali atti”, come anche “un’operazione ostile verso, da o nello spazio extra-atmosferico”.
Quanto a quest’ultimo scenario, è la conferma che gli Stati membri della NATO non escludono l’utilizzo dello spazio per operazioni militari, compreso l’uso della forza armata, fatti salvi i divieti contenuti nel Trattato sullo spazio del 1967 di stabilire basi, installazioni e fortificazioni militari, sperimentare qualsiasi tipo di arma e condurre manovre militari sui corpi celesti; nonché di mettere in orbita oggetti che trasportano armi nucleari o altre armi di distruzione di massa, installare tali armi su corpi celesti o collocare tali armi nello spazio extra-atmosferico in qualsiasi altro modo.
5. Un’organizzazione regionale Euro-Atlantica che guarda (sempre più) all’Indo-Pacifico
Sebbene il Communiqué rifletta chiaramente la priorità che la NATO ha accordato al conflitto in Ucraina e alla minaccia rappresentata dalla Federazione russa, colpisce la crescente attenzione alla Cina e alla più ampia regione dell’Indo-Pacifico: non a caso, vi si riconosce “il contributo dei nostri partner dell’Asia-Pacifico – Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Repubblica di Corea – alla sicurezza nell’area euro-atlantica, in particolare la loro determinazione a sostenere l’Ucraina”.
Per quanto riguarda le ambizioni cinesi, esse costituiscono una minaccia “agli interessi, alla sicurezza, ai valori” della NATO. Il documento richiama il concetto strategico del 2022 quando evidenzia l’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari impiegati da Pechino per rafforzare la propria presenza nel mondo: le sue operazioni ibride o informatiche malevole, la retorica ostile e le attività di disinformazione; il controllo di settori tecnologici e industriali chiave, di infrastrutture critiche, dei materiali strategici e catene di approvvigionamento. L’atteggiamento dell’Alleanza atlantica, al momento, rimane quello di apertura ad un’interazione in senso costruttivo con la Cina, pur mantenendo una posizione netta rispetto al partenariato con la Russia: oltre a chiedere la condanna dell’aggressione all’Ucraina, il Communiqué fa appello affinché la Cina assuma un “ruolo costruttivo come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
E qui dunque sorge l’interrogativo, che rimane aperto, su quale sia la direzione che la NATO abbia intrapreso quale organizzazione regionale – anche nel senso di una espansione potenziale del suo raggio d’azione – in un contesto internazionale segnato dalla paralisi del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite e, più in generale, dalla crisi del multilateralismo. È una domanda che si presenta ancor più delicata per i Paesi della NATO che sono al contempo membri dell’Unione europea. In termini forse formalistici, occorre chiedersi quali connotati abbia assunto in questo momento storico il criterio della regionalità, non soltanto come requisito per l’ammissione all’Alleanza, ma in funzione del suo ruolo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, così come era stato disegnato per gli accordi e le organizzazioni regionali dal Capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite.
Claudia Morini Claudia Morini (Università del Salento)
1. Contrastare la violenza contro le donne (sulla risposta italiana alla criminalizzazione della violenza di genere, vedi di recente Ippolito) significa porre in essere misure volte ad arginare e reprimere quel fenomeno ormai sistemico nelle nostre società, cui possono essere ascritte, tra le molte condotte, varie forme di violenza domestica e di violenza sessuale, minacce, violenza economica e terrore psicologico. A quest’ultimo sono riconducibili anche gli atti persecutori, meglio noti come stalking: si tratta di «forme di ossessiva persecuzione realizzate prevalentemente, anche se non esclusivamente, nei confronti delle donne, tali da creare in loro uno stato di fondato timore o di ansia, o addirittura da indurle a mutare, spesso sensibilmente, le proprie abitudini di vita» (Mandaglio). Esattamente dieci anni fa, ovvero il 27 giugno 2013, con la Legge n. 77 l’Italia ratificava la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, c.d. Convenzione di Istanbul. Quando ancora non si è affievolito il doloroso clamore per uno dei più recenti e cruenti femminicidi perpetrati in Italia – con il caso della giovane Giulia Tramontano brutalmente assassinata insieme al bimbo che portava in grembo – la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata con una sentenza sul tema del rispetto delle garanzie procedurali da riconoscersi a un presunto autore di stalking nel procedimento di ammonimento previsto dalla vigente disciplina italiana.
Il 22 giugno scorso, infatti, la Corte EDU ha avuto l’occasione di esprimersi sul bilanciamento tra tali garanzie e gli obblighi positivi di protezione incombenti sugli Stati al fine di interrompere la consumazione di condotte riferibili ad atti persecutori e prevenire un’eventuale escalation di violenza. Al rispetto di tali obblighi oggi le autorità italiane sono tenute anche in virtù dell’adesione del nostro Paese proprio alla Convenzione di Istanbul. Il caso sul quale ci soffermeremo con alcune prime, parziali, riflessioni è Giuliano Germano c. Italia nel quale i giudici di Strasburgo si sono pronunciati sulla compatibilità del procedimento di cui all’art. 8 del Decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009 – convertito in legge con la L. n. 38 del 23 aprile 2009 (su cui si veda De Fazio) – con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A questa importante e, per i profili che vedremo, a tratti discutibile sentenza, è allegata l’opinione concorrente del giudice italiano Raffaele Sabato, nella quale egli, pur condividendo marginalmente le conclusioni in relazione all’avvenuta violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU, ha ritenuto che la maggior parte delle motivazioni addotte dai suoi colleghi abbiano però rappresentato «several steps backwards in human-rights protection in the context of gender-based violence» (par. 1). E noi siamo d’accordo con lui. Ma procediamo con ordine.
2. Il caso in esame prende le mosse da un procedimento di ammonimento per stalking ex art. 8 del Decreto-legge 11/2009 che il governo italiano – anticipando anche uno degli obblighi che oggi esso ha in ragione della ratifica della Convenzione di Istanbul – aveva introdotto nel nostro ordinamento giuridico, contestualmente all’introduzione nel Codice penale del nuovo art. 612-bis, rubricato “Atti persecutori” (stalking). In sostanza, questo procedimento prevede che fino al momento in cui non sia proposta querela per il reato di stalking, la persona offesa possa riferire alla pubblica autorità i fatti che ritiene essere ascrivibili a tale condotta persecutoria, avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della stessa. Il questore, al quale tale richiesta è trasmessa senza ritardo, dopo aver assunto se necessario, informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, qualora ritenga fondata l’istanza della vittima, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo contestualmente a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo un processo verbale di tale ammonimento, che viene rilasciato in copia al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Questo procedimento, la cui finalità protettiva nei confronti della vittima è evidente, si pone anche il fondamentale obiettivo di costituire un deterrente rispetto a una possibile escalation degli atti persecutori che, spesso, la cronaca ha dimostrato essere prodromici ad atti di violenza veri e propri, se non, nei casi più drammatici, all’assassinio della vittima. L’art. 8, infatti, prevede anche che qualora sia avviato un procedimento penale per il reato di cui all’art. 612-bis c.p., la pena finale – che oggi può essere da sei mesi a cinque anni – sia aumentata se il fatto è stato commesso da un soggetto già ammonito dal questore. Inoltre, nei casi in cui un soggetto sia già stato ammonito e perseveri nei suoi atti persecutori, la procura può procedere d’ufficio per il reato di stalking.
Nel caso in esame, il procedimento di ammonimento nei confronti del ricorrente era stato avviato in seguito a una richiesta avanzata da sua moglie nel novembre del 2009, nelle more della separazione. La richiesta – che precisava diversi episodi di violenza fisica e verbale presumibilmente perpetrati sia mentre vivevano insieme che dopo che egli aveva lasciato la casa coniugale – veniva accolta dal questore e il verbale notificato al ricorrente. Quest’ultimo, lamentando che il provvedimento fosse stato adottato in spregio al suo diritto di prendere parte al procedimento – diritto riconosciuto nell’ordinamento italiano dall’art. 7 della Legge n. 241 del 7 agosto 1990 in materia di procedimenti amministrativi – presentava ricorso al TAR Liguria che, il 30 settembre 2010, lo accoglieva e annullava l’ammonimento, ritenendo sussistente la violazione dei principi di contraddittorio, di difesa e di parità delle armi. Secondo il TAR, invero, un’eccezione al rispetto dei diritti di partecipazione – riconosciuta ai sensi dello stesso art. 7 per «ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento» – sarebbe stata giustificata esclusivamente in casi di stretta urgenza e necessità, condizioni che avrebbero dovuto essere sufficientemente dimostrate e giustificate nella motivazione dell’ammonimento, cosa che, invece, non era a suo dire avvenuta nel caso in esame.
Il 3 gennaio 2011 il Ministero degli interni ricorreva in appello al Consiglio di Stato, il quale dapprima sospendeva la sentenza del TAR – poiché alla luce dello scopo preventivo dell’ammonimento sussisteva un grave rischio di danno irreparabile per la moglie del ricorrente – e, successivamente, la annullava ripristinando così la vigenza dell’ammonimento. Nella sentenza (n. 4563 del 19 luglio 2011), il massimo giudice amministrativo, ponendo a fondamento essenziale del suo ragionamento giuridico l’obiettivo primario dell’ammonimento – ovvero la prevenzione di “danni potenzialmente gravi e irreparabili” alla presunta vittima di stalking – aveva ritenuto prevalente l’esigenza di procedere a una risposta immediata: esso, infatti, aveva concluso che la mancata notifica dell’avvio del procedimento amministrativo a carico del sig. Germano e il suo mancato ascolto da parte del questore prima dell’imposizione della misura, non costituisse una violazione dei suoi diritti di partecipazione, in quanto egli avrebbe comunque potuto presentare sia un ricorso presso l’autorità amministrativa superiore (c.d. ricorso gerarchico), vale a dire il prefetto locale, ai sensi delle pertinenti disposizioni italiane (Decreto Presidenziale n. 1199 del 24 novembre 1971), che un ricorso al TAR, cosa di fatto poi avvenuta. A fronte della decisione del Consiglio di Stato, il sig. Germano aveva quindi presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (n. 10794/12 del 5 gennaio 2012), lamentando, in sintesi, la violazione del diritto alla difesa, a causa della sua mancata partecipazione al procedimento dal quale è scaturito l’ammonimento del questore e del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, come conseguenza del pregiudizio causato dall’ammonimento, in particolare con riferimento all’impatto della misura sui suoi contatti con i familiari, sulla sua reputazione e sulla sua vita professionale. La Corte ha deciso di esaminare il ricorso solo alla luce dell’art. 8 della Convenzione e non anche dell’art. 6 (par. 58).
3. Chiamata, dunque, a pronunciarsi sull’ammonimento quale legittima ‘interferenza’ nella vita privata e familiare del ricorrente ai sensi del par. 2 dell’art. 8 CEDU, la Corte ha dovuto valutare la conformità di tale misura con i requisiti richiesti affinché il margine di apprezzamento statale – volto alla limitazione del godimento dei diritti garantiti dalla Convenzione – potesse essere esercitato conformemente al dettato convenzionale: la legalità, la necessarietà in una società democratica e la proporzionalità della misura adottata.
Al fine di valutare la legalità dell’ammonimento; la Corte ha fatto uso di un cospicuo excursus della giurisprudenza interna, per la quale rinviamo al testo della sentenza (par. 27-44). Innanzitutto, in relazione alla natura della misura dell’ammonimento, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la pertinente giurisprudenza nazionale avesse in diverse occasioni chiarito che esso assolva a una funzione ‘preventiva e deterrente’, in quanto finalizzato a evitare la ripetizione del comportamento punito dall’art. 612-bis c.p. e il verificarsi di un danno irreparabile alla persona offesa. Alla luce di questa funzione, che dunque non è di stampo punitivo, al questore non è richiesto di valutare la responsabilità penale del presunto stalker, ma di accertare prima facie la probabilità che tale comportamento si sia verificato e di analizzare la potenziale esistenza di un pericolo di ripetizione di tali condotte in futuro. Da un punto di vista fattuale, l’imposizione della misura richiede l’accertamento degli stessi comportamenti che costituiscono il reato di cui all’art. 612-bis c.p. Da un punto di vista probatorio, invece, la giurisprudenza ha chiarito che ai fini dell’irrogazione della misura non siano necessarie prove ‘definitive’ dell’avvenuta commissione del reato, ma siano sufficienti elementi indiziari circa l’avvenuta commissione di condotte sanzionabili ai sensi dell’art. 612-bis c.p. e una valutazione prognostica che essi potrebbero ripetersi in futuro (par. 27-28).
Venendo poi all’aspetto relativo al diritto di partecipazione del singolo al procedimento di ammonimento, la Corte EDU ha ricordato che nei primi casi pertinenti, i tribunali nazionali avevano ritenuto che si trattasse di una misura amministrativa capace di produrre importanti effetti nella sfera giuridica degli interessati e che, di conseguenza, essa fosse subordinata al rispetto del diritto di intervento nel procedimento e al principio del contraddittorio sanciti dalla Legge n. 241/1990, e alla valutazione obbligatoria da parte del questore di tutti elementi anche a difesa dell’interessato. Nella giurisprudenza successiva analizzata dalla Corte erano però emersi due approcci contrastanti. L’approccio maggioritario riteneva che la funzione preventiva dell’ammonimento non giustificasse, di per sé, la deroga al diritto del singolo di essere ascoltato nel procedimento, quest’ultimo dovendosi, pertanto, svolgere sempre in ottemperanza al principio del contraddittorio, al fine di consentire al destinatario del provvedimento di esprimere il proprio punto di vista. Per contro, parte minoritaria della giurisprudenza riteneva che, alla luce della funzione preventiva dell’ammonimento e della sua stessa natura – ovvero prevenire un rischio di danno irreparabile per la persona che ne faccia richiesta – il questore detenesse la piena discrezionalità nel valutare se notificare al destinatario l’avvio del procedimento e se ascoltarlo prima dell’adozione della misura: i diritti di partecipazione del destinatario, dunque, avrebbero potuto essere derogati ma esclusivamente in via eccezionale e qualora le circostanze di urgenza lo imponessero, circostanze che avrebbero dovuto essere valutate dal questore. Il motivo specifico a fondamento della deroga avrebbe dovuto però essere debitamente indicato nella motivazione del provvedimento (par. 37-40). Questa posizione, che a dire della Corte è minoritaria, a noi pare comunque perfettamente in linea con quanto stabilito dall’art. 7 della L. 241/1990 laddove si enuncia che «[o]ve non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato […] ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi». La ratio di questi procedimenti è, invero, proprio quella di fornire una risposta celere al fine di tutelare le vittime, promuovendo quello che potremmo definire favor victimae.
4. Che quello alla partecipazione ai procedimenti amministrativi sia un diritto suscettibile di legittime limitazioni è poi confermato anche da alcuni atti internazionali richiamati dalla stessa Corte, già esistenti all’epoca del procedimento contestato. In proposito, rileva innanzitutto la Resolution 77 (31) on the protection of the individual in relation to the acts of administrative authorities, adottata dal Comitato dei Ministri il 28 settembre 1977. Qui, invero, in relazione al riconoscimento del diritto a essere ascoltati nel corso di un procedimento amministrativo, da un lato si riconosce che la persona destinataria del provvedimento «may put forward facts and arguments» utilizzando quindi una formulazione non ordinatoria e, dall’altro, che solo in casi ‘opportuni’ la persona sarà informata per tempo di tale possibilità. Anche qui, dunque, emerge uno spazio di discrezionalità per l’autorità amministrativa in ragione del caso concreto. Invece, quando si affronta il tema della motivazione del provvedimento, la Risoluzione in esame parla di un vero e proprio obbligo delle autorità, le quali devono informare «of the reasons on which it is based». Un altro atto di soft law rilevante, richiamato come il precedente dalla stessa Corte, è la successiva Recommendation CM/Rec(2007)7 of the Committee of Ministers to member states on good administration, adottata il 20 giugno 2007. Ad essa è allegato un Codice della buona amministrazione che all’art. 8 prevede espressamente che le autorità pubbliche debbano riconoscere agli individui la possibilità di partecipare nella fase dell’elaborazione e dell’attuazione degli atti amministrativi che possano produrre un impatto sui loro diritti o interessi, «unless action needs to be taken urgently»: anche qui, dunque, emerge che tale diritto possa subire limitazioni qualora emerga la necessità di procedere con urgenza.
Oggi, infine, è la stessa Convenzione di Istanbul a fungere da ulteriore metro di valutazione della legalità della misura adottata in relazione al diritto di partecipare al procedimento, in particolare in virtù dei suoi articoli 50, 51 e 53. Sebbene la Convenzione non fosse in vigore né al momento dell’emanazione dell’ammonimento contestato e neppure in pendenza dei due ricorsi amministrativi, nel caso in esame essa è stata però richiamata dalla Corte sia per inquadrare il reato di stalking nel più ampio contesto degli obblighi internazionali dell’Italia (art. 34), che per ‘delimitare’ lo spettro d’azione del procedimento amministrativo che ha condotto all’adozione della misura dell’ammonimento. Quanto alla ‘risposta’ che gli Stati sono tenuti a garantire in caso di stalking (e degli altri reati contemplati dalla Convenzione), si chiede alle parti che essa sia immediata, affinché le autorità possano affrontare «in modo tempestivo e appropriato» gli atti incriminati e offrire alla vittima una «protezione adeguata e immediata». La procedura di ammonimento oggetto della sentenza in commento rientra a pieno titolo tra quelle in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza contro le donne che gli Stati sono tenuti ad adottare (art. 50). Nello specifico, il successivo art. 53 esplicita che tali misure debbano essere «disponibili per una protezione immediata e senza oneri amministrativi o finanziari eccessivi per la vittima; emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca; ove necessario, decise ex parte con effetto immediato; disponibili indipendentemente o contestualmente ad altri procedimenti giudiziari. Inoltre, si richiede che la violazione di tali misure comporti l’erogazione di “sanzioni penali o di altre sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive». Il procedimento in esame, pertanto, pur essendo stato introdotto nel 2009, appare pienamente in linea anche con quanto successivamente richiesto agli Stati che hanno aderito alla Convenzione, tra cui appunto l’Italia.
5. Ammessa, dunque, la possibilità che in casi specifici le garanzie procedurali – nello specifico il diritto di partecipare al procedimento di ammonimento – possano legittimamente subire delle limitazioni, snodo del ragionamento della Corte in questo caso è la valutazione dell’ampiezza della discrezionalità dell’azione amministrativa, con riferimento ai poteri del questore. In proposito, rileva ancora una volta la Convenzione di Istanbul che, all’art. 51, si occupa della valutazione e gestione dei rischi nei casi di violenza contro le donne: alle autorità competenti deve infatti essere riconosciuta la possibilità di poter «valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno». Inoltre, in una prospettiva giuridica ampliata e volendo prestare attenzione ai più recenti sviluppi in materia, non possiamo esimerci dal rilevare come la stessa Proposta di Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica presentata dalla Commissione europea l’8 marzo 2022 ricordi, al Considerando n. 30, che «[p]er garantire alla vittima un’assistenza e una protezione complete, tutte le autorità e gli organismi competenti, non solo le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie, dovrebbero partecipare alla valutazione dei rischi per la vittima stessa […]». La discrezionalità del questore, dunque, rientra senz’altro in quell’accurata attività di valutazione e gestione del rischio che è oggi richiesta anche a livello internazionale al fine di garantire una tutela immediata ed effettiva alla vittima: egli, invero, legittimamente potrà valutare opportuno per ragioni di necessità e urgenza, e in ragione della tipologia di condotta oggetto della procedura, limitare i diritti di partecipazione del presunto autore della stessa.
Evidenziati questi primi elementi in relazione alla misura contestata, e non potendoci in questa sede soffermare profusamente su tutti gli aspetti emersi dalla sentenza, occorre evidenziare le conclusioni cui è giunta la Corte ed esprimere poi alcune considerazioni critiche sulle stesse.
6. In relazione alla capacità del diritto interno di delimitare sufficientemente l’ambito del potere discrezionale conferito al questore nell’adottare il provvedimento, la Corte si è soffermata su due tipologie di ‘restrizioni’ a tale discrezionalità, una di tipo sostanziale e una di tipo procedurale.
Quanto alla prima, ovvero le condotte che giustifichino l’adozione di tale provvedimento e sulle quali ci siamo già soffermate sopra, la Corte ha ribadito che la portata della nozione di ‘prevedibilità’ dipende in misura considerevole dal contenuto dello strumento in questione e dal suo campo di applicazione e, pertanto, ha ritenuto che il testo dell’art. 8 del Decreto-legge n. 11/2009 – considerato nel suo contesto e alla luce scopo perseguito – fosse stato formulato con un sufficiente grado di chiarezza per delimitare l’ambito di discrezionalità conferito al questore e prevenirne, dunque, l’arbitrarietà (par. 103). Inoltre, in riferimento alla chiarezza della formulazione dell’ammonimento al fine di consentire al destinatario di potersi regolare per il comportamento da tenere in futuro, la Corte ha evidenziato che, poiché lo scopo dell’ammonimento è di prevenire il ripetersi in futuro di atti molesti, il ricorrente avrebbe potuto agevolmente sapere quali condotte evitare, ovvero quelle punite dall’art. 612-bis c.p. (par. 108). Nel caso concreto, poi, come anche rilevato dal Consiglio di Stato, il provvedimento del questore dava «puntualmente conto degli accertamenti effettuati dalla Squadra Mobile, dai quali emerge la condotta ingiuriosa e intimidatoria tenuta dall’odierno appellato nei confronti della moglie, tale da suggerire “la necessità e l’urgenza di dover prevenire il compimento di ulteriori atti persecutori”».
Quanto ai limiti procedurali, invece, e in particolare all’appropriatezza delle misure esistenti nell’ordinamento italiano al fine di permettere al ricorrente di potersi difendere in caso di condotte arbitrarie da parte della pubblica autorità, con specifico riferimento al suo diritto di partecipare al procedimento di ammonimento, la Corte ha ritenuto che le modalità attraverso le quali quest’ultimo deve concretizzarsi devono essere rapportate alle caratteristiche e alle finalità della procedura pertinente e della misura da adottare. Nel caso di specie, la misura in questione mirava a prevenire la reiterazione di comportamenti che costituiscono il reato di stalking e, quindi, secondo i giudici di Strasburgo, essa rientrava nell’ambito di applicazione dell’art. 53 della Convenzione di Istanbul, che abbiamo già richiamato e che consente di emettere misure di protezione ex parte e con effetto immediato, a patto che tale limitazione del diritto di partecipazione al procedimento sia controbilanciata dalla possibilità di avere accesso a un rimedio giurisdizionale effettivo. La Corte ha qui puntualmente ravvisato l’esistenza di tale possibilità, sia con riferimento al ricorso al TAR che al secondo grado di giudizio garantito dal Consiglio di Stato (par. 118).
Ulteriore aspetto emerso è stato poi quello della compatibilità dell’ammonimento con un legittimo scopo: in proposito la Corte ha risposto in modo affermativo, rilevando innanzitutto che esso è conforme all’obbligo statale di prevenire la commissione di reati e di proteggere la salute, i diritti e le libertà altrui (par. 122) ma che, ulteriormente, la ratifica della Convenzione di Istanbul impone oggi all’Italia di prevedere nel suo ordinamento, tra le altre cose, anche misure come quella oggetto del ricorso (par. 123).
7. Tenuto conto di quanto appena esposto, resta ora da evidenziare in base a quali motivazioni la Corte abbia però condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU.
Ebbene, la misura in esame non ha superato il test della necessarietà in una società democratica (par. 144). Sebbene, infatti, la Corte abbia concluso che la misura fosse conforme al principio di legalità, essa ha ritenuto che gli obblighi imposti al ricorrente fossero formulati in termini molto generici, che l’ammonimento si configurasse come misura ‘istantanea’, non soggetta né a revoca né a revisione e fosse, pertanto, ontologicamente una misura sine die il cui destinatario, ad avviso della Corte, non potrebbe mai godere di una tutela piena ed effettiva contro una sua possibile emanazione arbitraria e che, almeno al momento dell’emissione dell’ammonimento, non vi fosse alcun diritto di ottenere un riesame periodico o una nuova valutazione della misura finalizzata alla sua revoca.
Infine, secondo la Corte, nel caso in esame non erano state fornite al ricorrente sufficienti garanzie procedurali (par. 143), in quanto i tribunali nazionali non avevano fornito motivazioni pertinenti e sufficienti per stabilire se le azioni imputategli fossero effettivamente in grado di giustificare l’imposizione della misura. In particolare, la Corte ha lamentato che il Consiglio di Stato non avesse invero effettuato un esame indipendente per verificare se l’ammonimento fosse ragionevolmente fondato, in quanto dalla sentenza non era emerso l’esame di alcuna prova per confermare o confutare le affermazioni del ricorrente. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che il mancato esame della capacità effettiva del questore di dimostrare l’esistenza di fatti specifici su cui basare la valutazione che il ricorrente costituisse un pericolo per la moglie, abbia comportato un vulnus ai diritti dello stesso, essendosi il Consiglio di Stato limitato a un esame puramente formale della decisione di imporre l’ammonimento (par. 141).
Quest’ultimo punto, invero, è l’unico sul quale il giudice italiano Sabato ha concordato con la maggioranza, come emerge dalla sua opinione concorrente.
8. Rinviando ad altra sede per un approfondimento ulteriore di questa discutibile sentenza, ci limiteremo ora a sollevare qui alcune perplessità in relazione all’approccio seguito dalla Corte in questo caso.
Innanzitutto, sebbene in alcuni passaggi del suo ragionamento giuridico la Corte abbia dimostrato una certa sensibilità e consapevolezza della rilevanza e della delicatezza della questione affrontata, essa ha però a tratti rivelato arroganza nel diffidare della buona fede e della competenza del questore e delle forze di polizia italiane, lasciando quasi trasparire il messaggio che le autorità italiane abbiano, de facto,agito con arbitrarietà.
Un passaggio che lascia molto perplessi è, ad esempio, quello in cui la Corte ha affermato di non comprendere perché esse non abbiano ascoltato anche il ricorrente (par. 130): qui, purtroppo, la Corte pare aver dimenticato il suo ruolo sussidiario rispetto a quello dei giudici nazionali; come rilevato anche dal giudice Sabato, infatti, proprio alla luce del suo ruolo, «second-guessing the domestic assessment of evidence should take place only when arbitrariness is evident» (par. 7). E non era certo questo il caso. Nel procedimento in esame, infatti, il questore ha agito nel pieno rispetto degli obblighi di due diligence volti a prevenire l’escalation della violenza perpetrata ai danni della vittima e, pertanto, i rilievi della Corte nel merito della procedura ci paiono decisamente in contrasto e in controtendenza rispetto a quell’approccio gender-sensitive che si sta invece imponendo a livello nazionale e sovranazionale nei casi di violenza contro le donne e violenza domestica. Come anche rilevato dallo stesso Consiglio di Stato, alla luce delle «finalità proprie del provvedimento questorile, è del tutto palese l’esigenza che la sua adozione avvenga in tempi rapidi, in ragione della necessità di interrompere con immediatezza l’azione persecutoria». La stessa Corte, poi, ha richiamato il Rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul che, in relazione all’53, prevede che misure immediate e inaudita altera parte possano essere adottate “in certi casi” e “quando necessario”: nel caso in esame, il questore ha avuto a disposizione tutti gli elementi per poter valutare che ci si trovasse esattamente in ‘un caso’ adeguato e che vi fosse la necessità di procedere inaudita altera parte (v. par. 10 della sentenza dove si riporta la trascrizione dell’ammonimento). Anche se la Corte è parsa ‘confondere’ il requisito della necessità con quello dell’urgenza, che non appare certamente nel testo del Rapporto, la ‘protezione della vittima’ può senz’altro costituire una valida motivazione a sostegno della necessità di derogare ai diritti di partecipazione nel procedimento di ammonimento. Il giudice Sabato, invero, si è spinto oltre arrivando ad affermare che nei casi di stalking, comunque, l’urgenza sia «ipso iure et facto present» (par. 46).
Un altro aspetto preoccupante è che una lettura gender-oriented della sentenza mette in luce alcuni ‘pregiudizi’ che paiono trasparire dalle parole della Corte, soprattutto con riferimento al ruolo della vittima, la cui testimonianza non solo non viene considerata come tale nel ragionamento dei giudici di Strasburgo ma che, anzi, viene declassata a mera ‘versione dei fatti’ (par. 8 e 36). Stupisce davvero questo atteggiamento della Corte che si pone nella scia di quella pericolosa e svilente pratica di alcuni giudici nazionali che ha come effetto la c.d. ‘vittimizzazione secondaria’, pratica che la Corte stessa ha in passato condannato anche con riferimento all’Italia in relazione proprio a dei ‘pregiudizi giudiziari’ (caso J.L. c. Italia del 27 maggio 2021) e che, sia la Convenzione di Istanbul, all’art. 18, che la Proposta di Direttiva menzionata, all’art. 23, proibiscono. Sebbene nel caso J.L. la Corte si riferisse alle ‘allusioni’ dei giudici nazionali rispetto a un presunto ruolo della vittima nel ‘causare’ la violenza subita, la nozione di vittimizzazione secondaria può includere tutte quelle manifestazioni di pregiudizi culturali in base ai quali le donne possono mentire, presentare denunce strumentali o, addirittura, ‘essersela cercata’. Stando, infatti, alla recentissima Recommendation CM/Rec(2023)2 of the Committee of Ministers to member States on Rights, Services and Support for Victims of Crime, «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima». Svilire la testimonianza di una vittima, dunque, ben può ritenersi una ‘risposta’ inadeguata al primario obbligo di proteggerla e può, di fatto, ingenerare oltre che una nuova sofferenza nella vittima anche una comprensibile sfiducia nei confronti delle istituzioni. A fronte di ciò, come anche evidenziato dal giudice Sabato, in questo caso a noi pare che la Corte abbia addirittura messo in atto una vera e propria ‘overprotection’ del presunto stalker, esasperando la centralità del suo diritto di partecipare al procedimento a discapito della necessità di proteggere in modo celere la vittima di stalking. Invero, il diritto alla difesa non è detto che debba necessariamente garantirsi attraverso la partecipazione al procedimento, ben potendo essere tutelato anche mediante la possibilità per il destinatario di un provvedimento di avere successivamente accesso a mezzi di ricorso effettivi e imparziali. Ciò, a nostro avviso, vale ancor di più in casi relativi a condotte violente contro le donne che necessitano di azioni repentine ed efficaci innanzitutto nel breve periodo, al fine di evitare derive ancor più drammatiche e dagli esiti nefasti. Un approccio eccessivamente garantista e, forse, non pienamente coerente con i più recenti sviluppi in materia di protezione delle donne in casi di violenza ‘gender-based’, rischia di vanificare gli sforzi degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno già da tempo adottato provvedimenti virtuosi e conformi agli obblighi internazionali.
Ciò che forse lascia però più perplessi, e che ci porta a sperare in un ricorso alla Grande Camera da parte del Governo italiano, è che con questa sentenza, arrivata ben 11 anni dopo la presentazione del ricorso e in un quadro giuridico decisamente più evoluto rispetto al 2012, la Corte sembra negare la sua precedente importante giurisprudenza in materia, ad esempio, di valutazione del rischio e di condanna della passività delle autorità preposte alla protezione delle donne (si veda De Vido). Essa, infatti, ci pare abbia strumentalizzato quella nozione di valutazione e gestione del rischio ‘autonoma’ e ‘proattiva’ che deve caratterizzare l’operato delle autorità statali, sviluppata dalla Grande Camera nel caso Kurt c. Austria del 15 giugno 2021: qui, invero, i giudici avevano chiarito il ruolo centrale della autorità nazionali nel poter anche, in una certa misura, ‘sopperire’ alla percezione del rischio della vittima (par. 169 e 170), che potrebbe essere ‘inquinato’ da timori e ripensamenti dovuti alla sua particolare vulnerabilità. In Germano c. Italia, invece, la Corte ci è sembrata ‘accusare’ le autorità italiane di non aver sentito anche la versione del presunto stalker – non prendendo così in considerazione «the entirety of the evidence available» (par. 128) – e interpretare così le nozioni di ‘autonomia’ e di ‘proattività’ quali garanzie in favore del presunto reo. Come anche evidenziato dal giudice Sabato nella sua opinione concorrente, in Kurt la Grande Camera aveva, al contrario, promosso il favor victimae «in its pursuit of better protection of vulnerable victims who are unable to report in full the violence they sustain» (par. 55). La sentenza in esame, dunque, pare quasi espressione di un atteggiamento ‘schizofrenico’ della Corte europea che, da un lato, ha condannato gli Stati per l’inerzia delle loro autorità (Talpis c. Italia del 2 marzo 2017, Kurt c. Austria, De Giorgi c. Italia del 21 giugno 2022) e, dall’altro, ha stigmatizzato comportamenti virtuosi e proattivi volti a proteggere e fungere da deterrente rispetto a possibili future escalation di violenza ai danni delle donne, ribaltando pertanto il suo fondamentale acquis volto alla tutela delle vittime di violenza gender-based.
Lo scorso 28 giugno anche l’Unione europea ha finalmente ratificato la Convenzione di Istanbul, lanciando un segnale molto forte agli Stati membri che ancora non lo hanno fatto e al mondo intero; quasi contemporaneamente, però, ci è giunta la notizia del 44° femminicidio (solo) in Italia da inizio 2023, concretizzatosi con il brutale assassinio di Michelle Maria Causo, di soli 17 anni. In questo scenario in chiaroscuro, dove sono più le ombre che le luci, si auspica vivamente che la Corte europea possa tornare prontamente a essere un solido baluardo per tutte le donne vittime di una violenza ancora dilagante e che «the departures from the case-law entailed by the majority’s judgement will be speedly corrected by further jurisprudential developments» (par. 2, op. conc.).
Michele Grassi (Università degli Studi di Milano)
1. Con tre recenti decisioni, rese in data 23 giugno 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata a occuparsi delle complesse problematiche che accompagnano il riconoscimento dei rapporti di filiazione dei nati a seguito di fecondazione eterologa o surrogazione di maternità, negli ordinamenti, come quello italiano, in cui il ricorso a tali tecniche di procreazione medicalmente assistita (“PMA”) è, in tutto o in parte, vietato. In particolare, nel caso Nuti et al. c. Italia (app. n. 47998/20 e n. 23142/21) la Corte EDU ha dichiarato l’irricevibilità di due ricorsi presentati a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile italiano alla ricezione e iscrizione delle dichiarazioni di riconoscimento di minori – concepiti all’estero tramite fecondazione eterologa, ma nati in Italia – quali figli naturali di due coppie di donne (in entrambi i casi cittadine italiane e residenti abitualmente in Italia). Nei casi Bonzano et al. c. Italia (app. n. 10810/20, n. 29038/20 e n. 2738/21) e Modanese c. Italia (app. n. 59054/19, n. 12109/20 e n. 45426/21) la Corte di Strasburgo ha, invece, dichiarato irricevibili sei ricorsi proposti avverso il rifiuto di trascrivere gli atti di nascita, formati all’estero, di minori nati a seguito di surrogazione di maternità, nei quali erano indicati come genitori i rispettivi committenti, partner dello stesso sesso, e, quindi, anche i soggetti privi di un legame biologico con i bambini in questione.
Le decisioni in commento sono state oggetto di un’elevata attenzione mediatica, che trova giustificazione nella grande rilevanza sociale e politica delle problematiche sottese. La definizione, in senso giuridico, dei rapporti di famiglia è, infatti, un tema particolarmente delicato, che tocca la struttura fondamentale di una società ed esprime in modo paradigmatico le convinzioni antropologiche ed etiche su cui si fonda la convivenza civile. Al contempo, i rapporti familiari costituiscono la trama delle relazioni più intime in cui si sviluppa la personalità di ogni individuo; la definizione degli status giuridici in questione coinvolge, quindi, l’identità stessa delle persone interessate e la loro dignità.
Le questioni implicate nella disciplina della filiazione (in particolare, omogenitoriale) sono, da qualche tempo, al centro del dibattito pubblico; dibattito che, purtroppo, a causa dell’estrema polarizzazione delle posizioni, non sempre appare consono all’estrema delicatezza delle problematiche sottese. È di pochi giorni precedente alle decisioni in esame la notizia dell’impugnazione da parte della Procura della Repubblica di Padova di trentatré atti di nascita, in cui erano state indicate quali madri dei minori anche le partner dello stesso sesso delle rispettive madri biologiche, in violazione – secondo la Procura – delle pertinenti disposizioni di legge in materia di filiazione e PMA.
2. Come noto, la fecondazione eterologa prevede l’impianto nell’utero della gestante (sempre interna alla coppia) di uno più embrioni formati con gameti maschili e/o femminili esterni alla coppia; la surrogazione di maternità, invece, implica che una donna porti a termine una gravidanza su commissione di una coppia (o di una singola persona), dopo fecondazione in vitro o inseminazione naturale o artificiale. Benché comunemente ricondotte alla generale categoria della PMA, le due tecniche testé menzionate sollevano, con tutta evidenza, questioni giuridiche ed etiche profondamente diverse. Cionondimeno, le succinte motivazioni della Corte EDU nelle decisioni in commento paiono in buona parte sovrapponibili e non riservano, in realtà, particolari sorprese, se considerate alla luce della precedente giurisprudenza di Strasburgo sul tema (v. in particolare, le decisioni nei casi Mennesson c. Francia, Labassee c. Francia, Paradiso e Campanelli c. Italia, Valdís Fjölnisdóttir et al. c. Islanda,D.B. et al. c. Svizzera, nonché il parere consultivo del 10 aprile 2019, n. P16-2018-001; su cui v., ex multis, Baratta, Baruffi, Feraci 2019, Feraci 2015 e Tonolo 2015).
Come è agevole intuire, le doglianze dei ricorrenti (i minori e i rispettivi genitori intenzionali) vertevano sulla asserita violazione del proprio diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 CEDU, nonché, nei casi Nuti et al. e Modanese, del divieto di discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU.
Seguendo il consueto iter argomentativo impiegato per valutare le possibili violazioni dell’art. 8 CEDU, la Corte di Strasburgo:
(a) accerta l’avvenuta instaurazione di una vita familiare tra i soggetti coinvolti, ritenendo, a questo fine, sufficiente che i genitori intenzionali abbiano accudito il minore fin dalla nascita e vissuto insieme a questi, secondo modalità che non si distinguono dall’accezione che la nozione di «vita familiare» comunemente assume;
(b) rileva come la mancata ricezione delle dichiarazioni di riconoscimento o trascrizione degli atti di nascita da parte dell’ufficiale di stato civile rappresenti una chiara ingerenza nella vita privata e familiare dei soggetti coinvolti;
(c) riconosce, tuttavia, come una simile ingerenza, oltre a essere prevista dalla legge, risponda agli obiettivi legittimi della tutela della salute e della protezione dei diritti e delle libertà altrui, di cui all’art. 8 par. 2 CEDU (per cogliere il senso di questo passaggio, è utile riferirsi alle precedenti decisioni della Corte nei casi sopra menzionati, in cui erano state accolte le argomentazioni degli Stati convenuti, secondo cui il rifiuto di riconoscere il rapporto di filiazione tra il minore e i genitori intenzionali si giustificava in ragione della volontà di dissuadere i propri cittadini dal ricorrere all’estero a metodi di procreazione vietati sul territorio nazionale, al fine di preservare i diritti e il benessere del minore e, nel caso di surrogazione di maternità, della madre del bambino, v. Mennesson c. Francia, par. 62; Labassee c. Francia, par. 54 e D.B. et al. c. Svizzera par. 62);
(d) si interroga sulla necessità di una simile ingerenza in una società democratica e, cioè, se essa sia fondata su un’esigenza sociale impellente e proporzionata agli obiettivi perseguiti.
A questo fine, la Corte di Strasburgo concentra il suo esame sulla posizione dei minori coinvolti. Da un lato, richiamando un principio affermato già nella giurisprudenza testé menzionata, la Corte ricorda che il rispetto della vita privata del minore impone che il diritto degli Stati parti della Convenzione offra la possibilità di fornire un inquadramento giuridico al rapporto affettivo e sociale tra il bambino e il genitore intenzionale, indipendentemente dalle tecniche di procreazione impiegate dalle persone coinvolte nel c.d. «progetto procreativo» o dal loro orientamento sessuale. Ciò per due ordini di considerazioni. In primo luogo, l’interesse superiore del minore impone che sia (lato sensu) riconosciuto il rapporto giuridico con le persone responsabili della sua educazione, del suo mantenimento e del suo benessere e che il bambino possa vivere e crescere in un ambiente sociale stabile. In secondo luogo, l’assoluta impossibilità di riconoscere un legame tra il genitore intenzionale e il bambino porrebbe quest’ultimo in una situazione di incertezza giuridica, ledendo inevitabilmente il suo diritto all’identità personale (con tutte le possibili ulteriori conseguenze, in materia di diritti ereditari, diritto agli alimenti, diritto all’acquisto della cittadinanza o di soggiorno nello Stato del genitore intenzionale).
Dall’altro lato, la Corte di Strasburgo sottolinea che, sebbene gli Stati parti della CEDU siano tenuti ad assicurare un inquadramento giuridico al rapporto sociale e affettivo tra il minore e il genitore intenzionale, essi nondimeno godono di un margine di apprezzamento alquanto ampio nella definizione delle modalità concrete tramite cui tale riconoscimento deve avvenire. L’iscrizione nei registri dello stato civile degli atti di riconoscimento del minore quale figlio naturale di una coppia dello stesso sesso (nel caso Nuti e al.) o la trascrizione, nei medesimi registri, dell’atto di nascita formato all’estero (nei casi Bonzano et al. e Modanese) rappresentano certo una possibilità, ma non sono l’unica strada.
La Corte di Strasburgo rileva come nell’ordinamento italiano, al di fuori dei casi previsti dalla legge, non sia consentita la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico. In particolare, per le ragioni che vedremo meglio più sotto, il ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa in Italia è riservato alle sole coppie di sesso diverso; di conseguenza, in assenza di legame biologico, non è permesso il riconoscimento di un minore da parte di una donna legata in unione civile con la madre del bambino. Al contempo, il ricorso alla maternità surrogata è in ogni caso vietato, quale che sia l’orientamento sessuale dei genitori intenzionali, e il nostro ordinamento impedisce che, quale esito automatico dell’accordo di surrogazione, si costituisca un rapporto di genitorialità tra il minore e i soggetti committenti privi di legami biologici. Secondo la giurisprudenza, peraltro, in questo secondo caso il grado di disvalore che l’ordinamento attribuisce alla condotta è tale da impedire il riconoscimento di decisioni straniere che stabiliscano un legame di filiazione tra il minore e il soggetto committente privo di legami biologici con il minore, per contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano. I giudici di Strasburgo notano, tuttavia, come in entrambi i casi l’ordinamento italiano non escluda, in via assoluta, la possibilità di fornire un inquadramento giuridico al rapporto tra il minore e il genitore intenzionale, privo di legami biologici. In particolare, come si vedrà meglio sotto, la giurisprudenza ha, ormai da qualche anno, individuato nell’istituto dell’adozione «in casi particolari», di cui all’art. 44 co. 1 lett. d della legge 4 maggio 1983, n. 184, la modalità per riconoscere (o, meglio, costituire, nella prospettiva dell’ordinamento italiano) il rapporto di filiazione tra i soggetti in questione (v. ex multis Cassazione civile, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193 e sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162, su cui v. meglio infra al par. 4). Tale istituto, che a seguito del recente intervento della Corte costituzionale (con sentenza 23 febbraio 2022 n. 79) comporta il pieno inserimento dell’adottato nella famiglia dell’adottante, è secondo la Corte EDU – con specifico riferimento ai casi sottoposti al suo esame – sufficiente a tutelare le posizioni dei minori coinvolti.
Alla luce di tali considerazioni, i giudici di Strasburgo escludono ogni violazione della vita privata e familiare dei minori e, a fortiori, dei genitori intenzionali; questi ultimi, infatti, pur avendone avuto la possibilità, avevano omesso di avviare il procedimento di adozione dei bambini in questione, pretendendo, invece, la trascrizione in Italia dei provvedimenti giurisdizionali stranieri o degli atti di nascita formati all’estero che attestavano il loro rapporto con i minori.
3. Prima di esaminare gli aspetti lasciati aperti dalle decisioni in commento, sembra utile ricostruire sinteticamente il quadro della disciplina italiana in materia di costituzione e riconoscimento dei rapporti di filiazione omogenitoriale.
Quanto al problema della costituzione dei rapporti in questione secondo il diritto italiano, il discorso è abbastanza semplice: il nostro ordinamento, infatti, esclude tout court la possibilità di costituire un rapporto di filiazione tra un minore e una coppia dello stesso sesso.
Da un lato, l’art. 6 co. 1 della l. 184/1983 riserva l’adozione (piena) dei minori alle sole coppie unite in matrimonio da almeno tre anni. L’art. 1 co. 20 della legge 20 maggio 2016, n. 76, in materia di unioni civili, esclude, poi, che la disposizione in questione possa estendersi in via analogica anche alle coppie legate da unione civile.
Dall’altro lato, se, a seguito della sentenza 10 giugno 2014, n. 162 della Corte Costituzionale, in Italia è oggi possibile ricorrere alla fecondazione eterologa nei casi in cui sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, l’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 riserva l’accesso alle tecniche di PMA alle sole coppie maggiorenni di sesso diverso. Tale disparità di trattamento è stata giudicata conforme al parametro costituzionale, in ragione delle finalità esclusivamente «terapeutiche» assegnate dalla legge alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ritenute per questo incompatibili con la «infertilità fisiologica» delle coppie dello stesso sesso (v. Corte costituzionale, sentenza del 23 ottobre 2019, n. 221); né sembra che, allo stato, vi possano essere margini per contestarne la compatibilità con la CEDU, atteso che, in una situazione molto simile, la Corte di Strasburgo non ha ritenuto sussistere alcuna discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, reputando la situazione di infertilità delle coppie omoaffettive non assimilabile a quella delle coppie di sesso diverso, affette da particolari patologie riproduttive (Gas e Dubois c. Francia, par. 63).
L’ordinamento italiano vieta, poi, in modo assoluto ogni forma di surrogazione di maternità – a prescindere dall’orientamento sessuale di chi vi faccia ricorso – punendo con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da € 600.000 a un milione chiunque realizzi o anche solo pubblicizzi tale pratica sul territorio italiano (v. art. 12 co. 6 della legge n. 40/2004). Peraltro, è attualmente in discussione alla Camera dei deputati un progetto di legge volto a rendere ancor più stringenti le norme repressive di tale pratica, estendendo la punibilità del reato in questione anche alle condotte realizzate all’estero dal cittadino italiano (v. il podcast Ehi SIDI! dedicato al tema). Di conseguenza, anche laddove si dovesse addivenire in futuro a una piena equiparazione tra coppie dello stesso sesso e coppie di sesso diverso nell’accesso alle tecniche di PMA permesse dalla legge italiana, ciò recherebbe giovamento alle sole coppie composte da due donne. Per ovvie ragioni, infatti, la fecondazione omologa presuppone la complementarietà biologica della coppia, mentre la fecondazione eterologa richiede la presenza di (almeno) una donna.
Con riguardo al riconoscimento dei rapporti di filiazione omogenitoriale costituiti secondo un diritto diverso dalla legge italiana, invece, il discorso è in parte più complesso. Le regole applicabili in tali ipotesi variano a seconda che il rapporto di filiazione sia accertato o costituito all’esito di un procedimento giurisdizionale ovvero derivi direttamente dalla legge straniera, originando da atti o negozi privati posti in essere, se del caso, anche con la partecipazione di pubblici ufficiali stranieri.
Nella prima ipotesi, il rapporto in questione può essere riconosciuto in forza degli artt. 64 o 65 della l. 218/1995. Nel caso dell’art. 65 – specificamente dedicato ai provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone o all’esistenza di rapporti di famiglia – la decisione in questione è riconosciuta in via automatica, a condizione che sia stata pronunciata dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle pertinenti norme di conflitto italiane (nel caso della filiazione, l’art. 33 della l. 218/1995), non contrasti con l’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa. Nell’ipotesi in cui tale disposizione non sia applicabile, e cioè laddove il provvedimento non provenga dal giudice la cui legge è richiamata dalle norme di conflitto italiane, il provvedimento sarà nondimeno riconosciuto (sempre in via automatica) a patto che rispetti le condizioni previste dall’art. 64 della l. 218/1995 (tra cui, la competenza internazionale del giudice che ha pronunciato il provvedimento e il rispetto dell’ordine pubblico, tanto nella sua dimensione sostanziale che processuale).
Nella seconda ipotesi, laddove il rapporto di filiazione sia costituito in base al diritto straniero senza l’intervento dell’autorità giudiziaria, esso sortirà effetti in Italia alle condizioni e nei modi previsti dalla legge applicabile, come individuata dall’art. 33 della l. 218/1995. In particolare, secondo tale disposizione «lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita» (sul tema v. ex multis, Lopes Pegna, p. 394 ss. e Di Blase 2018, p. 843 ss.). Analogamente, l’art. 35 della stessa legge prevede che «le condizioni per il riconoscimento del figlio sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita, o, se più favorevole, dalla legge del soggetto che effettua il riconoscimento». L’applicazione della legge straniera è, peraltro, soggetta al limite dell’ordine pubblico, di cui all’art. 16 della l. 218/1995.
Su un diverso piano, poi, il d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, recante l’ordinamento dello stato civile, prevede la possibilità di trascrivere nei pubblici registri gli atti dello stato civile formati all’estero. Più nello specifico, il combinato disposto degli artt. 15 e 17 del d.P.R. 396/2000 stabilisce che le dichiarazioni di nascita che riguardino cittadini italiani nati all’estero devono essere rese all’autorità consolare italiana ivi presente ovvero, se imposto dalla legge straniera, debbono farsi secondo quanto prescritto da quest’ultima e i relativi atti devono essere inviati senza indugio all’autorità consolare, la quale, poi, dovrà trasmetterne copia agli uffici di stato civile del comune di residenza del nato o, se residente all’estero, di nascita o residenza del padre o della madre, ai fini della sua trascrizione. L’art. 19 del d.P.R. 396/2000 prevede, invece, che gli atti che riguardino cittadini stranieri residenti in Italia possono essere trascritti, su richiesta di questi ultimi, nei registri del comune di residenza. L’art. 18 del d.P.R. 396/2000, tuttavia, esclude la trascrivibilità degli atti contrari all’ordine pubblico (nozione che richiama, evidentemente, l’ordine pubblico internazionale di cui agli artt. 16, 64 e 65 della l. 218/1995, con le peculiarità di cui diremo meglio più sotto). Infine, l’art. 28 co. 2 d.P.R. 396/2000 dispone che i provvedimenti giurisdizionali stranieri in materia di nascita – che, come detto, sono riconosciuti automaticamente in Italia alle condizioni previste dagli artt. 64 ss. della l. 218/1995 – vadano trascritti nei registri di stato civile.
La trascrizione opera, come dicevamo, su un piano diverso dalla disciplina internazionalprivatistica appena richiamata (sul punto, ancora attuali, Biscottini, p. 13 ss.; Cafari Panico, p. 11 ss.). Gli atti formati all’estero e trascritti nei registri di stato civile italiani hanno, infatti, valenza probatoria e di documentazione degli status che attestano; non hanno, invece, efficacia costitutiva. Diversamente, si dovrebbe ritenere che gli artt. 15-20 del d.P.R. 396/2000 implichino il riconoscimento automatico – nella loro dimensione sostanziale – delle situazioni risultanti dagli atti stranieri. Ciò, tuttavia, comporterebbe un’implicita sostituzione del tradizionale metodo di conflitto di leggi, generalmente impiegato dalla nostra legge di diritto internazionale privato per il riconoscimento delle situazione costituite all’estero, con una norma ispirata alla «méthode de la reconnaissance» e, cioè, a quel metodo – di per sé sconosciuto all’ordinamento italiano – che consente di riconoscere la situazione esistente nell’ordinamento straniero, a prescindere da ogni considerazione circa il diritto materiale in forza del quale essa si è costituita (v. sul punto Lagarde, Marongiu Bonaiuti p. 68 ss., Davì, p. 335 ss., nonché l’art. 10 della risoluzione dell’Institut de droit international su diritti umani e diritto internazionale privato, su cui v. Rossolillo e Feraci 2022). Una simile conclusione porterebbe, peraltro, a un sostanziale sovvertimento della classica dicotomia di atteggiamento esistente con riguardo al regime di circolazione delle situazioni giuridiche costituite o accertate con un provvedimento giurisdizionale straniero e quelle formatesi per legge o per volontà dei privati e attestate in un atto amministrativo straniero. Come abbiamo visto, infatti, di regola le prime sono riconosciute in via automatica, a condizione che il provvedimento giudiziario che le veicola rispetti determinate condizioni (stabilite, per quanto qui interessa, dagli artt. 64 o 65 della l. 218/1995); le seconde, invece, sono normalmente soggette a un controllo più stringente circa il rispetto delle condizioni previste dalla legge individuata dalle norme di conflitto dell’ordinamento in cui esse sono fatte valere reputa applicabile (e che ben potrebbe non coincidere con la legge di costituzione delle stesse). Tali conseguenze appaiono evidentemente esorbitanti rispetto alla funzione pubblicitaria e di documentazione svolta dalle iscrizioni e trascrizioni nei registri dello stato civile; pare, infatti, da escludere che, con il d.P.R. 396/2000, il legislatore abbia inteso derogare al metodo conflittuale impiegato dalla l. 218/1995 per il riconoscimento delle situazioni, garantendo agli atti pubblici formati all’estero un regime di circolazione più favorevole rispetto a quello previsto per i provvedimenti giurisdizionali.
Nondimeno, la differenza di piani appena evidenziata perde, in parte, di rilievo se si considera che, data la funzione di pubblicità svolta dai registri di stato civile e in considerazione delle formalità previste dalla legge per la loro tenuta, gli atti ivi trascritti fanno fede fino a prova contraria, ai sensi dell’art. 451 co. 2 cod. civ., in ordine allo stato delle persone alle quali si riferiscono – e così debbono essere accettati da tutti gli operatori giuridici, pubblici o privati – fintanto che non siano oggetto di rettificazione, secondo il procedimento di cui all’art. 95 d.P.R. 396/2000, in caso di vizi originatisi nel procedimento di formazione dei relativi atti, e salvo che il loro contenuto non sia sconfessato da un provvedimento giurisdizionale che accerti l’insussistenza del relativo stato (sulle differenze tra i rispettivi procedimenti, v. Campiglio 2019, p. 1132 ss.). Accertamento che, con riguardo ai rapporti di filiazione che presentino elementi di transnazionalità, dovrà essere compiuto sulla scorta della legge applicabile individuata in base all’art. 33 della l. 218/1995.
Se, dunque, è vero che la trascrizione degli atti di nascita o di riconoscimento di minore formati all’estero non pone il rapporto di filiazione al riparo da possibili future contestazioni (Davì, cit. p. 342), essa nondimeno permette che il rapporto in questione sia «accettato» all’interno dell’ordinamento italiano, fintanto che, come detto, non sia sconfessato da un provvedimento giurisdizionale. Ciò spiega perché, di regola, le coppie che si sono recate all’estero per accedere a trattamenti di procreazione medicalmente assistita vietati in Italia cerchino anzitutto un riconoscimento delle relazioni genitoriali così create per il tramite della trascrizione nei registri dello stato civile italiano degli atti di nascita formati in tali Stati. Da quanto detto si comprende, altresì, la ragione per cui, ai fini della trascrivibilità di tali atti, assuma rilievo centrale la ricostruzione più o meno ampia del limite dell’ordine pubblico, su cui, per l’appunto, si è concentrata la giurisprudenza di merito e legittimità degli ultimi quindici anni.
4. Non potendo fornire in questa sede un quadro completo dell’evoluzione giurisprudenziale in materia (e rinviando, a questo scopo, ai numerosi studi sul tema, tra cui v. Campiglio 2022, “Surrogazione di maternità transnazionale e limite dell’ordine pubblico”, in Pesce, p. 61 ss.; Ragni; Di Blase 2021; Baruffi 2020, Savarese, p. 275; Tonolo 2017, p. 1081 ss.) ci limiteremo a indicare sinteticamente i risultati raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità.
Anzitutto, pare utile precisare fin da subito che non sempre si pone un problema di ordine pubblico e quindi occorre distinguere le varie ipotesi.
In particolare, il limite in questione non viene in rilievo laddove l’ufficiale di stato civile sia chiamato non già a trascrivere un atto straniero, ma a formare l’atto di nascita di un minore, cittadino italiano, nato in Italia a seguito del ricorso a fecondazione eterologa da parte di una coppia femminile, in cui si chieda l’indicazione di entrambe le donne (cittadine italiane) quali madri del bambino o la rettificazione dell’atto originario, a seguito del riconoscimento del figlio operato dalla madre intenzionale. In questo caso, come correttamente rilevato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 22 aprile 2020, n. 8029 (nella medesima vicenda processuale da cui, peraltro, è scaturito uno dei ricorsi nel caso Nuti et al.), la fattispecie è interamente assoggettata alla legge italiana, non presentando elementi di estraneità che giustifichino l’applicazione di una legge straniera (il luogo di concepimento del figlio è, infatti, irrilevante secondo l’art. 33 della l. 218/1995) e rispetto alla quale solo potrebbe porsi un problema di compatibilità con l’ordine pubblico degli effetti da questa prodotti. In tali circostanze, l’ufficiale di stato civile è tenuto per legge a rifiutare l’iscrizione o la rettificazione dell’atto di nascita, in quanto contrarie alla disciplina sulla filiazione e procreazione medicalmente assistita italiana. Lo stesso principio è stato di recente ribadito dalla stessa Corte di Cassazione, nella sentenza 7 marzo 2022, n. 7413. Ciò, di per sé, non esclude la possibilità, per la madre intenzionale, di accedere alla adozione «in casi particolari»; tuttavia, come vedremo, la Corte Costituzionale, con sentenza 9 marzo 2021, n. 32, ha ritenuto tale istituto non adeguato a tutelare, in modo pieno, la posizione del minore.
Viene da chiedersi se sia possibile prospettare una soluzione differente nel caso in cui una delle due madri abbia una cittadinanza diversa da quella italiana, in base alla quale sia possibile costituire il rapporto di filiazione (nei confronti di entrambe le madri, giacché la legge straniera più favorevole si estende, giusto il disposto dell’art. 33 co. 1 della l. 218/1995, anche alla madre italiana, v. Di Blase 2018 cit., p. 862). Se si parte dalla constatazione secondo cui gli ufficiali di stato civile non sono tenuti a conoscere e, quindi, ad applicare il diritto straniero (l’art. 14 della l. 218/1995 in materia di conoscenza della legge straniera menziona, infatti, solo i giudici; sul punto v. anche Massimario per l’ufficiale di stato civile, p. 159), vi è una buona probabilità che l’ufficiale rifiuti comunque la formazione di un atto di nascita che indichi entrambe le donne come madri; nondimeno, un simile rifiuto potrebbe essere impugnato dinanzi all’autorità giudiziaria che, a quel punto, sarebbe, secondo noi, tenuta a riconoscere il rapporto di filiazione (dovendosi escludere, per le ragioni che vedremo subito, che l’identità di sesso delle madri, così come il fatto che esse abbiano eluso il divieto posto dalla legge italiana in materia di fecondazione eterologa, si ponga in contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano).
Nelle ipotesi in cui, invece, all’ufficiale di stato civile sia richiesta la trascrizione di un atto di nascita o di riconoscimento del figlio formato all’estero (ai sensi degli artt. 15 ss. d.P.R. 396/2000 e a prescindere dalla individuazione della legge regolatrice del rapporto di filiazione in base agli artt. 33 e 35 della l. 218/1995, dunque ai soli fini pubblicitari cui tende la trascrizione) o di un provvedimento giurisdizionale straniero (ai sensi dell’art. 28 d.P.R. 396/2000) che accerti la sussistenza del rapporto di filiazione a favore di una coppia dello stesso sesso, potrebbe porsi un problema di ordine pubblico. Il rispetto di tale limite è, infatti, espressamente richiesto per la trascrizione di atti formati all’estero dall’art. 18 d.P.R. 396/2000, ed è posta quale condizione per il riconoscimento automatico dei provvedimenti giurisdizionali stranieri dagli artt. 64 ss. della l. 218/1995, riconoscimento che costituisce il presupposto per la loro trascrizione nei registri di stato civile italiani ai sensi dell’art. 28 d.P.R. 396/2000.
In tali ipotesi, la giurisprudenza distingue a seconda della tecnica procreativa da cui deriva il rapporto in questione.
Con riguardo ai rapporti di filiazione derivanti da fecondazione eterologa realizzata da una coppia dello stesso sesso (necessariamente di donne), la Corte di Cassazione, con sentenza 30 settembre 2016, n. 19599, ha ritenuto che non contrasta con il limite dell’ordine pubblico internazionale la trascrizione nei registri dello stato civile italiani di un atto straniero (formato in Spagna) che attesti la nascita di un figlio da una donna italiana, che ha donato l’ovocita, e da una donna spagnola, che ha partorito il bambino, e che indichi entrambe le donne come madri. Ciò nonostante il fatto che il legislatore nazionale vieti il verificarsi di una simile fattispecie sul territorio italiano e non consenta la costituzione, secondo il diritto italiano, di relazioni omogenitoriali. Secondo la Corte, infatti, l’elusione dei divieti in parola non contrasta con principi o valori di rango costituzionale o, comunque, fondanti dell’assetto ordinamentale. Da un lato, assume rilievo decisivo l’interesse superiore del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla continuità dello status filiationis acquisito all’estero. Dall’altro, la Corte evidenzia come non vi sia, nel nostro ordinamento, una «preclusione ontologica per le coppie formate da persone dello stesso sesso (unite da uno stabile legame affettivo) di accogliere, di allevare e anche di generare figli» (considerazione confermata dalla Corte Costituzionale, con sentenza 23 ottobre 2019, n. 221 e, ancor più esplicitamente, con sentenza 9 marzo 2021, n. 32). Il principio in parola è stato, in seguito, ribadito dalla stessa Corte nella sentenza 15 giugno 2017, n. 14878, nonché alla sentenza 23 agosto 2021, n. 23319, dove, pur in assenza di un legame genetico-biologico del minore con una delle due donne, non è stato ravvisato alcun contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano.
Con riguardo, invece, ai rapporti di filiazione derivanti da surrogazione di maternità, l’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità mostra una chiusura molto più netta. In tali ipotesi, la Corte di Cassazione ha, infatti, considerato a più riprese contrarie all’ordine pubblico internazionale italiano la costituzione di un rapporto di filiazione tra il minore e il genitore intenzionale e, quindi, la trascrizione dei relativi atti di nascita o il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali stranieri che accertino l’esistenza dei rapporti in questione (v., tra le altre, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; sentenza 30 dicembre 2022, n. 38162). Sulla scorta di quanto indicato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 18 dicembre 2017, n. 272, secondo cui la surrogazione di maternità «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», la giurisprudenza di legittimità ha rilevato come la pratica in esame si ponga in contrasto con principi e valori di rilievo primario nel nostro ordinamento. A riprova di ciò e dell’alto grado di disvalore che l’ordinamento attribuisce a tale pratica, viene notato come, diversamente dalla fecondazione eterologa per cui, in caso di violazione dei divieti posti dalla legge, è prevista unicamente l’irrogazione di una sanzione amministrativa, la surrogazione di maternità sia punita come reato.
Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio un istituto complesso e problematico – da un punto di vista giuridico, oltre che etico – come la surrogazione di maternità; si tratta, in effetti, di una pratica che in molti casi può comportare una violazione, anche seria, dei diritti umani delle donne coinvolte, oltre che una mercificazione della vita umana (v. sul punto la relazione della Special Rapporteur sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite). Da qui le politiche fortemente repressive e dissuasive del fenomeno adottate dall’Italia e da altri Stati a noi vicini (ad es. Francia, Germania e Spagna). Merita, peraltro, ribadire che, diversamente da quanto avviene in tema di fecondazione eterologa, il divieto di surrogazione di maternità previsto dalla legge italiana si applica tanto alle coppie dello stesso sesso quanto alle coppie di sesso diverso, giacché gli elementi di criticità della pratica in esame non dipendono in alcun modo dall’orientamento sessuale dei committenti.
Nondimeno, nelle ipotesi in cui l’ordinamento venga posto di fronte al «fatto compiuto», e cioè laddove sia richiesto il riconoscimento dei provvedimenti giurisdizionali stranieri o la trascrizione degli atti attestanti il rapporto di filiazione costituito all’esito di surrogazione di maternità realizzata all’estero, un approccio esclusivamente repressivo può risultare del tutto inadeguato. Come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione, infatti, una volta che il bambino è nato sorge l’esigenza di tutelare «il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalità procreativa»; questi, infatti, non può rispondere delle scelte compiute dai genitori-committenti. Si tratta, con tutta evidenza, di un problema delicato: vi è infatti il rischio che la giusta necessità di tutela della condizione dei minori possa essere utilizzata come pretesto per affermare surrettiziamente un diritto degli adulti alla genitorialità «a tutti i costi», anche a prezzo di una violazione sistematica dei diritti umani delle persone coinvolte. Tuttavia, come opportunamente osservato dalla Cassazione, i diritti e la dignità del minore non possono essere strumentalizzati «allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono» (v. sentenza n. 38162/2022; da qui, secondo parte della dottrina, la necessità di uno strumento di portata globale che assicuri una cooperazione a livello inter-statale, anche al di fuori dell’Unione europea, v. Biagioni).
Ad oggi il punto di equilibrio individuato dalla giurisprudenza consiste, come detto, nel negare l’automatica trascrivibilità dei provvedimenti o atti di nascita formati all’estero, attestanti il rapporto di filiazione tra il minore e il genitore intenzionale in assenza di un legame biologico tra i due soggetti (cosa che, secondo la Corte finirebbe «per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante»), ma nell’ammettere, grazie a un’interpretazione estensiva dell’art. 44 co. 1 lett. d della l. 184/1983, il ricorso all’adozione in casi particolari da parte del genitore intenzionale in questione. Tale soluzione, tuttavia, non è scevra di criticità.
5. Come abbiamo visto, nelle decisioni rese nei casi in commento la Corte EDU ha escluso ogni profilo di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dei ricorrenti, sull’assunto che l’ordinamento italiano già prevede la possibilità di ottenere un riconoscimento giuridico del rapporto affettivo e sociale tra i minori e i rispettivi genitori intenzionali attraverso l’adozione in casi particolari. Si è già detto, tuttavia, di come la Corte Costituzionale abbia evidenziato diversi profili di inadeguatezza dell’istituto in parola, che lo rendono strumento non sufficiente a una piena tutela della posizione del minore. In tale occasione, la Corte ha rivolto un pressante invito al legislatore, affinché individui modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore. In particolare nella sentenza 9 marzo 2021, n. 32 – relativa a un’ipotesi di fecondazione eterologa tra due donne, le cui figlie erano nate in Italia, analogamente a quanto avvenuto nelle vicende alla base del caso Nuti et al. – e nella sentenza 9 marzo 2021, n. 33 – relativa a un’ipotesi di surrogazione di maternità, analoga alle vicende alla base dei casi Bonzano et al. e Modanese – la Corte Costituzionale ha rilevato che l’adozione in casi particolari non sempre costituisce un «procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino», poiché non prevede il pieno inserimento nella famiglia dell’adottante e presuppone, in ogni caso, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di separazione o crisi della coppia. Nell’inerzia del legislatore, il primo profilo di criticità è stato, in realtà, risolto dalla Corte Costituzionale, con sentenza 23 febbraio 2022 n. 79, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 55 della l. 184/1983 nella parte in cui prevede che l’adozione in casi particolari non fa sorgere alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante. Con riguardo al secondo profilo, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 38162/2022, ha ritenuto superabile, in via interpretativa, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore biologico, ogniqualvolta esso si ponga in contrasto con il preminente interesse del minore e, cioè, in tutte le ipotesi in cui l’adottante abbia effettivamente intrattenuto un rapporto di affetto e di cura con l’adottando. Più criptico appare, invece, il riferimento alla auspicata maggior celerità del procedimento: l’adozione in casi particolari rappresenta già un procedimento semplificato (e più celere) rispetto all’adozione piena e, nelle more dello stesso, non è comunque impedita la continuità e stabilità del rapporto tra adottante e adottando.
Ad ogni buon conto, nei casi in esame la Corte EDU si è limitata a prendere atto dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 79/2022 testé menzionata; non si è, invece, dovuta occupare degli ulteriori profili di (possibile) inadeguatezza del procedimento di adozione in casi particolari, giacché nei casi oggetto di decisione non era nemmeno stata avviata la relativa procedura. Da ciò, evidentemente, non si può ricavare un generalizzato giudizio di compatibilità dell’istituto in esame con i diritti umani tutelati dalla CEDU; rimangono, infatti, tuttora valide le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di Strasburgo, circa i requisiti che la procedura di adozione deve rispettare per poter essere ritenuta compatibile con il diritto al rispetto della vita privata del minore (v., in particolare, il già citato parere n. P16-2018-001, par. 54).
Un profilo che, tuttavia, secondo noi meriterebbe ulteriore considerazione è quello relativo alla legittimazione attiva rispetto alla procedura di adozione in casi particolari. Se è vero che il diritto che si intende tutelare è quello del minore (e non già, o non solo, quello del genitore intenzionale), pare poco coerente il ricorso a un istituto che può essere attivato esclusivamente dall’adottante. Nell’ipotesi in cui il genitore intenzionale dovesse rimanere inerte, omettendo di dare avvio alla procedura di adozione, il minore si troverebbe, infatti, nell’impossibilità di veder riconosciuto il rapporto di filiazione, con tutte le conseguenze pregiudizievoli che ciò comporta. A titolo di esempio, in caso di separazione dei genitori non potrebbe pretendere il diritto al mantenimento da parte del genitore intenzionale o, in caso di morte di quest’ultimo, non godrebbe dei relativi diritti ereditari. Rimane, quindi, auspicabile un intervento del legislatore che individui le congrue modalità che garantiscano un pieno riconoscimento dei diritti dei minori, laddove l’ordinamento italiano impedisca il riconoscimento o la costituzione del rapporto di filiazione con (entrambi) i genitori intenzionali.
Silvia Giudici (Università degli Studi di Torino)
1. Il 5 giugno 2023, la Corte di giustizia è tornata ad esprimersi sul tema del rispetto dello stato di diritto in Polonia, valutando la compatibilità con il diritto dell’Unione delle riforme introdotte dalla cosiddetta «legge di modifica» del 2019, con la quale sono state emendate la legge sull’organizzazione degli organi giurisdizionali ordinari, la legge sulla Corte suprema e altre leggi sull’ordinamento giudiziario.
In breve, la sentenza Commissione c. Polonia (Indépendance et vie privée des juges) ha sancito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una serie di disposizioni della «legge di modifica» polacca di cui si dirà in seguito (per ulteriori commenti alla sentenza v. Pech 2023 e Taborowski e Filipek). La Corte ritiene che queste norme siano suscettibili di essere utilizzate per esercitare pressioni sugli organi giurisdizionali nazionali. Di conseguenza, i giudici polacchi sarebbero dissuasi dal valutare, anche per il tramite dello strumento del rinvio pregiudiziale, il rispetto dei requisiti derivanti dagli articoli 19 TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che mirano a tutelare il diritto a un equo processo e richiedono che un singolo possa adire un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge. Inoltre, la Corte sostiene che la legge polacca non tuteli i diritti alla protezione dei dati e della vita privata di cui i giudici godono in virtù dell’applicazione della Carta e del Regolamento generale sulla protezione dei dati, cosiddetto GDPR (Regolamento 2016/679).
Questo contributo offre un sintetico quadro generale relativo all’adozione della legge contestata e alle vicende intercorse prima dell’emissione della sentenza, si sofferma poi su alcuni elementi chiave del ragionamento della Corte nella sentenza e propone infine alcuni spunti di riflessione più generali sul contrasto alla regressione nella tutela dello stato di diritto in Polonia.
2. Come si è detto, la causa C-204/21 si inserisce all’interno della più ampia e dibattuta questione del contrasto da parte dell’Unione alla crisi nella tutela dello stato di diritto in alcuni suoi Stati membri (in generale su tale azione di contrasto v., ad es., Rossi, Mastroianni, Rosanò e Villani, mentre per una ricostruzione critica della vicenda polacca v. Pech, Wachowiec e Mazur).
In particolare, la legge polacca sulla quale verte la sentenza, soprannominata in maniera sprezzante «legge bavaglio» dalla Presidente della Corte suprema polacca, che pure si è espressa in senso contrario a tale riforma, è stata adottata poco dopo la pronuncia nel caso A.K. c. Krajowa Rada Sądownictwa e CP e DO c. Sąd Najwyższy, con la quale la Corte di giustizia ha esplicitato i criteri sulla base dei quali un giudice nazionale è tenuto a valutare l’indipendenza e l’imparzialità degli organi giurisdizionali e ha indicato la disapplicazione delle disposizioni del diritto interno contrastanti, nel caso in cui tali requisiti non fossero soddisfatti. Come si vedrà meglio di seguito, le modifiche introdotte sono atte, di fatto, a impedire ai giudici polacchi di dare attuazione alla sentenza nel caso A.K. summenzionato (v. Festa, p. 159 ss).
La pronuncia qui in analisi è il risultato ultimo di una procedura di infrazione iniziata dalla Commissione nell’aprile 2020, sebbene il ricorso davanti alla Corte di giustizia sia stato presentato solo nell’aprile 2021. Già precedentemente, la Corte si era espressa, in particolar modo nella sentenza del 15 luglio 2021 Commissione c. Polonia (Régime disciplinaire des juges), nel senso di ritenere incompatibile con il diritto dell’Unione il regime disciplinare applicabile ai giudici polacchi. La stessa pronuncia aveva anche dichiarato che la sezione disciplinare della Corte suprema non offriva adeguate garanzie di indipendenza e imparzialità. La nuova pronuncia Commissione c. Polonia (Indépendance et vie privée des juges) riprende alcune statuizioni di detta sentenza e mette in luce come ulteriori aspetti del regime applicabile ai giudici polacchi non siano compatibili con i requisiti previsti dal diritto dell’Unione per garantire il rispetto dello stato di diritto.
Per fornire un quadro più completo della vicenda, preme segnalare che, ancor prima dell’emissione della sentenza, la Commissione aveva richiesto e ottenuto l’applicazione di misure cautelari nei confronti della Polonia (ordinanza del 14 luglio 2021). Lo stesso giorno, la Corte Costituzionale polacca reagiva dichiarando che la Corte di giustizia non fosse competente ad adottare questa decisione (per un commento v. Polanski). A seguito di questa e di un’altra sentenza dell’ottobre 2021, la Commissione avviava una nuova procedura di infrazione. Al tempo stesso, la Polonia veniva condannata al pagamento di 1 000 000 euro al giorno per non aver posto in essere le misure provvisorie ordinate dalla Corte (ordinanza del 27 ottobre 2021). Ad aprile 2023, la Corte rilevava che la Polonia avesse adottato provvedimenti per adeguarsi alle pronunce, ma solo in maniera parziale, ottenendo così una riduzione dell’entità della penalità di mora (ordinanza del 21 aprile 2023).
3. Venendo ora alla sentenza in esame, a titolo preliminare, la Corte ribadisce la propria competenza a valutare la compatibilità della cosiddetta «legge di modifica» polacca con il diritto dell’Unione. Contrariamente a quanto sostenuto dal governo polacco, né il principio di attribuzione né l’articolo 4, par. 2, TUE, secondo cui l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, sono atti a escludere la giurisdizione della Corte (punto 63). La competenza nazionale nel definire il proprio assetto costituzionale trova, infatti, una limitazione nel rispetto degli obblighi di cui agli articoli 2 e 19 TUE. La sentenza pone inoltre in evidenza un contrasto tra le posizioni della Corte di giustizia e della Corte Costituzionale polacca. Secondo quest’ultima il giudice dell’Unione non sarebbe competente a valutare l’indipendenza degli organi giurisdizionali nazionali. La Corte di giustizia risponde ribadendo che il principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno richiede anche a una corte nazionale di simile rango di adeguarsi alle decisioni e all’interpretazione delle disposizioni di diritto dell’Unione dato da quest’ultimo (punto 79).
La prima questione affrontata nella sentenza riguarda le competenze attribuite alla sezione disciplinare della Corte suprema in merito all’adozione di un’ampia varietà di provvedimenti disciplinari diretti ai giudici polacchi, suscettibili di avere un forte impatto sulla vita professionale e privata di questi. Tra le misure contestate rientrano l’apertura di indagini penali nei confronti dei magistrati, la disposizione del loro arresto, la modifica in maniera peggiorativa della loro retribuzione e l’imposizione dell’obbligo a un pensionamento anticipato involontario. Il giudice dell’Unione ricorda che, ai sensi dell’articolo 19 TUE, è fondamentale evitare che i poteri sanzionatori di cui dispongono i membri della sezione disciplinare siano utilizzati per esercitare forme di influenza e controllo politico sui giudici nazionali. Di conseguenza, tale norma richiede la previsione di garanzie atte a evitare un uso indebito del sistema, da cui deriva la necessità di scongiurare il rischio che i provvedimenti disciplinari non siano adottati da un organo indipendente (punti 95-100). Riprendendo i propri precedenti sulla mancanza di indipendenza della sezione disciplinare, la Corte sancisce che tali assicurazioni non sono presenti nel regime disciplinare polacco, il quale si pone pertanto in violazione dell’articolo 19 TUE (punto 102).
Il secondo punto sul quale si concentra l’attenzione della Corte è la scelta del governo polacco, poi approvata dal Parlamento, di considerare una serie di fattispecie come infrazioni disciplinari a carico dei giudici. In primo luogo, sarebbero ritenute tali «atti o omissioni idonei a ostacolare o compromettere seriamente il funzionamento di un’autorità giudiziaria», nonché gli «atti che mettono in discussione l’esistenza del rapporto di lavoro di un giudice, l’efficacia della nomina di un giudice o la legittimazione di un organo costituzionale della Repubblica di Polonia» (art. 72, par. 1, della legge sulla Corte suprema). In secondo luogo, sulla base dello stesso articolo, anche una «violazione manifesta e flagrante delle disposizioni di legge» sarebbe da classificarsi quale infrazione disciplinare. Quanto alla prima tipologia di infrazioni, l’aspetto che desta maggiore preoccupazione riguarda la formulazione in termini eccessivamente vaghi di dette condotte, che si prestano a far ritenere che un magistrato polacco commetta un’infrazione disciplinare ogni qualvolta esamini se un giudice o un organo giurisdizionale nazionale rispetti i requisiti che consentono di ritenerlo imparziale, indipendente e precostituito per legge, secondo quanto deriva dagli articoli 19 TUE e 47 della Carta (punto 137). Al contempo, la sentenza individua anche una violazione dell’articolo 267 TFUE da parte delle norme nazionali in parola, dal momento che queste permetterebbero di contestare un’infrazione disciplinare in capo a un magistrato polacco nel caso in cui questi sottoponga un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia riguardante l’indipendenza, l’imparzialità dei giudici, nonché la nozione di tribunale precostituito per legge (punto 153). Per quanto riguarda il tema delle infrazioni disciplinari a seguito di una violazione manifesta e flagrante di regole di diritto, nella sentenza, la Corte opera un riferimento ad una sua precedente pronuncia, riproponendo argomentazioni simili a quelle pocanzi esaminate e giungendo, di fatto, alla stessa conclusione elaborata relativamente alla prima tipologia di infrazioni.
Il tema dell’eccessiva vaghezza nella formulazione delle disposizioni della «legge di modifica» viene in rilievo anche quando la Corte esamina la terza questione, strettamente legata alla precedente. Con tale censura, la Commissione aveva contestato l’introduzione da parte delle nuove norme nazionali di un divieto a mettere in discussione la legittimità degli organi costituzionali e giurisdizionali dello Stato, nonché di accertare o valutare la legittimità della nomina di un giudice e dei poteri che ne derivano. Questi articoli proibirebbero ai magistrati nazionali di esaminare se il diritto a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge sia garantito, nonostante tale valutazione costituisca un obbligo ai sensi degli articoli 19 TUE e 47 della Carta (punti 226-227). In sostanza, se un giudice polacco desse attuazione ai doveri derivanti da queste disposizioni di diritto dell’Unione, si troverebbe in una situazione di contrasto con la normativa interna e rischierebbe di essere soggetto alle misure disciplinari di cui si è detto sopra. Secondo la Corte, le disposizioni esaminate violano altresì il principio del primato poiché ostacolano la disapplicazione da parte dei giudici polacchi delle norme nazionali contrastanti con quelle dell’Unione dotate di effetto diretto, tra le quali rientrano gli articoli summenzionati (punti 228-230).
Il quarto tema su cui si interroga la Corte riguarda l’attribuzione a un’unica sezione, la cosiddetta sezione straordinaria, facente parte della Corte Suprema polacca, della competenza a trattare le richieste di ricusazione di un giudice o di determinazione del tribunale davanti al quale il procedimento debba svolgersi, anche quando motivate da dubbi circa l’indipendenza di tale giudice. La normativa polacca non consente tuttavia nemmeno alla sezione straordinaria di pronunciarsi qualora la determinazione dell’indipendenza di un magistrato richieda la valutazione della legittimità della sua nomina. In riferimento a tale questione, preme soffermarsi brevemente sulla proposta formulata dall’Avvocato generale Collins nelle sue conclusioni. Questa censura è infatti l’unica nella quale egli propone una soluzione opposta a quella sostenuta poi dalla Corte, ritenendo che gli argomenti della Commissione non vadano accolti. Secondo le sue conclusioni, il diritto dell’Unione non vieta che una simile competenza sia attribuita in via esclusiva a un unico giudice, in quanto ciò non contrasterebbe con il principio di equivalenza e di effettività (punto 98). Qualora tale organo non risponda ai requisiti di cui agli articoli (art. 4, par. 1, del Regolamento 2020/2092)47 della Carta poiché non indipendente, il principio del primato permetterebbe di risolvere il problema attraverso la disapplicazione delle norme interne (punto 99). Allo stesso modo, l’Avvocato generale sostiene che la norma polacca non escluda la possibilità per le corti nazionali di sottoporre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia (punti 106-107). La Corte opera invece una valutazione di più ampio respiro, collegando questa censura a quanto rilevato precedentemente rispetto all’introduzione di nuove proibizioni e divieti, nonché ricordando che l’obiettivo cui tende la «legge di modifica» appare essere quello di scoraggiare i magistrati nazionali a dare applicazione al diritto dell’Unione. Nella sua sentenza, la Corte riscontra innanzitutto una violazione degli articoli 19 TUE e 47 della Carta poiché le norme nazionali impediscono a tutti gli organi giurisdizionali di verificare il rispetto delle garanzie richieste da queste disposizioni e limitano altresì la giurisdizione della sezione straordinaria (punti 285-286). La Corte specifica che, ai sensi del diritto dell’Unione, questo obbligo ha natura trasversale e si impone quindi a tutte le corti interne. In aggiunta, la normativa polacca è ritenuta essere incompatibile con il principio del primato, in quanto non è consentito a tali organi disapplicare le norme interne contrastanti con gli articoli summenzionati (punto 287), e con l’articolo 267 TFUE, dal momento che impedisce o quantomeno scoraggia tutti gli altri giudici a sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte (punto 290).
Infine, nell’ultima parte della sentenza, la Corte valuta l’obbligo istituito in capo ai giudici polacchi di fornire informazioni circa la propria appartenenza ad associazioni, enti senza scopo di lucro o partiti politici, ai fini di una loro pubblicazione on-line. Tale obbligo viene valutato alla luce del diritto al rispetto della vita privata e familiare e alla protezione dei dati personali (articoli 6 e 7 della Carta) e di alcune disposizioni del GDPR. Da un lato, l’obiettivo cui tende la modifica della normativa nazionale è, secondo quanto asserito dal governo polacco, tutelare la neutralità politica e l’imparzialità dei giudici e costituisce quindi una finalità di interesse generale idonea a giustificare la limitazione di alcuni diritti (punti 356-357). Dall’altro lato, la Corte ritiene che la misura non sia né adeguata a raggiungere tale scopo né proporzionata (punti 366 e 381). La sentenza sottolinea infatti come questa misura, anziché contribuire allo scopo perseguito, potrebbe incidere negativamente sui diritti dei giudici polacchi (punto 377) e, pertanto, sarebbe da considerarsi una violazione delle summenzionate norme del diritto dell’Unione.
I ragionamenti formulati nella sentenza sono la naturale prosecuzione di una giurisprudenza ormai consolidata. Questo senso di continuità è accresciuto dal fatto che l’approccio sistemico, il quale permette di tenere in considerazione il contesto nel quale le riforme sono state adottate, e l’enfasi posta sulle capacità di dissuasione e di influenza politica della legge in parola sono riscontrabili anche nella sentenza Commissione c. Polonia (Régime disciplinaire des juges) (v. Pech 2021). Al tempo stesso, è necessario evidenziare come la Corte espliciti a più riprese e tenga in considerazione nella formulazione dei suoi argomenti che l’obiettivo sotteso all’adozione della «legge bavaglio» è quello di limitare le possibilità per i giudici polacchi di dare applicazione alla sua giurisprudenza, attraverso una valutazione della legittimità degli organi giurisdizionali secondo quanto previsto dal diritto dell’Unione.
4. Da questa concisa ricostruzione dei principali profili giuridici di interesse della sentenza emerge come, ancora una volta, la procedura di infrazione si riveli essere uno strumento fondamentale nel contrasto alla regressione nella tutela dello stato di diritto (per alcune riflessioni sul contributo dato dai rimedi giurisdizionali al problema v. Scheppele, Gormley, Bonelli, e Coli). Tuttavia, la persistenza di questa problematica richiede di riflettere brevemente sulle possibili prospettive future nel contrasto alla crisi dello stato di diritto in Polonia.
Innanzitutto, occorre domandarsi cosa possa succedere se la Polonia non adotterà le misure necessarie a dare attuazione alla sentenza. Questa eventualità è tutt’altro che remota, visto quanto avvenuto in occasione della vicenda riguardante le misure cautelari ordinate prima della sentenza del giugno 2023. Lascia ancora meno ben sperare il fatto che le autorità polacche abbiano reagito alla sentenza in commento comunicando la propria intenzione di non conformarsi alla pronuncia della Corte di giustizia (v. Pech 2023). In caso di mancato adeguamento alla sentenza, la Commissione potrebbe richiedere, ai sensi dell’articolo 260, par. 2, TFUE, l’avvio di una nuova procedura per ottenere l’imposizione di sanzioni pecuniarie. In via alternativa o complementare, una simile mancanza potrebbe costituire il presupposto per l’attivazione dei regimi di condizionalità previsti dal diritto dell’Unione. Le forti interazioni tra condanne della Corte di giustizia e ricorso a tali strumenti, di cui si dirà meglio in seguito, richiedono di soffermarsi brevemente sulle recenti vicende legate all’applicazione di tali regimi alla Polonia. In questo quadro, merita particolare attenzione il regolamento sulla condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto (Regolamento 2020/2092, per un commento v., ad es., Casolari, Nascimbene, e Baraggia e Bonelli). Questo strumento prevede la riduzione, sospensione o terminazione dei pagamenti provenienti dalle risorse finanziarie dell’Unione e destinati a uno Stato membro, inclusi quelli volti a finanziare i Piani nazionali di ripresa e resilienza nel quadro del Next Generation EU, qualora vengano appurate violazioni del valore dello stato di diritto da parte di tale Stato, che sono suscettibili di pregiudicare «in modo sufficientemente diretto» la corretta gestione del bilancio e gli interessi finanziari dell’Unione (v. soprattutto artt. 3, 4 e 5 del Regolamento 2020/2092). Ad oggi, tali misure sono state introdotte solo nei confronti dell’Ungheria, bloccando i finanziamenti richiesti nel suo Piano nazionale di ripresa e resilienza. Al contrario, l’approvazione del Piano polacco è avvenuta nel giugno 2022, sebbene la Commissione abbia subordinato l’esborso dei fondi previsti al raggiungimento di alcuni risultati, che sono stati negoziati con il governo. Tra questi obiettivi spiccano quelli legati alla modifica del regime disciplinare dei magistrati, necessari a garantire la compatibilità del diritto polacco con la giurisprudenza della Corte di giustizia. La scelta operata dalla Commissione, spinta anche dalla necessità di riconoscere il supporto dato dalla Polonia all’Ucraina a seguito dell’invasione russa (v. Jaraczewski 2022a), è stata aspramente criticata in dottrina (v. Grimaldi e Gioia, Alemanno e Pech 2022), nonché dal Parlamento europeo. Allo stesso modo, le riforme introdotte successivamente sono state ritenute meramente di facciata e aventi come unico scopo ottenere l’accesso al sostegno finanziario richiesto (v. Jaraczewski 2022b). Pur non utilizzando il tramite del regolamento 2020/2092, nell’ultimo anno, sono stati comunque bloccati una serie di finanziamenti che la Polonia avrebbe dovuto ricevere attraverso altri meccanismi di condizionalità previsti dal diritto dell’Unione (v. Scheppele e Morijn). Si nota tuttavia una discrasia tra le decisioni della Corte e l’approccio della Commissione nell’applicazione del regolamento sulla condizionalità legata allo stato di diritto. Da un lato, la Corte ribadisce l’incompatibilità con il diritto dell’Unione del tentativo della Polonia di limitare l’indipendenza dei magistrati, come evidenziato da ultimo nella sentenza qui commentata. Dall’altro lato, la Commissione è ancora reticente nell’applicare questo meccanismo quale reazione alle violazioni dello stato di diritto poste in evidenza dalla Corte.
In questo senso, tale scelta diventa sempre più difficile da motivare a fronte di una evidente ed esplicita mancanza di volontà da parte del governo polacco di conformarsi ai valori fondamentali su cui si fonda l’architettura dell’Unione.