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Flash
Sardegna: la Consulta boccia la decadenza della Governatrice ToddeLa Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima l’ordinanza che aveva dichiarato la presidente della regione Alessandra Todde decaduta. Secondo la Consulta, di preciso, le irregolarità segnalate nell’ordinanza non rientravano in quelle che portano alla decadenza di un governatore. L’ordinanza era stata emessa dal Collegio regionale di garanzia elettorale, che aveva contestato alla presidente la gestione dei fondi per la propria campagna elettorale. La Consulta dà comunque al Tribunale di Cagliari la possibilità modificare le motivazioni dell’istanza; a novembre è previsto un nuovo processo a riguardo, che potrebbe rilanciare l’iter di decadenza.
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striscia di gaza
Nonostante la tregua Israele ha già ucciso 9 palestinesiNonostante l’avvio della tregua a Gaza, Israele non ferma le aggressioni sulla popolazione civile della Striscia e continua a uccidere i palestinesi, violando apertamente il cessate il fuoco. Ieri, martedì 14 ottobre, l’esercito dello Stato ebraico ha aperto il fuoco in diverse aree della Striscia, uccidendo almeno nove persone. Le stesse IDF hanno confermato i propri attacchi affermando che i palestinesi uccisi avrebbero superato la linea di controllo oltre la quale stazionano le truppe israeliane. Dall’inizio della tregua sono state segnalate oltre dieci violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele, mentre intanto in tutta la Striscia la protezione civile continua a trovare nuovi corpi di defunti tra le macerie. Nel frattempo, lo Stato ebraico ha annunciato che, fino a quando non riceverà i corpi degli ostaggi morti, rimanderà l’apertura completa del valico di Rafah, il confine meridionale di Gaza, e che dimezzerà i mezzi in entrata nella Striscia passando da 600 camion al giorno a 300.
Dalla ratifica dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza, lo scorso 10 ottobre, le aggressioni nella Striscia sono diminuite esponenzialmente, ma Israele non ha mai smesso veramente di attaccare i palestinesi. Il giorno stesso della firma dell’accordo, sono state segnalate esplosioni derivanti dall’impiego di artiglieria pesante in aree residenziali, e nei giorni successivi la fanteria dell’esercito israeliano ha proseguito con sporadici attacchi con armi da fuoco. Dal 10 ottobre sono state segnalate 14 violazioni dell’accordo da parte di Israele, la metà esatta delle quali proprio ieri. L’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro i palestinesi nell’area di Shuja’iyya (quartiere orientale di Gaza City), a Fukhari (nel Governatorato di Khan Younis, il secondo più a sud della Striscia, dove, a tregua stabilita, si concentrava il maggior numero di rifugiati palestinesi), e a Jabaliya (una delle maggiori città del Governatorato di Nord Gaza).
Lo stesso Stato ebraico non ha nascosto le proprie violazioni dell’accordo, attribuendo ai palestinesi uccisi le colpe: le IDF hanno rilasciato un comunicato in cui affermano che i palestinesi uccisi si sarebbero avvicinati alle truppe stazionate oltre la cosiddetta “linea giallaâ€, la linea di confine interna alla Striscia entro cui si è ritirato l’esercito israeliano; i soldati, dopo avere intimato al gruppo di «sospetti» (che il comunicato non specifica se fossero armati o meno) di fermarsi, non avrebbero ricevuto risposta e avrebbero così aperto il fuoco. Se la versione dell’esercito venisse confermata, insomma, a portare all’uccisione di 9 persone sarebbe stato il mancato rispetto di un alt.
Se da una parte Israele continua a uccidere i palestinesi, dall’altra accusa Hamas e i gruppi della Striscia di non avere rispettato l’accordo non consegnando immediatamente i corpi di tutti gli ostaggi defunti. Tale clausola era presente nei venti punti del piano di pace proposto da Trump e Netanyahu, ma non è noto se sia stata concordata nell’accordo siglato il 10 ottobre: la scorsa settimana, i gruppi palestinesi hanno affermato a più riprese che consegnare i corpi degli ostaggi entro le 72 ore richieste da Israele non fosse realistico per questioni di natura logistica. Nella sera di ieri, comunque, le firme di resistenza palestinesi hanno consegnato altre quattro salme, portando a otto i corpi degli ostaggi rientrati in Israele. In risposta alla presunta violazione degli accordi da parte dei gruppi della Striscia Israele ha deciso di continuare ad affamare la popolazione di Gaza. Ieri i media israeliani hanno riportato le dichiarazioni di tre ufficiali anonimi che avrebbero affermato che Israele avrebbe ritardato l’apertura del valico di Rafah fino a quando la resistenza palestinese non avrebbe consegnato tutti i corpi degli ostaggi defunti. Successivamente è stato comunicato che Israele avrebbe concordato con l’ONU di dimezzare il numero di camion in entrata nella Striscia.
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Tasse
Manovra economica: tra le misure il taglio dell’Irpef, ma non per i più poveriIl governo ha presentato ieri il Documento programmatico di bilancio in cui, tra le altre cose, spicca il provvedimento che prevede il taglio dell’IRPEF dal 35% al 33% per la seconda aliquota IRPEF, vale a dire quella con un reddito compreso tra i 28.000 e i 50.000 euro. L’iniziativa fiscale implica uno stanziamento nel triennio 2026-2028 pari a circa nove miliardi di euro. A rimanere escluse dalla riduzione fiscale sono però le fasce di reddito più povere, quelle con un guadagno pari o inferiore ai 28.000 euro. Una scelta dettata dal fatto che che la cosiddetta classe media comprende la platea più ampia di contribuenti: circa 12 milioni tra dipendenti, pensionati e lavoratori autonomi e il risparmio generato dalla riduzione del carico fiscale può portare a uno stimolo dei consumi interni, ossia a un aumento della domanda interna, elemento centrale per dare ossigeno all’economia. «Anche la prossima legge di bilancio proseguirà il percorso di riduzione della tassazione sui redditi da lavoro che il Governo sta portando avanti dall’inizio della legislatura», si legge nella nota del Ministero di Economia e Finanza (MEF), in cui è specificato anche che «Al fine di favorire l’adeguamento salariale al costo della vita sono stanziati per il 2026 circa 2 miliardi».
Il risparmio effettivo che la riduzione della pressione fiscale produrrebbe varia a seconda dei diversi profili lavorativi e in base al reddito: un impiegato con reddito 35.000 euro lordi, che oggi paga circa 8.100 euro di IRPEF lorda (prima delle detrazioni), risparmierebbe circa 440 euro all’anno, pari a 37 euro al mese in busta paga. Un professionista autonomo con reddito 45.000 euro lordi potrebbe, invece, arrivare a risparmiare fino a 680-750 euro annui, l’equivalente di una mensilità di contributi previdenziali. Il massimo beneficio della riforma però riguarda i lavoratori dipendenti con un reddito di 50.000 euro lordi: in questo caso, il risparmio teorico sfiora gli 800 euro annui. Tuttavia, bisogna anche considerare che in questo scaglione entrano in gioco i tetti alle detrazioni che potrebbero ridurre l’effetto netto. Per quanto riguarda l’effetto combinato con altre misure (ad esempio assegno unico per i figli o un mutuo prima casa con relativo scarico degli interessi passivi), il taglio IRPEF si somma alle misure ma non le moltiplica.
I tecnici del ministero dell’Economia hanno dovuto trovare un compromesso tra la cosiddetta stabilità dei conti pubblici e la necessità di alleggerire la classe media da un carico fiscale eccessivo al fine di favorire i consumi. I vincoli di bilancio imposti da Bruxelles lasciano uno scarso margine di manovra per interventi di questo tipo, in quanto ogni punto percentuale di riduzione costa alle casse pubbliche circa 1,5 miliardi di euro. Per questo il governo potrebbe rivedere il sistema delle detrazioni che oggi consiste in decine di micro-agevolazioni spesso inefficienti. La rigidità imposta sul deficit dalla Commissione europea potrebbe anche stare alla base della mancata riduzione dell’aliquota per gli scaglioni più poveri, in base alla considerazione che lo stimolo ai consumi è trainato più dalla classe media che non da quella più povera. Tuttavia, il fatto che in Italia gli individui in povertà assoluta sono oltre 5,7 milioni (9,8% del totale dei residenti), in linea con le stime dell’anno precedente, dovrebbe far riflettere sull’importanza di applicare nuove misure anche per le fasce di reddito più basse.
Come anticipato, la riforma ha l’obiettivo macroeconomico di stimolare i consumi interni aumentando il potere d’acquisto nelle fasce di reddito con maggiore propensione alla spesa. Secondo i dati delle precedenti riforme, infatti, i contribuenti compresi in una fascia di reddito tra i 25.000 e i 50.000 euro tendono a spendere rapidamente il risparmio aggiuntivo destinando circa il 70-80% del beneficio fiscale a consumi immediati come spesa alimentare, abbigliamento, tempo libero e piccole manutenzioni domestiche. Il governo stima un effetto moltiplicatore pari a 1,3: vale a dire che ogni euro in più lasciato ai contribuenti dovrebbe generare 1,30 euro di PIL attraverso la catena dei consumi. Il che dovrebbe tradursi in un incremento del PIL di circa 0,2-0,3 punti percentuali nel biennio 2026-2027. L’aumento dei consumi andrebbe soprattutto a beneficio di settori strategici come il retail, la ristorazione, il turismo domestico.
Il provvedimento dovrebbe entrare in vigore dal primo gennaio 2026: l’impatto di vedrà già sulle buste paga di gennaio per i lavoratori dipendenti. Per gli autonomi, invece, l’effetto si misurerà nella dichiarazione dei redditi 2027 (anno d’imposta 2026). La Manovra economica 2026 dovrebbe completare l’iter parlamentare entro la fine di dicembre dell’anno corrente, con pubblicazione in Gazzetta Ufficiale nei primi giorni di gennaio.
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boicottare israele
È impossibile non vendere un libro su Amazon? La nostra esperienza con “Boicottare Israeleâ€Il libro “Boicottare Israele” non dovrebbe essere in vendita su Amazon. Non volevamo che ci fosse, perché riteniamo fondamentale agire per primi attraverso scelte coerenti con quanto descriviamo e denunciamo con la nostra attività giornalistica. La multinazionale di Jeff Bezos, infatti, è al centro della campagna di boicottaggio per il suo supporto all’occupazione israeliana della Palestina. Eppure, a distanza di un mese dalla pubblicazione della guida che abbiamo pubblicato con le istruzioni per colpire l’occupazione della Palestina attraverso il consumo critico, questa non solo si trova in vendita su Amazon, ma pure al secondo posto nella classifica dei libri di economia internazionale più venduti sulla piattaforma. Come è successo? La vicenda che stiamo per raccontarvi – per certi versi paradossale – è quella dei nostri tentativi per fare in modo che il libro non sia in vendita sulla piattaforma e del muro di gomma fatto di richieste di mail, compilazione di moduli e inutili chiacchierate con gli addetti della multinazionale che abbiamo incontrato. Un labirinto che per ora non ci ha condotto a nessun risultato e che ci porta a questa denuncia pubblica nonché a una richiesta verso i nostri lettori.
Riavvolgiamo il nastro. Come ha fatto Boicottare Israele a finire su Amazon? Il libro è comparso sulla piattaforma secondo quel meccanismo noto nel gergo tecnico come crawling (letteralmente l’atto dello strisciare), ossia il procedimento di esplorazione e indicizzazione dei nuovi contenuti: Amazon ha accesso alla banca dati ISBN, dove vengono registrate tutte le nuove pubblicazione librarie; attingendo da essa, ha preso la scheda tecnica di Boicottare Israele e ha reso il testo visibile sul sito prima ancora che fosse in vendita. Una volta che abbiamo spedito le copie al nostro distributore, questo ha inviato i libri ai singoli rivenditori che ne hanno fatto richiesta. Sono questi ultimi a usufruire dei servizi di Amazon: i rivenditori hanno effettuato l’accesso alla piattaforma e messo a disposizione le proprie copie del libro tramite il colosso della logistica. Amazon ha poi deciso di puntare sul prodotto, applicandogli un piccolo sconto sul prezzo di copertina e dando accesso alle spedizioni Prime, che permettono a chi lo ordina di riceverlo in un giorno senza costi aggiuntivi.
Abbiamo prontamente contattato l’assistenza della multinazionale per chiedere che venga rimosso dalla piattaforma. Dopo una prima conversazione con un’operatrice non abbiamo ottenuto niente, se non il suggerimento di scrivere agli indirizzi di posta elettronica certificata dell’azienda. Abbiamo così scritto a cinque diverse PEC di Amazon fino a che una di queste non ci ha fornito risposta: «La invitiamo a compilare l’apposito modulo di notifica disponibile nelle Condizioni Generali di Uso e Vendita di Amazon.it con cui i titolari di diritti e i loro rappresentanti possono segnalare le offerte che ritengano in violazione di tali diritti», si legge nella mail. Il modulo a cui fa riferimento l’ufficio di Amazon riguarda i casi in cui viene apertamente violato il diritto di proprietà di un prodotto come per esempio violazioni del copyright, di brevetto, o di marchi registrati; per compilarlo, tuttavia, serve un account Amazon che noi, come L’Indipendente, non abbiamo e non abbiamo intenzione di aprire. Oltretutto, le violazioni coperte dal modulo non c’entrano niente con il nostro caso: non è una questione di diritto; noi semplicemente vorremmo che il nostro libro non venisse venduto su Amazon.
A tal proposito, Amazon ci ha tenuto a sottolineare che «in ragione delle norme in tema di principio di esaurimento dei diritti di proprietà intellettuale e libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione europea, una volta che un bene protetto da un diritto di proprietà intellettuale viene messo in commercio con il consenso del titolare nel territorio di uno Stato appartenente allo Spazio Economico Europeo, non può esserne impedita la successiva commercializzazione». Tradotto: non potete farci niente. Una volta che il libro è in commercio, nessuno può impedire ad Amazon di venderlo. E questo non vale solo per Boicottare Israele, ma per tutto: se qualcuno non volesse che il proprio prodotto, di cui possiede proprietà intellettuale o di altra natura, venga commerciato su Amazon, non potrebbe farci nulla. È la dura legge del cosiddetto “libero mercatoâ€, che in questa maniera genera un vero e proprio cortocircuito: in nome della tutela della circolazione dei beni, colossi come Amazon finiscono per essere avvantaggiati davanti alle piccole e medie attività . È infatti pressoché impossibile competere con una multinazionale come Amazon in fatto di capacità di distribuzione e di offerta nei prezzi. Se a una persona viene data la possibilità di ottenere un prodotto che desidera a prezzo scontato e in tempi di consegna fulminei, perché mai dovrebbe spendere e attendere di più?
Davanti a queste condizioni non ci resta che sottolineare che noi non abbiamo messo né abbiamo intenzione di mettere a disposizione Boicottare Israele su Amazon. Amazon fornisce, tramite il progetto Nimbus, infrastrutture di archiviazione dati, intelligenza artificiale e altri servizi tecnologici al governo e alle forze militari israeliani: per tale motivo invitiamo voi, nostri Lettori, a boicottare l’azienda, come suggeriamo nello stesso libro. E sebbene lo scarto nelle capacità di vendita e distribuzione sia incolmabile, vi chiediamo di comprare il testo direttamente dal nostro negozio online, dai rivenditori fisici o agli eventi pubblici di BDS Italia (il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’apartheid israeliana che ha collaborato alla stesura e alla distribuzione del testo). Invitiamo, inoltre, gli stessi commercianti a non vendere le proprie copie di Boicottare Israele sulla piattaforma, così da dare un senso concreto al titolo del volume.
Quello che vi chiediamo è un piccolo sacrificio: acquistandolo sul nostro shop online spenderete 48 centesimi di euro in più e dovrete attendere qualche giorno. Ma eviteremo tutti di essere complici di una multinazionale americana che è complice di quanto accade in Palestina e nota per lo sfruttamento dei lavoratori. Grazie.
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vaccini anti-covid
“Danni neurologici causati dal vaccino Covidâ€: ministero della Salute condannato a risarcireIl Tribunale civile di Asti ha riconosciuto con sentenza di primo grado «il nesso di causa» tra la vaccinazione anti-Covid e un grave danno neurologico che ha impedito a una donna di 52 anni, titolare di una tabaccheria ad Alba, di camminare. Il Ministero della Salute, che in sede amministrativa aveva respinto la domanda di indennizzo, è stato così condannato al riconoscimento del legame tra il vaccino e la patologia (mielite/poliradicolonevrite) e gli è stato imposto di erogare un indennizzo – non si tratta di un risarcimento – pari a circa 3.000 euro al mese, con versamento ogni due mesi.
A rendere nota la sentenza di primo grado del Tribunale di Asti, emessa il 26 settembre, sono stati i legali della donna, i torinesi Renato Ambrosio, Stefano Bertone, Chiara Ghibaudo e Stefania Gianfreda, dello studio Ambrosio & Commodo di Torino. La donna, vaccinata con due dosi di Comirnaty (Pfizer-BioNTech), aveva manifestato i primi sintomi nell’aprile 2021 ed era stata ricoverata a Orbassano, in provincia di Torino, il 10 febbraio 2022. Qui ha ricevuto la diagnosi di «sospetta mielite infiammatoria trasversa». Nel referto con cui il 17 febbraio è stata dimessa, i medici scrivevano che «non è escludibile un ruolo scatenante del vaccino». Dopo la diagnosi, la donna ha, quindi, avanzato in sede amministrativa la richiesta di indennizzo, respinta inizialmente dal Ministero della Salute e Aifa (Agenzia italiana del farmaco). La perizia elaborata dai due consulenti tecnici di ufficio, Agostino Maiello e Stefano Zacà , nominati dal giudice civile ha messo un parere diverso, dando ragione alla donna. Le consulenze tecniche hanno, infatti, accertato il legame tra il vaccino e la patologia con «probabilità sufficiente», rigettando altre possibili cause. I tecnici hanno concluso «un nesso di causa molto forte fra l’evento e il danno grave subito», spiega l’avvocato Bertone, mentre Ghibaudo ha sottolineato che «i danni fisici permanenti patiti» dall’assistita «sono davvero gravi: basti pensare che la signora non deambula più da sola».
Secondo il tribunale, la ridotta distanza temporale tra la vaccinazione e la comparsa dei sintomi è stata un elemento determinante per decidere. La sentenza, dello scorso 26 settembre, cita inoltre il database dell’AIFA, che riporta 593 casi di mielite trasversa registrati dopo la vaccinazione fino al 2022, di cui 280 associati ai vaccini a mRna. «Sono stati individuati – spiega Bertone – casi isolati in cui il vaccino con virus inattivo e i vaccini di base di mRna hanno provocato sindromi acute di demielinizzazione del midollo spinale, come la sclerosi multipla e la neuromielite ottica». La sentenza non parla di un risarcimento nel senso civilistico – cioè, della responsabilità per colpa – bensì di indennizzo previsto dalla legge, che non implica necessariamente un comportamento illecito da parte dell’ente pubblico.
Questa pronuncia si aggiunge a una fila crescente di decisioni analoghe: a marzo la decisione era arrivata per una donna di Terni di 67 anni, ad aprile per un’altra di 60 anni di La Spezia, a luglio per una terza di Pescara, 70 anni. Nel gennaio 2023, una donna italiana di 67 anni, rimasta semiparalizzata dopo la somministrazione del vaccino anti-Covid (AstraZeneca) aveva ottenuto dall’ente pubblico un indennizzo mensile di 913 euro come «equa indennità ». La Commissione medico-ospedaliera aveva riconosciuto un nesso causale tra il danno neurologico permanente e la vaccinazione obbligatoria per la sua fascia d’età . Nel gennaio 2024, una commissione medica di Messina aveva riconosciuto a una donna di 36 anni un indennizzo a vita per «danni irreversibili» da vaccino anti-Covid: le è stata attribuita una miocardite con lesione cardiaca correlata alla vaccinazione. Nel febbraio 2024, a Colletorto, in Molise, era stato riconosciuto il nesso causale tra la somministrazione del vaccino anti-Covid a un uomo di 72 anni e il suo decesso, avvenuto circa venti giorni dopo l’iniezione. La Commissione medico-ospedaliera, nell’autopsia, aveva attribuito il decesso a uno «scompenso multiorgano» correlato a coaguli, stabilendo responsabilità vaccinale.
La base giuridica degli indennizzi vaccinali è la legge 25 febbraio 1992, n. 210, che riconosce compensazioni per «complicanze irreversibili» da vaccinazioni obbligatorie, trasfusionali o emoderivati, la cui platea di riferimento è stata aggiornata dalla sentenza della Corte Costituzionale del 26 maggio 2020, che ha riconosciuto l’obbligo di indennizzo anche per le vaccinazioni non obbligatorie. Con la recente sentenza n. 35/2023, la Corte Costituzionale ha stabilito che il termine di prescrizione per avanzare la domanda decorre non dal momento in cui si verifica il danno, bensì da quello in cui il danneggiato ha conoscenza anche della sua indennizzabilità – applicando il principio “contra non valentem agere non currit praescriptio†(“contro chi non può agire non decorre la prescrizioneâ€). Tale interpretazione ha favorito l’accesso all’indennizzo per chi ha scoperto tardivamente il collegamento tra vaccino e patologia neurologica. Nel diritto italiano, casi di condanne del Ministero a risarcire o indennizzare danni post-vaccinali non sono nuovi. Un esempio storico è la sentenza n. 696/2021 della Corte di Cassazione, pubblicata il 30 marzo 2021 (R.G. n. 784/2017), che accertò responsabilità dello Stato per paraplegia conseguente a vaccino antipolio del 1978. Inoltre, la Consulta ha recentemente dichiarato incostituzionale, in parte, una norma che negava l’indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccini raccomandati (non obbligatori) come l’HPV, ampliando il raggio di tutela. Questi precedenti illustrano che lo Stato italiano è stato già chiamato a rispondere, con forme economiche, per danni sanitari derivanti da misure profilattiche pubbliche. È una linea che attraversa i decenni e che oggi, a quattro anni esatti dall’introduzione del Green Pass come obbligo per i lavoratori, impone al sistema giuridico e sanitario una riflessione sul bilanciamento tra interesse collettivo e tutela individuale.
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philip morris
Antitrust apre istruttoria su Philip Morris per comunicazione ingannevoleL’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un’istruttoria contro Philip Morris Italia per una presunta pratica commerciale scorretta nella promozione dei suoi prodotti “senza fumoâ€, utilizzando espressioni come “un futuro senza fumo†o “senza fumo†che potrebbero indurre in errore i consumatori. L’Agcm ritiene che tali slogan, pur riferendosi a dispositivi privi di combustione, possano risultare poco chiari od omissivi, minimizzando i rischi di dipendenza e salute. Nel corso dell’indagine, ispettori con il Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza hanno perquisito le sedi italiane di Philip Morris e della controllata tecnologica a Bologna per acquisire documenti utili.
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povertà assoluta
Quasi il 10% dei residenti in Italia vive in povertà assoluta5,7 milioni di persone che non possono permettersi beni e servizi essenziali per vivere in uno standard di vita accettabile, altri 8,7 milioni che si trova in difficoltà economiche per accedervi in maniera adeguata. Questa la fotografia che l’ISTAT fa dell’Italia, dove nel 2024 la povertà assoluta e la povertà relativa coinvolgono rispettivamente il 9,8 e il 14,9% degli individui residenti. Il numero di famiglie povere si attesta a 2,2 milioni e i minori che vivono in condizioni di povertà assoluta sono 1,28 milioni, il 13,8% del totale – il dato più alto dal 2014.
La situazione peggiore si registra al sud, dove a trovarsi in povertà assoluta sono 886 mila famiglie (il 10,5% del totale). Il dato scende all’8,1% al nordovest e al 7,6% al nordest (rispettivamente 595 mila e 395 mila famiglie), mentre è al centro che si registra la percentuale più bassa (6,5%, ovvero 394 mila famiglie). Il dato cambia significamente a seconda della composizione del nucleo famigliare, superando il 21% tra i nuclei composti da cinque o più membri, per dimezzarsi all’11,2% tra quelli con 4 membri e scendere all’8,6% nelle famiglie composte da tre membri. Ad ogni modo, resta il fatto che quasi una su cinque tra le coppie con tre o più figli si trova in povertà assoluta, dato che riguarda oltre una famiglia su dieci tra quelle monogenitore. Le famiglie con genitori giovani sono più giovani registrano inoltre una maggiore incidenza di povertà assoluta. Il dato riguarda soprattutto le famiglie composte interamente o in parte da stranieri (rispettivamente il 35,2 e il 30,4% del totale), mentre scende al 6,2% tra quelle composte unicamente da italiani.
Il titolo di studio incide significativamente sul dato: in generale, è sufficiente che la persona di riferimento abbia conseguito almeno un diploma di scuola superiore affinché l’incidenza della povertà assoluta scenda a un terzo rispetto alle famiglie dove la persona di riferimento ha un diploma di terza media.
La situazione si conferma in linea con i dati del 2023, fatto salvo per il peggioramento significativo della povertà assoluta tra gli individui residenti sulle Isole (dall’11,9 al 13,8%) e quella tra i minori di 18 anni, che, attestandosi al 13,8%, riguarda 1,3 milioni di ragazzi, il dato peggiore dal 2014. Il Codacons sottolinea come, rispetto al periodo pre-Covid, la situazione sia in netto peggioramento, con oltre un milione di persone in situazione di povertà assoluta rispetto al 2019. Il confronto, riporta l’ente, è «impietoso» e i numeri potrebbero peggiorare ulteriormente, soprattutto a causa dell’inflazione, che incide sul prezzo di beni primari come quelli alimentari. Proprio per questa ragione, un terzo delle famiglie italiane è costretto a tagliare le spese alimentari, diminuendo la quantità o la qualità del cibo acquistato.
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Venezuela
Stati Uniti attaccano barca al largo del Venezuela: 6 mortiGli Stati Uniti hanno colpito una imbarcazione sospettata di traffico di droga al largo delle coste venezuelane, uccidendo sei persone a bordo. È il quinto episodio in cui gli Stati Uniti attaccano imbarcazioni sospettate di trasportare droghe illegali che viaggiano in acque internazionali vicino al Venezuela, dopo i tre di settembre e il più recente, a inizio ottobre, che hanno già causato vittime e tensioni diplomatiche tra i due Paesi. Washington parla di un’operazione contro le rotte del narcotraffico, mentre Caracas accusa gli USA di voler creare un pretesto per un intervento militare e destabilizzare il governo di Nicolás Maduro.
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studio scientifico
Un nuovo esame del sangue potrebbe individuare il cancro legato all’HPV 10 anni in anticipoThe post Un nuovo esame del sangue potrebbe individuare il cancro legato all’HPV 10 anni in anticipo appeared first on L'INDIPENDENTE.
Salute
Nel mondo impianti di petrolio e plastica mettono a rischio la salute di 51 milioni di personeLa produzione di plastica minaccia la salute pubblica su scala globale. Non si parla di minacce ipotetiche dovute alle conseguenze climatiche: ma di responsabilità dirette e misurabili, date dall’emissioni di polveri sottili e sostanze tossiche che colpiscono l’organismo degli esseri umani che vivono nelle vicinanze degli impianti. Un recente rapporto di Greenpeace International ha infatti rivelato che oltre 51 milioni di persone in 11 Paesi vivono entro 10 chilometri da impianti petrolchimici che riforniscono la filiera della plastica, esposte al rischio di inquinamento atmosferico da sostanze tossiche. Di questi, 16 milioni risiedono nel raggio più critico di 5 chilometri. La ricerca, dal titolo “Every Breath You Take”, analizza il livello intermedio della produzione, dove i combustibili fossili vengono trasformati in materie prime plastiche, mappando gli impianti in Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia, Corea del Sud, Canada, USA, Germania, Regno Unito, Svizzera e Paesi Bassi. Aree residenziali sono state individuate entro 10 km dagli impianti in tutti i Paesi considerati, denotando una coesistenza forzata tra comunità e industrie inquinanti.
Gli autori del rapporto mettono in rilievo che la fase «midstream» della produzione – gli impianti che trasformano combustibili fossili in monomeri e resine – è una fonte consistente di emissioni: composti organici volatili (VOCs), ossidi di azoto e zolfo, particolato e gas serra, molte sostanze collegate a cancro, malattie respiratorie e danni riproduttivi. L’analisi geospaziale di Greenpeace ha incrociato la posizione degli stabilimenti con dati di densità di popolazione per stimare chi vive in zone di «rischio elevato» (5 km) e «rischio esteso» (10 km). Gli Stati Uniti detengono il numero assoluto più alto di persone a rischio: oltre 13 milioni, con concentrazioni particolarmente elevate in Texas e Louisiana. Tuttavia, in termini percentuali, sono i Paesi Bassi a registrare la situazione più critica, con circa 4,5 milioni di persone (oltre un cittadino su quattro, il 25.8% della popolazione) che vive entro 10 km da un impianto. Segue la Svizzera, dove il 10.9% degli abitanti è nella stessa condizione di rischio. Il rapporto sottolinea inoltre che l’inquinamento non conosce confini: «Border zone areas in Canada, Germany, Malaysia, the Netherlands, Switzerland, and the United States contain petrochemical production facilities located within 10 kilometers of neighbouring countries», con ricadute sulle comunità di Austria, Polonia, Singapore, Belgio e Francia.
Il report presenta casi studio emblematici di queste “zone di sacrificio”, come definito dalle Nazioni Unite. In Louisiana, la celebre “Cancer Alley” ospita circa 200 impianti lungo il Mississippi e registra tassi di cancro di molto superiori alla media nazionale. In Canada, la “Chemical Valley” a Sarnia, Ontario, sorge a fianco della riserva della First Nation Aamjiwnaang, dove si respirano livelli di benzene sopra i limiti di sicurezza e si segnalano alti tassi di aborti spontanei e malattie respiratorie infantili. In Corea del Sud, lo scandalo del complesso industriale di Yeosu ha portato alla luce una collusione tra aziende e agenzie di misurazione per manipolare i dati sulle emissioni di inquinanti, tra cui il vinile cloruro, un cancerogeno di gruppo 1.
Greenpeace avverte che la crisi non è confinata al problema dei rifiuti: la produzione stessa sta crescendo, con previsioni che vedono raddoppi o più della produzione di plastica entro il 2050, e gran parte dell’espansione è destinata a articoli a breve vita (packaging monouso, fast fashion), incrementando emissioni e rifiuti esportati verso Paesi a basso reddito. Tale scenario rischia di creare nuove “zone di sacrificio” e di compromettere anche gli obiettivi climatici, poiché la plastica diventa la scommessa del settore fossile per compensare il calo di altri mercati. Per fermare questa catena, l’organizzazione chiede un intervento internazionale deciso: «Abbiamo bisogno di un forte Trattato Globale sulla Plastica, che riduca la produzione di plastica di almeno il 75% entro il 2040 per proteggere la nostra salute, le nostre comunità e il pianeta», si legge all’interno della ricerca.
Nonostante lo spaccato si faccia sempre più allarmante, lo scorso agosto è terminato con un nulla di fatto il vertice di Ginevra per redigere un trattato globale contro l’inquinamento della plastica. Gli incontri si sono tenuti per dieci giorni consecutivi, con oltre 1.400 delegati provenienti da 183 Paesi diversi. Sebbene siano stati proposti due distinti testi, entrambi giudicati peraltro troppo poco ambiziosi dalle associazioni ambientaliste, al termine della seduta è mancata l’intesa per siglare la versione definitiva, con il comitato che ha deciso di rinviare i negoziati a data da destinarsi. «L’incapacità di raggiungere un accordo a Ginevra deve essere un campanello d’allarme per il mondo», ha scritto Graham Forbes, capo della delegazione di Greenpeace per i negoziati del Trattato. Secondo il gruppo, un accordo tra i Paesi non può rimanere ostaggio degli Stati e delle multinazionali petrolifere, e deve tenere conto dell’intero ciclo di vita della plastica, della sua produzione, dei danni ambientali e per la salute umana, nonché delle esigenze delle comunità indigene, che risultano le più colpite dalla crisi.
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