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violenza politica
L’omicidio di Melissa Hortman e la violenza politica negli Stati UnitiSabato scorso, nella periferia a nord di Minneapolis, due case sono diventate teatri di sangue. La deputata democratica del Minnesota, Melissa Hortman, è stata uccisa insieme al marito da colpi d’arma da fuoco. Poche ore dopo, una seconda sparatoria ha ferito gravemente il senatore John Hofmann e sua moglie. Il presunto autore delle sparatorie, Vance Boelter, 57 anni, ex funzionario pubblico, direttore della sicurezza presso la Praetorian Guard Security – un’azienda fondata su metodi militari e disciplina paramilitare, è stato arrestato dopo un’intensa caccia all’uomo. L’uomo era in possesso di una lista di 70 nomi, possibili obiettivi: politici democratici, imprenditori, medici di cliniche pro-aborto.
La notizia, già drammatica di per sé, si inserisce in un contesto ben più ampio e inquietante che non è certo recente: quello di una nazione in cui la violenza armata e l’eliminazione di figure scomode sono stati a lungo strumenti di “normalizzazione†politica, altre volte si manifestano come lo sfogo di una aggressività connaturata alle radici e alla storia americane e mette in luce la profonda divisione sociale e politica che attraversa l’America e il clima d’odio che caratterizza il dibattito politico esasperato con l’istigazione verso gli oppositori politici (che ha avuto il suo apice nell’ultima campagna elettorale).
Negli Stati Uniti, la violenza non è recente, non è un incidente e non è nemmeno all’insegna di un’unica parte politica. È parte integrante del loro DNA. L’America, “esportatrice di democraziaâ€, si racconta come terra di libertà , ma la sua storia è costellata da esecuzioni politiche, attentati, guerre civili e cospirazioni. E non solo da parte di squilibrati solitari: in molti casi, dietro le quinte si muove l’ombra di poteri più grandi e di veri e propri complotti. Basti pensare all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963. La Commissione Warren ha liquidato il caso come opera solitaria di Lee Harvey Oswald, ma decenni di indagini indipendenti e desecretazioni progressive hanno mostrato un panorama torbido, popolato da CIA, mafia e falchi della guerra fredda. Non fu il solo. Suo fratello, Robert F. Kennedy, venne assassinato nel 1968. Anche qui, un colpevole ufficiale – Sirhan Sirhan – e una miriade di misteri e incongruenze. Il tutto in un clima da guerra civile strisciante, con le strade infuocate per la lotta dei diritti civili. Martin Luther King Jr. fu eliminato lo stesso anno. Malcolm X, tre anni prima. Tutti accomunati da un destino tragico e, forse, da una minaccia che infastidiva chi governa davvero nell’ombra.
Negli Stati Uniti, la figura presidenziale è spesso il catalizzatore delle fratture sociali. Quando Abraham Lincoln fu ucciso nel 1865 da un simpatizzante confederato, l’atto fu l’estensione diretta della guerra civile. James A. Garfield (fu ferito gravemente da Charles J. Guiteau, un avvocato deluso che aveva cercato invano un incarico governativo nel 1881) e William McKinley (assassinato dall’anarchico Leon Czolgosz durante l’Esposizione Panamericana nel 1901) furono vittime di attentatori solitari, sì, ma in un clima in cui la violenza era l’unico linguaggio rimasto a chi si sentiva escluso.
Nel 1981, Ronald Reagan fu colpito da John Hinckley Jr., ma il proiettile, che ferì anche il portavoce James Brady, portò a una timida riforma sul controllo delle armi. Persino presidenti come Jackson (1835), Roosevelt (1933), Truman (1950), Ford (due volte nel 1975), Clinton (1994) e Bush (2005) sono stati il bersaglio di attentati. Nonostante questo, gli Stati Uniti continuano ad avere un arsenale privato pari a quello di un esercito in tempo di guerra.
Più recentemente, Donald Trump è sopravvissuto a ben due tentativi di omicidio. Il primo, il più noto è avvenuto il 14 luglio 2024. L’attentatore, Thomas Matthew Crooks, è stato ucciso sul posto, lasciando dietro di sé una serie di domande senza risposta e il sospetto di una regia occulta. Il tentato omicidio del tycoon, infatti, è stato oggetto di svariate speculazioni e ha immediatamente sollevato i sospetti di un complotto orchestrato dal Deep State americano. Come ha fatto Thomas Matthew Crooks a sparare almeno sette colpi da un tetto situato a poco più di cento metri dal palco da dove parlava il politico americano, nonostante le segnalazioni del pubblico? Perché non è stato fermato, nonostante alcuni video lo riprendano chiaramente mentre prende la mira, prima di sparare?Â
In molti parlano oggi di “gladio americanaâ€, evocando una struttura simile a quella delle operazioni coperte in Europa durante la guerra fredda: operazioni false flag, destabilizzazione e manipolazione sociale. Il clima che si respira oggi negli USA, con la radicalizzazione crescente, la polarizzazione dell’opinione pubblica e l’odio tra fazioni politiche, sembra il terreno fertile perfetto per operazioni pilotate da apparati non eletti, ma non è nuova e fa parte del cuore dell’America stessa, una macchina imperiale alimentata dalla teoria dello shock e dalla destabilizzazione. A spiegare come la Casa Bianca usasse questo metodo su scala globale fu l’ex banchiere ed economista John Perkins che Confessioni di un sicario dell’economia descrisse una lunga scia di sangue, violenza e guerre all’interno del meccanismo di perpetuazione del processo di espansione dell’Impero globale a stelle e strisce, attraverso la figura del “sicario dell’economiaâ€, un’élite di economisti che hanno il compito di trasformare la modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo in un progressivo e continuo processo di indebitamento e asservimento agli interessi delle multinazionali, delle lobby e dei governi più potenti al mondo, USA su tutti. Quando, però, i sicari dell’economia falliscono il loro obiettivo, subentrano gli “sciacalli†della CIA, che hanno il compito di sopprimere fisicamente l’obiettivo considerato “scomodo†dai gruppi di potere.
L’arresto di Boelter si colloca esattamente in questa tradizione, sebbene ogni caso sia diverso. Il suo passato da funzionario nominato dal governatore Tim Walz, la sua carriera militare e il suo ruolo in un’azienda di sicurezza paramilitare suggeriscono una figura perfettamente inserita nel sistema che a un certo punto, con lucida premeditazione, ha imbracciato un fucile. Anche nel suo caso, le domande superano le risposte: chi ha ispirato Boelter? È stato un lupo solitario o l’esecutore di una volontà collettiva, magari non esplicita, ma socialmente instillata attraverso la polarizzazione mediatica?
I fatti di Minneapolis rappresentano il capitolo di una lunga saga che attesta come la violenza politica non sia un’eccezione, ma la regola: è un sintomo di una malattia endemica, il simbolo di una costante che nessuna legge sul porto d’armi potrà mai curare. Perché la vera “arma letale†è la cultura della violenza che permea ogni livello dell’America profonda ed è connaturata con le sue origini.
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Flash
Israele ha bombardato l’emittente televisiva ufficiale iranianaL’aviazione israeliana ha colpito la Islamic Republic of Iran Broadcasting, la televisione di Stato iraniana. Il bombardamento è avvenuto attorno alle 17 mentre era in corso una edizione in diretta del telegiornale. Il ministro della Difesa Israel Katz ha confermato l’avvenuto attacco alla sede della IRIB attorno alle 18. Da quanto comunicano i media iraniani, il bombardamento ha causato alcuni feriti, ma nonostante ciò le trasmissioni sono riprese poco dopo.
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Flash
Istat: a maggio cala inflazione ma cresce per carrello spesa: +2,7%A maggio 2025, mentre l’inflazione generale rallenta all’1,6% su base annua (dal 1,9% di aprile), il cosiddetto “carrello della spesa†– che include beni alimentari, per la casa e la persona – accelera, passando dal +2,6% al +2,7%. Lo rileva l’Istat, segnalando un aumento che incide direttamente sui consumi quotidiani di famiglie e lavoratori. A fronte di una diminuzione dei prezzi energetici e dei trasporti, crescono infatti i costi degli alimentari lavorati e non, oltre ai servizi ricreativi e alla cura della persona. L’inflazione acquisita per il 2025 è pari a +1,3% sull’indice generale e +1,6% sulla componente di fondo.
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israele-hamas
La repressione egiziana blocca la March to Gaza, ma il movimento globale non finisce quaIl Cairo, Egitto – La Global March fino al valico di Rafah non si farà . Sarebbero dovute partire a piedi da al-Arish il 15 giugno le migliaia di persone arrivate da tutto il mondo per rompere l’assedio a Gaza e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari bloccati da Israele. Ma la marcia, dopo giorni di tentativi, riflessioni e, soprattutto, di repressione da parte delle forze di polizia egiziane, non ripartirà . Tutto è cominciato la notte dell’11 giugno: centinaia di persone sono state fermate all’arrivo in aeroporto al Cairo, trattenute per ore in stanze isolate, private dei passaporti e dei telefoni. Dopo interrogatori e pressioni, decine sono state rimpatriate o inviate in Paesi terzi, come la Turchia. Altre migliaia sono riuscite a entrare in Egitto, ma la repressione non si è fermata. Il 12 giugno, almeno mille persone hanno tentato di raggiungere la città di Ismailia, in direzione del Sinai. Bloccate ai posti di controllo istituiti appositamente dai militari, sono state costrette a scendere da pulmini e taxi.
In due dei punti di blocco si sono formati sit-in spontanei, tra cori che gridavano «Free Palestine» e richieste di poter proseguire verso Rafah. L’obiettivo della marcia era rompere l’assedio che da mesi affama la popolazione di Gaza, ma il governo egiziano l’ha vissuto come una minaccia allo Stato, o più probabilmente ha accettato ancora una volta di fare il lavoro sporco per Israele. Dopo ore di stallo, verso le 19 il primo posto di blocco è stato sgomberato con la forza: gli attivisti sono stati obbligati a salire su autobus, spesso con violenza, e alcuni riferiscono di non aver nemmeno avuto il tempo di recuperare lo zaino o i documenti. Poco dopo anche il secondo presidio è stato sciolto, con l’intervento di persone in borghese che hanno colpito i manifestanti con calci e bottiglie piene d’acqua. Secondo alcune ipotesi, si potrebbe trattare di civili pagati o sostenuti dai militari, dal momento che loro non potevano permettersi di malmenare cittadini stranieri.
Decine sono state portate direttamente in aeroporto e rimpatriate, mentre centinaia sono state abbandonate per le strade del Cairo in piena notte. Dal giorno successivo, la March to Gaza ha cercato di riorganizzarsi, puntando a raggiungere le ambasciate per fare pressione sui rispettivi governi, denunciarne la complicità con il genocidio in corso e chiedere il via libera per proseguire. Ma le intimidazioni sono continuate: molti attivisti hanno trovato la polizia egiziana alle porte degli alberghi per identificazioni, controlli e pedinamenti.
Nella notte tra il 13 e il 14 giugno, alcuni referenti internazionali sono stati arrestati nelle loro camere e portati via. Manuel Tapial, della delegazione canadese, è stato fermato insieme ad altri connazionali e rimpatriato dopo ore di interrogatorio; il giorno seguente anche Hicham el Ghaoui, della delegazione svizzera, è stato espulso. «Sono venuti a cercarli negli alberghi durante la notte» racconta a L’Indipendente un’attivista svizzera che ha seguito il rimpatrio di una delle persone arrestate con Hicham. «Ci sono persone scomparse per molte ore. Ma piano piano arrivano notizie: sono state prelevate, interrogate e poi rilasciate o rimpatriate».
Anche Hicham, dopo ore in cui si temeva la convalida dell’arresto, è stato messo su un aereo diretto in Francia. Le autorità egiziane non avevano risposto alle richieste di autorizzazione da parte delle 54 delegazioni internazionali coinvolte nella marcia, eppure hanno fatto tutto il possibile per impedirne lo svolgimento. «Il popolo egiziano è con la Palestina» conferma sottovoce A., una giovane studentessa del Cairo, a L’Indipendente. «Ma qui ogni manifestazione è vietata. Anche gli assembramenti. Non possiamo alzare la voce per la Palestina, né per i nostri diritti» afferma.
Infatti, nella capitale egiziana non ci si può riunire in più di dieci persone in strada; nemmeno un sit-in pacifico è consentito, e qualsiasi dissenso è represso. Sebbene la maggior parte della popolazione sostenga Gaza, gli attivisti stranieri sono consapevoli di essere sotto stretta sorveglianza. Per questo, dopo gli arresti notturni, hanno deciso per il momento di rinunciare anche ai sit-in davanti alle ambasciate. In un contesto repressivo così difficile, gli attivisti si sono incontrati di nascosto, in piccoli o medi gruppi, in luoghi pubblici, per confrontarsi e tenere vivo il movimento globale. In molti discutono della possibilità di ritrovarsi a Bruxelles, o altrove, per continuare a fare pressione sui governi europei e costringerli a rompere il loro sostegno politico e materiale a Israele. «La Global March to Gaza non è finita» dice un attivista presente al Cairo a L’Indipendente. «Continuerà , in forme diverse, nei nostri Paesi, ma anche in nuovi momenti collettivi che cercheremo di costruire. Finché questo genocidio non finirà e la Palestina sarà libera».
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smaltimento dei rifiuti
Jesi: cinquemila in corteo contro il nuovo maxi-impianto EdisonUna marea di persone, circa cinquemila secondo gli organizzatori, ha attraversato sabato pomeriggio le vie di Jesi (Ancona) per dire un secco e deciso “no†al progetto del maxi-impianto di smaltimento rifiuti tossici proposto da Edison, che dovrebbe trattare fino a 312mila tonnellate l’anno. Il corteo, promosso dall’assemblea permanente Stop Edison, ha seguito un anno di mobilitazione culminato in una consultazione popolare in cui il 96% dei partecipanti si è detto contrario. Alla manifestazione hanno partecipato comitati da varie aree delle Marche e dall’Abruzzo, rafforzando una protesta territoriale sempre più partecipata e determinata.
Un lungo corteo, partito da Porta Valle e conclusosi in Piazza della Repubblica, ha colorato la città in una manifestazione che ha superato ogni aspettativa. Nessuna bandiera, nessun simbolo di partito: solo volti, voci, cartelli e l’unione della comunità per la difesa del proprio territorio. Il progetto contestato, presentato da Edison Next Recology, prevede la costruzione di un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi e non pericolosi, capace di lavorare tra le 270mila e le 312mila tonnellate annue e produrre materiali cosiddetti “End of Waste†(cessazione della qualifica di rifiuto). Il sito individuato si trova nella zona industriale della Zipa, già al centro di criticità ambientali, in un’area densamente frequentata, tra insediamenti produttivi, centri commerciali e flussi continui di cittadini. Il contesto ambientale e sanitario resta al centro delle preoccupazioni. A pochi chilometri da Jesi, a Falconara, appena 24 ore prima del corteo, un incendio all’interno di un’azienda elettrica ha generato picchi anomali di benzene e polveri sottili, rinnovando timori e polemiche sulla gestione delle emergenze ambientali nella regione.
Il corteo si è snodato lungo le principali arterie della città , passando per via Setificio, via Garibaldi, via Mura Occidentali, Viale della Vittoria e Corso Matteotti. Lungo il percorso, gli applausi dei negozianti, i saluti dalle finestre e la partecipazione spontanea di chi ha deciso di unirsi anche solo per un tratto hanno reso la manifestazione un momento corale di condivisione. Tra i partecipanti, anche comitati e delegazioni provenienti da altri territori delle Marche e dell’Abruzzo impegnati nella difesa ambientale contro progetti ritenuti impattanti. Hanno sfilato anche il sindaco Lorenzo Fiordelmondo e vari rappresentanti della maggioranza, mentre in apertura corteo si è registrato un passaggio silenzioso del presidente della Regione Francesco Acquaroli. Presenti anche esponenti di Fratelli d’Italia e dei centri sociali marchigiani, a testimonianza di una partecipazione ampia e trasversale. Non sono peraltro mancati volti noti della città , come gli sportivi Elisa Di Francisca e Roberto Mancini, che nei giorni scorsi avevano espresso pubblicamente il loro dissenso al progetto.
Promossa dall’Assemblea Permanente Stop Edison, la manifestazione ha rappresentato il culmine di oltre un anno di mobilitazione che ha coinvolto l’intera città attraverso petizioni, assemblee pubbliche, sit-in e una consultazione popolare che, tra giovedì 29 maggio e domenica 8 giugno, ha visto il 96% dei partecipanti esprimersi contro il progetto. I cittadini hanno potuto esprimere il loro voto in presenza o, in alternativa, sulla piattaforma Jedi Partecipa, di cui il sito ufficiale del Comune è dotato dallo scorso marzo. Ora l’attenzione si sposta sulle sedi istituzionali. Lunedì 16 giugno è prevista l’istruttoria pubblica sul progetto, mentre il 26 il Consiglio comunale sarà chiamato ad esprimersi sulla valutazione ambientale e sull’eventuale deroga all’altezza degli edifici prevista in zona industriale. Poi la palla passerà alla Conferenza dei Servizi, già avviata lo scorso maggio in Provincia.
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striscia di gaza
Mentre il mondo guarda all’Iran, Israele continua la sua campagna genocida a GazaCon gli occhi di tutto il mondo puntati sul conflitto tra Iran e Israele, lo Stato ebraico continua a portare avanti il proprio piano genocida in Palestina. Il Comune di Gaza ha rivelato l’entità della distruzione delle infrastrutture cittadine a seguito della continua aggressione israeliana, spiegando che l’amministrazione soffre ormai una «grave e persistente carenza di carburante», e che non riesce a erogare i propri servizi. Gli ospedali sono a corto di rifornimenti, i bombardamenti continuano, e con essi anche gli attacchi frontali ai civili, specie a quelli in fila per gli aiuti. Solo nella giornata di ieri, Israele ha ucciso più di 45 persone; di queste, 26 sono state uccise nei pressi dei punti di distribuzione di aiuto americano-israeliani a Rafah e Wadi Gaza.
Negli ultimi giorni, i raid israeliani a Gaza non sono calati di intensità . In totale, solo nell’ultima settimana, Israele ha ucciso circa 450 persone nella Striscia di Gaza ferendone altre 2.200. Lunedì 9 giugno a Jabaliya, una delle maggiori città del Governatorato di Nord Gaza, l’esercito israeliano ha demolito due scuole; nello stesso giorno, ha attaccato un’ambulanza nel quartiere di Tuffah, a Gaza City, uccidendo tre paramedici, mentre a Khan Younis, a sud, un bambino è morto di fame e l’aviazione israeliana ha condotto un bombardamento colpendo tende per sfollati. Martedì 10 giugno, le IDF hanno lanciato diversi attacchi contro i civili in attesa di aiuti nel centro di Gaza e a Rafah, il governatorato più a sud; sempre martedì, sono continuate le operazioni di demolizione in tutta la Striscia, e l’esercito israeliano ha causato un blackout dei servizi di comunicazioni.
Mercoledì sono continuati gli attacchi israeliani contro le persone in fila per gli aiuti umanitari, tanto a Rafah quanto presso il cosiddetto corridoio di Netzarim, che divide il Governatorato di nord Gaza dal resto della Striscia. Nel frattempo, l’aviazione israeliana ha bombardato Jabaliya e Gaza City, e le forze di terra dello Stato ebraico hanno assaltato un ospedale da campo a Khan Younis. Giovedì 12 giugno le IDF hanno esteso il blackout delle comunicazioni interrompendo i servizi internet e telefonici per l’intera Striscia di Gaza. A Gaza City l’esercito ha ucciso 26 persone, per poi estendere i massacri presso il campo di Al Maghazi, nel Governatorato di Deir al Balah, nel centro della Striscia, dove ha ucciso altre 6 persone. Il giorno dopo, proprio a Deir al Balah, le IDF hanno ucciso altri 9 civili, e hanno attaccato l’ospedale di Nasser, situato a Khan Younis. Sabato, mentre il blackout delle comunicazioni continuava, sono proseguiti anche gli attacchi ai civili in fila per gli aiuti. La connessione è stata parzialmente ristabilita solo ieri. Dall’avvio del nuovo sistema di distribuzione di aiuti mediante la Gaza Humanitarian Foundation, Israele ha ucciso 300 persone in fila per ricevere la propria razione di alimenti, e ne ha ferite oltre 2.700.
Davanti ai continui massacri, il Comune di Gaza e la protezione civile della Striscia hanno lanciato appelli di aiuto, denunciando la criticità della situazione. L’amministrazione ha rilasciato una nota in cui spiega che l’erogazione di servizi quali quello di fornitura di acqua, il funzionamento degli impianti di trattamento delle acque reflue, la raccolta dei rifiuti, e le reti elettriche risultano ormai ai minimi. Nel frattempo, il ministero della Sanità ha rilasciato una nota in cui spiega come «le ripetute minacce di evacuazioni e bombardamenti delle aree circostanti gli ospedali stanno causando gravi disagi al lavoro delle équipe mediche» rendendo sempre più incerto il destino degli ospedali rimanenti. «I servizi sanitari specializzati forniti a pazienti e feriti nei pochi ospedali ancora operativi sono assediati dalla mancanza di forniture mediche e rischiano di chiudere», si legge nella nota del ministero; a sud è rimasto attivo solo il complesso ospedaliero di Nasser.
Dall’escalation del 7 ottobre, Israele ha distrutto, danneggiato o reso inutilizzabile il 92% delle case (l’ultimo aggiornamento è di questo mese, giugno 2025), l’83% delle terre coltivabili e il 71% delle serre (i dati più recenti sono di aprile 2025), l’88,8% delle scuole (dato aggiornato al 4 aprile 2025), il 74% delle strutture idriche (10 giugno 2025) e, in generale, il 70% di tutte le strutture della Striscia (4 aprile 2025); meno della metà degli ospedali risultano funzionanti (2 giugno 2025), e l’82% del territorio della Striscia è sotto ordine di evacuazione o interdetto ai civili. In totale, l’esercito israeliano ha inoltre ucciso direttamente almeno 55.362 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.
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Flash
Lettonia, arrestato ex parlamentare che difende la lingua russaLe autorità lettoni hanno arrestato Alexey Roslikov, ex parlamentare e attuale consigliere comunale di Riga del Partito della Stabilità , noto per le sue posizioni a favore dei diritti linguistici della comunità russa. L’arresto segue un episodio del 5 giugno in cui Roslikov, durante una sessione parlamentare, ha dichiarato in russo: «la lingua russa è la nostra lingua!», opponendosi a una bozza sulla “de-russificazione†linguistica della Lettonia. Il 9 giugno è stato aperto contro di lui un procedimento penale per presunto sostegno alla Russia e «incitamento all’odio nazionale».
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Editoriali
Questa settimana doniamo tutto a GazaDa lunedì 16 a domenica 22 giugno, tutto l’incasso dei nuovi abbonamenti a L’Indipendente sarà destinato ai medici di Gaza. Tutto significa tutto: non tratterremo nemmeno un euro per le spese di gestione né per le spedizioni del nostro mensile a chi sottoscriverà l’abbonamento cartaceo. Per ogni euro ricevuto, un euro sarà donato. Abbiamo lavorato a lungo per costruire questa iniziativa, soprattutto per garantire la scelta più giusta e trasparente nell’individuare l’organizzazione beneficiaria. La nostra scelta è ricaduta sulla Al Awda Health and Community Association (AWDA), organizzazione non governativa di medici palestinesi che gestisce l’Ospedale Al-Awda di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, e l’ospedale da campo Al-Awda Field Hospital 1 a Gaza City.
Prima di lanciare questa iniziativa, ci siamo accertati che fosse improntata alla massima trasparenza. La prossima settimana renderemo pubblica la cifra raccolta sul nostro sito e tramite i nostri canali social. La somma sarà trasferita — tramite l’intermediazione dell’Associazione di Amicizia Sardegna Palestina — ad Al-Awda, che ci invierà una lettera per confermare la ricezione della donazione e ringraziare i lettori.
I due ospedali gestiti da AWDA sono tra le strutture più importanti ancora operative per la gestione delle emergenze mediche e chirurgiche a Gaza, dove il 94% delle strutture sanitarie è stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti israeliani. La loro presenza non è solo importante: è vitale.
Circa 60 medici e decine di infermieri lavorano ogni giorno nelle strutture di Al Awda, garantendo cure a centinaia di pazienti. Operano in condizioni estreme e in costante pericolo, a causa dei crimini di guerra israeliani, che colpiscono deliberatamente anche gli ospedali. Alcuni di loro hanno pagato con la vita il proprio impegno: come Fatin Shaqoura-Salha, capo infermiera dell’ospedale di Nuseirat, uccisa insieme alla sua famiglia il 16 gennaio 2025 da un bombardamento israeliano che ha colpito la sua abitazione. Il 21 novembre 2023, invece, l’ospedale di Nuseirat è stato direttamente bombardato, in un attacco che ha causato la morte di tre medici.
Eppure, nonostante le perdite, il personale continua a operare. I fondi donati serviranno ad acquistare ciò che è necessario per salvare vite: anestetici, dispositivi sanitari di base, bisturi, macchinari. Ma anche per farne nascere di nuove: l’Ospedale Al-Awda di Nuseirat è l’unica struttura nel centro della Striscia dotata di reparti di ostetricia e ginecologia ancora attivi, dove ogni giorno si svolgono fino a 50 parti.
Come abbiamo sempre affermato, per noi fare giornalismo significa soprattutto provare a incidere sulla realtà , contribuendo a cambiarla. Rinunciare a una settimana di entrate rappresenta uno sforzo significativo per un giornale come il nostro, che si regge esclusivamente sugli abbonamenti, rifiutando ogni forma di pubblicità e sponsorizzazione. Ma sentiamo il dovere di farlo. E confidiamo che, grazie ai vostri abbonamenti, potremo inviare una somma importante a chi, a Gaza, ogni giorno lotta per la vita.
Ogni nuovo abbonato che sottoscriverà uno qualsiasi dei nostri piani di adesione — dall’abbonamento mensile a quello annuale in versione “premium” — riceverà tutti i servizi previsti, e l’intera somma versata sarà donata alla Al Awda Health and Community Association. Chi è già nostro abbonato può contribuire alla raccolta regalando un abbonamento. Cliccando sulle due finestre interattive qui sotto è possibile visualizzare tutti i dettagli dell’iniziativa. Mai come questa volta confidiamo nella vostra partecipazione: abbonandovi, regalando un abbonamento e condividendo questa iniziativa con tutti coloro che ritenete possano essere interessati a compiere un gesto concreto per aiutare Gaza e, al tempo stesso, a garantirsi una fonte d’informazione libera, verificata e senza padroni.
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sindaca
Favori, finanziamenti e voti dalla massoneria: indagata la sindaca di PratoLa sindaca di Prato Ilaria Bugetti è indagata dalla Procura di Firenze con l’accusa di aver favorito l’imprenditore Riccardo Matteini Bresci, ex amministratore del Gruppo Colle, in cambio di soldi e voti. Per i magistrati fiorentini, Bugetti – definita «compromessa e ricattabile» fin dai tempi in cui era sindaca di Cantagallo, Comune della provincia in cui ha sede il Gruppo Colle – avrebbe aiutato l’azienda di Matteini a ottenere agevolazioni su tariffe e limiti ambientali. In cambio avrebbe ricevuto 48mila euro da una società a lui riconducibile e 27mila euro per la campagna elettorale. In alcune conversazioni intercettate Matteini si sarebbe vantato di averle portato 4mila voti per le Regionali 2020. Garantiti, secondo i pm, dal network di influenze legato a una loggia massonica locale.
Lo scenario delineato dalla Procura di Firenze è un intreccio tra politica, massoneria e interessi imprenditoriali. Secondo i magistrati, Ilaria Bugetti, 52 anni, sarebbe stata legata da un patto di ferro all’imprenditore pratese Riccardo Matteini Bresci, ex gran maestro della loggia massonica “Gran Loggia d’Italia” di via Lazzerini e figura di spicco dell’industria tessile locale attraverso il Gruppo Colle. Un’alleanza che avrebbe avuto origine nella fase in cui Bugetti era sindaca del piccolo comune di Cantagallo – da lei governato tra il 2004 e il 2014 -, dove ha sede l’azienda di Matteini, e che si sarebbe consolidata nei successivi anni della sua carriera istituzionale. I magistrati sostengono che il supporto dell’imprenditore a Bugetti si sarebbe concretizzato in due campagne elettorali: nel 2020 per il Consiglio regionale e nel 2024 per la corsa a sindaca di Prato.
La sindaca, secondo l’ipotesi investigativa, avrebbe orientato il proprio operato amministrativo per favorire direttamente gli interessi del suo presunto sponsor. In particolare, sarebbe intervenuta su normative e procedure regionali legate alla depurazione delle acque reflue, un nodo cruciale per l’industria tessile. Gli interventi sarebbero stati mirati a ridurre i costi per il Gruppo Colle e a evitare sanzioni e controlli ambientali, anche facendo pressioni sull’assessora regionale Monia Monni (che non risulta indagata). Bugetti avrebbe inoltre favorito la cessione delle quote pubbliche del consorzio di depurazione Gida alla multiutility Alia Spa, con vantaggi ipotizzati per il fronte imprenditoriale. Tra gli elementi chiave inquadrati all’interno della richiesta di misura cautelare c’è inoltre un impiego part time non dichiarato che Bugetti avrebbe avuto fino al 2024 presso un’azienda di Matteini, remunerato, secondo la ricostruzione dei pm, senza una reale prestazione. Una circostanza che testimonierebbe il livello di asservimento della funzione pubblica.
I toni usati dall’imprenditore per riferirsi alla sindaca non lasciano dubbi sulla presunta subordinazione: in un’intercettazione la definisce «un mio attrezzo». Per i magistrati, entrambi vanno arrestati per rischio di inquinamento delle prove e pericolosità della reiterazione. L’ipotesi è quella di un sistema consolidato, in cui favori e decisioni pubbliche sarebbero stati sistematicamente piegati agli interessi privati di Matteini Bresci. La sindaca, difesa dagli avvocati Salvatore Tesoriero e Piernicola Badiani, ha respinto le accuse. In una nota ha dichiarato: «Mi sono subito messa a disposizione dell’autorità giudiziaria nel rispetto reciproco dei ruoli – ha dichiarato in una nota ribattuta dalle agenzie –. Ho piena fiducia nella magistratura e sono certa di poter chiarire ogni aspetto. Il mio operato è sempre stato improntato alla correttezza personale, istituzionale e giuridica». Il Partito Democratico, attraverso i suoi rappresentanti regionali e parlamentari, ha espresso solidarietà alla sindaca e fiducia nell’operato della magistratura.
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sardegna
Sardegna: la polizia usa l’elicottero e incendia i campi per disperdere il corteo contro la base militareAlta tensione a Decimomannu, in provincia di Cagliari, durante una manifestazione antimilitarista contro la base militare. Circa cento attivisti, dopo un inizio pacifico, hanno deviato dal percorso autorizzato tentando di raggiungere il perimetro dell’aeroporto. Secondo quanto denunciato dal Comitato A Foras, la polizia ha risposto tirando lacrimogeni contro il corteo e contemporaneamente «l’elicottero è stato usato come sfolla gente», scendendo «ad altezza uomo per fare vento». I membri del comitato hanno spiegato che i lacrimogeni «hanno dato fuoco ai campi e il vento generato dall’elicottero ha contributo a far divampare l’incendio», che si è rivelato molto difficile da spegnere. Non si registrano feriti gravi. «La leggerezza con cui hanno messo a rischio l’incolumità di tanti manifestanti ci dà solo la conferma di essere dalla parte giusta e di dover continuare a lottare», si legge in un comunicato. «Preparano guerre e genocidi in giro per il mondo e noi non dimenticheremo mai la gioia di veder sventolare la bandiera palestinese davanti a uno dei loro avamposti che brucia».
Il corteo antimilitarista si è svolto a Decimomannu sabato 14 giugno. Prima della manifestazione, riporta il comitato, è stata chiusa una strada di accesso al paese, e alcuni manifestanti denunciano di essere stati sottoposti a perquisizioni. I manifestanti si sono riuniti in una piazza del paese, per poi percorrere la Strada Statale 196 fino a raggiungere le vicinanze dell’aeroporto militare. Arrivati nei pressi della struttura, i dimostranti hanno trovato un ingente dispiegamento di forze dell’ordine, e hanno deciso di deviare per i campi per avvicinarsi al perimetro esterno della base. A quel punto, la tensione con le forze dell’ordine è esplosa, e la polizia ha iniziato a lanciare lacrimogeni contro i presenti. Il lancio di lacrimogeni, sostengono i manifestanti, avrebbe fatto divampare le fiamme tra i campi, che sarebbero state alimentate dall’impiego dell’elicottero come «sfolla gente». In un video apparso sui canali che hanno promosso l’iniziativa antimilitarista si vede un elicottero delle forze dell’ordine volare a qualche metro da terra appena sopra le teste dei dimostranti, generando forti correnti d’aria che secondo i manifestanti sarebbero state rivolte a disperdere i presenti.
La manifestazione a Decimomannu arriva un giorno dopo l’arresto di un attivista per un corteo di solidarietà con il popolo palestinese svoltosi lo scorso 10 maggio. In quell’occasione nel porto di Cagliari erano presenti diverse navi militari per partecipare all’esercitazione Joint Stars, quest’anno affiancata dall’iniziativa Joint Stars for Charity, pensata per acquistare due letti di terapia intensiva pediatrica con respiratori per un ospedale cagliaritano. Tra le navi presenti nel porto era presente la nave militare Trieste, nella quale venivano eseguiti screening pediatrici gratuiti sponsorizzati da diverse multinazionali quali Amazon, Terna e l’azienda bellica RWM. L’attivista è stato accusato di avere lanciato un petardo contro la nave, ferendo un agente della DIGOS, e contro di lui sono stati disposti gli arresti domiciliari come misura preventiva.
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