Interpetazione di un racconto popolare siciliano: Tridicinu(Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, XXXIII)

di Salvatore La Grassa

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Commento e considerazioni sul racconto popolare siciliano Tridicinu

Commento e considerazioni sul racconto popolare siciliano Tridicinu(Pitre', XXXIII)

La triscaidecafobia (dal greco treiskaídeka, "tredici" e phóbos, "paura") è la paura irragionevole del numero 13, principalmente legata alla cultura popolare e alla superstizione. Invece nel racconto popolare siciliano Tridicinu il personaggio che porta questo nome è una risorsa inaspettata contro un orco e sua moglie. Ma probabilmente la numerazione relativa al 13 non ha una configurazione secondaria nel sintagma del racconto. Lo si vedrà più avanti.
Questo racconto siciliano è ben noto agli studiosi della scuola finlandese Aarne e Thompson. Il racconto può essere incluso nei tipi 327(il fanciullo e l’orco), 327B(Il gigante e il nano, come Le petit poucet di Perrault) e 1525(il briccone). Tridicinu è il più piccolo di tredici fratelli. Ma i fratelli lo odiano perché è sempre il più lesto a mettersi a tavola per mangiare la minestra di verdure, la sola pietanza preparata in casa in quanto il padre fa di mestiere il raccoglitore di erbe e verdure. La novellatrice, Francesca Leto di Borgetto(PA), dice che a lui toccava sempre la minestra calda e forse abbondante, mentre per i fratelli c’era una minestra meno calda e forse meno abbondante. La motivazione che spinge i fratelli a odiare il fratello più piccolo sembra ridicola, ma è necessario sottolineare che in questa famiglia poverissima i morsi della fame molto probabilmente erano all’ordine del giorno. L’atteggiamento dei fratelli verso Tridicinu è simile all’atteggiamento dei figli di Giacobbe verso Giuseppe, l’undicesimo di 12 figli del patriarca ebreo. Giacobbe ebbe 12 figli, ma da donne diverse. Gli ultimi due, Giuseppe e Beniamino, sono i figli avuti da Rachele, la cugina di cui si era innamorato, e da lui prediletti. Il racconto biblico è certamente più articolato del racconto siciliano. Pur nondimeno sia Tridicinu, sia Giuseppe, entrambi fratelli minori odiati dagli altri fratelli, raggiungono e dimostrano di avere quella forza e quella determinazione che ne fanno rispettivamente l’eroe che elimina un orco e un ministro del faraone d’Egitto che poi salverà i fratelli quando quest’ultimi si recheranno in Egitto per sfuggire alla carestia che attanagliava la Palestina.
Ma lasciamo da parte Giuseppe, i fratelli e il loro padre Giacobbe e soffermiamoci sul personaggio di Tridicinu. Tridicinu è il tredicesimo figlio e sembra ricadere nella significazione ambigua del tredicesimo mese: mese che in molti calendari lunisolari antichi si aggiungeva ogni due o tre anni. Questi calendari avevano per solito 12 mesi pari a 12 cicli lunari. Il mese lunare è di circa 29 giorni e 12 ore: 29 giorni e 12 ore x 12 fa 354 giorni. Quindi negli antichi calendari lunari, regolati solitamente dalle classi sacerdotali, si aggiungeva un tredicesimo mese più corto ogni due anni. Ma allora le cognizioni astronomiche non corrispondevano precisamente alla realtà per cui spesso tra calendario religioso e calendario reale agricolo-pastorale delle stagioni si accumulavano forti scostamenti. Prova ne sia che nel 46 a.C. quando Giulio Cesare giunse al potere trovò il calendario in uso in una situazione di incredibile confusione: esso era sfasato rispetto alle stagioni di quasi tre mesi e, ad esempio, indicava l’autunno mentre il clima era di piena estate.
Il mese tredicesimo può essere considerato un anello di congiunzione tra due cicli di anni lunisolari. In questo caso assume i caratteri del margine, dell’essere e del non essere, di un periodo liminare in cui nelle tradizioni popolari e nelle antiche religioni si celebravano riti di rinnovamento, riti caotici, rituali di morte e resurrezione, sacrifici a volte anche umani.
Verso la fine del racconto siciliano Tridicinu, dopo aver rinchiuso l’orco nella casa da morto, canta ridendo una canzone dispregiativa:
«Eu sugnu Tridicinu,
Chi ti portu 'ntra lu schinu;
Ti nn'hê fattu e ti nn'hê fari,
A lu Re t'hê cunsignari.»
Quindi da questi versi si deduce che Tridicinu in seguito farà altri brutti scherzi a Padri-drau, ma invero dal seguito del racconto si apprende che Padre-drau finirà la sua vita in carcere con mani e piedi legati a una catena di ferro. Probabilmente i versi, che di solito si conservano meglio delle parti raccontate, sono molto antichi e potrebbero fare parte della recita di una antica pantomima carnevalesca. Proprio il nostro periodo di carnevale può essere considerato un piccolo mese marginale e si colloca nella liturgia tra febbraio e i primi di marzo: è un periodo mobile come è mobile la data della Pasqua. Proprio nell’antica Roma l’anno finiva ed aveva inizio verso metà marzo. Gli antichi romani avevano nominato solo dieci mesi, ovvero quelli che andavano da marzo a dicembre, mentre gennaio e febbraio o meglio 61 giorni dopo dicembre erano considerati un periodo innominabile in quanto probabilmente c’erano delle feste gentilizie (private e delle famiglie nobili) che commemoravano i morti, fra cui la festa che ricordava Romolo( i Quirinalia ). Della morte di Romolo c’erano due versioni. Una la si poteva raccontare. In questa versione una nube aveva avvolto Romolo, mentre passava in rassegna l’esercito al Campo Marzio. Portato in cielo Romolo si era trasfigurato nel dio Quirino. L’altra versione, non riferibile, sembra la parte successiva e speculare dell’uccisione di Remo da parte di Romolo. Romolo è ucciso da alcuni senatori, il suo corpo viene fatto a pezzi e seppellito in diversi terreni, la sua testa viene mangiata dai suoi assassini(dettaglio simile all'atto cannibalico-guerresco del greco Tideo nella guerra di Tebe).
Tridicinu può impersonare il tempo di passaggio da un ciclo all’altro in cui i più deboli vestono il ruolo dei padroni, in cui è ammesso il furto (con destrezza o per magia) purché le cose rubate vengano consegnate al re. Ma il re rimane sopra le parti, mentre vengono colpiti coloro che sono distanti dal re.
In altri racconti popolari simili, ma del tipo L’ammazzagiganti (tipo 327B di Aarne e Thompson ), non è un orco il soggetto da derubare e da uccidere, ma un gigante. E sappiamo dai miti greci che i Giganti furono tremendi avversari di Zeus e che il gigante Polifemo era cannibale. Il cannibalismo degli orchi e dei giganti probabilmente è funzionale per la loro estromissione dal vivere civile.
Nel racconto popolare siciliano Padri-drau riesce ad acchiappare Tridicinu e lo infila in una botte. Per farlo ingrassare gli da a mangiare passoli e fichi in abbondanza. Appena trova Tridicinu ingrassato da incarico alla moglie, la matri-dràa, di accendere il forno e tenerlo acceso per tre giorni. Dopo, secondo le istruzioni date da padri-drau, doveva fare uscire dalla botte Tridicinu e infilarlo nel forno, senza chiarire come lo avrebbe indotto a entrare nel forno. Patri-drau usciva e andava ad invitare tutti i parenti per festeggiare insieme la mangiata cannibalesca. L’ascoltatore è indotto a credere che Tridicinu sia un ragazzino di poco peso e che la dràa sia una donna robusta e forzuta. Se fosse stato così Tridicinu non avrebbe avuto scampo. Ma la dràa non piglia di peso Tridicinu e non lo butta di forza nel forno. Gli da a credere che nel forno ci debba andare l’agnello. Forse aveva l’intenzione di affidare l’agnello a Tridicinu per infilarlo nel forno e poi spingerlo con la forza nel forno insieme all’agnello? Ma Tridicinu dimostra intuito e intelligenza, capacità di prevedere e soprattutto agilità e forza. E’ proprio lui stesso ad infilare nel forno la dràa dopo averla indotta a sporgere la testa nel forno. Patri-drau ha sbagliato a fidarsi di matri-dràa? Tridicinu ha una forza insospettabile. Lo dimostra anche quando si carica sulle spalle la bara con dentro patri-drau. Inoltre patri-drau dimostra un difetto di vista quando non riconosce nel monaco con la barba Tridicinu, che pure aveva potuto osservare bene prima di metterlo nella botte. Patri-drau non s’accorge nemmeno dello stato in cui si trova la matri-dràa, quando rientra in casa con i parenti, e non nota alcun particolare diverso nell’apparecchiatura della tavola. Probabilmente in questa parte il racconto di Francesca Leto segue la fiaba dei Grimm, Hänsel e Gretel, in cui viene espressamente raccontato che la strega che cattura i due fratelli ha problemi di vista. Inoltre l'orco sembra poco guardingo, quando Tridicini lo induce a entrare nella cassa da morto. Non si capisce bene dove arrivi la forza e l’intelligenza di Tredicinu, allevato con minestre di verdura, e dove cominci la dabbenaggine e il difetto di vista di patri-drau.
Ma non ci si deve meravigliare della forza di Tridicinu nei confronti della dràa in quanto nel racconto Hänsel e Gretel dei F.lli Grimm lo stesso compito è affidato a Gretel, una fanciulla.
Una notazione quasi sicura del tempo della favola siciliana viene dalle cibarie impiegate e dalla coperta invernale usata dalla coppia di orchi. Tridicinu chiede al re, prima di andare a catturare il cavallo dell’orco, dei mostaccioli al miele. Tridicinu li da a mangiare al cavallo dell’orco per convincerlo a farsi cavalcare. Inoltre l’orco, quando prende prigioniero Tridicinu, gli da a mangiare passoli e fichi. Se per passoli e fichi si intende uva passa e fichi secchi e se a queste cibarie dolci e morbide(buone per tutti anche per vecchi e bambini) aggiungiamo i mostaccioli al miele(dolci duri buoni per bambini e adulti con dentatura sana, sconsigliati per anziani con problemi ai denti) si può dire che il racconto sembra ambientato nel periodo di dicembre, cioè quando queste cibarie vengono consumate come dolci nelle tavole delle famiglie contadine e del popolo cittadino che segue le tradizioni. Dopo un mese di ingrassaggio a passoli e fichi l’orco esulta perché Tridicinu sarebbe buono da mangiare: e di solito il periodo di carnevale inizia dopo un mese dal Natale. Inoltre il furto della cuttunina che la coppia di orchi usa come coperta ci dice che siamo in inverno o in autunno abbastanza inoltrato.
In un racconto simile per certi versi, ma alquanto diversificato per altri, ovvero nel cunto Corvetto (G. Basile, Pentamerone, III,7,) il protagonista ottiene la mano della figlia del re( clicca qui per leggere il racconto, e qui per il commento e le considerazioni). Se si vuole mettere in evidenza un aspetto socio-politico del racconto, si deve puntare l’attenzione su questo matrimonio della figlia del re con l’eroe che sconfigge un nemico, diciamo così, interno al regno. Questo matrimonio prelude a un passaggio di potere tra il re e il genero. Risulta, in conclusione, che in questo tipo di racconti il re, il potere guadagni in ricchezza a scapito di un nemico interno e che ottenga un successore capace. Un altro racconto di Francesca Leto, La troffa di la razza, narra la storia di Vicenzu, anche lui figlio di un raccoglitore di verdure selvatiche, anche lui in grado di sconfiggere un orco: ma a differenza di Tridicinu, Vicenzu sposa la figlia del re e gli succede, in questo molto simile a Corvetto, il protagonista del cunto del Basile(vedi commento sul racconto siciliano).


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