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Recensione
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Recensione:
Quanto alle commedie, sono certamente delle migliori
del nostro Teatro, e, direi, superiori a tutte, meno due o tre.
Con esse l’Aretino si toglie deliberatamente dall’usanza comune,
ch’era di rifar Plauto e Terenzio, usanza a cui nemmeno un Lodovico
Ariosto volle o potè ribellarsi.
Discepolo della natura, quale
si protesta anche una volta nel Prologo dell'Orazia, l’ Aretino si
studia di riprodur sulla scena il suo mondo, e mette una buona
volta da banda quelle favole decrepite di padri ingannati, di figliuoli
discoli, di servi nemici degli uni e ajutatori degli altri, per surrogarle
con altre, desunte immediatamente dalla vita dei tempi.
I vecchi tipi tradizionali e invariabili fanno luogo nelle sue commedie
a figure vive, a veri caratteri, tratteggiati con molta bravura e
molta e fine cognizione del cuore umano: tale è quel maniscalco cui si
dà ad intendere che il signore vuol fargli tor moglie per
forza; tale quel Plataristotile, filosofo speculativo, che ha il capo
pieno di alte massime, e piena la bocca di gravi sentenze, e nulla
vede della tresca che gli fanno intorno la moglie e i servitori;
tale quell’ ipocrita, di cui basti dire che il Molière lo conobbe
certamente, e se ne giovò per il suo Tartufe; tali altri molti.
Qui i servitori non sono i soliti inventori di burle e di trappole in danno
dei vecchi avari, in beneficio dei giovani scapestrati, ma fanno i
proprii interessi, e più accorti di tutti, di tutti beffandosi, empiono
la scena di scontri e di casi ridicoli. Giannico, il ragazzo del maniscalco,
è il più petulante e fastidioso monello che si possa veder sul teatro, e Ippolito Saiviano, mutandogli il nome in Farfanicchio,
lo introdusse in certa sua commedia. Le burle e le truffe del Fora
e del Costa nella Talanta sono saporitissime novelle messe in azione.
I personaggi principali hanno intorno una turba di personaggi secondarii,
i quali riproducon l’ambiente: mercanti, ebrei, cantastorie,
dottori, capitani, pedanti, frati, sbirri. Nell’ultima scena della Talanta
ce ne sono non meno di diciannove riuniti.
Non so perchè dica il Burckhardt che l’Aretino non era buono
di trovare la vera disposizione drammatica di una commedia.
Ad ogni modo la misura della propria potenza comica l’Aretino
la dà nel Marescalco, dove una situazione unica è protratta e sostenuta
per cinque interi atti senza che l’ interesse languisca un momento.
E molti altri pregi ci sono in queste commedie. I prologhi
sono i più nuovi, i più briosi, i più ingegnosi che siensi
mai scritti, e quelli del Lasca fanno la ben magra figura al paragone.
Il dialogo è
di una vivezza insuperabile, naturale e argutissimo, meno
che nelle scene d’ amore patetico, dove l'Aretino non si sente
troppo dimestico. I soliti cattivi spedienti di somiglianze strane,
di abiti scambiati non mancano; ma non se ne fa quell’abuso che
nelle altre commedie del tempo. Insomma non dice troppo chi
dice che la tragedia e le commedie dell’Aretino accennano a una
riforma importantissima del teatro.
(Arturo Graf, un processo a Pietro Aretino)
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