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News recensioni film cinema da sentieriselvaggi.it

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Pet Sounds
Brian Wilson – A shining light

La musica di Brian Wilson è piena di luce, quella della California, che si riflette sulle onde e sulle tavole da surf. Ma ce n'è anche un’altra: quella dei sogni contagiosi di una generazione

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“Nella profondità dell’inverno ho imparato, alla fine, 

che dentro di me c’è un’estate invincibileâ€

Albert Camus

“When you’re on a golden sea
You don’t need no memory
Just a place to call your own
As we drift into the zone

On an island in the sun
We’ll be playing and having fun
And it makes me feel so fine
I can’t control my brain
â€

Island in the sun – Weezer

Endless Summer è una raccolta di successi dei Beach Boys uscita nel 1974 ma che riprende i loro successi dell’epoca “surf†(dal 1961 al 1965). Endless Summer è anche un leggendario documentario del 1966 su due surfisti che seguono l’estate fra emisfero nord e sud per non smettere mai di fare surf. L’estate infinita (o invincibile1) non è che un altro nome della giovinezza. Fare surf per sempre, essere giovani per sempre. Quando si è costretti a smettere di fare surf è per andare in guerra: Un Mercoledì da Leoni e Apocalypse Now (Charlie non surfa).

I Beach Boys non hanno avuto eguali nel raccontare questa rincorsa senza fine e nel farci sentire che suono ha la felicità. Certo, dopo più di sessant’anni, molta di quella “felicità†può apparire stereotipata, anche superficiale, ma guardandola da così lontano come siamo oggi, forse non ci rendiamo più conto che alla fine non fu che una breve finestra, il momento in cui il rock, pur essendo giovanissimo, aveva già bisogno di cambiare pelle, in Inghilterra con i Beatles, mentre in California si preferiva sperimentare le nuove potenzialità sonore offerte dalle chitarre elettriche, amplificatori ed effetti che, unite alle armonie vocali crearono la surf music. Una moda dilagante che, come tale, non poteva che stare stretta ad uno come Brian Wilson, innamorato della composizione, che sfruttava la moda solo per poterla piegare alle armonie vocali che ha nella testa.

Già nel ’65, quando ha solo 22 anni, il “gioco†del surf gli è venuto a noia. Il successo che, in una manciata di anni, ha consacrato il gruppo a star planetaria (ed unica rivale mondiale dei Beatles) gli permettere di poter fare le cose a modo suo: smette di andare in tour con il gruppo (anche perché è già preda di forti attacchi di ansia) per potersi concentrare sulla composizione e lanciare il guanto di sfida definitivo a Paul McCartney che aveva appena pubblicato Rubber Soul, che aveva fortemente impressionato Brian spingendolo a trovare una risposta musicale adeguata (a ripensarci oggi, anche alla luce di quanto gli ha complicato la vita, quella rivalità non può che apparire assurda, come chiedersi se sia stato più grande Michelangelo o Leonardo). Inizia, così, a lavorare su Pet Sounds e lo fa praticamente da solo, mentre gli altri membri del gruppo sono in tour e rientreranno solo per cantare le loro parti vocali. A suonare sono i membri della Wrecking Crew (session man molto esperti già utilizzati da Phil Spector, fra i quali Barney Kessel, Carol Kaye e Hal Blaine) più un’orchestra dal vivo. Sarà sì il suo capolavoro, ma forse anche una gemma troppo lucente con la quale doversi misurare in futuro.

Brian riversa tutto il suo mondo in Pet Sounds: dal difficile rapporto col padre il quale, sebbene sia stato fondamentale per portare la band al successo, era un uomo autoritario e violento, al punto che la quasi sordità ad un orecchio manifestatasi in Brian in giovane età, è stata spesso attribuita alle violenze da lui subite; alle sue ansie ed insicurezze ed, infine, il conseguente abuso di sostanze stupefacenti. La stratificazione della musica, che aveva appreso da Phil Spector, arriva ai massimi livelli in Pet Sounds, dove viene usata, oltre che per dare pienezza ai suoni, anche per rappresentare la stratificazione delle emozioni che Brian porta dentro il disco: le sue aspirazioni e le sue ansie, e quelle di una generazione, ma un po’ di tutte le generazioni se è vero, com’è vero, che questo disco non smette mai di essere citato quale fonte di ispirazione di musicisti del passato e del presente. Tutto questo enorme carico emotivo Brian Wilson, riesce a trasferircelo senza rinunciare ad un grammo di luce: non è un caso che l’amico “rivale†Paul McCartney abbia deciso di salutarlo così: “I loved him, and was privileged to be around his bright shining light for a little whileâ€.

Dopo Pet Sounds Brian implode, succube ancora delle droghe, delle ansie e del confronto con McCartney, che nel frattempo aveva realizzato Sgt. Pepper (il capolavoro dei capolavori) che lascia Brian atterrito, ma è un confronto impari: i Beatles sono un mostro a quattro teste dove le idee hanno modo di crescere nel confronto con gli altri membri della band, nei Beach Boys lui è solo. Inizia a lavorare, sempre in solitudine, al disco che dovrebbe essere la sua risposta: Smile, una sinfonia adolescenziale a Dio, come lui stesso la definì. Decide di farsi aiutare dal quel paroliere sopraffino che è Van Dyke Parks, alimentando le gelosie di Mike Love che voleva ancora scrivere di tavole da surf, auto veloci e ragazze abbronzate. Lo terminerà solo nel 2004. Nel 1967 ne esce una pallida bozza Smiley Smile solo per ottemperare agli obblighi con la casa discografica. Brian, intanto, si perde. Non esce più dalla sua camera, tenta il suicidio, continua ad abusare di droghe e inizia un percorso di terapia psicoanalitica folle con il dottor Eugene Landy, una figura autoritaria con la quale ripristinerà lo stesso rapporto di sudditanza e sofferenza che aveva con il padre.

Troverà, finalmente, la pace solamente con l’incontro con Melinda Ledbetter che diverrà la sua seconda moglie e rimarrà con lui fino alla morte (avvenuta nel 2024). Una pace che gli consentirà di darci ancora qualche gemma, come Love & Mercy del 1988. La musica di Brian Wilson si muove (e ti conduce) in un paesaggio indefinito ed irreale che esiste solo in quel luogo che sta tra il sonno e la veglia, dove tutti gli elementi sono (già) reali ma l’atmosfera è (ancora) sospesa, irreale… Forse è solo una questione di luce! La luce nei sogni non è quella della vita reale. La musica di Brian Wilson è piena di luce! Certo, la luce della California, quella che si riflette sulle onde e sulle tavole da surf, sui muscoli abbronzati e imperlinati di sudore, ma c’è anche un’altra luce: quella dei sogni, appunto, dei sogni contagiosi di una generazione, che diventano limpida melodia.

1 “Un’estate Invincibile – La giovinezza nella società degli eterni adolescenti†– Riccardo Parisi – Bietti Editore 2016.

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 14:35:37 +0000
the guardian
Mel Brooks annuncia Balle Spaziali 2

Il film, in produzione, vedrà la luce nel 2027, quando Mel Brooks avrà superato i cento anni. Un'impresa titanica per il re della commedia demenziale che si affiderà a Josh Greenbaum per la regia.

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Mel Brooks ha ufficializzato che Balle Spaziali 2 è in produzione e che uscirà al cinema nel 2027. Si tratta del seguito del primo capitolo del 1987, parodia di Star Wars con una spruzzatina di Star Trek, che non ebbe grande successo all’uscita ma che si è poi guadagnata lo status di cult.

Balle Spaziali 2 dovrebbe uscire a quarant’anni dal primo. “Dopo 40 anni ci siamo chiesti: ‘Cosa vogliono i fan?’ E quindi stiamo facendo questo film” afferma trionfate Mel Brooks all’interno del teaser con cui è stato dato l’annuncio. Il video apre con suoni di spade laser e gioca con la deriva ipertrofica del cinema citando i maggiori blockbuster dagli anni ’80 fino a Oppenheimer. Lo scorrere del testo in stile titoli di Star Wars recita “Trentotto anni fa, c’era solo una trilogia di Star Wars, e da allora ci sono stati… Una trilogia prequel, una trilogia sequel, un sequel del prequel, un prequel del sequel, innumerevoli spin-off televisivi, uno spin-off cinematografico di uno spin-off televisivo, che è sia un prequel che un sequel. Senza contare 2 Dune, 7 Jurassic Park, 2 Avatar più altri 3 Avatar che fanno 5 Avatar” e altro ancora, concludendo con “Ma in trentotto anni, c’è stato solo un solo… Balle Spaziali… fino ad ora”.

L’anno scorso è stato annunciato che un sequel era in fase di sviluppo presso Amazon-MGM. Se realmente il progetto, che ora è in produzione, vedrà la luce nel 2027, Mel Brooks avrà superato i cento anni. Un’impresa titanica per il re della commedia demenziale che, secondo il The Guardian, si affiderà a Josh Greenbaum per la regia, già dietro la macchina da presa per Doggy Style – Quei bravi randagi e Barb e Star vanno a Vista Del Mar, oltre al documentario Will & Harper.

Sembra che per l’occasione anche Rick Moranis possa tornare a recitare. L’attore che in Balle Spaziali interpretava il temibile e buffo Lord Casco, nonostante sia in pausa dalla recitazione dal 1997, aveva accettato di partecipare a Shrunk, reboot di Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi di Joe Johnston, annunciato nel 2020 ma mai finalizzato. A proposito, in un’intervista del 2014, Brooks aveva dichiarato che non avrebbe fatto un sequel senza Moranis: “Ho il casco in magazzino che aspetta solo lui. Non andrà bene a nessun altro. Rick è alto 1,65 e mezzo. È perfetto per il casco grande. Era un genio“.

“Mentre il titolo, i dettagli della trama e il resto del cast sono stati tenuti nascosti, il film è stato descritto da coloro che non hanno ancora letto la sceneggiatura come ‘Un Sequel Non-Prequel Non-Reboot Parte Seconda’ ma con elementi di espansione del franchise†si legge in un comunicato stampa di Amazon-MGM, in pieno stile Brooks.
Brooks, che è una delle sole 21 persone ad aver raggiunto lo status di EGOT (vincendo un Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony, non compare sul grande schermo in qualità di regista dal 1995 con Dracula morto e contento, ma non ha mai lasciato la settima arte per cui ha firmato la sceneggiatura di The Producers – Una gaia commedia neonazista e Agente Smart – Casino totale (2008) e ideato e prodotto la serie tv La pazza storia del mondo, Parte II (2023). Sembra che la forza, anzi lo sforrrzo non lo abbandoni.

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 11:59:28 +0000
universal
Universal e Disney fanno causa a Midjourney

I due studios hanno denunciato il generatore di immagini AI per aver colonato personaggi come Darth Vader e i Minions, violando il loro diritto d'autore. Ma è possibile tornare indietro?

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Negli scorsi anni il New York Times e l’Authors Guild avevano intentato cause contro OpenAI, accusandola di aver istruito ChatGPT utilizzando del materiale di loro proprietà, talvolta replicandone porzioni. Allo stesso modo nel 2024 Sony Music Entertainment, Universal Music Group e Warner Records avevano denunciato Suno e Udio di aver fatto lo stesso con brani da loro pubblicati. Midjourney invece era stata al centro di un’azione legale promossa da 10 artisti californiani, venendo effettivamente condannata a risarcire questi ultimi per aver violato il loro diritto d’autore. Ecco che proprio il generatore di immagini AI pare si sia adesso scontrato con uno scoglio ancora più grosso. Disney e Universal hanno infatti denunciato per il medesimo reato proprio Midjourney.

I due giganti dell’audiovisivo hanno, tramite i loro legali, definito il software “un pozzo senza fondo di plagi”, di cui sono stati oggetto alcuni dei loro personaggi più noti, come Darth Vader di Star Wars o i Minions di Cattivissimo me, i cui diritti d’immagine fruttano alle major introiti di svariati milioni di dollari. La richiesta avanzata sarebbe quindi in primis quella di limitare Midjourney, vietandogli di infrangere sistematicamente il diritto d’autore dei due studios (richiesta già avanzata precedentemente, ma rimandata al mittente, secondo quanto sostiene l’accusa). Inoltre Disney e Universal hanno chiesto il pagamento di un risarcimento, stimando che nel 2024 Midjourney, tenendo conto dei soli abbonamenti sottoscritti dai suoi utenti, avrebbe guadagnato oltre 300 milioni di dollari.

Horacio Gutierrez, capo dell’ufficio legale di Disney, ha dichiarato come lo studio non abbia una posizione di totale contrasto rispetto all’impiego dell’IA in materia di generazione di immagini: “Siamo ottimisti circa la possibilità che diventi uno strumento che, usato responsabilmente, supportare la creatività umana, ma la pirateria è pirateria, e il fatto che a rendersi colpevole di tale reato sia un’IA non è assolutamente un motivo per tollerare la violazioneâ€.

A destare curiosità sono però le parole di David Holz, CEO di Midjourney. Quando nel 2022, appena un anno dopo la creazione del software, dichiarava di aver creato il suo database attraverso un’attenta scansione di tutto il materiale su Internet, forse in molti lo avevano sottovalutato, come d’altronde avvenuto con l’impiego delle IA in generale. Adesso tuttavia lo stesso Holz parla di Midjourney come se il suo funzionamento non fosse più in suo controllo: “Non c’è modo per fare in modo da reperire tutte le immagini sul web conoscendone con certezza la provenienzaâ€. Solo poco tempo fa qualcosa di simile era stato anche alla base della “strategia difensiva†di OpenAI, interrogata dal governo britannico.

Volendo dare per assodato che oggi non sia possibile istruire le intelligenze artificiali in modo da non violare il diritto d’autore, gli scenari futuri sono di fatto imprevedibili. E ciò è dovuto ad un’evidente sottovalutazione iniziale della questione che ha permesso ai database delle IA di accumulare una quantità di materiale tale da rendere oggi impossibile una revisione, nonché ad un vuoto legislativo che continua a sussistere, con le situazioni che vengono risolte di volta in volta da singoli procedimenti giudiziari. Aziende come Universal e Disney hanno le spalle abbastanza larghe (a differenza di singoli autori) da poter richiedere un risarcimento a posteriori, facendo valere il proprio peso sul mercato e quindi la propria voce, almeno finché non saranno proprio Midjourney e OpenAI ad occupare quella posizione.

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 11:00:32 +0000
wanted cinema
In marcia coi lupi, di Jean-Michel Bertrand

Un viaggio tra lupi e altre specie animali, in un film dal timbro filosofico dove la colonna sonora è un po' ridondante ma è comunque in grado di unire con grazia scienza, poesia e denuncia.

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Quante politiche ambientali vengono annunciate, quanti progressi apparenti, per poi tradire quegli stessi accordi? Tra le vittime più emblematiche di queste contraddizioni c’è il lupo: una specie che, nonostante tutto è riuscita a preservare la sua straordinaria capacità di adattamento. Dopo 80 anni, questi animali stanno ritornando sui propri passi riappropriandosi dei territori originari da cui erano stati estromessi.

A mostrare questo potente ritorno c’è il documentario di Jean-Michel Bertrand, In marcia coi lupi. Possiamo definirlo quasi un film di formazione, un road-movie che si svolge tra le valli selvagge e le aree urbane delle Alpi Francesi, fino a raggiungere la foresta del Giura. Un viaggio filosofico che ci ricorda la bellezza della natura che ci circonda, un tema ampiamente discusso ma di cui abbiamo ancora fortemente bisogno. Per tre anni il regista Bertrand, unico umano presente nell’intero film, ci mostra i suoi studi compiuti fatti di osservazione e riflessione. Quello che ne viene fuori è una vera e propria indagine sul complesso comportamento dei lupi, e nello specifico di un lupo giovane.
“La vera minaccia per un lupo sono gli altri lupiâ€. Una frase che risuona con doppio significato, poiché anche Bertrand, come il giovane lupo, è un solitario alla ricerca, in viaggio attraverso la natura e dentro se stesso.

La colonna sonora, talvolta ridondante, cerca di accentuare l’atmosfera misteriosa del racconto, ma il bisogno non c’è. Perché In marcia coi lupi è soprattutto un film dell’ascolto, dell’osservazione, del sentire. Non vediamo mai chi lo aiuta nelle indagini, né le persone che contribuiscono a piazzare le microcamere sugli alberi. La tecnologia diventa così uno strumento utile per la protezione ma anche un modo per seguire le tracce senza invadere, nel totale rispetto della natura. Una ricerca, una esplorazione dove ogni passo e pensiero del regista viene condiviso, in una narrazione fatta quasi interamente con la voce fuori campo: a tratti sembra più un libro letto che un film visto. Ma è proprio in questa scelta che risiede la forza del documentario: un racconto che mescola zoologia e filosofia, contemplazione e azione, attesa e scoperta.

In marcia coi lupi è un film necessario ed emozionante. Una denuncia silenziosa contro l’emarginazione non solo dei lupi, ma di tutti gli animali selvatici. Un’opera che combatte gli stereotipi e ci invita a riconsiderare il nostro posto nel mondo. Non sapremo mai se quel giovane lupo troverà il branco o meno, ma sappiamo che sta percorrendo la strada giusta per riprendersi ciò che gli appartiene: il suo territorio, la sua libertà, il suo spazio nella natura.

 

Titolo originale: Marche avec les loups
Regia: Jean-Michel Bertrand
Distribuzone: Wanted Cinema
Durata: 88′
Origine: Francia, 2019

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 10:52:01 +0000
Verena Soltiz
Biografilm 2025 – Tutti i premi

Rivelati tutti i vincitori della 21ª edizione, tenutasi a Bologna dal 6 al 16 giugno; Girls & Gods miglior film internazionale mentre il Pilastro ha vinto il Best Film BPER Award

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La 21ª edizione del Biografilm, tenutasi a Bologna dal 6 al 16 giugno, si sta avviando alla conclusione e come da tradizione sono stati premiati i migliori lavori scelti dalle varie sezioni.

La giuria del Concorso Internazionale, composta da Léa Pernollet e Samina Seyed e presieduta da Francesca Andreoli ha premiato con il riconoscimento Best Film Award Girls & Gods, di Arash T. Riahi e Verena Soltiz. Il film, che riflette sulla femminilità e il suo ruolo nelle varie religioni, è stato apprezzato per la sua poesia e la rappresentazione del femminile: tra le motivazioni della giuria si legge “Mentre le donne iraniane e altre donne in tutto il mondo lottano per la libertà, questa storia diventa uno specchio e un appello. Radicato nello spirito di ‘Donna, Vita, Libertà’, il film è urgente, umano e profondamente commovente.”

La stessa giuria ha conferito una menzione speciale a The Last Ambassador di Natalie Halla, che racconta la lotta per i diritti di Manizha Bakhtari per le donne dell’Afghanistan. I giurati, colpiti dalla forza delle immagini, hanno dichiarato: “Riconosciamo The Last Ambassador come un’opera di coraggio umano, realizzata con compassione e forza poetica. Dà voce a chi è stato zittito e memoria a ciò che la Storia spesso dimentica.”

Il Premio Hera Nuovi Talenti alla migliore opera prima del Concorso Internazionale è stato assegnato a Flophouse America, di Monica Strømdahl. Il film è il documentario sulla vita di Mikal, un ragazzino che vive con genitori vittime di dipendenze nella speranza che riescano a cambiare. “Siamo rimasti scossi ma anche profondamente commossi dallo sguardo diretto ma empatico che Monica Strømdahl rivolge al giovane Mikal e ai suoi genitori, mostrandoci la verità sugli emarginati nella società americana di oggi.”

La menzione speciale è andata a Balomanía di Sissel Morell Dargis, che racconta di una società segreta brasiliana impegnata a creare e far volare le loro mongolfiere: “Con uno sguardo empatico e privo di giudizio, il film esplora come una pratica illegale diventi un atto di resistenza culturale e di appartenenza. La giuria è rimasta colpita dalla delicata rappresentazione del bisogno di espressione e libertà e dalla capacità di far luce con urgenza e grazia su un mondo incompreso.â€

La giuria della sezione Biografilm Italia, composta da Lucia Tralli (presidentessa di giuria), Matteo Bisato e Alessandro De Bon ha invece premiato con il Best Film BPER Award Il Pilastro di Roberto Beani perché, tra le motivazioni, “sa raccontare il Paese valorizzando un affascinante e approfondito lavoro di ricerca e i personaggi protagonisti della vita del quartiere.” Il film racconta infatti la “vita” di un quartiere a partire dagli anni Sessanta, in un contesto dove sono evidenti sfide e contraddizioni nello sviluppo urbano.

Una menzione speciale BPER della Giuria Biografilm Italia è andata a A luci spente, di Mattia Epifani, che mostra la lotta interiore dell’ex pugile Loris Stecca nel tentativo di riabilitarsi dopo il tentato omicidio della ex-socia. Per la giuria, “Le immagini riescono a raccontare un personaggio rimasto sospeso al momento più alto della sua carriera nell’incontro che non è riuscito a vincere ma che sta continuando a combattere.”

Il Premio Hera “Nuovi Talenti†per la migliore opera prima della sezione Biografilm Italia è stato invece assegnato a Radio Solaire – Radio Diffusion Solare, di Federico Bacci e Francesco Eppesteingher. Il film segue Abdrahmane Cissoko mentre si adopera per creare una radio al confine tra Senegal, Mali e Mauritania, pensata per i giovani migranti, un’impresa che porterà alla nascita di Radio Solaire Livorno, radio pirata per la comunità multietnica toscana. “Radio Solaire – si legge nella motivazione della giuria – è quel cinema che ci ricorda l’importanza dei film per arricchire la memoria con storie che altrimenti andrebbero smarrite. Il lavoro di Giorgio Lolli è stato opera e rivoluzione ieri, e insegnamento oggi.â€

La Menzione Speciale Hera “Nuovi Talenti†del concorso Biografilm Italia 2025 è stata attribuita a Despite the Scars di Felix Rier, una toccante testimonianza di rinascita che ha per protagonista Thea sopravvissuta a uno stupro di gruppo e ora neo-mamma, con un nuovo corpo tutto da esplorare.

La giuria del premio Manifesto, formata da enti socialmente impegnati: Lydia Buchner (Associazione Oltre), Lara Conte (Casa delle donne per non subire violenza di Bologna), Valentina Corona (Extinction Rebellion), Dani Bettini (Gruppo Trans), Suraya Aktur (Next Generation Italy), Valentina Bazzarin (Period Think Tank), Stefano Forlivesi (Plat), Mariana E. Califano (Resistenza in Cirenaica). Hanno scelto come vincitore De la guerre froide à la guerre verte (Green Is the New Red), di Anna Recalde Miranda, che racconta del disastro ecologico avvenuto in America Latina a causa dell’Operazione Condor degli anni ‘70. Tra le motivazioni si legge.

Il Young Critics Award, premio conferito dagli studenti dei DAMS e CITEM di Bologna, è andato a Home Game di Lidija Zelovic: “Un’opera documentaristica che rappresenta una crisi identitaria personale profondamente inscindibile rispetto alla crisi collettiva attraversata dal popolo della Jugoslavia nel momento della sua scissione. Una rappresentazione capace di restituire allo spettatore non solo una messa in scena quanto più lontana dal carattere descrittivo e oggettivo, ma anche la straordinaria evoluzione del mezzo cinematografico-tecnologico attraverso l’evoluzione della storia stessa.”

Nell’ambito di Tutta un’altra storia, il progetto educativo di inclusione sociale dedicato ai ragazzi e ragazze in situazione di marginalità, due giurie hanno lavorato per assegnare i propri premi.

Il premio Tutta un’altra storia Pratello Award, assegnato dalla giuria composta da un gruppo di ragazzi dell’Istituto Penale per Minorenni “Pietro Siciliani†di Bologna, è stato consegnato a Il Castello Indistruttibile di Danny Biancardi, Stefano La Rosa, Virginia Nardelli. Il film racconta la storia di tre undicenni palermitani e la loro ricerca di pace, mentre trasformano un asilo abbandonato nel loro castello: “Ci ha colpito come i bambini hanno pulito per creare un posto di fantasia, ma reale. Le parole chiave sono: forza, amore, fantasia e trasformazione.”

Il premio Tutta un’altra storia 2 agosto Award, assegnato dalla giuria composta da un gruppo di ragazze delle comunità educative Oikos e Towanda di Bologna, è stato attribuito a Dear Audience di Enrico Baraldi. Le protagoniste sono Yulia e Natalia, due attrici di Kyiv, che tornano in patria dopo un anno, tra disagi e nuove realtà. La giuria ha dichiarato: “Abbiamo deciso di dare il premio al film Dear Audience per dare visibilità alle persone che purtroppo sono in situazione di guerra e a chi racconta le loro storie. Sappiamo che questo film manderà un messaggio di forza e resilienza a tutti quelli che sono in situazioni difficili.”

La giuria Tutta un’altra storia 2 agosto ha anche assegnato una menzione speciale a Home Game di Lidija Zelovic per “il coraggio di condividere la propria intimità e per la capacità di creare un film con la propria storia privata che parla a tutte le persone.”

La Giuria Speciale Arci Ucca ha consegnato il premio di distribuzione “L’Italia che non si vede. Rassegna Itinerante di Cinema del Reale†e 1000 € al miglior film del Concorso Biografilm Italia. Il film vincitore è Despite the Scars di Felix Rier: “Con uno sguardo empatico e rispettoso, il film mette al centro il corpo come luogo di sofferenza ma anche di riscatto, mostrando la forza trasformativa dell’arte, dell’amore e della condivisione. Un esempio potente di cinema sociale che rompe il silenzio, invita al cambiamento culturale e promuove responsabilità e speranza.”

Il premio di distribuzione TOP DOC – Il bello del documentario, è andato a Radio Solaire – Radio Diffusion Rurale, di Federico Bacci e Francesco Eppesteingher perché è “un omaggio sentito e necessario a un protagonista carismatico e sorprendentemente poco conosciuto, attraverso un racconto che celebra la collettività come espressione profonda dell’umanità.”

Menzione speciale TOP DOC per Claudia fa brutti sogni, di Eleonora Sardo, Marco Zenoni. Il film racconta del percorso di accettazione e rielaborazione del proprio legame di due sorelle, Claudia ed Eleonora. La giuria ha apprezzato la capacità di raccontare le fragilità familiari dei registi: “Un film essenziale ma potente, dove il ruolo di regista e protagonista si fondono in un doppio ritratto biografico, capace di emozionare con la sola forza dei sentimenti.” Il film di Sardo e Zenoni ha invinto anche il premio DocPoint Helsinki, garantendosi un passaggio nell’edizione 2026 all’omonimo festival del cinema documentario finlandese.

Passando ai film che il pubblico del Festival ha preferito, L’Audience Award | Concorso Internazionale, premio del pubblico per il miglior film del Concorso Internazionale, è andato a Mr. Nobody Against Putin, di David Borenstein e Pavel Ilyich Talankin. Il documentario racconta la storia di Pavel “Pasha†Talankin, insegnante ucraino che nel momento dell’invasione russa si scopre un simbolo di resistenza; e delle conseguenze che si ritrova ad affrontare.

L’Audience Award | Biografilm Italia 2025, premio del pubblico per il miglior film del Concorso Biografilm Italia, è stato assegnato a Il Rospo e il Diamante, di Beniamino Casagrande, che riflette sul tema della spiritualità e l’elaborazione del lutto.

L’Audience Award | Biografilm Contemporary Lives 2025, premio del pubblico per il miglior film di Contemporary Lives, è stato assegnato a De la guerre froide à la guerre verte (Green Is the New Red), di Anna Recalde Miranda, già vincitore del premio Manifesto.

L’Audience Award | Biografilm Art & Music 2025, premio del pubblico per il miglior film di Art & Music, è andato invece a Il faro – Il fantastico viaggio della Banda Rulli Frulli, di Gianluca Marcon e Diego Gavioli. Ambientato in Emilia Romagna, l’opera racconta della band omonima che suona gli strumenti plasmati da altri oggetti trovati nelle isole ecologiche, in una storia di arte e inclusione.

Infine l’Audience Award | Biografilm Beyond Fiction – Oltre la Finzione 2025 va a Alpha, di Julia Ducournau, un viaggio inquietante tra crescita, desiderio e metamorfosi. Recentemente presentato al festival di Cannes, il film ha ricevuto una standing ovation di ben dodici minuti.

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 10:44:58 +0000
wendy hiller
The Elephant Man, di David Lynch

Il tempo non ne scalfisce l’autenticità, l’emozione assoluta, lo stordimento provocato da quelle immagini la prima volta. Tra i grandi film del regista. Da oggi in sala in versione 4K

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Nella Londra vittoriana un uomo, nato deforme in seguito ad un incidente capitato alla madre mentre era incinta (calpestata da un elefante in terra africana) viene esposto come fenomeno da baraccone nella galleria dei freaks. Sarà il dottor Treves a salvare dalla prigionia l’uomo-elefante, ad accudirlo e curarlo, ma anche ad usarlo per le sue conferenze mediche. John Merrick – l’uomo elefante – è dotato di una sensibilità notevole e viene introdotto nella Londra-brne fin quando un uomo senza scrupoli mostrerà nella notte “the elephant man†a un gruppo di avventori. John Merrick fuggirà ritornando ad essere, lontano dall’Inghilterra, una delle attrazioni più “richieste†dei circhi. Lo salveranno prima i suoi compagni di sventura favorendogli la fuga e poi ancora il suo medico e amico Frederick. Nel suo ospedalr John vivrà serenamente gli ultimi giorni della sua vita.

È stato il primo film di David Lynch ad uscire nelle sale italiane. Una storia limite (stranamente) candidata ai Premi Oscar, la storia di John Merrick, l’uomo-elefante. Un film “fuori tempoâ€, in bianconero, sussurrato…Prodotto da Mel Brooks che definì David Lynch “un James Stewart venuto da Marteâ€.

Un film, The Elephant Man, non intaccato dallo scorrere del tempo. Visioni e ri-visioni (sullo schermo, nei passaggi tv, in home video) non ne scallfiscono l’autenticità, l’emozione assoluta, lo stordimento provocato da quelle immagini la prima volta. Un film tutto ancora nella memoria, cresciuto senza chiedere spazio e importunare. Con i suoi fumi avvolgenti, ipnotici, cullanti. Con  suoi silenzi e urla improvvise. Un film che non ha mai chiesto di essere ricordato o “tirato fuoriâ€, nonostante i film seguenti di Lynch, i suoi lavori “extra†(gli spot, lo sguardo “sui†francesi, Twin Peaks, le “american chroniclesâ€), il recupero dei testi precedenti (i cortometraggi ed Eraserhead, il suo primo lungometraggio) si ponessero in campo con più determinazione, con più violenza (e desiderio di venire, più volte, violentati/visti). Scoprendo – in questo tempo di visione sospeso – che in The Elephant Man c’erano già ‘cose’ riassorbite nei film successivi o tutte già compres(s)e in Eraserhead: la zona senza tempo (non più solo Londra), le strade velate di nebbia, fumi, contrasti luminosi, le case e il set vera presenza-freak dietro/dentro la quale nascondere altri corpi, terrorizzati e terrorizzanti. All’interno di una vicenda tutta detta ma per nulla mostrata, continuamente sottratta alla visione globale – come poi accadrà fra le linee tutte buie di Industrial Simphony N° 1. In superficie il film più trattenuto lineare ‘semplice’ di Lynch. The Elephant Man nasconde una natura febbrile, una densità melodrammatica che gli anni e le numerose visioni frappostesi nel corso del tempo non sono riusciti a scardinare.

The Elephant Man nasce dieci anni prima di Cuore selvaggio e si pone fin dall’inizio – è il 1980 – in contrasto con un decennio (s)morto: colpisce per la sua forza penetrante. Ambientato nella Londra vittoriana, il film si apre e chiude su due mondi di appartenenza ancora più lontani, confusi in un tempo passato/futuro che annienta ogni tentazione di didascalicità e di identificazione con un periodo ‘storico’ ben definito.

Nel tempo della memoria che appartiene, che è custodito dalla madre (assenza cui sempre il film rimanda, ossessivamente fisica) di John Merrick/John Hurt. Negli occhi di lei, strappati al suo corpo dai dettagli impietosi cuciti nell’azione, sempre in movimento avvolgente, costruita da Lynch.

Nel “prologo†iniziale, dopo il nero su cui scorrono i titoli di testa, martellante pressione di un incubo raccordato da dissolvenze incrociate, ralenti, fermi-immagine, un lungo incubo in apnea per “ricordare†l’incidente che colpì la donna al quarto mese di gravidanza, calpestata da un enorme elefante “in terra d’Africa, su un’isola sconosciuta†dirà poi Freddie Jones ad Anthony Hopkins nella sua baracca di “periferiaâ€.

E nel frammento spaziale e infinito che segue la morte di John. La finestra (nel corso del film destinata a trasformarsi in schermo – per i visitatori notturni in “processione†pagata per vedere di nascosto  l’uomo-freak – in specchio – John si vede attraverso essa – o ancora in schermo – stavolta per John che vede al di là la cupola della cattedrale che ricostruirà in miniatura nella sua stanza) viene frantumata in mille pezzi di neve/stelle, scaraventata nell’universo-set futuribile che ha accolto le visioni low budget di Eraserhead e accoglierà, quattro anni dopo (1984), quelle kolossal di Dune. È ancora la voce della madre di John, uno dei più compatti corpi/non corpi che popolano l’immaginario lynchiano, a proporsi, a dire “Mai oh…mai niente morirà l’acqua scorre il vento soffia la nuvola fugge il cuore batte…niente muoreâ€.

Elementi di evanescenza, imprendibili, troppo liberi dentro (il cuore) o fuori (vento nuvole acqua) corpi infiniti, viaggiano nel mondo trasversale anche di The Elephant Man. Segni soprattutto invisibili in un film densamente immateriale, in cui fin dall’inizio – ancora quei dettagli insopportabili allo sguardo…- “si sa†che bisognerà immaginare. Come fa John Merrick, costretto dalle circostanze, dalle condizioni fisiche, all’impossibilità a muoversi, salvo rare occasioni, e a circolare normalmente, se non accompagnato, come d’altronde lo spettatore-fruitore di fronte allo schermo. “Io devo affidarmi alla mia immaginazione, per quello che da qui non vedo†dirà John ad anne Bancroft mentre sta ricostruendo nella sua camera d’ospedale la cattedrale di cui vede soltanto la sua punta estrema, la cupola-iceberg.

E così lo spettatore dovrà immaginare. Di vedere il corpo deformato di Merrick. Per mezz’ota un “disegno†teatrale, di tende aperte e chiuse, di luci troppo scure per poter vedere, di sipari e maschere, nasconderà l’uomo in set diversi ma in cui ugualmente viene esposto: il baraccone di un circo degli orrori o la sala per conferenze mediche (ne vediamo solo l’ombra dietro la tenda, lo schermo per un attimo trasformato in lanterna magica).

Immaginare. Di vedere l’incontro fra madre e figlio, mentre ogni corpo di donna fisicamente mostrato (la moglie del medico, l’attrice di teatro…) “ricordano†quello della madre.

Immaginare. Di vedere – “semplicemente†– John Hurt dietro la protesi portata per tutte le riprese: la testa enorme e deformata, bubboni tumorali per tutto il corpo, labbra devastate dal male congenito.

Immaginare…sgranare gli occhi, insieme a Hopkins, nel freddo della notte, alla ricerca di qualcosa e qualcuno, di un tassello mancante o “di troppoâ€. Cercando di vedere oltre un vetro sporco immagini sotterranee o sparse nello spazio. Mai, comunque, a misura di sguardo lineare. Neppure all’interno del film più “tradizionale†e narrativamente compatto di Lynch. Di un film che è stato candidato nel 1980 a 8 Oscar, e tra questi miglior regia e sceneggiatura. Di un lavoro tratto dalla storia autentica di John Merrick, e non dal dramma teatrale omonimo messo in scena a Broadway o “da altri lavori frutto dell’immaginaziioneâ€. E che inizialmente è stato rifiutato da tutti i produttori, pessimisti di fronte alla storia (e alla sua resa commerciale che sarà, invece, notevole) di un uomo orrendamente sfigurato, “il più grande aborto della natura†(Freddie Jones nel film).

Un film dentro il quale si fanno strada visioni impreviste, racconti depistanti, squarci di memoria gettati a tutto schermo, schegge davanti senza più terra d’origine. Strappate al “privato†di un unico individuo, sparpagliate ovunque. Mentre brividi lungo il corpo, si fanno spazio. Anche se non richiesti. La febbre sale. Nei momenti (inutile negarlo, sono quelli, impossibile nasconderli oltre, fare finta di superarli, di non vederli, ma soprattutto di non sentirli scorrere addosso e dentro d sé; sarebbe fin troppo schematico ricordare, prima a se stessi e poi agli altri, che “lì non ci cascoâ€, che “riesco a trattenere le emozioniâ€) in cui Lynch abborda più da vicino lo spettatore, operando sul corpo del mélo: i versetti della Bibbia recitati a memoria da John, la lettura (nel libro aperto “a casoâ€) di un brano di Romeo e Giulietta, duettato – fra lettura e recitazione – dall’uomo con Anne Bancroft/attrice di teatro, la visita a casa di Hopkins/medico, il dialogo con la moglie di lui, le fotografie rivelate alla visione di John sulla parete del salotto. O ancora alcuni dialoghi decisamente sopra le righr, ad integrazione di scene madri disperse nel film.

The Elephant Man si ripresenta così. Con tutta la sua armonicità romantica. Con tutto il senso di opera finita e di corpo-vagante. Di film visionario e intrigante, intimista ed eccessivo. Favola ancora una volta noir, twin peaks con largo anticipo, selvaggio incontro dove “nessuno è perfettoâ€, film politico “sul†potere, sottile humor nello scheletro drammatico…Impulso per sempre attivato nel tic-tac della memoria.

 

Titolo originale: id.
Regia: David Lynch
Interpreti: John Hurt, Anthony Hopkins, Anne Bancroft, John Gielgud, Wendy Hiller, Freddie Jones, Hannah Gordon, Michael Elphick, John Standing, Helen Ryan, Dexter Fletcher, Hugh Manning, Phoebe Nicholls, Kenny Baker
Distribuzione: Lucky Red, Cineteca di Bologna

Durata: 124′
Origine: USA, 1980

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 09:36:25 +0000
warren clarke
Arancia meccanica, di Stanley Kubrick

Dal romanzo di Burgess, un monolito della modernità, totem di un racconto satirico socio-politico che ha fondato un nuovo genere ed è stato riprodotto e imitato.

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È buffo come i colori del vero mondo divengano veramente veri soltanto quando uno li vede sullo schermo.†Alex -Malcom McDowell Arancia meccanica

Più il tempo passa più Arancia meccanica appare un film monolito, il totem di un racconto satirico socio-politico che ha fondato un nuovo genere ed è stato riprodotto e imitato. Stanley Kubrick prosegue il non ottimistico apologo di 2001: l’osso utilizzato da una scimmia contro l’altra dà inizio al processo di evoluzione/involuzione. L’idea portante è sottolineare la differenza tra violenza non istituzionalizzata e quella socialmente utile ponendo enfasi ai tentativi di limitare nell’uomo la libertà di scelta. Il modello è Beyond Freedom and Dignity di Burrhus Frederic Skinner; il punto di vista è quello dello psicopatico Alex DeLarge/Alessandro Il Grande/Riccardo III (Malcom McDowell che bissa la meravigliosa interpretazione di If di Lindsay Anderson) che è cattivo, ama la bellezza (soprattutto Beethoven) e si serve di un proprio neo-linguaggio. L’occhio di HAL diventa quello truccato/schizzato di Alex mentre un lentissimo zoom all’indietro rivela gli altri drughi sulle note di The Funeral of Queen Mary di Henry Purcell nella variante pop-elettronica di Wendy Carlos.

Kubrick coglie il nucleo politico del romanzo di Anthony Burgess e si fa beffe di tutte le teorie sulle possibilità di educazione-correzione del sociopatico. Per aderire il più possibile allo stile letterario di Burgess e al delirio lisergico di Alex, Kubrick usa il ralenti (la scena di Alex che si vendica di due suoi compagni buttandoli in acqua), repentine accelerazioni da comica muta (il rapporto sessuale a tre sulle note dell’Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini), le distorsioni grandangolari (l’agguato alla signora dei gatti con la rotazione a 360° della macchina da presa), le scenografie ipercromatiche (il negozio di dischi, gli interni delle abitazioni) e impianti meta-teatrali in cui va in scena la violenza (lo spettacolo di un tentato stupro su un palco, il pestaggio di un barbone in un tunnel). Il pessimismo razionale di Burgess crea un futuro apocalittico in cui si parla un “nadsat†incomprensibile (un misto tra russo inglese ed ebraico) all’interno di periferie urbane degradate. Le forze di governo cercano di ampliare il consenso elettorale con metodi pseudo-scientifici di induzione pavloviana del disgusto verso l’atto criminoso.

Alex è il capo di una banda, dedita allo stupro e alla ultra-violenza, che si ritrova ogni sera al Korova Milkbar (i tavolini sono sculture di Allen Jones) per nutrirsi di latte alla mescalina. Pop Art, punk, astrattismo: da Warhol a Lichtenstein, tutta l’arte sembra gridare alla sovversione dell’ordine costituito. La violenza della banda di Alex ha una forte connotazione estetica. E’ spesso guidata dalla musica di Beethoven (la nona sinfonia) o amplificata dai ritmi di un musical: quando i drughi entrano in casa dello scrittore progressista, i calci e le bastonate seguono il ritmo di Singin’ in the Rain di Gene Kelly. Questa operazione postmoderna (che ai tempi fece gridare allo scandalo e costrinse Kubrick a ritirare il film in Gran Bretagna) è fortificata dalla messa in scena dell’immaginario deviato di Alex: i suoi incubi blasfemi (una rivisitazione pop della via crucis, l’amplesso finale che ne dovrebbe sancire la guarigione) e il suo spalancare gli occhi sugli orrori del mondo lo tramutano da carnefice della contro-cultura a vittima di un governo reazionario. Il ministro, la polizia, gli scienziati, il cappellano, l’assistente sociale sono tutti strumenti del potere che stravolge la realtà con la sua rappresentazione, facendo sì che i colori passati sullo schermo siano più veri di quelli del mondo reale.

La conclusione è che arte ed etica non vanno di pari passo e Hitler può essere associato a Beethoven. Se Alex può essere considerato il “cattivo selvaggio†e la cura Ludovico il tentativo di civilizzazione di una pura entità istintuale allora il prodotto finale è quello della nevrosi dell’uomo medio causata da un Sistema (polizia-governo-clero) che tenta di abolire il libero arbitrio. Ecco perché Arancia meccanica è un monolito della modernità, un film che, sulla scia di Orwell e Philip K Dick, mette in guardia sulle derive totalitarie che tendono alla soppressione del desiderio e alla strumentalizzazione della diversità.

 

Titolo originale: A Clockwork Orange
Regia: Stanley Kubrick
Interpreti: Malcolm McDowell, Patrick Magee, Michael Bates, Warren Clarke, John Clive, Adrienne Corri, Carl Duering, Paul Farrell, Clive Francis, Michael Gover, Miriam Karlin, James Marcus, Aubrey Morris, Godfrey Quigley, Sheila Raynor, Madge Ryan, John  Savident, Anthony Sharp, Pauline Taylor, Margaret Tyzack
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 137′
Origine: UK, 1971

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 08:00:01 +0000
samantha morton
2073, di Asif Kapadia

Ispirato a La jetée di Chris Marker, un documentario fantasy che viaggia nel tempo sull'avvento dei regimi totalitari e la perdita della democrazia. Ma gira a vuoto.

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“Spero che qualcuno trovi questo messaggio. È troppo tardi per me. Spero non lo sia per voiâ€. Ci sono incendi, alluvioni, coprifuochi, violenze della polizia sui civili. Sono squarci del presente già proiettati verso il futuro dove il pianeta sembra abbandonato. Nella San Francisco del 2073 sono rimasti solo i residui della civiltà. Una voce-off guida verso questo mondo futuro controllato da ultraliberisti e dittatori. Qui vive isolato Ghost che ha i giorni contati ed è testimone del terrificante futuro che ci attende: la scomparsa della democrazia, l’avvento dei regimi totalitari che sono presenti nel 72% del mondo, la moltiplicazione dei sistemi di sorveglianza, la perdita di libertà e identità.

Kapadia (ci) proietta nei prossimi 50 anni alternando paesaggi desolati e frammenti documentario di caos sociale ispirandosi al corto La jetée del 1962, tra i film fondamentali della Nouvelle Vague che è stato da modello anche per L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam. Se Chris Marker costruiva un clima allucinato attraverso una serie di fotografie (tranne una sequenza filmata di pochi secondi), Kapadia unisce la finzione distopica con frammenti documentari saltando tra passato, presente e futuro. La macchina del tempo torna indietro al 1990 e poi ripercorre l’ascesa di Donald Trump, la dittatura di Rodrigo Duterte nelle Filippine che ha portato all’omicidio di 30-40 persone al giorno soprattutto tra spacciatori e tossicodipendenti, il governo divisivo del Primo Ministro indiano Narenda Modi, il potere di Bolsonaro in Brasile con la deforestazione della foresta amazzonica. 2073 affronta anche la crisi climatica, la limitazione della libertà di stampa e sottolinea come i social abbiano avuto una funzione determinante in questo progressivo annullamento dei diritti.

Come ha sottolineato Kapadia, il film parte proprio dal sistema di menzogna e corruzione che hanno portato alla Brexit e non nasconde i timori per la situazione politica in Italia, Germania e Francia. È soprattutto un’inchiesta giornalistica schizoide, non trascinante come i ritratti su Ayrton Senna, Amy Winehouse e Diego Armando Maradona. L’indignazione ha preso il sopravvento a scapito della chiarezza. Il montaggio è frenetico, velocissimo. Le immagini seguono una logica delle attrazioni ma in 2073 rischia di girare a vuoto così come il simbolismo è di maniera come il libro calpestato di Malcolm X. Poteva essere il pilot di una serie che poi riprende a raccontare le dittature del mondo. Così resta invece generalista, superficiale con in più la deriva fantasy-apocalittica con Samantha Morton che non aggiunge nulla, piuttosto toglie. Per il cinema di Kapadia un’inaspettata caduta. Sono forse le prove di un cinema fatto solo dall’intelligenza artificiale?

 

Titolo originale: id.
Regia Asif Kapadia
Interpreti: Samantha Morton, Naomi Ackie, Hector Hewer
Distribuzione: Filmclub Distribuzione con Minerva Pictures e Rarovideo
Durata: 85′
Origine: UK, USA 2024

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Data articolo: Mon, 16 Jun 2025 06:30:30 +0000
Yasemin Samdereli
Guerre & Pace FilmFest 2025: il programma

Dal 21 al 27 luglio 2025, la città di Nettuno ospita la XXIII edizione del festival, con un programma che spazia dal cinema, tra lungometraggi e cortometraggi, alla letteratura

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Dal 21 al 27 luglio 2025, la città di Nettuno ospita la XXIII edizione del Guerre & Pace FilmFest, rassegna cinematografica dedicata al racconto della guerra e della pace, in tutte le loro forme e contraddizioni. Con ingresso gratuito fino a esaurimento posti, l’evento – organizzato dall’Associazione Seven e curato dalla direttrice artistica Stefania Bianchi – torna a essere uno spazio di visione e confronto.

Sette i lungometraggi in programma, tra cui Comandante di Edoardo De Angelis, che rilegge l’umanità possibile in tempo di guerra attraverso la figura di Salvatore Todaro, sommergibilista della Regia Marina che, durante la Seconda Guerra Mondiale, disobbedì agli ordini per salvare i naufraghi nemici. Oppure Non dirmi che hai paura di Yasemin Samdereli, tratto dal romanzo di Giuseppe Catozzella: la storia vera di Samia Yusuf Omar, giovane atleta somala che sfidò la guerra, il fondamentalismo e il mare per inseguire il sogno olimpico.

Il festival apre anche uno spazio di riflessione con le presentazioni di alcuni libri: Mostruosa mente di Mauro Mazza, ritratto inquieto di Magda Goebbels negli ultimi giorni del Terzo Reich, e Il ragazzo che liberò Auschwitz di Roberto Genovesi, racconto di un giovane fotografo testimone dell’orrore dei campi di sterminio.

Uno spazio importante è riservato anche ai cortometraggi, con sei opere selezionate su un numero di candidature in forte crescita. Il miglior corto sarà premiato durante la serata finale, come segnale di attenzione al linguaggio emergente e alle nuove forme di racconto.

“Il tema scelto per la selezione dei film di questa edizione è ‘Storie di Coraggio’– ha spiegato Stefania Bianchi – e non è solo un tributo a chi ha combattuto, a chi ha dovuto vivere l’orrore della guerra, ma un invito a riflettere sul valore della speranza. Il pubblico avrà l’opportunità di abbracciare diverse narrazioni, ognuna capace di gettare uno sguardo penetrante sulla realtà. I film che proponiamo agiscono come finestre su mondi differenti, narrando piccole e grandi storie che attraversano confini e superano le barriere culturaliâ€.

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Data articolo: Sun, 15 Jun 2025 09:50:08 +0000
Fuori Orario
La programmazione di Fuori Orario dal 15 al 21 giugno

Omaggio ad Adriano Aprà, l'America Latina vista dai suoi registi e i primi 3 episodi di Otto ore non sono un giorno di Fassbinder. Da stanotte.

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Domenica 22 giugno dalle 1.55 alle 6.00

Fuori Orario cose (mai) viste                                                      

di Ghezzi Baglivi Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

OCCHI NON VOGLIONO CHIUDERSI IN OGNI TEMPO. OMAGGIO A ADRIANO APRÀ

in collaborazione con La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro

La notte si collega alla sezione della Mostra “Spazio Biancoâ€, curata da Mauro Santini, con cui Fuori Orario aveva già collaborato negli anni scorsi.   “L’omaggio ad Adriano Aprà  è una cerimonia in ascolto della sua voce, attraverso i film di tre giovani filmmakers e di un collettivo che lo ha accompagnato negli anni, sia nella vita affettiva che nel­l’appassionata ricerca cinematografica†(Mauro Santini).

IO CREDO NELL’INCONOSCIBILE       prima visione TV

(Italia, 2025, col., 162’)

Regia: Marco Allegrezza, Edoardo Mariani, Francesco Scognamiglio

Un intero giorno nel tempio-studio di Adriano Aprà. Amor Omnia gridano i suoi occhi!

Il futuro è tutto nostro, dice in ogni momento. Seduti con/per/après Adriano.

Francesco, Edoardo e Marco si incontrano al DAMS di Roma Tre, dove tra una sco­perta cinematografica ed una audiovisuale, imparavano a conoscersi. Nell’intimità di un’amicizia senza tempo, i tre cominciano a sperimentare nel senso più puro, scri­vendo, dirigendo e montando cortometraggi e mediometraggi che archiviano nel contenitore dell’Associazione soQQuadra, scrivono e dirigono la resistenza della sto­rica rivista di critica cinematografica “Filmcritica†e lavorano (nel senso dei cine-ope­rai) in collaborazione con alcuni programmi televisivi. Oggi, insieme a Scrigno Production, sono in produzione i loro due primi lungometraggi. (dal catalogo della Mostra del Nuovo Cinema, 2025)

 

Venerdì 27 giugno dalle 1.40 alle 6.00

UIRÃ, VIAGGIO DI UN INDIO NELLA TERRA DEI MORTI

a cura di Simona Fina

Nel 1970 la Rai coproduce una serie composta da sei lungometraggi, L’America Latina vista dai suoi registi, affidando a sei cineasti latinoamericani di rilievo l’incarico di offrire uno sguardo sul loro paese. All’ideazione e alla realizzazione di questo programma collabora Bruno Torri, cofondatore, assieme a Lino Miccichè, della “Mostra Internazionale del Nuovo Cinema†di Pesaro.

Un progetto che ben rappresenta la storia dei rapporti tra il cinema internazionale e la Rai, nonché la grande lungimiranza del servizio pubblico e la capacità di osservare e considerare il contesto storico oltre il presente. Sei registi latinoamericani esprimono il loro punto di vista in un momento politico in cui nei loro paesi di origine si verificano frequenti colpi di stato che portano al potere capi militari e violente dittature. Il cinema latinoamericano, tenendo conto di tutte le differenze, è un cinema politico, mosso dal desiderio di rivoluzione, di rovesciamento dello stato delle cose, antagonista al cinema colonialista nordamericano, ma anche a tanto cinema europeo. L’’estetica della fame’ si espande attraverso il continente latinoamericano. La macchina da presa è uno strumento e si fa portavoce di realtà e conoscenza. Il Brasile è rappresentato da Gustavo Dahl (Uirá, um índio em busca de Deus, 1972) e Joaquim Pedro de Andrade (Os confidetes, 1972), il Cile da Raúl Ruiz (Nadie dijo nada, 1971), la Bolivia da Jorge Sanjinés (El coraje del pueblo, 1971), e l’Argentina da Octavio Getino (El Familiar, 1972) e Mario Sábato (Los Golpes Bajos, 1972).

Questi sei film sono stati trasmessi dalla Rai un’unica volta, a eccezione del film di Dahl e di Ruiz, quest’ultimo più volte programmato da Fuori Orario, che nel 2007 ha proposto il restauro della versione integrale al CPTV di Roma. Quest’anno Fuori Orario presenta, in collaborazione con Teche – Digitalizzazione, Supporti e Preservazione di Torino, il restauro del film di Gustavo Dahl, a partire dal negativo 16mm a colori, unico superstite. La versione restaurata presenta venti minuti in più rispetto all’edizione televisiva in bianco e nero trasmessa da Rai Due nel 1973, ed è stata comparata con la copia 35mm della Cinemateca Brasileira.

Fuori Orario ha seguito il restauro digitale e ha curato l’edizione dei sottotitoli in italiano.

UIRÃ, UM ÃNDIO EM BUSCA DE DEUS

(T.l. Uirá, un indio alla ricerca di Dio, Brasile/Italia, 1972, col., dur., 86’, v.o. in portoghese e tupi con sott. in it.)

Regia: Gustavo Dahl

Con: Ana Maria Magalhães, Erico Vidal, João Borges, Anazilda, Capitão João, Gustavo Dahl

Interiore del Maranhão (nord est del Brasile), 1939. Dopo la morte del figlio maggiore, vittima di una malattia trasmessa dai bianchi, l’indio Uirá, capo della tribù Urubù, viene colto da una profonda depressione e decide di partire con il resto della famiglia alla ricerca del Dio Maíra, divinità creatrice del mondo degli uomini, alla quale si ricongiungono solo i bravi guerrieri della foresta dopo la morte. Ma Uirá incontrerà qualcosa di più spaventoso, la ‘civilizzazione’ del Brasile dello Estado Novo.

La sceneggiatura di Dahl si basa su una storia vera, avvenuta negli anni’30 e descritta nell’indagine antropologica compiuta nel 1951 da Darcy Ribeiro nello stato del Maranhão, Uirá va incontro a Maíra. Le esperienze di un indio partito alla ricerca di Dio.

“Il movente del film è portare lo spettatore cittadino, bianco, occidentale, a sentire sulla propria pelle, attraverso il processo di identificazione cinematografica, le aggressioni compiute nei confronti degli indigeni. Il film vuole comunicare allo spettatore che qualsiasi persona può trovarsi in quella situazione. Durante la preparazione di Uirá ho pensato spesso a Tabu di Murnau.

Vedere un protagonista nativo che interpreta il personaggio principale avrebbe portato lo spettatore a osservarlo come uno straniero, qualcuno che non appartiene alla nostra nazione, al nostro gruppo culturale. Questo tipo di reazione non mi interessava, la mia intenzione era quella di suscitare delle emozioni, l’approccio intellettuale non mi importava. Ho optato per un film narrativo, per un ‘trattamento’ classico della storia, piuttosto che realizzare un documentario antropologico. In questo modo ho permesso allo spettatore di identificarsi con il personaggio, eludendo una percezione astratta del problemaâ€. (Gustavo Dahl)

Dahl realizza il suo film in un momento in cui la censura in Brasile è molto rigida e il controllo sull’informazione è totale e volto a restituire un’immagine del paese ‘ordinata’, ‘sicura’ e volta al ‘progresso’ (il motto ‘Ordem e progresso’ riportato sulla bandiera nazionale). Lo sguardo di Dahl sul Brasile si posa su una questione secolare e ancora oggi estremamente attuale, il rapporto tra i colonizzatori ‘bianchi’ e gli indigeni brasiliani. Se Darcy Ribeiro, uno dei più importanti antropologi brasiliani, intellettuale fine e poliedrico, vide nella mescolanza delle razze l’elemento che distingue il Brasile e definisce il ruolo storico dei brasiliani, prototipo del terzo mondo e quindi di un terzo uomo, non si esime dal condannare la violenza morale e culturale nei confronti degli indigeni. Attraverso la storia dell’indigeno Uirá, Dahl dà voce agli indigeni di tutti i secoli passati e futuri. Mettere in scena questo frammento di storia brasiliana vuol dire mettere in discussione la violenza civilizzata, quella del più forte sul più debole. Il film inizia e termina con un lutto.

Uirá è prima di tutto una tragedia; il suo viaggio alla ricerca del Dio Maíra non è dettato da un desiderio di purificazione, ma è segnato dalla disperazione, dalla rabbia e dalla depressione per la perdita di un figlio ucciso dalla malattia dei bianchi. Circa un terzo della popolazione Urubù è morta di epidemie nei primi venticinque anni di contatto con i non indigeni e Uirá sembra farsi carico di questo peso. Non mostra segni di rivolta contro i bianchi, non pesca, non caccia, quasi non parla.

Il suo è un dramma intimo, l’incontro con Maíra è un’ossessione mistica, la corsa verso il mare il rifiuto dell’integrazione sociale con il più forte, ma al tempo stesso segna la rottura con il suo mondo. Dopo un lungo e tormentato viaggio Uirá si rifiuterà di tornare tra gli abitanti della foresta e troverà pace nella morte e nel ricongiungimento con Maíra. Così la macchina da presa assiste immobile all’immersione di Uirá nel fiume Pindaré, osservandolo da lontano. È l’immagine di una cultura alla deriva. Il film di Dahl è un atto d’amore e rappresenta una tappa obbligatoria nella storia del cinema brasiliano che affronta questa tematica.

KATAI RACCONTA – CONVERSAZIONE CON ANA MARIA MAGALHÃES

(Italia, 2025, col., dur., 30’ca, v.o. con sott., in it.)

a cura di: Simona Fina

Ana Maria Magalhães ricorda aneddoti legati alle riprese del film.

Il suo personaggio (Katai, moglie di Uirá), rappresenta una sorta di coscienza superiore all’interno del film. Il regista ricorre alla narrazione off di Katai per raccontare a posteriori la storia di Uirá e della sua famiglia. Katai, contrappunto di Uirá, è un personaggio attivo, vitale: piange e ride, mentre Uirá resterà chiuso nel suo dramma interiore.

RICORDI DALLA FORESTA – CONVERSAZIONE CON MARA CHAVES E ALTAN

(Italia, 2025, col., dur., 30’ circa)

a cura di: Simona Fina

Negli anni’60 molti cineasti brasiliani sono esuli in Italia, dove stabiliscono rapporti importanti con cineasti e intellettuali del nostro paese. Una questione di affinità elettive lega il Brasile all’Italia, dando vita a un sodalizio cinematografico importante per entrambi i paesi.

Altan parte per il Brasile verso la fine degli anni’60 e partecipa a importanti coproduzioni Rai.

Tra le più importanti si ricordano Tatu Bola (1972), film sperimentale per la TV, realizzato da un collettivo di registi brasiliani, tra cui Glauber Rocha; Tropici (1968) di Gianni Amico e Uirá (1973), di Gustavo Dahl.  Sul set di Tatu Bola Altan incontra Mara Chaves, costumista importante nel cinema brasiliano di quegli anni. Per il film di Dahl, Mara Chaves, maestra nell’arte delle decorazioni con le piume, realizza gli ornamenti degli indigeni, basandosi su foto e documenti antropologici. Insieme ricordano la preparazione di Uirá.

 

Sabato 28 giugno dalle 2.00 alle 6.30

OTTO ORE NON SONO UN GIORNO

Episodio 1: Jochen e Marion, 102′

Episodio 2: Nonna  e Gregor, 100’

Episodio 3: Franz e Ernst, 93′

(Acht Stunden sind kein Tag, Germania,  1972-1973, col., dur., totale 295’30’’, v. o. sott., it.)

Regia: Rainer Werner Fassbinder

Con: Gottfried John, Hanna Schygulla, Luise Ulrich, Werner Finck, Anita Bücher, Wolfried Lier, Christine Oesterlein, Renate Roland, Kurt Raab, Irm Hermann, Margit Carstensen, Ulli Lommel, Eva Mattes

La serie Otto ore non sono un giorno, prodotta dalla Westdeutscher Rundfunk e andata in onda tra il 1972 e il 1973, ha fatto la storia della televisione tedesca. Il tentativo di Fassbinder di reinterpretare  un genere popolare come la serie fu un grande successo di pubblico. Dimenticate per decenni,  le 5 puntate sono diventate di nuovo disponibili dopo il restauro promosso dalla Rainer Werner Fassbinder Foundation  con la collaborazione  del Museum of Modern Art di New York. Si tratta della grande riscoperta di una delle opere più originali del geniale regista tedesco, di cui Fuori Orario aveva presentato in passato l’altra grande produzione televisiva, Berlin Alexanderplatz.

La versione restaurata è stata presentata in prima mondiale al Festival di Berlino del 2017.

Le vicende della famiglia Kruger scorrono in parallelo con le traversie lavorative dei suoi singoli membri, in particolare quelle di Jochen, operaio meccanico in una fabbrica. Le storie d’amore di diversi personaggi nascono, crescono e muoiono nel corso della serie intrecciandosi alle relazioni che si stabiliscono tra gli operai e i padroni nelle fabbriche. Lo svolgersi della vita quotidiana si apre alla discussione delle questioni sociali più acute: i trasporti pubblici gratuiti, l’alto prezzo degli affitti, la cogestione dell’impresa, la solidarietà tra gli operai, l’educazione autoritaria, la carenza di asili, i pregiudizi nei confronti degli immigrati, il doppio fardello lavorativo delle donne … Fassbinder intendeva creare un’alternativa non solo al “mondo perfetto†delle finzioni televisive ma anche al genere dei documentari politici.

Il film è il frutto di un anno di ricerca nelle fabbriche e di discussione coi lavoratori e si avvale della partecipazione di molti degli attori e dei collaboratori abituali del regista.. La serie fu un successo di pubblico ma fu  aspramente criticata non solo  dai critici conservatori ma anche  da quelli di sinistra, che rimproveravano al regista di non aver considerato  il ruolo del sindacato. La serie era prevista  in otto episodi ma malgrado il successo Günther Rohrbach,  direttore della programmazione della Rete, lo interruppe dopo il quinto episodio.

Dichiarò Fassbinder: “Tutti i film e i drammi che ho scritto erano indirizzati a un pubblico intellettuale. Nei confronti di questo si può benissimo essere pessimisti e lasciare che un film si concluda nell’impotenza. Un intellettuale è libero di lavorare sul problema con i suoi strumenti culturali. Nel caso del pubblico più largo, che era quello della mia serie televisiva, sarebbe stato reazionario e pressoché criminale dare un’immagine disperata del mondo. Il primo compito è di tentare di renderli più forti dicendo loro: ‘Voi avete ancora delle possibilità: Voi potete fare uso della vostra potenza, perché l’oppressore dipende da voi. Che cosa è un padrone senza operai? Nulla. Ma si può senza dubbio pensare a un operaio senza padrone’. E se io ho fatto qualcosa che per la prima volta lascia la speranza, è stato fondamentalmente a partire da questa idea. E non si ha diritto di fare altrimenti con un pubblico di venticinque milioni di persone medieâ€.

L'articolo La programmazione di Fuori Orario dal 15 al 21 giugno proviene da SentieriSelvaggi.


Data articolo: Sun, 15 Jun 2025 08:45:14 +0000

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