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#film #cinema #recensioni #sentieriselvaggi.it
La rassegna riporta in sala alcuni dei titoli più rappresentativi del regista americano recentemente scomparso. Si parte con Cuore selvaggio dal 12 al 14 maggio
L'articolo The Big Dreamer, David Lynch torna al cinema proviene da SentieriSelvaggi.
Con Cuore selvaggio in sala dal 12 al 14 maggio, parte The Big Dreamer, la rassegna ideata da Lucky Red e Cineteca di Bologna che riporta al cinema alcuni dei titoli più rappresentativi di David Lynch. Si comincia con l’opera che nel 1990 ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes, in un ideale omaggio che coincide con la 77ª edizione della kermesse francese. Il viaggio prosegue a fine mese con Eraserhead, primo lungometraggio del regista, in programma dal 26 al 28 maggio insieme al documentario-intervista First Image di Pierre-Henri Gibert, che ne racconta la genesi. A seguire, dal 16 al 18 giugno, sarà la volta di uno dei suoi titoli più famosi, The Elephant Man.
Tre film che messi uno dopo l’altro disegnano un pezzo dell’universo cinematografico di Lynch: l’asfalto bollente di Cuore selvaggio, le visioni cosmiche e industriali di Eraserhead, il bianco e nero struggente di The Elephant Man. Un trittico che apre la rassegna e che oggi suona anche come un’occasione per ricordare il regista, scomparso lo scorso 16 gennaio. Rivedere questi film in sala significa tornare a confrontarsi con quell’inconscio cinematografico che è stato il suo cinema.
La rassegna proseguirà poi in autunno con altri titoli fondamentali dell’opera lynchiana. Si riparte con Velluto blu, in sala dal 15 al 17 settembre, per poi proseguire in ottobre con Fuoco cammina con me e Strade perdute. A novembre toccherà a Una storia vera e Mulholland Drive, mentre la chiusura è prevista per gennaio 2026 con Inland Empire. Ad affiancare le proiezioni, anche materiali speciali come i Missing Pieces di Twin Peaks, oltre alla già citata intervista realizzata nel 2018 da Gibert per la serie L’image originelle.
Qui il trailer della rassegna
L'articolo The Big Dreamer, David Lynch torna al cinema proviene da SentieriSelvaggi.
Tra i nuovi film in sala di questa settimana ci sono Thunderbolts*, Black Bag. Doppio gioco, Ritrovarsi a Tokyo, Ho visto un Re, Storia di una notte e La solitudine dei non amati
L'articolo I film in sala della settimana (28 aprile-1 maggio) proviene da SentieriSelvaggi.
Le novità al cinema da lunedì a domani. Il nostro film della settimana è Black Bag. doppio gioco.
28 aprile
April, Come She Will – Giappone 2024 – 108′ – (la recensione) – 2.5/5 (Daniele D’Orsi)
30 aprile
Black Bag. Doppio gioco – USA 2024 – 93′ – (la recensione) – 4/5 (Carlo Valeri)
Ho visto un Re – Italia 2025 – 100′ – (la recensione) – 1.5/5 (Matteo Pasini)
Ritrovarsi a Tokyo – Belgio, Francia, Giappone, USA, 2024 – 98′ – (la recensione) – 2.7/5 (Giorgio Amadori)
La solitudine dei non amati – Norvegia 2024 – 100′ – (la recensione) – 3/5 (Alessio Baronci)
Storia di una notte – Italia 2024 – 100′ – (la recensione) – 2.7/5 (Pompeo Angelucci)
Thunderbolts* – USA 2025 – 126′ – (la recensione) – 3.5/5 (Emanuele Di Porto)
1 maggio
Il bacio della cavalletta – Germania, Lussemburgo, Italia 2025 – 128′ – (la recensione)
L'articolo I film in sala della settimana (28 aprile-1 maggio) proviene da SentieriSelvaggi.
La manifestazione, in programma a Trieste dal 28 giugno al 5 luglio, annuncia “Italia in ShorTSâ€, “ShorTS Expressâ€Â e “Eco-ShorTS†dedicati al Made in Italy, al cinema cortissimo e all'ambiente
L'articolo ShorTS IFF 2025. Tre nuove categorie proviene da SentieriSelvaggi.
Lo ShorTS IFF, in programma a Trieste dal 28 giugno al 5 luglio 2025, completa il palinsesto dei concorsi della sua 26a edizione e, alle sezioni già annunciate, aggiunge “Italia in ShorTSâ€, “ShorTS Express†e “Eco-ShorTSâ€.
In “Italia in ShorTS†saranno presentati 10 corti italiani che spaziano dall’animazione al documentario, tra questi, anteprime mondiali e italiane come Dietro la rezza di Arianna Cavallo ambientato a San Vito dei Normanni nella metà degli anni ’50, Sole spento tutto ok di Luca Sorgato e Movie & Sound di Daniel Contaldo. Le opere presentate saranno valutate dal pubblico per la vincita del Premio Bazzara Caffè e per il Premio AMC (Associazione Montaggio Cinematografico e Televisivo).
Spazio in questa edizione anche per la tematica ambientale con “Eco-ShorTS”. 8 i lavori che saranno presentati in questa categoria provenienti da diversi angoli geografici che permettono di raccontare con variegate prospettive narrative cosa significa oggi pensare, vivere, immaginare concetti ecologici, e che vanno dalla finzione al mockumentary, toccando anche lo sperimentale. Lo ShorTS IFF presenterà Translocations di Nick Jordan in anteprima mondiale ma anche Hilda Ha. Off the Grid dall’Estonia di Eva Kübar e L’uccello imbroglione firmato da un giovane autore triestino, Davide Salucci.
L’ultima sezione, invece, è dedicata al cinema definito “corto e cortissimo” con 21 prodotti dalla durata inferiore ai cinque minuti. Dal Brasile alla Romania, passando per Polonia, Italia e Paesi Bassi, questi “cortissimi” si esprimono attraverso il genere sperimentale, l’animazione, fino al documentario musicale. Si segnala, inoltre,  l’anteprima internazionale del canadese Madah8do al8miwi nia (The Monster in Me) di Kim Arseneault.
Oltre ai premi legati alle varie sezioni, infine, tutti i cortometraggi presentati in anteprima italiana allo ShorTS IFF sono in gara per il Premio MYmovies.it votato dagli spettatori online. Per tutte le altre info, qui il sito ufficiale del Trieste ShorTS.
L'articolo ShorTS IFF 2025. Tre nuove categorie proviene da SentieriSelvaggi.
La protagonista di Russian Doll collabora con il pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier e il co-creatore di The OA per esordire con un film basato su modelli di intelligenza artificiale
L'articolo Uncanny Valley: il film con l’IA diretto da Natasha Lyonne proviene da SentieriSelvaggi.
Natasha Lyonne, protagonista di numerose serie come Russian Doll e Poker Face, sta lavorando ad un nuovo progetto con l’intelligenza artificiale. Nonostante sia un territorio poco esplorato dai suoi colleghi di Hollywood, l’attrice e sceneggiatrice preferisce toccare con mano le potenzialità del nuovo mezzo e sperimentare l’IA generativa. Al suo fianco ci sono il tecnologo e pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier e il co-creatore di The OA Brit Marling, i quali contribuiranno a produrre un film di fantascienza con elementi generati da IA. Il film, dal titolo Uncanny Valley, è supportato da Asteria, ossia il nuovo studio basato sull’intelligenza artificiale generativa fondato da Lyonne e dal regista Bryn Mooser.
Come riporta The Hollywood Reporter, l’intera impresa si baserà sull’IA di Moonvalley, partner di Asteria, che utilizzerà un modello chiamato “Marey†basato esclusivamente su dati protetti da copyright, a differenza di altri sistemi come Runway e OpenAI. Uncanny Valley racconterà la storia di un’adolescente travolta da un popolarissimo videogioco di realtà aumentata in una realtà parallela e unirà elementi tipici del live action, con componenti del videogioco.
Al momento non si hanno notizie sulla data di uscita del film e soprattutto sulla tipologia di distribuzione; se arriverà direttamente in sala o sarà protagonista delle piattaforme streaming. Sebbene l’intelligenza artificiale sia già stata sfruttata per colmare delle lacune in fase di post-produzione e velocizzare il lavoro, integrarla propriamente nella narrazione del film è un passo importante che quasi nessun grande nome ha per ora compiuto. Invece Natasha Lyonne, grazie ad Asteria, sceglie di sperimentare nuovi modelli narrativi e linguistici con l’IA per esordire come regista.
Questo progetto permette a Lyonne di spingersi oltre con la creatività di Russian Doll, un’opera composta da loop temporali, mentre Marling continua a sviluppare realtà mutevoli in The OA. La loro collaborazione è raccontata dall’attrice un po’ come se “Dianne Wiest e Diane Keaton, al loro meglio, avessero deciso di intraprendere un viaggio attraverso Matrix per puro divertimento, per poi ritrovarsi a reggere in mano un progetto architettonico”. Poi ha definito Lanier “un vero e proprio erudito, un eroe personale dalla profonda cultura filosofica e un personaggio singolare e saggio destinato a durare nel tempoâ€.Â
Uncanny Valley potrebbe dare una prima risposta alle tante domande riguardanti l’intelligenza artificiale: sarà davvero in grado di ampliare gli orizzonti creativi cinematografici o automatizzerà le scelte stilistiche, riducendo all’osso la personalizzazione autoriale e “annacquando†la potenza espressiva?
L'articolo Uncanny Valley: il film con l’IA diretto da Natasha Lyonne proviene da SentieriSelvaggi.
Dopo la serie tv negli anni '80 e l'adattamento di Michael Mann nel 2006, i detective Crockett e Tubbs tornano tra le strade di Miami con un film diretto dal regista di Top Gun: Maverick
L'articolo Miami Vice sta per tornare con Joseph Kosinski alla regia proviene da SentieriSelvaggi.
Una delle serie più influenti della storia della televisione e che ha già avuto un adattamento cinematografico da Michael Mann sta per tornare al cinema. Questa volta sarà Joseph Kosinski, regista di Top Gun: Maverick, a riportare sullo schermo Miami Vice. Il regista che fu notato da David Fincher agli inizi della carriera nella CGI e che quest’estate è atteso con il nuovo film F1, si avvarrà di una sceneggiatura scritta da Dan Gilroy, scrittore e regista di Lo Sciacallo – Nightcrawler. Nessuna notizia ancora su chi vestirà i panni dei due celebri protagonisti della serie originale. I detective Crockett e Tubbs erano interpretati ai tempi da Don Johnson e Philip Michael Thomas.
Miami Vice è stata una serie tv spartiacque, creata da Anthony Yerkovich con l’attenta produzione di Michael Mann. Un poliziesco ambientato in una Miami pericolosa, tra traffico di droga e altri crimini, dove i due detective agivano sotto copertura. Dagli abiti indossati alle auto guidate, nonché la colonna sonora piena synth e i colori pastello della Miami anni ’80. Tutto questo ha generato una moda che ancora oggi produce degli echi, come la vaporwave ad esempio. Nonostante fu un flop nelle prime settimane di messa in onda, la serie è comunque riuscita a diventare la più vista negli USA gli anni a seguire. I due attori protagonisti infatti, dacché ai tempi sconosciuti, sono diventati delle vere e proprie star.
Nel 2006 è stato proprio Michael Mann a dirigere l’adattamento cinematografico della serie, con Colin Farrell e Jamie Foxx come protagonisti. Nonostante il film fu un successo al botteghino, non è stato apprezzato dai fan al pari della serie. Lo stesso Farrell in seguito non ne parlò bene, dicendo che il film era “stile al di sopra della sostanza”. Ora, anche se dopo quasi vent’anni dal film di Michael Mann, l’annuncio di un nuovo adattamento di Miami Vice pare comunque scuotere la curiosità del pubblico.
Ma riuscirà Joseph Kosinski a ridare lustro a Miami Vice? Il regista in questione ha già avuto tra le mani patate bollenti, dal seguito di Tron a quello di Top Gun. Una situazione per niente nuova appunto, che dà inoltre la possibilità di un rilancio della serie cult. Agli occhi delle nuove generazioni il lascito di questa serie è già arrivato, attraverso vie parallele come videogiochi, GTA Vice City su tutti, e citazioni in altri film, anche quelli che non ti aspetti come Shrek 2. Nel 2022 poi è arrivata Tokyo Vice, serie tv slegata da Miami Vice ma che ne riprende toni e mood.
L'articolo Miami Vice sta per tornare con Joseph Kosinski alla regia proviene da SentieriSelvaggi.
Si svolge in uno spazio mentale in cui l’indulgenza verso le colpe degli altri conta molto più dell'azione. C'è lo strascico di sfumature indie, tuttavia il risultato finale è affascinante.
L'articolo Thunderbolts*, di Jake Schreier proviene da SentieriSelvaggi.
La parabola discendente del MCU è una percezione così diffusa all’interno di Hollywood da aver ribaltato l’hype riguardo al fitto calendario delle sue uscite. Qualche anno fa, la prossima distribuzione estiva di The Fantastic Four: First Steps (2025) sarebbe stata accompagnata da aspettative piene di febbrile curiosità . Ora, l’attesa viene scandita da una disillusione preventiva, tanto che il ripescaggio di Robert Downey jr. come supervillain è stato accolto come una mossa disperata. Il de profundis di Kevin Feige è stato profetizzato diverse volte ma il plenipotenziario del più colossale progetto produttivo della storia del cinema non ha ancora intenzione di mollare. L’arrivo della banda di Mr. Fantastic doveva essere la sua ultima chance, ma forse la sua fortuna ha anticipato un ulteriore rovescio.
Thunderbolts* è arrivato in sala lontano dai riflettori, con una promozione che è stata attenta a non distogliere attenzioni dal grande appuntamento del week-end dell’Independence Day. Un trattamento in totale sintonia con la natura dei personaggi che il film ha messo in campo. L’ensemble è composto dagli scarti e dai sidekick più o meno fortunati del MCU, senza un nome veramente attrattivo su cui puntare. Florence Pugh e David Harbour si erano visti come comprimari in Black Widow (2021), Wyatt Russell aveva preso il siero del supersoldato in The Falcon and the Winter Soldier (2021) e Sebastian Stan ha attraversato quasi tutte le fasi precedenti da avenger senza portafoglio. Hannah John-Kamen non si vedeva addirittura da Ant-Man & the Wasp (2018) e anche allora non era rimasta impressa nella memoria.
Thunderbolts* assomiglia alla discarica del multiverso in cui si ritrovavano Wolverine e Deadpool appena qualche mese fa, dove Chris Evans è la Torcia Umana e Jennifer Garner è Elektra. Se non fosse che questi reietti sono ancora operativi e uccidono i propri simili per mestiere. Un lavoro sporco per conto di Valentina De Fontaine, che ha scalato le posizioni fino ad arrivare a capo della CIA. L’imbolsito Red Guardian è l’unico messo a riposo, seppure contro la sua volontà . La sua nuova vita gli sta stretta come il suo costume e passa il tempo libero davanti ad una televisione a tubo catodico, a guardare le VHS di quando era la versione sovietica di Captain America. Non è un caso che il primo ad interessarsi ad un possibile film su tutti loro sia stato James Gunn. La somiglianza con famiglia disfunzionale della trilogia di The Guardians of the Galaxy è evidente.
Il vendicatore con la stella rossa ha quel tocco grottesco e retrò che si sarebbe sposato perfettamente con il suo umorismo. La malinconia, il sarcasmo e l’indolenza di Bucky Barnes lo avrebbero reso uno Starlord molto promettente. Tuttavia, il trattamento del cineasta avrebbe sminuito il vero protagonista del film. Florence Plugh è la sorellastra di Black Widow ed entrambe sono cresciute nella spietata accademia che formava le spie d’oltrecortina. La sua voce over introduce i tratti fondamentali della sua personalità in una sintesi brillante ed efficace. Il sicario racconta la sua assenza di passato, il desiderio di dimenticare i traumi della sua formazione e il dolore per la morte dell’unico affetto che aveva reso sopportabile la sua infanzia. Un senso di vuoto emotivo che colpisce lo spettatore senza indebolire un’accattivante forma di autoironia. Infatti, la sua confessione è rivolta ad un uomo imbavagliato che sta per essere ucciso controvoglia.
La sceneggiatura di Eric Pearson e di Joanna Calo sembra un indizio di una nuova virata di Kevin Feige. Il primo è un habitué degli script del MCU mentre la seconda ha bazzicato a lungo le serie e i film della A24, così come il regista Jake Schreier. Forse, il blend è una combinazione involontaria e non è lo strascico di un’astuta cooptazione di sfumature indie. Tuttavia, il risultato finale è affascinante ed affronta con successo la sfida di un rinnovamento che ancora non si è mai compiuto del tutto. Del resto, il personaggio di Valentina De Fontaine ha un raro momento di sincerità quando si chiede chi salverà la Terra ora che gli Avengers non ci sono più. Per estensione, sono anni che ci si domanda chi terrà in piedi la baracca ora che gli eroi che vivevano di luce propria sono andati in pensione.
Thunderbolts* ha capito che la formula segreta del MCU non contava solo sul carisma pregresso della sua generazione migliore di personaggi. Il format funzionava soprattutto per il legame emotivo che si era stabilito tra di loro e il pubblico. Infatti, l’empatia con le loro storie di sofferenza riabilita persino dei creep odiosi come U.S. Agent. Il film ricostruisce alla lettera le stanze della vergogna in cui si sono formati i loro sensi di colpa. Quindi, la storia si sposta nello spazio mentale del loro isolamento. Lo spettatore rivive la scena del danno indelebile che lo ha prodotto. Così, l’impresa di questi nuovi antieroi non è salvare di nuovo New York con un’impresa ma attraverso l’indulgenza e la comprensione verso gli altri.
Titolo originale: id.
Regia: Jake Schreier
Interpreti: Florence Pugh, David Harbour, Sebastian Stan, Wyatt Russell, Hannah John-Kamen, Olga Kurylenko, Julia Louis-Dreyfus, Lewis Pullman, Geraldine Viswanathan
Distribuzione: The Walt Disney Company Italia
Durata: 126’
Origine: USA, 2025
L'articolo Thunderbolts*, di Jake Schreier proviene da SentieriSelvaggi.
Un racconto di formazione sulla rinascita di una donna in cui si intuiscono coraggio e desiderio di lavorare con le immagini, ma anche un controllo che impedisce alla storia di esprimersi pienamente
L'articolo La solitudine dei non amati, di Lilja Ingolfsdottir proviene da SentieriSelvaggi.
Il cinema del Nord Europa ha spesso raccontato i rapporti interpersonali in modo nuovo, senza censure. In origine, negli anni ’60-’70 era una questione di sesso, di corpi, di carnalità , ora il focus si è spostato su questioni più esistenziali: l’identità , il contatto con l’altro, l’impatto con il caos esistenziale contemporaneo. Lo ha detto, chiaramente, la trilogia di Dag Johan Haugerud (Sex, Dreams, Love) ed è sulla stessa linea tracciata dal danese che si infila La solitudine dei non amati di Lilja Ingolsfsdottir e che evidentemente fa suoi gli stessi toni, lo stesso approccio indagatorio sulla condizione della coppia.
A cambiare semmai è il punto di vista: al centro del racconto c’è infatti Maria, quarantenne divorziata con figli sovrastata da una quotidianità di cui non riesce più a tenere il ritmo e trascurata dal nuovo compagno, si confronta con una rabbia silenziosa. Quando il rapporto con il compagno arriva ad un punto di rottura è costretta a fare i conti con i suoi fantasmi e, soprattutto, con un percorso di cura che la porterà a riscoprire sé stessa.
La solitudine dei non amati ha un passo tutto suo. Prende l’elemento dell’analisi psicologica, già centrale nella narrazione e lo mette a sistema, lo considera quasi un dispositivo scenico con cui gestire i tempi di un racconto di formazione costantemente guidato dalle parole, dai gesti della protagonista, dalle sue crisi, dai confronti accesi tra Maria, i suoi figli, il suo ex compagno. Si tratta certo di un approccio discutibile, che ingabbia il film in una struttura tutto sommato rigida, sempre più in vista, sempre a rischio di risultare formulaica, puntellata di passaggi obbligati e che però trova comunque una misura in un racconto di una quotidianità fatta di piccole cose, piccoli gesti banali dove però si riesce sempre a cogliere una certa tensione, a intravedere un’idea di cinema, nei contesti più imprevisti in un inatteso scambio di battute, in un gesto improvviso di Maria oppure nel racconto di un ricordo evocato dal passato (come accade nel ritmatissimo prologo, forse il passaggio migliore del film).
Probabilmente il limite de La solitudine dei non amati è davvero quello di aderire con troppa convinzione al ruolo che si è affibbiato e dunque di muoversi come uno strumento di analisi e racconto della psicologia e della crescita di Maria rischiando però per questo di rimanere eccessivamente sulla soglia dell’azione. Forse avrebbe dovuto permettere alla sua protagonista, la brava Helga Guren di perdere il controllo, di far deragliare davvero un film che nell’accompagnarla pare comunque segnalarle dei confini da cui non poter mai davvero uscire, come a volerla proteggere dal dolore. Quando però Lilja Ingolfsdottir permette alla sua attrice di abbracciare davvero il caos qualcosa sembra scattare nei meccanismi del film e tutto, per un attimo, pare reggersi davvero. In quei momenti La solitudine dei non amati diventa in effetti un film stranissimo e a suo modo coraggioso, che in tempi di donne ostinatamente forti trova la strada per raccontare un personaggio fragile, ferito, forse capriccioso ma in via di guarigione e di farlo a suo modo, ancora, senza censure.
Si tratta, certo, di fiammate, illuminazioni che la regia spesso si affretta a contenere prima di perdere definitivamente il controllo. A sopravvivere, di quell’idea, di quel racconto caotico eppure vivo, c’è la consapevolezza di quanto il personaggio di Maria funzioni sempre meglio quando è a contatto con gli altri, quando permette agli altri di confrontarsi con la sua interiorità . Lì, in effetti, il film palpita malgrado il controllo di fondo, malgrado tutto sembri comunque parte di una terapia come a voler rieducare Maria a stare insieme all’alterità .
Titolo originale: Elskling
Regia: Lilja Ingolfsdottir
Interpreti: Helga Guren, Oddgeir Thune, Kyrre Haugen Sydness, Heidi Gjermundsen, Maja Tothammer-Hruza, Marte Magnusdotter Solem, Esrom Kidane, Aksel August Lenander-Lervik, Elisabeth Sand
Distribuzione: Wanted Cinema
Durata: 100′
Origine: Norvegia, 2024
L'articolo La solitudine dei non amati, di Lilja Ingolfsdottir proviene da SentieriSelvaggi.
Sulla scia di tanti mélo nipponici, cerca di replicare la struttura epistolare di un film-paradigma come Love Letter di Iwai. Ma ne rievoca le formule in maniera spesso arbitraria ed approssimativa
L'articolo April, Come She Will, di Tomokazu Yamada proviene da SentieriSelvaggi.
Quando si pensa alla cinematografia giapponese, e ad alcune tendenze che l’hanno attraversata nel corso degli ultimi 30 anni, c’è un film in particolare che tende ad emergere nei discorsi dei cultori e studiosi del cinema nipponico, per la capacità con cui ha stabilito una serie di convenzioni che avrebbero da quel momento tempestato innumerevoli produzioni locali, di natura specialmente mainstream: si sta parlando di Love Letter (1995). Il lungometraggio di debutto di Shunji Iwai, da sempre il cantore della melanconia e della purezza dei sentimenti generati dalla rievocazione di rapporti spezzati, ha imposto un vero e proprio paradigma, soprattutto per quel che riguarda la forma epistolare con cui ha rielaborato i codici del mélo nipponico, fondendola ad un deflagrante senso del meraviglioso, che avrebbe letteralmente cambiato le traiettorie (estetiche, narrative e tonali) del melodramma giapponese. Grazie al suo enorme successo, registrato anche in altri territori estremo-orientali (primo fra tutti in Corea del Sud, e Moonlit Winter è uno dei suoi tanti “cloniâ€) ha sublimato agli occhi dell’industria nazionale una nuova formula, un modo inedito – e popolare – di raccontare gli struggimenti del sentimento amoroso, rievocato attraverso il tepore dei ricordi, che sarebbe stato replicato – spesso in maniera superficiale – da un numero impressionante di opere. Ed è proprio in questo solco che vanno ricondotte le istanze di April Come She Will.
Il lungometraggio d’esordio di Tomokazu Yamada, adattato dall’omonimo romanzo di Genki Kawamura, non fa davvero nulla per nascondere la sua sorgente d’ispirazione: anzi, come tanti suoi omologhi, tratta l’opera prima di Iwai alla pari di un testo dogmatico, di cui seguire pedissequamente le coordinate, quasi indicassero – e legittimassero – la via da intraprendere per rievocare organicamente nel proprio racconto quel senso di alienazione alla base di ogni amore perduto, qui narrato secondo la ormai sdoganata formula del dramma epistolare. Il protagonista di April Come She Will, Shun Fujishiro (interpretato da Takeru Satoh, visto recentemente in Cells At Work!) sta attraversando una situazione apparentemente indecodificabile, a cui non riesce ad attribuire un senso logico: la sua promessa sposa, Yayoi (Masami Nagasawa) si è allontanata improvvisamente dalla loro abitazione senza alcun apparente motivo, nonostante in superficie non sembrassero esistere delle crisi o delle incomprensioni tra i due. All’uomo, un esperto psichiatra, non resta che trovare una spiegazione dietro l’evento, verificatosi – forse paradossalmente – a pochi giorni di distanza dall’arrivo di una lettera scritta dal suo amore giovanile Haru (la Nana Mori di Makanai) scomparsa dalla sua vita da una decina d’anni. Ed è da questo momento che Shun, come tutti i protagonisti dei drammi epistolari, inizia a rievocare i ricordi del passato, in modo da riempire di senso il “vuoto†che lo sta affliggendo.
A questo punto la memoria, con la sua forma così egualmente impalpabile ed emotivamente tangibile, diventa il terreno su cui il triangolo di protagonisti di April Come She Will inizia a riversare le proprie personali crisi e preoccupazioni, fino a “connettersi†metaforicamente l’uno con l’altro tramite l’esercizio del ricordo. E finché il film si concentra sul percorso di Shun, sui vacui rimuginamenti che affollano costantemente i suoi pensieri, e sul senso di deriva a cui sta qui andando incontro l’uomo (osservato alla stregua di un viandante cittadino senza direzione) il lungometraggio riesce a veicolare quel senso di alienazione che vorrebbe rendere così centrale nella storia che va raccontando. Ma emulare Iwai non è mai facile: perché il rischio di rendere tutto “astrattoâ€, e di non indagare in profondità il malessere emotivo che affligge i personaggi, è sempre dietro l’angolo. E come spesso capita ai “cloni†di Love Letter, anche in questo caso tutti i sentimenti evocati, e le turbe interiori di queste “anime desolateâ€, restano brutalmente in superficie: una sensazione esacerbata anche dalla difficoltà di Yamada di gestire il trittico di voci, al punto che per lunghi tratti alcuni dei protagonisti vengono completamente abbandonati dalla narrazione, per poi essere ripresi in maniera assolutamente arbitraria. L’ennesima dimostrazione di quanto lo stile dei grandi registi, per poter essere “replicatoâ€, debba andare incontro ad un necessario tradimento. E mai ad una mera emulazione.
Titolo originale: Shigatsu ni Nareba Kanojo wa
Regia: Tomokazu Yamada
Interpreti: Takeru Satoh, Masami Nagasawa, Nana Mori, Taiga Nakano, Ayumu Nakajima, Yuumi Kawai, Rie Tomosaka, Yutaka Takenouchi, Jun Hashimoto, Shingo Mizusawa, Jun Sena, Kaori Shima, Shoko Takada
Distribuzione: Adler Entertainment
Durata: 108′
Origine: Giappone, 2024
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Tratto da una storia vera, il film si muove a metà tra fiaba e commedia ma risulta un teatrino di marionette fiacco e vuoto, a cui manca la voglia di osare e di divertire
L'articolo Ho visto un re, di Giorgia Farina proviene da SentieriSelvaggi.
Nell’Italia fascista del 1936, fresca della vittoria in Etiopia, la quotidianità di un piccolo paese di provincia viene sconvolta dall’arrivo di un principe africano, Abraham Imirru (Gabriel Gougsa). Il Federale Trocca (Gaetano Bruno) ne affida la custodia al Podestà (Edoardo Pesce), che lo confina nella voliera del giardino della sua tenuta. Lì Abraham incontrerà Emilio (Marco Fiore), il figlio del Podestà , che non lo vede come un essere selvaggio e pericoloso, ma come Sandokan, l’eroe dei libri di cui è appassionato, e stringerà con lui un’amicizia che cambierà per sempre le loro vite.
A dispetto di questo incipit, quella di Ho visto un re è una storia vera, vissuta dal giornalista Guido Longobardi durante la sua infanzia. O perlomeno, ad essere vera è la premessa dell’arrivo del prigioniero, perché poi Giorgia Farina si prende le dovute libertà artistiche e trasforma il racconto a suo piacimento, mescolando fiaba e commedia in un film che vorrebbe lanciare messaggi universali ma finisce per diventare un teatrino di marionette fiacco e vuoto.
Ho visto un re infatti è, esattamente come uno dei suoi protagonisti, un film in gabbia, a partire dagli interpreti: con l’eccezione di Gaetano Bruno, che sveste i panni del Matteotti di M – Il figlio del secolo e trova una sua dimensione credibile come villain quasi fumettistico, il cast corale guidato da Edoardo Pesce e Sara Serraiocco non riesce mai a districarsi in una sceneggiatura fatta di tempi comici sbagliati e personaggi così macchiettistici da sfociare spesso nel ridicolo. Un effetto probabilmente voluto, vista l’atmosfera surreale che aleggia in ogni scena, che però priva di qualsiasi profondità una storia ricca, sulla carta, di spunti interessanti. In primis per l’ambientazione, che avrebbe potuto offrire uno sguardo sull’impatto delle politiche di Mussolini sull’Italia di provincia e la sua quotidianità , e poi perché la prospettiva è quella di un bambino che, nonostante il contesto in cui è cresciuto, vede comunque il mondo come dovrebbe essere.
Tutto questo nel film non emerge mai davvero, e anche quando prova a imbastire un accenno di satira o critica sociale, il risultato è goffo e si limita a sfiorare la superficie. Non basta, infatti, che i personaggi urlino (spesso a sproposito) parole “tabù” come “negro†e “frocio†per rendere un film, anche se per famiglie, provocatorio o anticonformista. Né basta per renderlo appetibile ad un pubblico giovane o giovanissimo.
Ho visto un re resta dunque un’opera rigida, a cui manca la voglia di osare, e alla fine fallisce anche nel suo scopo primario, cioè intrattenere e divertire. Non aiuta, oltretutto, che Farina sia ossessionata dalla ricerca dell’inquadratura perfetta, della simmetria perfetta, della prospettiva perfetta, aumentando ancora di più l’impressione di essere davanti a un prodotto preconfezionato, appena uscito dalla fabbrica, pulito, intonso, in un certo senso quasi inattaccabile. E quindi per nulla stimolante.
Titolo originale: id.
Regia: Giorgia Farina
Interpreti: Edoardo Pesce, Sara Serraiocco, Marco Fiore, Gabriel Gougsa, Blu Yoshimi, Giulio Forges Davanzati, Elisa Di Eusanio, Michelangelo Dalisi, Patrizio Francioni, Lino Musella, Gaetano Bruno
Distribuzione: Medusa Film
Durata: 100′
Origine: Italia 2025
L'articolo Ho visto un re, di Giorgia Farina proviene da SentieriSelvaggi.
Dietro il vestito del film di "genere", si cela un'opera che vede nella vita di coppia l'unico "mondo" rimasto da preservare. E se il film fosse lo Scene da un matrimonio del regista statunitense?
L'articolo Black Bag. Doppio gioco, di Steven Soderbergh proviene da SentieriSelvaggi.
“Per un attimo ho pensato che fossi umano†dice Clarissa (Marisa Abela) a George Woodhouse, un Michael Fassbender rigorosamente monogamo, faccia scultorea e sguardo impassibile dietro occhiali eleganti e geometrici. Lo stesso Freddie Smalls (Tom Burke) nella magnifica sequenza a montaggio alternato dell’interrogatorio al poligrafo risponde a Fassbender, giustificando una sua debolezza con un “Sono un essere umano!†Come se la questione dietro questa nuova collaborazione tra Steven Soderbergh e lo sceneggiatore David Koepp – la terza, dopo Kimi e l’ancora inedito Presence – fosse la lotta per sentirsi umani, per sopravvivere a una dimensione automatizzata. Tutti in Black Bag sembrano esibire questo scarto tra l’essere macchine e l’essere umani, tra una vita di menzogne e di dati da accumulare in modo compulsivo e automatizzato e l’imprevisto capace di far saltare la maschera e la rigida struttura, il momento di verità umana. George è il perno morale (o moralistico?) e scopico attorno a cui far ruotare questo piccolo e breve (95’) teorema antropologico, camuffato da film di “genere†(ma quale di preciso? spy story, meló, kammerspiel?) sofisticato, dialogatissimo e apparentemente gelido. E forse il George di Fassbender è una sorta di alter ego di Steven Soderbergh, nel suo tentativo di tenere gli elementi della sua indagine (e del film) sotto controllo, di smontarli e rimontarli in cerca di una soluzione, narrativa o cinematografica che sia – e ripetiamolo, Soderbergh anche stavolta cura regia, montaggio e fotografia.Â
E il plot? Fassbender, agente per i servizi segreti britannici, deve trovare un traditore e sperare che ciò non distrugga il suo matrimonio. A inizio film un informatore lo avverte che c’è una talpa tra i suoi colleghi e gli consegna una lista di cinque nomi, tra cui proprio quello di Kathryn (Cate Blanchett), sua moglie. Decide così di organizzare una cena per raccogliere indizi. E tutto il primo atto sembra una pièce teatrale con sei personaggi in cerca d’autore (in cosa credono? chi amano? quanto tradiscono? chi è la talpa? chi c’è dietro al software Severus?). Tre uomini e tre donne: tre coppie. Parlano di sé, della loro vita privata, del loro lavoro, come normali coppie borghesi, tra cene, confessioni o sedute psicoanalitiche, e tra di loro non a caso c’è anche la psicologa dell’MI6 interpretata da Naomie Harris. E così, al cospetto di ritmi dilatati orchestrati con precisione chirurgica dalle inquadrature e dagli ambienti eleganti tipicamente soderberghiani, a volte sembra di essere piombati nella versione aggiornata al XXI secolo di Sesso, bugie e videotape, scritto da un Tom Clancy cresciuto a pane e Nouvelle Vague. Ogni personaggio è lì, davanti alla macchina da presa di Soderbergh in full frontal, messo a nudo per depistare le indagini, per dire qualcosa di sè all’altro o forse per sentirsi umani all’interno di un meccanismo in cui il confine tra vita pubblica e vita privata, tra lavoro e vita sentimentale sono indiscernibili.Â
Black Bag è un film di spionaggio che in realtà parla della coppia contemporanea, stretta nella morsa lavoro/privacy. Fassbender & Blanchett devono trovare una via d’uscita nel groviglio di indizi e menzogne che possa salvare il Paese, ma soprattutto il loro matrimonio. Perché in Black Bag la vita di coppia diventa l’unico “mondo†rimasto da preservare. L’avamposto finale da proteggere davanti al caos post-ideologico e post-verità dei tempi contemporanei. Don’t ever fuck with my marriage again. E se Black Bag fosse lo Scene da un matrimonio di Steven Soderbergh?
Titolo originale: id.
Regia: Steven Soderbergh
Interpreti: Michael Fassbender, Cate Blanchett, Tom Burke, Marisa Abela, Naomie Harris, Regé-Jean Page, Pierce Brosnan, Gustaf Skarsgård, Kae Alexander, Orli Shuka, Daniel Dow, Bruce Mackinnon
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 93′
Origine: USA, 2024
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