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News recensioni film cinema da sentieriselvaggi.it

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Nacho Vigalondo
Daniela Forever, di Nacho Vigalondo

Nuova commedia sci-fi dell'autore spagnolo, che analizza le dinamiche di coppia fra realtĂ  e sogno, facendone terreno della sostanza del reale e dei sentimenti. Dal Bruxelles Fantastic Film Festival

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Che siano gli schermi in screencast di Open Windows o i mostri in stile kaiju di Colossal, il cinema di Nacho Vigalondo è sempre questione di trovare punti di connessione emotive e/o sentimentali fra i personaggi che racconta, attraverso chiavi d’accesso non convenzionali ai loro universi interiori. Così accade anche nel suo nuovo Daniela Forever, passato in concorso al BIFFF43, dove Nicolas trova in un farmaco sperimentale che dona il controllo sui sogni lo strumento in grado di fargli rivivere la vita insieme alla compagna Daniela, morta tragicamente in un incidente. La terapia in realtĂ  dovrebbe servire a una dinamica di auto-analisi che gli permetta per il tramite onirico di rivivere le fasi della sua vita che lo hanno portato al presente, ma Nicolas sfrutta volentieri (e in modo truffaldino) l’espediente per reimmergersi nella vita di coppia tanto rimpianta.

Con partecipazione e dolcezza, Vigalondo transita da un presupposto vagamente cronenberghiano a una trattazione da commedia dei sentimenti alla Michel Gondry, e imbastisce ancora una volta una storia sulle dinamiche di coppia. Nicolas ricrea così nel sogno il suo mondo ideale, anche a scapito della veritĂ  che pure quella dimensione onirica inizia lentamente a mettergli sotto gli occhi. I suoi tentativi di manipolare lo spazio innescano una dinamica di dominio, in cui l’uomo riforgia a piacimento un rapporto che pure presentava delle crepe. Tanto piĂą, insomma, Nicolas cerca di superare i rimpianti per vivere a fondo quel rapporto perduto, tanto piĂą se ne distanzia dalla reale sostanza scegliendo di privilegiare solo gli aspetti piĂą vicini a una “sua” visione idealistica. Lo sguardo di Vigalondo resta comunque empatico e non privo di una componente simpaticamente ludica nella messinscena: così come Nicolas reinventa il suo mondo, infatti, allo stesso modo il regista-demiurgo plasma un universo malleabile come una casa di bambole, in cui l’idealismo del protagonista si riflette in una realtĂ  poetico-fumettistica (ancora il riferimento a Gondry), minacciata però da inquietanti mura grigie che delimitano gli spazi ignoti della memoria e innescano una dinamica cromatica fra l’universo idilliaco e le sue zone oscure.

Nel contempo, Daniela Forever alterna una vita reale ritratta in formato standard analogico (con una visualitĂ  quasi da vecchia vhs) alla dimensione onirica che invece si presenta panoramica e in fullcolor: non per uno sfizio stilistico, ma perchĂ© in gioco c’è la percezione del reale, in cui un singolo rapporto, anche se in sogno, può rappresentare tutto il proprio mondo. La riflessione sulle dinamiche dei ruoli dalla coppia si allarga poi a tutto il complesso delle relazioni personali, quelle cercate, le altre evitate fino alle rimosse. Lentamente si dipana un sistema di interazioni che mentre contraddice la volontĂ  di Nicolas, ne mette in discussione anche il ruolo e conduce a un lirico finale. Il romance fantascientifico diventa così una patina sotto la quale si agitano i particolarismi di un universo maschile refrattario a seguire regole che non siano le proprie, anche (e soprattutto) quando si parla di sentimenti. Che però, per loro natura, seguono una veritĂ  destinata a emergere comunque e lasciare un’impressione di coinvolgente sensibilitĂ  tipica di un autore da non sottovalutare.

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Data articolo: Sat, 19 Apr 2025 15:08:57 +0000
Galder Gaztelu-Urrutia
Rich Flu, di Galder Gaztelu-Urrutia

Il regista di Il buco torna con un disaster movie critico verso lo scenario socio-economico mondiale, che ne dimostra la coerenza pur peccando di semplicazione. Dal Bruxelles Fantastic Film Festival

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Il punto di partenza è il cinema, che per Laura, rampante produttrice, potrebbe rappresentare una via d’accesso a un mondo vip in cui trovare quel benessere che la vita privata non sembra darle (c’è un divorzio con annessa causa di affidamento della figlia in atto). Il personaggio ci viene così introdotto mentre passa al vaglio varie idee per film da realizzare, sempre piĂą impegnati e provocatori, in una sorta di ideale risposta/prosecuzione alle audizioni di morettiana memoria (con riferimento alla scena cult di Il sol dell’avvenire ovviamente). Di fatto sembra anche un modo con cui il regista Galder Gaztelu-Urrutia ironizza sul destino del suo precedente Il buco, premiato in vari festival e poi finito a foraggiare la fame da what the fuck di Netflix. E il fatto che Laura di cognome faccia “Palmer” non può che ingrandire la vertigine dei riferimenti e metterci di fronte al fatto che la cinefilia di Gaztelu-Urrutia ha qualche ambizione in piĂą.

Subito dopo, infatti, Rich Flu prende una piega diversa, e ritorna ai temi della lotta di classe che giĂ  avevano animato il film precedente: introdotta nel “giro che conta”, Laura si ritrova così nell’epicentro di una crisi mondiale portata da una febbre che colpisce solo gli elementi piĂą facoltosi della societĂ , con annesso collasso del sistema economico. I ricchi sono perciò costretti alla fuga mentre le cittĂ  si paralizzano in un riverbero abbastanza dichiarato dell’era Covid, preludio solo ai successivi disastri fatti di rivolte e caos, perchĂ© il sospetto prevale non appena si manifestano i segni del male – con i denti che diventano brillanti, sublime ironia che rovescia le iconografie “vincenti” dallo yuppismo all’italica berlusconiana memoria.

Nel mettere in scena questa distopia economico-sociale, il regista spagnolo cerca ancora una volta elementi di trasversalitĂ , focalizzandosi su una protagonista abbastanza fuori posto rispetto al contesto in cui pure si è voluta inserire, alle prese con dinamiche tanto macroeconomiche, quanto profondamente umane e legate a famiglia e affetti. Una donna che ha imparato a fingere per lavoro e ora deve nascondersi dalla veritĂ  di un mondo che nel frattempo si è rovesciato. Il collasso sociale Gaztelu-Urrutia lo rappresenta con una messinscena di tipo soderberghiano (pensiamo a Contagion), che restituisca cioè il quadro generale attraverso prospettive “strette” sui personaggi e che affastellano vari punti di vista in un ritmo molto sostenuto, per dribblare le evidenti difficoltĂ  portate da un budget limitato – che è a sua volta un’altra contraddizione perfettamente dentro/fuori il gioco di veritĂ  e finzione del film, le grandi ambizioni e le piccole dinamiche commerciali.

In questo modo, la fuga di Laura diventa quasi un percorso a ritroso che la porterĂ  a diventare una migrante del mar Mediterraneo, segno di come le distopie del nostro tempo riconducano comunque a location e tragedie ben precise. Il quadro è articolato anche se l’insieme pecca inevitabilmente di qualche ingenuitĂ , complici le esemplificazioni portate dalla confezione da film catastrofico – i primi a morire sono regnanti, politici e papi perchĂ© iconograficamente piĂą incisivi nell’immaginario globale, sebbene poi di fatto restino abbastanza fuori dalla lente executive, multinazionali e agenti della borsa che piĂą di altri tirano le fila del mondo economico. In questo la metafora della piattaforma in Il buco rimane ancora piĂą forte e il film risulta piĂą interessante che realmente riuscito. Presentato in concorso alla 43ma edizione del Bruxelles Fantastic Film Festival.

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Data articolo: Sat, 19 Apr 2025 12:52:50 +0000
david hockney
Lo strano caso del manifesto di David Hockney

In occasione della mostra a lui dedicata presso la Fondazione Louis Vuitton a Parigi, è stata vietata l'affissione del poster perché ritrae lo stesso artista con una sigaretta in mano

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Parigi si prepara a celebrare l’intero percorso di uno dei più importanti artisti viventi, il britannico David Hockney. Dallo scorso 9 aprile infatti il palazzo della Fondazione Louis Vuitton di Bois de Boulogne ospita oltre 400 opere che racchiudono una carriera lunga 70 anni, durante i quali si è distinto non solo come pittore, ma anche come incisore, fotografo e scenografo teatrale. Per comprenderne la popolarità, basti pensare che il suo Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) nel 2018 è stato venduto all’asta per 90 milioni di dollari, cifra allora record per un artista vivente.

Sembra un atto dovuto da parte di una città che per diverso tempo è stata quasi una meta obbligata per ogni pittore e non solo. Eppure non a tutti sarà concesso di venire a conoscenza della mostra, dal momento che l’azienda dei trasporti della capitale francese ha deciso di vietare l’affissione dei manifesti che la pubblicizzano sulle metropolitane e nelle stazioni. La motivazione risiede nella fotografia del poster, che mostra David Hockney con una sigaretta accesa in mano, in quella che secondo il regolamento della metropolitana di Parigi sarebbe un’indiretta promozione al tabacco.

Il pittore non ha mai nascosto il proprio vizio, tanto che, digitando su google il suo nome, risulta difficile trovare foto in cui non abbia proprio una sigaretta tra le dita, quasi come fosse un surrogato del pennello. Il caso del manifesto pubblicitario in particolare però presenta un paradosso. David Hockney nel poster sta infatti sì reggendo una sigaretta, ma in questo caso si è di fronte ad una replica di Play within a Play within a Play and Me with a Cigarette, autoritratto che nella fotografia è presente sia alle sue spalle che sulle sue ginocchia e in cui l’artista sta effettivamente fumando. L’interpretazione che l’autorità amministrativa dà quindi al manifesto tradisce un’eccessiva intransigenza, soprattutto dopo aver spiegato come a causare il provvedimento sia solo la sigaretta che regge effettivamente in mano Hockney, mentre quella mostrata nel dipinto, in quanto opera d’arte, non è stata sottoposta ad alcuna censura.

David Hockney

 

Lo stesso artista, che oggi ha 87 anni, interpellato a tal proposito da The Indipendent, ha fatto notare proprio l’ironia di fondo della scelta. “La prepotenza di chi è al comando delle nostre vite non conosce limiti. Sentire un burocrate della metro vietare un’immagine è giĂ  abbastanza grave, ma affermare che ci sia una differenza tra una fotografia e un dipinto mi sembra una follia totale” ha dichiarato, non nascondendo l’ovvio disappunto “Si oppongono solo alla fotografia, anche se sto fumando anche nel dipinto che tengo in mano! Sono abituato alla prepotenza invadente delle persone che impediscono agli altri di fare le proprie scelte, ma questa è meschina. L’arte è sempre stata una via verso la libera espressione e questa è una decisione triste”.

Come spesso capita in questi casi, un provvedimento simile non poteva che causare però un effetto contrario alla propria stessa ratio. L’immagine, che sarebbe stata affissa solo sui treni della città come le più classiche strategie promozionali prevedono, in seguito al divieto ha circolato come non sarebbe successo altrimenti, rimbalzando sulle testate specializzate e sui social, dando magari a David Hockney e alla retrospettiva un risalto ancora maggiore.

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Data articolo: Sat, 19 Apr 2025 10:12:38 +0000
videodrome
L’estetica del declino, da Gloria Swanson a Pamela Anderson

Sempre di piĂą il cinema esplora con crudezza e sinceritĂ  il corpo e l'immagine come fonte di ossessione, rovina e ribellione a Hollywood: da Mickey Rourke a Demi Moore, passando per Cronenberg

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Il corpo e il suo declino è un qualcosa di strettamente legato all’umano, un connubio indissolubile tra fisico e mente. Per esistere è necessario avere un corpo, preferibilmente sano. Le nuove tecnologie permettono di rallentare il tempo, offrendo un aspetto giovanile che diventa quasi imprescindibile per sentirsi ancora parte di un gruppo sociale e, soprattutto, per sopravvivere in un mondo lavorativo che spesso vede l’invecchiamento con sospetto. Questo è particolarmente vero in settori legati all’immagine, dove il corpo diventa il principale strumento di comunicazione e la perfezione estetica un requisito fondamentale.

Il cinema ha da sempre osservato e raccontato il corpo, ma negli ultimi anni lo ha fatto con una crudezza senza precedenti, portandolo al limite e analizzando il desiderio di combattere il naturale processo di invecchiamento. In questo senso, David Cronenberg è stato un pioniere: Maps to the Stars ne è un perfetto esempio, tanto da valere a Julianne Moore il Prix d’interprĂ©tation fĂ©minine al Festival di Cannes 2014.

Un concetto che aveva giĂ  anticipato e approfondito con Videodrome, dove il corpo viene plasmato dai dispositivi mediali. Il cambiamento spaventa e può diventare fonte di delirio e malattia mentale. Il protagonista Max Renn, proprietario di una TV via cavo trasmette contenuti violenti e pornografici. Un giorno, il suo amico Harlan scopre un segnale video pirata che trasmette immagini di torture e violenze, per poi scomparire nel nulla. Nel finale surreale del film, Max osserva un televisore che trasmette un video in cui Nicki gli ordina di “liberarsi della vecchia carne”.

Questo tema è stato ripreso con crudezza dal genere horror, dando vita a un vero e proprio filone cinematografico con numerosi esponenti. Tra gli ultimi, la regista francese Coralie Fargeat con The Substance e Parker Finn con Smile 2. L’opera di Fargeat, che sembra destinata a diventare un cult con gli anni a venire, ha suscitato grande dibattito. Demi Moore interpreta Elizabeth Sparkle, vincitrice di un Oscar ed ex sex symbol, ora relegata alla partecipazione a un programma televisivo di fitness. Per mantenere il ruolo che il produttore è intento a toglierle, Elizabeth si affida a una strana sostanza verde ottenuta dal mercato nero. Il film porta all’estremo il legame tra decadimento fisico e follia, e la scelta di Demi Moore nel ruolo principale è particolarmente significativa: l’attrice stessa ha dichiarato di essere stata considerata una “star da popcorn” e di aver dovuto lottare per rimanere rilevante a Hollywood, soprattutto superati i cinquant’anni.

Non è un caso che questa sia una tematica prevalentemente femminile. I canoni estetici sono cambiati radicalmente negli ultimi anni e le prime vittime di queste trasformazioni sono proprio le star hollywoodiane, come dimostra il recente abuso di Ozempic. In The Substance, l’elemento multimediale è reso centrale dalla televisione nella casa di Elizabeth, che lei utilizza per visionare una pubblicità salvata su una chiavetta USB, immergendo lo spettatore in uno spazio chiuso e ipnotico, proprio come accadeva in Videodrome.

Diverso è il caso di Smile 2, un body horror in cui il male si manifesta sotto forma del “demone del sorriso”. Anche qui, il filo conduttore resta il genere horror. Ambientato a New York, il film segue la popstar Skye Riley mentre si prepara al suo tour di ritorno dopo un periodo di riabilitazione e il trauma della morte del fidanzato, l’attore Paul Hudson. Il personaggio di Skye è ispirato in parte ad Ariana Grande, per la perdita del suo compagno, e in parte a Miley Cyrus, per il suo percorso artistico. Il film analizza quanto la fama possa essere pericolosa e auto-sabotante, rendendo indistinguibile la realtĂ  dall’incubo.

Un altro film che affronta il tema del corpo e del tempo è il recente The Last Showgirl di Gia Coppola. Qui, la showgirl Shelley, interpretata da Pamela Anderson, si trova costretta a reinventarsi dopo la chiusura dello spettacolo in cui si esibiva da trent’anni a Las Vegas. Con l’aiuto dell’amica Annette, cerca di ricostruire il rapporto con la figlia. Il film, pur rientrando nel genere drammatico, mescola sfarzo e intimità, offrendo una riflessione sulla resilienza e sullo scorrere del tempo. La scelta di Pamela Anderson anche qui è tutt’altro che casuale: un’ex sex symbol di Hollywood che ha vissuto un declino professionale proprio perché associata esclusivamente alla sua bellezza, oggi rivendica la propria immagine mostrandosi al naturale. Anche in questo caso, vi è lo zampino di Miley Cyrus, che ha scritto per la pellicola la colonna sonora Beautiful That Way.

Nonostante si tratti di una questione prevalentemente femminile, non è esclusivamente tale. The Wrestler di Darren Aronofsky affronta un tema simile dal punto di vista maschile, con Mickey Rourke nei panni di Robin Ramzinski, ex campione di wrestling degli anni â€80, ora ridotto a combattere in palestre di periferia. Randy vive per il brivido dello show, incapace di immaginarsi al di fuori di esso. Il suo corpo martoriato è il simbolo del suo sacrificio, e l’esibizione della carne diventa metafora del suo dolore esistenziale. Incapace di abbandonare il personaggio che lo ha definito per tutta la vita, Randy ne diventa la vittima.

Un altro esempio significativo è Sils Maria, in cui Juliette Binoche interpreta Maria Enders, un’attrice quarantenne chiamata a partecipare al remake del film che l’aveva resa celebre a diciott’anni. Questa volta, però, non interpreterà più la giovane protagonista, ma il ruolo della donna più matura, mentre il suo vecchio personaggio verrà affidato a una nuova star emergente. Qui il corpo diventa un elemento narrativo potente, sostituendo spesso le parole e comunicando il passaggio generazionale in modo viscerale.

Tuttavia, il tema del decadimento del corpo e della celebrità è presente nel cinema da molto tempo. Viale del tramonto aveva già affrontato nel 1950 a questione, esplorando la caduta in disgrazia delle star del passato. Oggi, però, il tema viene trattato in maniera più diretta, cruda e sincera, con una maggiore consapevolezza dei cambiamenti della società. Il divismo sta perdendo credibilità, lasciando spazio a una nuova forma di autenticità o, almeno, a una finzione che si maschera da essa.

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Data articolo: Sat, 19 Apr 2025 06:30:57 +0000
Tusk
Kevin Smith e il 25° anniversario di Dogma

Dall’autore di Clerks e Tusk, sta per tornare nelle sale cinematografiche statunitensi il restauro della parabola di fede più assurda e grottesca di sempre

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C’è un film di Kevin Smith, autore ormai cult, se non addirittura leggendario di Clerks – Commessi, vero e proprio manifesto del cinema indipendente statunitense di fine anni ’90, che non è mai è stato reso disponibile per la visione in streaming. Si tratta di Dogma, la commedia fantasy satirica che Smith presenta in anteprima mondiale al Festival di Cannes e al New York Film Festival nel 1999, destinata a raggiungere le sale appena qualche mese più tardi.

Forte di un cast corale che vede coinvolti nomi quali Salma Hayek, Alanis Morisette, Alan Rickman e Chris Rock, Dogma attraverso i toni dell’assurdo, racconta la storia di due angeli caduti, interpretati da Matt Damon e Ben Affleck, “impegnati” nella pianificazione di un loro possibile ritorno in paradiso, causa dapprima inavvertita e poi riconosciuta dell’annullamento delle sorti e della creazione dell’universo.

Pur ricordando titoli come Generazione X, Red State e Tusk, ancora oggi Dogma resta il film più assurdo e grottesco di Kevin Smith, capace di esplorare tanto l’umorismo nero tipico del suo autore, quanto tematiche ben più complesse quali l’esistenzialismo, la fede, la mitologia religiosa e il cammino di redenzione degli uomini. Ecco perché, dopo venticinque anni di assenza dal mercato, Dogma, rimasterizzato in 4k e forte di nuovi e numerosi contenuti bonus esclusivi, è pronto a tornare nelle sale cinematografiche, per ora solo statunitensi, raggiungendo prevedibilmente perfino il mercato streaming, dimensione che Smith ha sempre evitato.

Kevin Smith e il 25° anniversario di Dogma

Dopo aver acquisito i diritti del film da Miramax, Iconic Events sta compiendo infatti una vera e propria impresa di restauro, resa ancor più complessa dalla scarsità di copie fisiche e digitali del film. Condizione estremamente rara per titoli così celebrati e riconosciuti. Tanto da aver acquisito in breve tempo la nomea di “cult divenuto maledetto”.

Tutto questo però sta per finire e ad annunciarlo in pieno stile Dogma è lo stesso Kevin Smith, che sui profili social personali scrive: “Beati coloro che verranno in nome del tour. Ci vediamo a Los Angeles, San Diego, Phoenix, Seattle, Minneapolis, Chicago, Kansas City, Dallas, Houston, Boston, New York, Philadelphia, Atlanta, Tampa e Orlando. Prima di concludere al mio personalissimo cinema, Smodcastle Cinemas ad Atlantic Highlands, New Jersey. Ma se vi perdete il tour, grazie al cielo potrete vedere il film in una sala qualsiasi vicina a voi a partire dal 5 giugno. Mi benedica, padre, perchĂ© ho il cinema! Dio benedica gli eventi iconici per aver concesso al mio quarto (e forse migliore) film una riedizione religiosa! Lodate il Signore e passate i popcorn per la seconda venuta del ‘Dogma”.

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Data articolo: Fri, 18 Apr 2025 15:00:35 +0000
torino jazz festival
Il programma del 13° Torino Jazz Festival

L'evento, in programma dal 23 al 30 aprile, propone un ricco calendario di concerti live, incontri e proiezioni, tra commistioni di genere e recupero del repertorio jazz

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Il Torino Jazz Festival annuncia la sua 13esima edizione, che si terrĂ  dal 23 al 30 aprile sotto la direzione artistica di Stefano Zenni. Un programma ricco di concerti live, proiezioni e incontri che avrĂ  luogo in diverse location tra cui ARTeficIO, sPAZIO211, Magazzino Sul Po, Folk Club, OFF TOPIC e Cinema Massimo.

Si parte mercoledì 23 con Domenico Brancale e Roberto Dani che portano in scena Chi sono queste cose, concerto voce e batteria che esplora le possibilità del linguaggio e del suono. A seguire Enrico Rava, tra i jazzisti italiani più conosciuti al mondo, accompagnato da quattro giovani musicisti che eseguiranno i brani del suo ultimo album, Fearless Five.

Si prosegue nei giorni successivi con Don Karate per un live caleidoscopico che unisce jazz e hip hop anni ’90, echi africani ed elettronica, e ancora Korale, ensemble italo-coreanon che incorpora musica tradizionale, jazz e improvvisazione.

Da segnalare anche la performance di Amaro Freitas, astro nascente del jazz brasiliano, che con il suo ultimo album Y’Y omaggia la foresta amazzonica e i fiumi del nord del Brasile, e quella della sassofonista e compositrice statunitense Lakecia Benjamin, che unisce r&b, hip hop, jazz e funk.

Il Torino Jazz Festival si concluderĂ  infine il 30 aprile con due esibizioni straordinarie: il gruppo DudĂą Kouate, capitanato dall’artista italo-senegalese Kouate, che vanta collaborazioni con l’Art Ensamble di Chicago e Moor Mother, porterĂ  sul palco un mix di tradizione e innovazione, utilizzando oltre cinquanta diversi strumenti. A seguire poi, Jason Moran, uno dei pianisti piĂą celebrati della scena contemporanea, con lo storico trio Bandwagon, propone una selezione del repertorio di James Reese Europe, in esclusiva europea.

Il programma completo è disponibile a questo link.

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Data articolo: Fri, 18 Apr 2025 13:30:44 +0000
warner bros
Le conseguenze dei dazi di Trump su Hollywood

Nel "giorno della liberazione" Trump ha imposto nuovi dazi (per poi fare mezzo dietrofront) sulle importazioni USA e iniziato una guerra doganale con la Cina: come reagirĂ  il cinema americano?

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“Make America Wealthy Again”: lo scorso 2 aprile Donald Trump ha annunciato in pompa magna i dazi reciproci che gli Stati Uniti avrebbero imposto ai Paesi di tutto il mondo (con alcune importanti eccezioni, tra cui la Russia), causando crolli in borsa e iniziando una guerra doganale con la Cina che si sta inasprendo sempre di piĂą. Tanto che, quando pochi giorni dopo Trump ha fatto marcia indietro, mettendo in pausa per 90 giorni l’applicazione delle nuove imposte, i cinesi sono stati gli unici a vedere le proprie tariffe aumentare. Per il resto del mondo è comunque ancora in vigore una tassa del 10% su tutte le importazioni, così come quella del 25% su automobili, acciaio e alluminio, rendendo il rischio di una crisi economica profonda ancora possibile. In questo scenario, c’è chi si chiede quale sarĂ  l’impatto delle politiche americane su Hollywood.

Da qualche anno l’industria del cinema statunitense sta infatti fronteggiando una crisi dopo l’altra: prima la pandemia, poi gli scioperi di attori e sceneggiatori che per mesi, nel 2023, hanno paralizzato tutte le produzioni, infine gli incendi che hanno colpito Los Angeles all’inizio di quest’anno. Tutti eventi che hanno costretto gli studios a rivedere continuamente le proprie strategie e scelte produttive, portando inevitabilmente a ritardi e aumenti dei costi, non sempre ripagati dal successo. Questa volta, le conseguenze potrebbero non essere ugualmente disastrose, ma ci saranno comunque.

La buona notizia è che i dazi di Trump colpiscono solo i beni materiali, escludendo perciò i servizi e i prodotti di intrattenimento, di cui gli Stati Uniti sono i più grandi esportatori al mondo. Gli studios cinematografici potranno quindi continuare a importare e soprattutto esportare film e serie televisive come prima, mentre a subire i danni maggiori nel settore saranno i produttori di console, televisori e smartphone. Tuttavia, un’economia indebolita dall’aumento dei prezzi porterà inevitabilmente i consumatori a limitare le spese, rendendoli meno propensi ad andare al cinema o ad abbonarsi alle numerose piattaforme disponibili. Ciò significa che i produttori dovranno essere ancora più attenti di prima a scegliere i progetti a cui dare il via libera, per evitare ulteriori perdite.

Il primo settore a subire tagli di budget sarà il marketing, che costituisce una grossa fonte di guadagno: nel 2024, ha rappresentato circa il 35% delle vendite di Paramount e il 20% di quelle di Warner Bros Discovery, mentre per piattaforme come YouTube il valore è ancora più alto. Ma in questo clima economico, aziende come quelle automobilistiche (tra le più colpite dai dazi, e tra i principali inserzionisti dei network televisivi) dovranno riconsiderare le proprie spese pubblicitarie; allo stesso tempo, le compagnie cinesi smetteranno di utilizzare le piattaforme social statunitensi per farsi pubblicità, provocando perdite di miliardi di dollari.

Solo Netflix, stando a un articolo di Bloomberg, sembra non essere troppo preoccupata: la pubblicità non costituisce una fonte di guadagno così importante per la società, e se i consumatori decidessero di essere più selettivi sugli abbonamenti alle piattaforme, il loro sarebbe l’ultimo ad essere cancellato. Per quanto riguarda gli altri servizi di streaming, al di là di una diminuzione delle sottoscrizioni non subiranno grosse conseguenze dirette, ma molte delle società di cui fanno parte sì: Apple, per esempio, è stata colpita direttamente dai dazi sulla produzione di iPhone e di tutti i suoi dispositivi hardware, che fabbrica all’estero per poi importarli negli Stati Uniti; lo stesso vale per Amazon, mentre Disney potrebbe vedere una minor affluenza nei suoi parchi a tema, da cui trae la maggior parte del suo fatturato.

Tutto questo provocherà un’ulteriore contrazione nel numero di film e serie prodotte, soprattutto se realizzate all’estero. L’amministrazione Trump ha più volte lamentato un eccessivo dislocamento degli sforzi produttivi di Hollywood, criticando in particolare il fatto che l’Unione Europea costringa le piattaforme a investire in produzioni locali tramite la direttiva dell’Audiovisual Media Services. Anche la Motion Pictures Association è d’accordo, sostenendo come in Europa ci siano “obblighi di investimento sproporzionati”. D’altra parte, gli studios hanno saputo approfittare dei minori costi offerti dai Paesi esteri (non solo Europa, ma anche Canada e Australia) e dei loro incentivi statali. L’obiettivo di Trump sarebbe però quello di riportare “a casa” questi investimenti, facendo tornare l’industria a quella “golden age” perduta da tempo.

C’è infine la questione Cina. Il leader del Paese Xi Jinping ha replicato immediatamente ai dazi trumpiani, dichiarando che avrebbe “combattuto fino alla fine” e invitando il Presidente USA a tornare sui suoi passi. Al momento i rapporti tra le due parti sono ai minimi storici e, mentre Trump minaccia ulteriori tasse sulle componenti elettroniche necessarie per la fabbricazione di smartphone e PC, il governo cinese ha annunciato, tra le contromosse che limiterà la distribuzione delle opere cinematografiche hollywoodiane nel Paese. La Cina ha infatti il completo controllo sui film distribuiti sul proprio territorio, talvolta imponendo modifiche e tagli, in particolare su tematiche come la rappresentazione e l’inclusività LGBTQ+. Si tratta di una contromisura che avrà ben poche ripercussioni sul box office cinese, dal momento che i film americani costituiscono circa il 5% dei guadagni annuali. Sarà invece un duro colpo per gli studios di Hollywood, per i quali il mercato cinese era diventato negli anni il secondo più importante, dietro solo a quello statunitense.

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Data articolo: Fri, 18 Apr 2025 10:30:04 +0000
sissy spacek
Dying for Sex, di Kim Rosenstock ed Elizabeth Meriwether

Michelle Williams dà corpo a un personaggio intensissimo, in un romanzo di formazione “terminale” che attraversa desiderio e morte. Trovando in Jenny Slate una partner perfetta. Su Disney+

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Non voglio morire con lui. Voglio morire con te.
Nel primo episodio di Dying for Sex, questa tenera e diretta richiesta della Molly di Michelle Williams alla migliore amica Nikki – una meravigliosa Jenny Slate – setta subito le coordinate di un racconto di formazione terminale e buddy movie al femminile, un ultimo viaggio a due tra chi non ci sarĂ  piĂą e chi resterĂ  a ricordare, testimoniare.

Molly è nel pieno di una sessione di terapia di coppia quando riceve la telefonata che le annuncia il ritorno di un cancro al seno al quarto stadio. E mentre suo marito sembra subito lieto di riprendere il ruolo – anche di controllo – del caregiver, lei sente di volere soltanto una cosa dalla vita, qualcosa che non ha mai avuto: un orgasmo con un’altra persona.

Tratto dal podcast omonimo e dal memoir Becoming Whole della vera Molly Kochan, scomparsa nel 2019 a soli 45 anni, e sviluppato da Elizabeth Meriwether (New Girl, The Drop Out), Dying for Sex è un oggetto cangiante e mutevole, come il corpo della sua protagonista. Vive delle stesse contraddizioni, del suo tentativo di raggiungere il punto massimo di desiderio e vitalità proprio mentre va incontro alla propria disgregazione.
Così, all’esplorazione delle pratiche BDSM e di un bizzarro campionario umano – raccontato con piglio da commedia brillante vicino alle prime stagioni di Sex and the City – fa da contraltare il monologo interiore di Molly sulle molestie subite da bambina e il suo bisogno di ribellarsi una volta per tutte al ruolo di vittima e martire o, ancora peggio, alla retorica della guerriera contro la malattia.

Con una scrittura che ha dalla sua la disarmante sinceritĂ  di Kochan e l’esperienza nella rom-com di Meriwether, Michelle Williams dĂ  vita a uno dei suoi personaggi piĂą belli e intensi, nel quale la fragilitĂ  del suo corpo minuto e dei suoi occhi sgranati su un mondo da abbracciare racchiudono l’emotivitĂ  e l’irrequietezza che giĂ  apparteneva a Jen Lindley e Mitzi Fabelman. E trova una partner incredibile in Jenny Slate, alle prese con il ruolo piĂą importante della sua carriera. Nikki, con la sua tendenza a perdere il controllo e la sua “borsa di Mary Poppins” in cui gli oggetti svaniscono come in un buco nero, è l’altra metĂ  di Molly, l’unica a poter davvero comprendere la necessitĂ  di questo viaggio alla scoperta di sĂ©, prima del viaggio definitivo.

Nel corso degli otto episodi la serie vira sul drammatico, spiazza, torna indietro su toni da commedia per trovare poi un flusso liberatorio negli ultimi episodi che seguono tutte le fasi della morte.
“Il corpo sa cosa deve fare”, spiega l’infermiera Amy, addetta “agli ultimi giorni”. La vitalità estrema, le allucinazioni, l’esperienza totalizzante di una vita che esplode prima di placarsi. Forse nessun’altra serie aveva mostrato con tale lucidità e trasparenza gli istanti finali di un’esistenza che si spegne. A tratti emotivamente insostenibile per il materiale incandescente che affronta – tra la violenza e la bellezza delle relazioni umane, gli istanti di pura gioia seguiti da dolori lancinanti – Dying for Sex sfida la narrazione anestetizzata del trauma come prodotto da social e affonda lo sguardo in ciò che preferiamo rimuovere. Per ricordarci cosa voglia dire essere umani.

 

Titolo originale: id.
Creata da Kim Rosenstock ed Elizabeth Meriwether
Regia: Shannon Murphy, Chris Teague
Interpreti: Michelle Williams, Jenny Slate, Sissy Spacek, Jay Duplass, Rob Delanay
Distribuzione: Disney+
Durata: 8 episodi di circa 30′
Origine: USA, 2025

 

 

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Data articolo: Fri, 18 Apr 2025 08:30:44 +0000
Un film minecraft
Jack Black: attore, cantante, icona

Attore, cantante, comico: dai Tenacious D e Alta fedeltà a Kung Fu Panda e Un film Minecraft, è stato capace di creare un personaggio unico, giunto all'apice soprattutto nel capolavoro School of Rock

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Jack Black è uno dei migliori attori della propria generazione ed è arrivato il momento di dirlo chiaramente. In occasione infatti del successo – quantomeno al botteghino – di Un film Minecraft, possiamo guardarci alle spalle, per riscoprire come nel corso di quasi trent’anni sia stato il protagonista di alcuni dei lungometraggi piĂą iconici di tale periodo, performer a 360°, volto per cui spesso vale la pena andare a vedere anche un lungometraggio altrimenti mediocre. E, domanda rivolta a quel pubblico che continua a sottovalutarlo, considerandolo un semplice attore da commediole, quante interpretazioni migliori di quella offerta da Jack Black in School of Rock si possono elencare dal 2000 ad oggi?

Il personaggio che Richard Linklater gli regala nel 2003, quello di Dewey Finn – scansafatiche che vorrebbe vivere di musica, ma è mal sopportato da qualsiasi band in cui suoni, al punto da doversi fingere un supplente per sbarcare il lunario – è poi un po’ il tipico personaggio che è cucito addosso a Jack Black come una seconda pelle. Un personaggio che peraltro è ormai quasi un classico della commedia americana ma che, prima dell’arrivo dell’attore classe 1969, semplicemente non esisteva. Con nomi e declinazioni diverse ne veste i panni in film come Be Kind Rewind, Bernie, Il matrimonio di mia sorella, Il re della polka, Jumanji: The Next Level e, per assurdo, anche nel King Kong firmato Peter Jackson.

In tutti questi casi diventa un uomo eccentrico, ma pigro, scettico e a volte irascibile, ma capace di grandi sprazzi di entusiasmo quando sollecitato sulle sue passioni (che spesso lo caratterizzano). Il primo a vedere in lui le doti necessarie per mettere in scena tutti questi aspetti è però Stephen Frears, che in Alta fedeltà (2000) gli regala il ruolo di Barry. Nella sua recensione al film, Roger Ebert ne parla così, in quella che può essere considerata a tutti gli effetti una perfetta descrizione del personaggio à la Jack Black: “Riesco a riconoscerlo perfettamente. Si tratta di un tipo così universale che mi chiedo come mai nessuno l’abbia mai piazzato all’interno di un film: un fanfarone, un esperto autoproclamato di tutto ciò che riguarda il gusto musicale, un monologhista, uno che preferirebbe darti la sua opinione piuttosto che prendere tutti i tuoi soldi”. La storica penna del Chicago Sun, mette poi in risalto l’abilità dello stesso attore: “Le sue capacità sono dimostrate dal fatto che, quando finalmente canta, dopo aver affermato per tutto il film di saperlo fare, ci sorprendiamo che sia davvero così”.

GiĂ , perchĂ© oltre ad essere uno degli interpreti piĂą riconoscibili degli ultimi 25 anni, Jack Black conduce una carriera parallela da cantante, membro del duo Tenacious D insieme a Kyle Gass. Il gruppo suona musica heavy metal e dalla sua fondazione, avvenuta nel 1993, ha ottenuto un successo tale da aggiudicarsi perfino un Grammy nel 2015, quello assegnato alla miglior interpretazione metal. La loro storia è peraltro messa in scena, dagli stessi membri della band, nel film comico del 2006 Tenacious D e il destino del rock. E così come le abilitĂ  canore di Black hanno influenzato spesso le sue interpretazioni – si pensi, oltre ai titoli giĂ  citati, anche alla sua carriera da doppiatore in saghe come L’era glaciale e Kung Fu Panda, o a Super Mario Bros. – Il film -, succede anche il contrario. I Tenacious D hanno infatti sempre fatto leva su un gran senso comico, esibendosi in performance goffe e divertenti, con testi demenziali e dando vita a videoclip divertentissimi.

A fine 2019 Jack Black aveva annunciato di volersi prendere una pausa dal cinema, preferendo concentrarsi sui suoi impegni familiari, aprendo nello stesso periodo un canale YouTube in cui ha condiviso la propria passione per i videogiochi. La notizia ha gettato per un attimo scompiglio tra i suoi appassionati, restii a fare i conti con la possibilità di non vederlo più sul grande schermo. Poi la precisazione: “Non intendo un ritiro definitivo, ho solo 50 anni. Non amo passare tanto tempo lontano dai miei cari, tutto qui. Ma, nonostante ciò, siamo ancora solo all’inizio”. Sospiro di sollievo, pericolo scampato.

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Data articolo: Fri, 18 Apr 2025 06:30:06 +0000
Without blood
Senza sangue, di Angelina Jolie

Un cinema che vuole incantare ma resta piatto, intrappolato nelle location e nell'elegante fotografia. Un altro inutile esercizio di stile per la regista. Tratto dal romanzo di Alessandro Baricco.

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Un lungo dialogo, una confessione, una possibile vendetta. Sembra avere quasi una traccia noir l’incontro tra Nina e Tito, la vittima e il carnefice. Avviene molti anni dopo un tragico episodio, quello in cui il padre, il medico Manuel Roca, e il fratello della donna sono stati barbaramente uccisi da uomini armati che si sono introdotti nella loro fattoria isolata. Tra loro c’è anche Tito, allora giovanissimo. Lui scopre la presenza di Nina che è nascosta dietro una botola ma resta in silenzio e le salva la vita. Senza sangue segue altro momenti della vita di Nina adulta (il matrimonio, i figli) prima di quel ‘faccia a faccia’ decisivo.

L’incontro tra Alessandro Baricco, autore del romanzo omonimo del 2002, e il cinema di Angelina Jolie regista evidenzia la vacuitĂ  della bellezza, l’estetismo fine a se stesso, il compiacimento formale all’ennesimo livello. Sommerso dalla prenombra e dall’oscuritĂ , tranne la luce abbagliante iniziale con il ralenti di Nina sull’altalena, ultimo squarcio di una felicitĂ  perduta, Angelina Jolie si lascia intrappolare dalla fotografia di Seamus McGarvey (con Nicola Pecorini alla seconda unitĂ ) come era giĂ  accaduto con Roger Deakins in Unbroken e mostra soprattutto lo scarto tra la componente figurativa e quella narrativa. Paz Vega e Demián Bichir non riescono mai ad alimentare la tensione attorno quel tavolo del locale durante il loro incontro. L’attrice, al quinto film come regista, punta su uno struggente e ridondante dolore esibito (evidente negli occhi di Nina enel momento in cui Tito scoppia a piangere) piuttosto che sulle possibili derivazioni noir (la pistola) nella borsa, sprecando malamente tutta la sequenza del massacro nella fattoria (potenziale western?) e la sfida al gioco tra il farmacista e il conte, che saranno entrambi due figure decisive nella vita di Nina. Così come la doppia identitĂ  della protagonista perde tutte la potenzialitĂ  di ‘una donna che visse due volte’. Quello di Jolie è un cinema che vuole incantare ma invece resta piatto e soprattutto la storia e i personaggi restano nelle pagine del romanzo. Se con By the Sea, l’attrice aveva puntato il cinema esistenzialista francese, qui c’è il sospetto che l’obiettivo sia Tornatore. Quasi un ‘nuovo cinema paradiso’ con gli occhi d Nina. L’ipnosi che le immagini della sua vita scorrono come un film, in un viaggio in Italia dove le location (Martina Franca, Matera, CinecittĂ ) sono filmate quasi solo per essere esibite.

 

Titolo originale: Without Blood
Regia: Angelina Jolie
Interpreti: Salma Hayek, Demián Bichir, Juan Minujín, Nika Perrone, Bernardo Tuccillo, Andrés Delgado, Alfredo Herrera, Jorge Antonio Guerrero, Patricio José, Ariel Perez Lima
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 91′
Origine: USA, 2024

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Data articolo: Thu, 17 Apr 2025 17:40:47 +0000

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